Lo sfondo storico
Gli anni che vanno dalla Rivoluzione Francese (1789) alla Restaurazione (1815) vengono solitamente classificati nella storia della letteratura (ma più generalmente nella storia dell’arte) come gli anni del Neoclassicismo o del Preromanticismo, a seconda che si voglia dare un maggiore rilievo alle due correnti che dominano il gusto contemporaneo: correnti sì opposte ma allo stesso tempo complementari. Sono anche anni densi di avvenimenti politici, contraddistinti anzitutto dall’ascesa e dalla caduta di Napoleone, tanto che si possono definire anche come “età napoleonica”, nel caso che si preferiscano privilegiare gli avvenimenti storico‑politici (che fanno parte dello sfondo) rispetto a quelli artistici.
La campagna militare in Italia condotta da Napoleone incise in modo drastico sulla conformazione territoriale della nostra penisola. Nella sua prima fase, quella “repubblicana” che va dal 1796 al 1799, sorsero nel 1796 la Repubblica Transpadana (cioè la Lombardia) e nel 1797 la Repubblica Cispadana (che comprendeva Bologna, Ferrara, Modena e Reggio), assorbita subito dopo nella Repubblica Cisalpina. Con il trattato di Campoformio (ottobre 1797), il Veneto venne ceduto all’Austria e, mentre il Papa si rifugiava in Toscana, il predominio dell’esercito francese in Italia favorì la nascita della Repubblica romana (febbraio 1798), poi, con l’entrata delle truppe francesi a Napoli, della Repubblica partenopea (gennaio 1799).
Dopo la momentanea reazione degli Austro‑Russi, si ebbe una seconda fase repubblicana (1801-1805) con la proclamazione della seconda Repubblica Cisalpina (estesa fino all’Adige) e la ricostruzione della Repubblica Ligure; tra il 1801 e il 1802 nacque la Repubblica Italiana, con capitale Milano.
Nel 1805 Napoleone si proclamò re d’Italia: il suo regno si estendeva a quasi tutto il territorio nazionale, dove collocò – in qualità di reggenti – i suoi parenti. Avviò anche un’intensa ma breve stagione di riforme (ma anche di numerose prevaricazioni) che si concluse con la disfatta di Lipsia (1813) e la definitiva sconfitta di Watrloo nel 1815, che riportarono sostanzialmente gran parte dell’Italia sotto il dominio duro e sospettoso degli Asburgo.
Tutti quegli entusiasmi nazionali che la Rivoluzione e l’ascesa di Bonaparte avevano generato nelle forze liberali e progressiste, che avevano accolto il piccolo generale corso come un “liberatore”, si trasformarono ben presto in potenti disinganni e delusioni, particolarmente per gli italiani che videro il “liberatore” trasformarsi in autoritario oppressore; e questo provocò un diffuso senso di frustrazione che accomuna molti scrittori della nostra penisola, inizialmente conquistati dalle nuove idee.
L’avventura napoleonica accese gli ideali libertari e la coscienza nazionale dei popoli che – delusi dalla svolta autoritaria e dall’internazionalismo giacobino asservito all’imperialismo francese – ne trassero tuttavia la forza per opporsi all’assolutismo della Restaurazione e giungere, laddove mancava (come in Italia e in Germania), alla costruzione di una unità nazionale. Stimolata dall’azione napoleonica, in Italia l’idea dell’indipendenza e dell’unificazione si esprimerà in pieno nel corso del Risorgimento, cui recarono il loro fondamentale contributo quegli esuli napoletani approdati a Milano dopo il fallimento dei moti del 1799.
