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Marco M. G. Michelini | 8 Marzo 2025

Con l’eccezione di alcuni casi autorevoli, cioè di quei letterati entrati da tempo a far parte del gruppo dei “maggiori” (Metastasio, Parini, Alfieri), la poesia del Settecento – lirica, didascalica, satirico‑burlesca ecc. – viene considerata in prevalenza, secondo “convenzioni” ampiamente diffuse, come una sorta di “laboratorio” entro il quale si svolgono molteplici sperimentazioni tecnico‑metriche, oppure quale vario insieme di prove per gran parte realizzate in funzione di un pubblico diverso, appartenente insomma ad una differente classe sociale, e pertanto riconducibili ad una sorta di “arti minori”, non difformemente da certi ambiti artistico‑pittorici e, in senso più lato, da certo artigianato raffinatissimo del tempo, che raggiungevano comunque, e non di rado, esiti tutt’altro che infelici e banali, ora ricchi di forza ideologica, ora dotati di squisita eleganza musicale.

Basti del resto pensare – per meglio illustrare questo punto – alle mille radici che la pratica poetica settecentesca tiene di fatto immerse, e non solo a livello di autori minori o minimi (per alcuni poi il fatto è centrale e particolarmente rilevante, per altri, invece, alquanto occasionale), nell’ossatura complessa della società contemporanea, da cui derivano i tanti versi encomiastici composti per i lieti o funesti eventi di quest’ultima, o meglio per coloro che all’interno di essa detengono un qualsivoglia potere, secondo un consolidato costume che verrà sostanzialmente meno con i primi decenni del secolo successivo e che tradisce comunque la condizione per gran parte ancora cortigiana del letterato negli stati italiani del Settecento.

Per ciò che riguarda, invece, le sperimentazioni a cui s’è accennato, si dovrebbe ripercorrere anzitutto il vario impegno generato dall’Accademia dell’Arcadia (fondata in Roma sullo scorcio del Seicento con lo scopo di contrastare il mauvais goût dei secentisti, propugnando un ritorno alla semplicità essenziale, nitida e “naturale” dell’arte classica), che assunse ben presto un “respiro” ed una diffusione nazionale. E se per un verso l’Accademia incoraggiò allo scrivere molti dilettanti privi di genialità, di cultura e di tensione etica, è altrettanto vero che i suoi esponenti più ferrati in campo teorico (Muratri, Gravina, ecc.) ebbero – in linea generale – il grande merito di opporre agli “errori”, agli eccessi, alle stravaganze della poesia barocca un’idea, se non sempre di fatto una pratica, di poesia fondata su esigenze di verità, ragionevolezza, ordine, armonia, equilibrio e in particolare, sul piano dei criteri compositivi, a quella musicalità diffusa e avvolgente, al sinuoso sensualismo verbale misure più rigorosamente definite, un esercizio della parola più consono al “vero”, più controllato, più nitido. Di qui il vario recupero di un Petrarca, del classicismo cinquecentesco, dei classici latini e greci: operazione che, avviata sul principio del secolo, viene articolandosi e arricchendosi almeno sino ai primi anni dell’Ottocento, fino insomma a Monti e a Foscolo, e si pone fra l’altro all’origine dell’importantissimo infittirsi di traduzioni, da Omero, Virgilio, Orazio, ecc.