Funzione culturale del Neoclassicismo
Il classicismo ha sempre rappresentato nella letteratura italiana la soluzione ideale e stilistica per eccellenza. La nostra tradizione letteraria, e quella europea che ne trasse incentivo, fece quasi un idolo del culto dei classici latini e greci, letti ed imitati come sublime esempio di alta civiltà: il senso sereno della natura, la limpidezza armoniosa dello stile, l’ordinata e razionale retorica, che disciplinava generi letterari e stile, il culto rigoroso della forma erano tutti requisiti che vennero assunti come un modello di perfezione. Nacque in tal modo l’assiduo culto dei classici (detto appunto classicismo) che tuttavia, nel corso dei secoli, attraversò fasi e sperimentò posizioni assai diverse. Nel Medio Evo, ad esempio, il classicismo veniva visto come un mezzo per diffondere i valori del cristianesimo – valori di cui i classici erano, per così dire, i precursori – così che l’impero di Carlo magno appariva la naturale prosecuzione dell’impero di Augusto e Virgilio veniva interpretato quasi fosse un profeta di sentimenti cristiani. Durante l’Umanesimo ed il Rinascimento, si iniziò uno studio più rigoroso delle fonti, e ciò portò non solo a canoni di più rigida imitazione, ma ad una visione del mondo classico come di un mondo più vicino agli ideali della natura, all’interno della quale l’uomo assumeva il ruolo primario di divina e nobile creatura.
Come abbiamo già visto, anche tutto il Settecento, dall’Arcadia all’Illuminismo, era stato classicista o classicheggiante (secondo il vigore delle singole personalità), quindi non v’è da stupirsi di trovare sulla fine del secolo e nei primi decenni dell’Ottocento, mentre già serpeggiano fermenti preromantici, una fioritura neoclassica che contagia l’intera Europa, ma che prende l’avvio in Germania, dove si venivano maturando le premesse per un poderoso rivolgimento storico e culturale: il Romanticismo.
Non è quindi un caso che nelle teorizzazioni di fine Settecento in merito al gusto artistico godano particolare preminenza le affermazioni teoriche di due grandi tedeschi: il letterato Gotthold Ephraim Lessing[1] e lo studioso ed archeologo Johann Joachim Winckelmann[2], il quale – nei suoi scritti – insisteva sulla necessità e sulla validità del canone dell’imitazione, vista come l’unico mezzo per poter raggiungere, in arte, toni elevati e sublimi. Seguendo ed adattando al campo artistico il mito platonico della caverna – secondo il quale ogni cosa al mondo non sarebbe altro che la copia di corrispondenti idee archetipe – il Winckwlmann giungeva ad affermare che l’artista moderno doveva ricercare le forme originarie dell’arte nelle opere dei classici, poiché esse prendono come oggetto quella bellezza ideale che l’artista primitivo ha già saputo ricreare traendo spunto dall’imitazione diretta della natura (sebbene in senso assoluto essa in natura non esista, essendo una creazione dell’artista). L’artista neoclassico, dunque, vedeva nell’arte antica un mondo inesauribile sconfinato di forme preventivamente dotate di un loro ben preciso significato, forme che egli doveva reinterpretare alla luce della propria esperienza umana, usandole sia come mezzo espressivo, che come strumento di controllo e di ordine sulle proprie percezioni empiriche della natura. È chiaro, a questo punto, che con una siffatta teorizzazione del gusto estetico il Winckwlmann tentava di raggiungere, ponendo appunto lo schermo dei classici tra l’artista moderno e la natura, quello che egli chiamava la Grazia, cioè «il piacevole secondo ragione» e che «agisce nella semplicità e nella quiete dell’anima ed è offuscata dal troppo fuoco e dalle violente passioni»: un supremo ideale di ordine, equilibrio e compostezza formale; un’arte – insomma – piacevole (e qui si noti il richiamo ad una concezione moderatamente ariostesca dell’arte) e catartica, nella quale tutte le antinomie si plachino e si smorzino e si temperino tutti gli eccessi.
Ma se il neoclassicismo europeo era fondamentalmente ellenizzante, quello italiano conservò un’impronta latina e mentre in Germania, grazie all’opera del Winckelmann e, aggiungiamo, del Lessing, riuscì ad essere un movimento originale, da noi le correnti neoclassiche si rivelano meno capaci di una spinta rinnovatrice. E in letteratura non significarono l’avvento di una sensibilità poetica nuova, dando vita a una lirica minore (Bertola, Pindemonte, Monti), povera di vaste risonanze e di fermenti rinnovatori, che parve anzi riprendere i modi della poesia d’Arcadia, pur facendo posto a motivi diversi e riecheggiati spesso, senza la coscienza del lievito nuovo di cui erano portatori. Forse nella prosa (con le pagine polemiche del Giordani, con le garbate ironie del Monti della Proposta e dell’Epistolario) più che nella poesia il Neoclassicismo era destinato a esercitare un’influenza non passeggera. Poiché, indipendentemente dagli esiti artistici, il movimento esercitò in Italia una funzione culturale più profonda di quando per lungo tempo non si sia saputo riconoscere. Non si limitò infatti a fornire uno stimolo polemico spronando i nostri romantici a discutere e riflettere, e costringendoli a volte a rivedere i loro eccessi o a smussare le loro punte, ma offrì soluzioni in campo linguistico, propugnò il sorgere di una moderna filologia, avanzò idee in fatto di riforme scolastiche e di rinnovamento pedagogico.
Va comunque tenuto presente, che il Neoclassicismo condizionò anche, se pur con notevoli differenziazioni, tutte le “manifestazioni” politiche ed ideologiche del periodo. Grazie alla sua “duttilità” ideologica, che gli derivava appunto dal fatto di essere considerato l’unico mezzo di rapporto possibile tra un individuo e il mondo esterno, esso fini con l’influenzare tanto quelle correnti ideologiche tipicamente conservatrici e reazionarie, che dominavano centri di cultura quali la Roma papale, quanto quei settori giacobino‑repubblicani che trovavano nella Repubblica romana un saldo modello atto a dare forza e dignità alla loro sete di uguaglianza e di libertà. Infine, lo stesso Napoleone, una volta divento imperatore, trovò proprio nel classicismo augusteo il valido esempio e lo strumento adatto per far vivere il suo sogno, tanto chimerico quanto sfolgorante, di dare un nuovo volto politico ed architettonico all’Europa: nacque lo “stile impero”.
Tuttavia il classicismo napoleonico, che pure in campo politico si configurava come il trionfale ritorno di un passato guerrafondaio e conservatore, presentava – in campo artistico e culturale – nei confronti del Romanticismo nascente molti più punti di contatto di quanto si possa pensare. In primo luogo bisogna dire che già col formulare una visione più esatta e meglio definita dell’arte e con il contrapporla a quella del classicismo più tradizionale – la quale si era via via costituita in forme sempre più svilite, attraverso successive formulazioni, dall’Umanesimo fino all’Arcadia – esso contribuì a sgretolare quelle norme troppo rigide e meschine che ne avevano deformato, stereotipandola, l’essenza stessa. Facendo poi sì che le attenzioni dell’artista si concentrassero tutte sulla forma dell’arte e non sul contenuto, come sarà invece per il Romanticismo, il Neoclassicismo poteva accogliere in sé, purché fosse assicurata la disciplina dei valori stilistici, tutte le più nuove idee sulla materia poetica, compreso il gusto ormai diffuso del grandioso, del magnifica, dell’orrido, del sublime. Inoltre, all’interno delle correnti neoclassiche cominciarono ad operare vari influssi artistici e filosofici, come l’ossianesimo, le teorie del Vico, l’amore per la poesia popolare, il preromanticismo dell’Alfieri e del Rousseau. Questo spiega in parte il motivo per cui autori di stampo nettamente neoclassico, come il Foscolo, il Giordani e il Monti stesso, riuscissero a spalmare i propri orizzonti verso un arricchimento e un rinnovamento della materia poetica, dando vita ai più vari compromessi con la modernità.
«Sur des pensers nouveaux faisons des vers antiques», scriveva il poeta André Chénier; e sarà questa la formula che, variamente ripetuta in modi e toni, non solo troverà fortuna presso i nostri migliori poeti del periodo, ma che rimarrà valida anche per qui poeti che, negli anni seguenti, metteranno la loro penna al servizio del “santuario” neoclassico.