D’altro canto, se questa è una linea che consente, quando sia tenuta ferma in modo non troppo rigido, di ritrovare un’effettiva continuità nella pratica poetica di tutto il secolo, specie all’altezza degli anni sessanta e settanta si determinano ulteriori circostanze che traendo origine da una mutata sensibilità e talvolta da mutate esigenze di ordine ideologico, finiscono per incidere in varia misura allo stesso livello di cui ora si discorre. Così la voga e le traduzioni di poeti contemporanei come lo zurighese Gessner, gli inglesi Pope, Gray e Young, presso i quali, specie i due ultimi, una consimile disposizione classicizzante pareva legarsi a un che di più mosso, risentito, meno armonico. Così soprattutto l’incontro con Ossian, messo in circolo dall’inquieto Cesarotti nella fortunatissima traduzione del 1763, e poco più tardi con Shakespeare: testi da cui veniva l’ipotesi di un nuovo disordine o almeno di un ordine turbato, al limite sconvolto da nuove torsioni, tensioni, esasperazioni. È del resto notevole come a prospettive analoghe finisca per portare talvolta lo stesso neoclassicismo accentuatamente ellenizzante che si fa moda ancora fra gli anni sessanta e settanta: una lettura attenta consente infatti allora anche di scoprire, al di là di certe pregiudiziali classicistiche, la sonorità “barbarica” e affascinante, dell’esametro omerico, la violenza complessa del linguaggio dei tragici. È d’altronde evidente come un discorso sulla poesia del Settecento così orientato in direzione tecnico‑metrica non possa prima o poi non rinviare a ciò che tali sperimentazioni e scelte in vario modo sottendono, e anzitutto, per riprendere un motivo già accennato, a quelle grandi correnti di sensibilità che diffusamente percorrono l’Europa grande‑borghese e patrizia del tempo, e che soprattutto nei gruppi intellettuali più intensamente impegnati nella pratica (esecuzione e fruizione) della poesia, così come delle altre arti, giungono ad esprimersi con maggiore evidenza e, per dire così, con più sicura nettezza di timbro. Si potrà pensare allora, per uscire un poco dal generale, a quella vena di patetismo (ampiamente e ininterrottamente teorizzata, fra l’altro, a livello di meditazioni estetiche, da Muratori sino a Bettinelli e Pietro Verri) che dopo essersi declinata nei toni in apparenza frivoli o morbidi, non però talvolta senza turgori, della prima Arcadia, si ritrova contenuta, frenata, rappresa quasi in tanti autori del medio Settecento più preoccupati di rigore classico o neoclassico, infine prorompe, negli ultimi decenni del secolo, e appunto con forti frizioni a livello metrico, in poeti come Alfieri, Viale, e quanti altri. O si pensi, anche, intorno ai variamente inquieti anni ottanta, all’insorgere di un senso nuovo del reale fenomenico, avvertito come precario, spazio problematico e al limite fittizio, quinta oltre cui può aprirsi l’avventura dell’immaginario, del fantastico, dell’indicibile, quella rêverie insomma così centrale ad esempio in un Pindemonte.

Volendo fare un discorso più completo, infine, si può frequentare la poesia del tempo come « spazio » in cui si inseriscono, si celebrano e si rendono percettibili alcune tra le tensioni più significative del mondo intellettuale settecentesco. Si potranno allora ad esempio notare nei testi il vario rapporto intrattenuto dall’uomo del Settecento (per assumere qui un termine generalissimo e per più versi discutibile) con la natura, che nello Zappi è astratta stilizzata impoverita in misura estrema, ridotta a luogo di funzioni gradevoli e decantate al limite dell’inconsistenza (l’amore arcadico e rococò); nel Rolli, invece, viene osservata e posseduta, nella tranquilla fermezza di un idillio ancora inconsapevole di possibili distanze o fratture. Mentre di una distanza appunto già invalicabile, e dunque di un’inquieta nostalgia possono offrirsi a segno i versi di un Meli e di quanti altri autori, in anni in cui in Europa la rivoluzione industriale, ormai avviata, rende sempre più inconsistente, di fatto, la possibilità di un rapporto armonico fra uomo e natura. E sul declinare del secolo uomini sempre più chiusi nei recinti di un io rigorosamente, forse nevroticamente segregato ovvero coinvolti in modo irreparabile nel processo torbido della storia politica non possono ricercare nella natura se non lo stimolo a quel fantasticare cui si accennava più sopra, ovvero occasioni, abbastanza improbabili, di conforto al proprio stato di incertezza e di miseria.