Il Winckelmann e il Neoclassicismo in Europa e in Italia
«II grande neo-classicismo europeo, e specialmente tedesco, della fine del settecento nasce a un parto col romanticismo; anzi si può dire che è uno degli aspetti di questo. Esso reca con se una visione dell’antichità completamente rinnovata rispetto a quella tradizionale, e una nuova impostazione del rapporto antichi-moderni. Mentre il classicismo umanistico-rinascimentale ha impronta essenzialmente latina, il Winckelmann nella sua Storia dell’arte antica (1764) eleva l’arte greca a paradigma eterno d’ogni bellezza, in quanto espressione di “nobile semplicità e quieta grandezza”. Egli riconferma il carattere esemplare dell’antichità; ma, d’altro canto, isola l’arte greca, come realtà di assoluta e non più attingibile perfezione, da quella romana e favorisce la formazione di un’immagine nuova della Grecia e della classicità “vera”. Questa visione dell’antichità ispira il neo-umanesimo tedesco della fine del settecento e confluisce nel cosmo culturale dei romantici, i quali la colorano insieme del loro spirito nazionalistico e della loro nostalgia sentimentale. Da un lato essi si dichiarano gli eredi e i rinnovatori del vero, originale, classicismo, quello greco, ben diverso dal classicismo derivato, imitativo, spurio dei Latini e dei loro eredi, Italiani o Greci; dall’altro trasformano la Grecia, terra della bellezza serena e dell’armonia spirituale, in una delle mete ideali, della loro inappagata e inappagabile Sehnsucht.
Anche in Italia il Winckelmann esercitò un notevole influsso, soprattutto, com’è naturale, su artisti e teorici delle arti figurative, ma anche su letterati. E tuttavia senza determinare un profondo mutamento nella visione dell’antichità né la formulazione di principi veramente nuovi. Gli Italiani continuano a considerarsi essi gli autentici eredi e interpreti degli antichi e a vedere una continuità storica e una parità di valore fra Greci e Latini (quando non giudicano, come nel Rinascimento, i Latini perfezionatori dei Greci, Virgilio superiore ad Omero). Il principio teorico più notevole che essi accolgono, pur senza dedurne svolgimenti particolarmente interessanti, è quello della “bellezza ideale” (non nuovo, certamente, ma rinnovato dal Winckelmann e da altri). Esso trionfa prima e soprattutto nel campo delle arti figurative, ma viene esteso anche a quello della poesia. Si ritiene che compito dell’artista sia creare delle forme ideali, risultanti dall’armonica fusione degli aspetti più belli della realtà. Si continua a parlare di “imitazione della natura”, ma si tratta appunto di una natura idealizzata, i cui elementi hanno perduto ogni carattere immediatamente sensibile. Si spiega in parte così anche il culto della mitologia, interpretata appunto come mondo di forme ideali, di realtà sensibili raffinate e trasfigurate. Alla ricerca di una natura ideale consuona la richiesta per le opere letterarie di una lingua “pura”, cioè storicamente nobilitata, in se stessa perfetta perché immobile, lontana dai mutamenti e quindi dalle imperfezioni della lingua viva (che questa lingua ideale si identifichi col ’300, come per il padre Cesari, o col ’500, come per altri, non ha importanza)»[3].
Poetica del Neoclassicismo
«Mentre si deve affermare per il neoclassicismo, nelle sue posizioni più profonde, la qualità di corrente nata nel grande alveo romantico, si deve però ben distinguere la sua particolare precisione di ideali estetici o meglio, poetici, perché se il suo contributo alla storia dell’estetica è scarso (chiuso nel forte limite edonistico‑moralistico), ben altra importanza ha avuto nella creazione di un gusto e di una poetica operante in tecniche diverse, ma con principi omogenei ritrovabili in quelli che furono i teorici del neoclassicismo figurativo e che rappresentano, fra il ’60 e l’80 circa, la chiarificazione e la unità dei vari tentativi eclettici e classicistici attuati anche precedentemente durante il secolo nel campo figurativo e nel campo della poesia. Con essi la poesia neoclassica assume la sua vera validità, appoggiata e ispirata come è dalle arti figurative, dalle arti del disegno, come essi dicevano quasi rilevando per noi il predominio della linea sul colore, della figura sul pittoresco sfumato del rococò.
Come il preromanticismo attraverso il suo impeto sentimentale e contenutistico aveva cercato cadenze musicali (e il romanticismo tenderà tutto alla condizione della musica, massima espressione dell’ineffabile, dell’unitario), così il neoclassicismo si arricchisce di immagini pittoriche e scultoree, adegua la sua poesia alla linearità, al disegno, a quell’incontro ideale e stereotipo Raffaello‑Correggio‑Tiziano in cui Raffaello vinceva per la sua purezza espressiva, per la sua vicinanza (imperfetta rispetto ai Greci) alla scelta della bella natura, alla perfezione del bello ideale.
E sono questi i massimi canoni di un gusto che reagiva inorridito (ne possono essere prova molte risposte del concorso di Mantova del 1781 sulla decadenza del gusto nelle lettere) a quell’esaltazione preromantica dell’istintivo, del caratteristico, dell’espressione libera, violenta ed efficace, che doveva sembrare ad essi una specie di poetica del brutto, una poetica profanatrice dell’unità di umano e divino nelle forme di una bellezza composta secondo la figura umana, e idealizzate, scelte in contrapposizione con i caratteri vivi e realistici di una drammatica e brutale vitalità.
Il mito del bello ideale, l’ideale antropolatrico della bellezza della figura umana idealizzata e portata a perfetta proporzione (si pensi al massimo modello per i neoclassici dell’Apollo del Belvedere e alla descrizione, alla appassionata poesia che gli dedica Winckelmann) sono proprio al polo opposto della poetica preromantica che aspira alla creazione di caratteri intensi, magari al carattere semiferino di Calibano (e proprio dello shakespeariano Calibano il Baretti fa una preromantica esaltazione contro il classicista Voltaire nel suo importantissimo Discours sur Shakespeare et Monsieur de Voltaire), per avvicinare l’umano all’espressione più violenta ed istintiva di una selvaggia natura. Natura bella scelta ed idealizzata contro la natura selvaggia: validità della poesia nel suo adeguarsi al ritmo della natura (il grido del giovane Goethe di fronte ai personaggi di Shakespeare: “Ich rufe: Naturi Naturi nichts so Natur als Shakespeares Menschen!”[4], proprio nel suo dispiegarsi più sfrenato e sentimentale per i preromantici, e per i neoclassici validità della poesia nella sua espressione di una umanità ideale viva nell’ordine e nella perfezione.
E non importa ai fini della poetica e della poesia se poi dai presupposti preromantici si svolse la grande civiltà romantica e se i princìpi neoclassici si isterilirono (ma dopo altissime sintesi) in gessi di accademia, perché anche essi dettero offerte concrete, furono funzione di concreta poesia: e non solo rispetto al piccolo classi-cismo di origine rococò e illuministica, ma anche nei riguardi dei nuovi miti di Chénier o Foscolo o Goethe»[5].
Neoclassicismo e purismo. La questione della lingua e la moderna posizione di Monti nella «Proposta»
«Con il neoclassicismo l’artista moderno si serve delle forme dell’antichità classica in quanto linguaggi spirituali e con esse tempera e misura la propria espressione individuale. La forma classica è intermediaria tra la natura e l’artista il quale ha per ideale estetico la grazia.
Gli esiti possono essere, a seconda dei procedimenti, freddamente formalistici o ricchi di sensibilità ma in ogni caso si tratta di un filtro, di un mezzo troppo ideale perché la letteratura possa essere in contatto con la società, le arti con il popolo. Si aggiunga il fatto che l’esperienza artistica neoclassica per le scelte stilistiche stesse che compiva aveva un carattere aristocratico.
I motivi giacobini, ad esempio, versati in un modello neoclassico risentono del travestimento anche se le forme antiche servono a esaltare le nuove lotte, i nuovi compiti, non certamente – ha scritto Marx – a rimettere in circolazione fantasmi.