Ma nella poesia del tempo si potrà ritrovare anche la traccia, e assai più che la traccia, della relazione, altrettanto complessa, che l’uomo del Settecento, specie della seconda metà del Settecento, viene intrattenendo col reale nella dimensione della storia. Generalmente assente, quest’ultima, dalla lirica dell’Arcadia primosettecentesca, essa si fa a poco a poco presenza decisiva: sia nei modi discreti, oraziani, attestati dal sonetto di Fantoni Per la pace del 1783; sia nei termini di una scrittura assunta a luogo in cui si dice, si celebra l’incontro – drammatico, patetico – dell’io con la prassi; sia infine, e sono espliciti in questo senso i versi di Calvo, nella misura di un’invenzione verbale, e di una scrittura, ancora, che intende essere e diviene portatrice essa stessa, veicolo attivo di un tale incontro, secondo una linea tutta orientata, gettata sul mondo e le ragioni dell’agire politico. E ancora: se la raison è uno dei massimi temi, e miti, della civiltà intellettuale del tempo (tema declinato nei modi della pratica, della celebrazione, dell’attesa, del dubbio, dello stesso rifiuto), non c’è dubbio che la poesia del Settecento inclini per molta parte a configurarsi, anche, come luogo in qualche misura sottratto alla dinamica e alle necessità della prassi, sorta di specola, di “osservatorio” in cui sia consentito e agevole, alla ragione, di variamente esplicarsi e realizzarsi. Ora nelle forme, attestate dal Cicerone passeroniano, di quella discorsività raziocinante, appunto, in genere preoccupata di ricollegarsi alla matrice oraziana dei Sermones; ora coniugandosi piuttosto, con varia risolutezza, nei diversi modi dell’immaginario, con risultati che se spesso possono dar luogo a quell’impressione, oggi ancora abbastanza diffusa, di tediosa piattezza e crociana “assenza di poesia”, impongono però anche non di rado il vitalissimo nitore, lo smalto non solo delle invenzioni pariniane, ma della narrativa in versi di un Batacchi[1], della favolistica di un Bertòla e dell’autoanalisi di un Viale.

Va detto in ultimo che l’accentuato classicismo presente nella cultura letteraria del tempo contribuisce indubbiamente al definirsi e stabilizzarsi di una “lingua” poetica assai omogenea, pur con ovvie varianti interne a seconda dei generi, e per quanto riguarda la lirica caratterizzata, nel lessico, da un ampio fondo petrarchesco e da elementi rinvianti, per via diretta o indiretta, ai lirici latini e greci, soprattutto ad Orazio. Per questo riguardo, anzi, i fervori ellenizzanti propri della seconda metà del Settecento finiscono per implicare una ricerca, in genere assai artificiosa, di termini costruiti su calchi dell’antica poesia greca, quale si può ritenere, ad esempio, l’«occhi-pietosa» di un famoso sonetto fantoniano.

Non è però questa certo la via di un effettivo rinnovamento della lingua poetica del Settecento. Caratteri di più sicura novità, e per noi oggi in ogni caso di interesse maggiore e crescente, presenta invece anche per questo riguardo il risoluto affermarsi, specie nella seconda metà del secolo, di esperienze di poesia dialettale. Si tratta per lo più, nei casi maggiormente significativi, di prove assolutamente non ingenue o popolari, perseguite dunque da autori colti, in genere versati nella cultura illuministico‑progressiva del tempo. E varia appare in esse la valenza del dialetto impiegato. Così, se il siciliano di un Meli non sembra presentarsi, come è stato scritto, quale espressione necessaria di una realtà fresca e vigorosa nuovamente scoperta, a cui non si converrebbe la lingua nazionale (come sarà il dialetto di un Porta e di un Belli), bensì come una nuova veste timbrica di temi e motivi ben noti, che consente al poeta, nei limiti di quella letteratura, una più ampia e varia gamma di effetti, nel siciliano di Domenico Tempio[2], nel milanese di un Balestrieri[3] e soprattutto di un Tanzi, e nel veneziano di Antonio Lamberti[4], è possibile riconoscere, almeno nei casi più felici, il veicolo appunto necessario di un’apprensione del reale – umano, sociale – diversa, più veridica e stringente. Mentre nel veneziano di un Baffo giunge a esplicitarsi un’avventura esistenziale straordinaria e altrimenti forse impronunciabile, e nel torinese di Edoardo Calvo trova voce effettiva quella tensione giacobina all’impegno politico e ad un rapporto autentico, non semplicemente pregiudiziale o predicatorio, con le masse popolari.

 

Giambattista Felice Zappi

 

Nacque a Imola nel 1667, da Giovanni Evangelista e Maria Maddalena Borelli. Laureatosi in diritto a Bologna nel 1685 si trasferì poco dopo a Roma, dove svolse una fortunata attività forense ed ebbe modo di frequentare nobiltà e circoli di cultura.  Aderì dapprima all’Accademia degli Infecondi e successivamente, insieme ad altri tredici letterati, fondò nel 1690 (col nome di Tirsi Leucasio) l’Arcadia, la nuova accademia sorta sotto il patrocinio dell’ex-regina Cristina di Svezia[5] al fine di «esterminare il cattivo gusto» e di riattivare lo spirito e la pratica della poesia italiana «mandata quasi a soqquadro dalla barbarie dell’ultimo secolo», e divenuta ben presto, pur tra violenti contrasti interni, talmente importante da dare poi il proprio nome alla letteratura in Italia per gli anni del suo primo affermarsi.

Nel 1705 l’ormai celebre Zappi sposò l’assai più giovane intellettuale e già autrice di versi Faustina Maratti (una fra le prime e più sensibili esponenti di un tipo femminile che avrebbe allignato vivacemente nella società grande‑borghese e aristocratica del Settecento). Il matrimonio fu molto felice e il salotto della loro casa divenne a poco a poco luogo di incontro e riunione di numerosi artisti e uomini di lettere. Zappi morì improvvisamente nel 1719, a soli cinquantadue anni, probabilmente in seguito a un attacco di malaria, e fu sepolto nella Basilica di Santa Maria degli Angeli in Roma. Morendo, lasciava una raccolta di Rime di vario genere, pubblicate in seguito a Venezia nel 1723, insieme con i versi della moglie e di altri rimatori del tempo.

Come poeta encomiastico lo Zappi si rivela poeta ampolloso e stucchevole e le sue canzoni tradiscono le origini barocche; riesce meglio nei suoi sonetti anacreontici di ispirazione amorosa, eleganti e misurati. Certo sullo Zappi ha pesato, e in certa critica pesa ancora, il negativo e memorabile giudizio che formulò su di lui, nel primo numero de La Frusta Letteraria (ottobre 1763), Giuseppe Baretti, in funzione polemica nei confronti di un certo tipo di poesia che nel più vasto ambito dell’Arcadia di fatto aveva trovato e ancora trovava un certo spazio: «il Zappi poi, il mio lezioso, il mio galante, il mio inzuccheratissimo Zappi, è il poeta favorito di tutte le nobili damigelle che si fanno spose, che tutte lo leggono un mese prima e un mese dopo le nozze loro. Il nome del Zappi galleggerà un gran tempo su quel fiume di Lete, e non s’affonderà sintanto che non cessa in Italia il gusto della poesia eunuca. Oh cari que’ suoi smascolinati sonettini, pargoletti piccinini, mollemente femminini, tutti pieni d’amorini!».

In effetti nella poesia di questo avvocato imolese, inseritosi assai brillantemente nell’universo raffinato della grande nobiltà romana (poesia lontanissima dalle esigenze di “vero” e di “naturale” presenti, come si è più volte notato, in certa cultura di fondo borghese del medio Settecento che in Italia trova appunto in Baretti la sua voce più risentita), è possibile avvertire soprattutto la celebrazione e insieme la trascrizione di quel gusto per un rituale fra sentimentale e mondano, fragilmente sospeso tra la sofisticheria e l’inconsistenza, tutto giochi sottili e maliziosi candori, che si trova al fondo, accanto a ben altre tensioni, del mondo aristocratico delle maggiori città europee sin verso gli anni della Rivoluzione, e giunge ad esprimersi, in genere con suggestività assai più pungente, nella grande pittura rococò. Nei versi di Zappi le vie libresche di un immaginario rispettoso, in direzione comunque riduttiva, della più ovvia tradizione bucolica, l’impiego di una lingua sì alta, di ascendenza petrarchesca, ma generalmente piana e di comprensione non ardua, infine la musicalità facile e il gusto dell’arguzia (dati, questi ultimi, che denunciano i limiti di novità, rispetto al barocco, di questa particolare Arcadia), tutto contribuisce a renderne esplicita non solo la dimensione, ma anche la destinazione, prevalentemente sociale e mondana.

«Nei sonetti pastorali, nelle egloghe, negli scherzi, nelle canzonette, nei madrigali, per cui lo Zappi fu nei suoi tempi ammiratissimo e rimase anche in seguito il tipo e quasi la caricatura dell’“Arcadia” lirica, abbondano invero i vezzi e le leziosaggini, le grazie e i belati di quella falsa pastorelleria, in cui prese forma allora e giunse al suo estremo esaurimento la già estenuata ispirazione idillica degli umanisti. Ma per un altro verso vi confluisce l’esperienza melica e madrigalesca del Seicento, dal Chiabrera al Lemene, con la sua mollezza di ritmi e di stile, con la sua arguzia di concetti, con il suo lessico umile e familiare, facile e dimesso, e già vi palpita lo stile della società nuova delle dame incipriate, dei cicisbei, degli abati mondani e svenevoli, la galanteria che non è l’amore bensì la maschera dell’amore, fatta di moine, d’inchini, di complimenti maliziosi, di tenui desideri sensuali, di simulati languori. Gli schemi e i quadri bucolici con la loro semplicità affettata, la loro monelleria calcolata e il loro facile sentimentalismo, diventano nello Zappi lo specchio di quel costume sociale e l’espressione letteraria di quel sogno di galanteria raffinata»[6].