Nuovi contenuti e affetti, cioè, sono rivestiti di forme di bellezza antica. In quanto forma il neoclassicismo è uno stile interscambiabile, può essere temperamento del realismo, smorzatura di toni, giusto mezzo, filtro delle malinconie ultramontane, nonché veste di contenuti illuministici, sensistici, rivoluzionari, analogia di purismo linguistico.
Non sulla base di Pietro Giordani (di ritorno al primitivo) ma su quella di un arcaismo puramente linguistico propose l’imitazione della lingua toscana del Trecento il padre Antonio Cesari (1760-1828), veronese, nella Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana (1809). Il trecentismo cesariano s’inquadrava in una rivalutazione della semplicità e della pietà popolari che il veronese proponeva insieme con il purismo linguistico come fece nella Vita di Gesù (1817), nelle Novelle (1810), nel volgarizzamento dell’Imitazione di Cristo (1785).
Il purismo, che ha un momento importante con Basilio Puoti (1782-1847) napoletano, maestro di De Sanctis, sopravvisse fino alla fine dell’Ottocento attraverso una varietà di «esempi», «esercizi», crestomazie, florilegi di bello scrivere, edizioni di testi dei primi secoli e manifatture di vocabolari della lingua toscana. Il purismo nato nel Veneto alla fine del Settecento s’inquadra nella cultura classica (linguistica, archeologica, epigrafica) veneto-romagnola, giunge fino alle Marche e si prolunga nel tempo al Carducci e al Pascoli: biblioteche, accademie, seminari furono le sue sedi e anche nei piccoli centri (da Faenza a Cesena, a Savignano, Rimini, Pesaro) purismo e classicismo, con diversi indirizzi, furono intesi come strumento di italianità della lingua e di patriottismo; ma quel patriottismo, quando si volse al passato unicamente in funzione antilluministica e antifrancese, fu retrogrado.
Ben diversa da quella di Cesari – né giova creare conciliazioni posticce – è la posizione che nella questione della lingua assume Vincenzo Monti con la Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca (1817-26) che muove dalle Giunte del Cesari alla ristampa veronese, accresciuta e corretta, del vocabolario (1806‑11). Occorre dire fin da principio che la Proposta (per la quale Monti ebbe come collaboratori Giulio Perticari e il filologo Amedeo Peyron) è un eccezionale documento dell’importanza culturale di Monti illuminista moderato, seguace di Cesarotti e avverso alla “dogana” del toscanesimo trecentesco.
Fin dal 1813 Monti, nemico del municipalismo chiuso, aveva cominciato a irridere sul «Poligrafo» taluni errori del vocabolario della Crusca che era risorta nel 1808, con decreto di Napoleone, come parte dell’Accademia fiorentina. Nella preparazione del vocabolario la Crusca, accademia indipendente dal 1811, aveva negato la collaborazione al milanese Istituto di scienze lettere ed arti di cui era gran parte Monti. Questi passa in rassegna nella Proposta esempi e definizioni della Crusca e di Cesari con osservazioni, dialoghi lucianeschi, apologhi, facezie, ironie, con stile brillante, pungente, contrapponendo al toscanesimo la lingua nazionale “mondata degli arcaismi e de’ vani fronzoli, arricchita e pronta a sempre più arricchirsi dei termini scientifici e delle buone novità messe innanzi da scrittori anche non toscani, docile strumento al pensiero vivo ed operoso”.
Nella polemica contro il “valentuomo” Cesari, che vede nei trecentisti solo “oro purissimo”, Monti considera che le lingue seguendo “le vicende dei popoli e l’avanzamento delle cognizioni, col mutar de’ costumi e col crescer delle idee mutano e crescono anch’esse le loro fogge di dire” e che “non pe’ morti, ma pe’ vivi si ha da scrivere”. Se sul “sacro capo” degli antichi riposa la riconoscenza degli uomini saggi, gli antichi, tuttavia, si inchinerebbero davanti alle “cognizioni progressive” dei moderni, alla ricchezza della lingua derivante dal “grande raffinamento dello spirito sì nelle arti della civiltà e del ben vivere, come in quella della ragione e dell’immaginazione”. Cesari è definito il “Noè dell’italiana letteratura” il quale grida alla correzione altrui e intende salvare nell’arca solamente se stesso e la sua “piccola famiglia”.