 

Pier Jacopo Martello

 

Nacque nel 1665 a Bologna e qui venne avviato a studi prima di eloquenza e di filosofìa, poi di diritto. I suoi primi tentativi letterari avvennero nel campo della poesia e nel 1686, con il nome di Indugiato, fu tra i fondatori dell’Accademia degli Accesi di Bologna. Nel 1698 col nome di Mirtillo Dianidio venne associato alla colonia “Renia” di Bologna dell’Accademia dell’Arcadia, della quale Martello divenne uno dei principali animatori. Gli scritti giovanili erano, nel complesso, alquanto modesti e appartenevano alla produzione encomiastico‑religiosa molto frequente nel secolo XVII; il migliore di questi componimenti è il poema Gli occhi di Gesù (1707). Nello stesso anno divenne all’Università professore di eloquenza. Contemporaneamente, dietro le sollecitazioni di Scipione Maffei e di Ludovico Muratori suoi amici, aveva iniziato – oltre allo studio dei tragici greci, latini e francesi – a scrivere le prime tragedie, che furono poi pubblicate a Roma nel 1709.

Alla fine del 1707 il Senato votò la sua destinazione a segretario dell’ambasciata bolognese di Roma. Prima della partenza gli fu conferito il titolo di lettore di umanità nello Studio bolognese (1708). Si trasferì a Roma in primavera e assunse il nuovo incarico presso l’ambasciatore Filippo Aldrovandi[7], e, a parte alcuni mesi trascorsi a Parigi nel 1713, rimase nella Città Eterna sino al 1714, allorché riassunse l’insegnamento di eloquenza a Bologna. Morì nel 1727. Una prima edizione di Versi e prose era apparsa a Roma nel 1710; una edizione successiva di Opere venne stampata a Bologna, in sette volumi, fra il 1723 e il 1735.

Autore assai attivo, non solo di versi lirici ma di opere epiche, di numerose tragedie e commedie e di vari scritti teorici (fra cui il trattato Del verso tragico, volto a sostenere la validità, per la tragedia appunto, del doppio settenario derivato dall’alessandrino francese, verso che da lui avrà poi il nome di martelliano), in questa molteplice produzione Martello ebbe soprattutto modo di mostrare – secondo quanto è stato scritto –piuttosto che una propria creativa originalità d’accento, una varietà di interessi e di impegni, un desiderio di aggiornamento rispetto alla più progredita cultura italiana e straniera dell’epoca.

Ora non c’è dubbio che tutto questo valga a Martello, già di per sé, un posto di rilievo nella cultura letteraria del primo Settecento, e ben illumini l’amicizia che lo legò non solo a Giambattista Zappi, ma a uomini di ben altra tempra intellettuale come Gravina e Muratori. Ma di recente una nuova attenzione si è venuta rivolgendo al suo Canzoniere, pubblicato per la prima volta a Roma nel 1710, e in particolare alle rime ivi contenute «per la morte del figlio». In realtà in questi versi – scritti appunto in occasione e sullo stimolo della morte, avvenuta nel 1708, del figlioletto Odoardo – il poeta arcade sembra andar oltre quel limite di freddezza oratoria o di opaca, scolastica vacuità entro cui ci appare oggi chiusa per tanta parte la poesia del tempo; e trova, su una sicura ascendenza di netto timbro petrarchesco e in una dimensione del tenero inequivocabilmente primosettecentesca, la persuasiva pronuncia di quel “patetico” non elusivo del “vero” che pure si pone, nella cultura poetica dell’Arcadia, fra le attese più sottili (ma forse più teorizzate, si pensi alle pagine di Muratori su Petrarca, che non, in genere, attuate veramente) e più ricche di sviluppi nel pieno e tardo Settecento.

 

Paolo Rolli

 

Nacque nel 1687 a Roma, dove si formò, come Metastasio, sotto la guida di Gianvincenzo Gravina – dal cui magistero apprese la grande lezione dei classici antichi e moderni – e si avviò più tardi alla carriera legale nello studio di Giambattista Zappi. Entrato in Arcadia con il nome di Eulibio Brentiatico, quando scoppiò il cosiddetto scisma d’Arcadia seguì il maestro, affiliandosi (1714) all’Accademia dei Quirini.

Nel 1715 si trasferì a Londra, dove divenne poco dopo maestro di italiano presso la famiglia reale e dove rimase sino al 1744. Anche in Inghilterra Rolli, che sin dall’adolescenza (come Metastasio) si era distinto nella composizione di versi all’improvviso, proseguì la propria attività poetica, che si concretò, nel 1717, in una prima edizione delle Rime e, dieci anni più tardi, nell’edizione delle Canzonette e delle Cantate.

È doveroso precisare, che a tali raccolte rimarrà poi affidata per gran parte la reputazione, se non proprio la fama, di questo scrittore, il quale – per altro – nei trent’anni di soggiorno in Inghilterra ebbe modo di impegnarsi in una varia, complessa e vivace attività, come oggi si direbbe, di “operatore culturale”: da un lato curando la pubblicazione di molti classici italiani (Boccaccio, Ariosto, Guarini ecc.) o di importanti traduzioni italiane di classici latini o greci, come il De rerum natura di Lucrezio tradotto da Alessandro Marchetti[8] o il Senofonte Efesio tradotto da Anton Maria Salvini; da un altro compiendo, e questo anche dopo il ritorno in Italia, numerose traduzioni, dai classici e da Racine ma soprattutto da autori inglesi, come Milton e lo stesso Newton. In questa funzione di tramite attivo fra la cultura inglese e quella italiana Rolli anticipava un’esperienza vitale, soprattutto sul nostro versante, che avrà modo di esplicarsi e diffondersi in special modo nel medio e avanzato Settecento, su una linea lungo la quale si situano variamente un Baretti, un Alessandro Verri, sino al termine estremo rappresentato, ormai nel primo Ottocento, da Foscolo.

Del periodo londinese di Paolo Rolli si deve ancora ricordare la composizione di oltre venti melodrammi, alcuni dei quali musicati da Haendel[9]: attività, questa, connessa all’incarico di librettista della Reale Accademia di Musica. Nel 1744, in un clima assai mutato, dopo numerose polemiche con vari letterati inglesi e in un’atmosfera sempre meno conciliante con tutto quanto proveniva dall’Italia, dopo un breve soggiorno a Parigi, Rolli tornò in Italia si stabilì a Todi, città dov’era nata la madre, dedicandosi alla correzione e alla stampa definitiva delle sue opere. Si spense serenamente nel 1765.

Della sua ampia produzione poetica, perseguita per un cinquantennio e sullo stimolo di diverse situazioni di vita e di cultura, non è certo possibile fare in queste pagine una dissertazione nodale. Risulta invece appropriato concentrare l’attenzione sopra una fase particolare del vario lavoro del Rolli, e precisamente sulle Canzonette, che si situano del resto negli anni di più vitale maturità dello scrittore. Si potrà allora rilevare, anzitutto, su un piano di tecnica poetica, un graduale distacco dalla musicalità in genere facile, cantabile, sonora della prima Arcadia, la ricerca di una dizione più attenta ai valori significativi della parola e del verso, e ciò anche mediante un notevole lavoro sul metro. Ed ancora si potrà avvertire, in tale prospettiva piuttosto ma non certo solo tecnica, quel che è stato definito come un gusto dell’immagine concreta, realistica, il filtrare insomma nei versi e il disporsi in essi con propria, rugosa talvolta, spesso pittorica e pittoresca evidenza, quel reale, non più solo interiore ma anche naturale e sociale, la cui ricerca ci appare oggi come una delle linee di tensione più notevoli nell’arte e nella poesia del Settecento.

Occorre tuttavia rilevare anche che il Rolli, che pure era stato allievo del classicista Gravina (e classicista nei limiti in cui, pensando che «il poeta conseguisce tutto il suo fine per opera del verisimile, e della naturale e minuta espressione: perché così la mente, astraendosi dal vero, s’immerge nel finto, e s’ordisce un mirabile incanto di fantasia», aveva potuto giudicare Omero «il mago più potente e l’incantatore più sagace, poiché si serve delle parole non tanto a compiacenza degli orecchi, quanto ad uso dell’immaginazione e della cosa, volgendo tutta l’industria all’espressione del naturale»), viene sviluppando un classicismo non ovvio e non scolastico, ma sottilmente inserito nel dibattito estetico contemporaneo, e che tutto quanto si è sin qui messo in luce affondava le proprie radici sulla lezione, agilmente assimilata, dei poeti antichi meglio frequentabili in tale direzione, Orazio soprattutto.