Nella Proposta Monti comprese anche due opere di Giulio Perticari (1779-1822) di Savignano, Degli scrittori del Trecento e de’ loro imitatori e Dell’amor patrio di Dante e del suo libro intorno al volgare eloquio (1820), in cui Perticari ripropone la dottrina dantesca del volgare illustre che appare in tutti i secoli della letteratura e non consiste in alcuno. Perticari era meno illuminista di Monti le cui idee sulla lingua, di origine classicista‑illuminista, sono più moderne di quelle manzoniane sul fiorentinismo»[6].
***NOTE AL TESTO***
[1] Gotthold Ephraim Lessing (Kamenz, 1729 – Braunschweig, 1781) scrittore, filosofo e drammaturgo, viene ritenuto il principale esponente dell’Illuminismo letterario e filosofico tedesco. Lessing divenne celebre per i suoi drammi Minna von Barnhelm (1767), Miss Sara Sampson (1755), Emilia Galotti (1772) e soprattutto Nathan il saggio (1779), in cui esponeva i suoi ideali di solidarietà e tolleranza. Scrisse diversi saggi di estetica, tra cui il Laocoonte ovvero sui confini della pittura e della poesia (1766), importante per la sua confutazione dell’idea classica di equivalenza tra poesia e pittura: in particolare, contro la pretesa “unità” del’’arte, Lessing, in polemica con Winckelmann, sosteneva che le arti figurative e quelle letterarie, pur avendo in comune il fine di imitare la natura, per tale scopo «usano mezzi diversi e da questa diversità discendono le regole particolari per ciascuna». Perciò la poesia non è accostabile alla pittura poiché opera “nel tempo”, mentre le arti figurative operano nello “spazio”, devono raffigurare «i corpi e le realtà sensibili di questi» e perciò possono rappresentare «solo un unico momento dell’azione». Fondatore di quello che in termini moderni si può definire principio di astrazione, opposto al “pernicioso” e fino allora saldissimo principio dell’imitazione, in questo modo Lessing innesca il “libero gioco dell’immaginazione” contrapposto alla mera copia di ciò che è già disponibile in natura.
[2] Johann Joachim Winckelmann (Stendal, 1717 – Trieste, 1768) bibliotecario, storico dell’arte, archeologo, appassionato di letteratura e di arte greca, dopo aver studiato alle università di Halle e di Jena, si recò a Roma dove nel 1764 divenne soprintendente alle antichità e poté dedicarsi allo studio della cultura classica. Considerato uno fra i massimi teorici ed esponenti del Neoclassicismo, Winckelmann sostenne un’arte basata sul senso dell’armonia, su una «nobile semplicità e quieta grandezza»: i suoi ideali ebbero vastissima eco nella cultura del tempo, soprattutto nelle arti figurative, influenzando artisti come Canova, Mengs, David e Piranesi, e divenendo uno dei maggiori rappresentanti di quel movimento artistico romano che fiorì sotto i pontefici Clemente XIII, Clemente XIV e Pio VI.
[3] Puppo Mario, Le poetiche del classicismo e del romanticismo in Italia, in Momenti e problemi di storia dell’estetica, Marzorati, Milano 1961, pag. 982-983.
[4] «Io grido: Natura! Natura! Nulla è natura come gli uomini di Shakespeare!» [n.d.r.].
[5] Binni, La poetica neoclassica in Italia – Scritti settecenteschi 1938‑1954, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 270-271
[6] Piromalli Antonio, Società e cultura nell’età napoleonica: Neoclassicismo e purismo. La questione della lingua e la moderna posizione di Monti nella «Proposta», in La storia della letteratura italiana scritta da Antonio Piromalli, http://www.storiadellaletteratura.it/main.php?cap=14&par=3
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