Quindi, come giustamente scrive il Sapegno, se si guarda nel complesso, «la sua attività di grammatico, critico, traduttore e la sua opera stessa di scrittore (dove accanto ai libretti per musica, detestabili, e alle cantate stanno le odi e i sonetti, gli endecasillabi e le canzonette), può essere giudicata, a prima vista, quella di un tecnico laborioso della letteratura (di un “meccanico”, come diceva Carducci a proposito del Frugoni), e per certi aspetti di un metrico sul tipo del Chiabrera. Tentò infatti di introdurre, nelle odi, la strofe saffica e l’alcaica senza rime, e più genialmente riprodusse l’endecasillabo catulliano (mediante l’accoppiamento di due quinari, di cui uno sdrucciolo e l’altro piano), e anche nelle cantate e nelle canzonette si sbizzarrì con una varietà e una ricchezza di metri, che è degna di nota e che non rimase senza influsso sugli scrittori venuti dopo. Ma, dietro l’appariscente bravura, palpita a tratti una vena sinceramente affettuosa e appassionata: un sentimento schietto, alieno tuttavia dall’approfondirsi, pronto piuttosto a sciogliersi, placato, nella dolcezza musicale dell’elegia ovvero a riflettersi, rammorbidito nella tranquilla contemplazione di paesaggi chiari e sereni. Dai classici antichi, studiati con lungo amore, il Rolli riprende le note più tenui e più tenere, le più conformi alla sua indole: da Orazio, la blandizie epicurea, senza la sostanza di moralità; da Catullo, l’abbandono sensuale, senza le note più intense e più sofferenti. Nelle sue cose migliori, la commedia dell’amore, con i suoi ardori e i suoi vezzi, i suoi languori e le sue civetterie, la sua nostalgia e la sua pena, rivive stilizzata in forme leggere, di una musicalità facile e orecchiabile, che si direbbe popolare. E popolari sono rimaste infatti, e son tra le voci più care e poetiche del primo Settecento, la canzonetta Solitario bosco ombroso, con le sue note flebili che agevolmente si piegano al ritmo di una conclusa grazia melodica, e le altre Tornasti, Primavera, La neve è alla montagna, dove il nitore e l’incisiva freschezza delle descrizioni naturali si insinuano, con vivacità e modernità di accenti, ma senza incrinarne la fragile struttura, nello stilizzato mondo della fantasia arcadico‑pastorale»[10].

 

Giovanni Fantoni

 

Nacque a Fivizzano (Massa Carrara) nel 1755 dal conte Lodovico Antonio e Anna De Silva. Terzo di quattro figli maschi, all’età di sei anni si trasferì a Pisa dalla zia paterna, Caterina Fantoni, attratta dalla vivacità e dall’esuberanza del nipote. Appresi i primi elementi di grammatica, a nove anni il Fantoni andò a proseguire gli studi a Roma, dapprima presso il monastero di S. Scolastica a Subiaco, e tre anni dopo presso il collegio “Nazareno” di Roma, per essere avviato alla carriera ecclesiastica; ma il suo carattere insofferente alla disciplina e il suo spirito anticlericale non erano compatibili con la vita monastica.

Nel 1772 uscì dal collegio ed ottenne poco dopo un incarico di apprendista presso la segreteria di Stato a Firenze, non riuscendo però a conseguire risultati soddisfacenti. Il padre decise perciò di avviarlo alla carriera militare inviandolo prima tra i cadetti a Livorno e poi nel 1775 all’Accademia Reale a Torino (da cui il di poco più giovane Alfieri era uscito di recente). Nel 1776 venne ammesso in Arcadia con il nome di Labindo Arsinoetico e, sempre nelle stesso anno, uscì dall’Accademia di Torino per assumere la carica di sottotenente in un reggimento di fanteria straniera, ma anche questa esperienza si rivelò fallimentare. Inviso ai più e fortemente indebitato, venne costretto a dare le dimissioni, in seguito alle quali, per istanza dei suoi non pochi creditori, venne messo per breve tempo agli arresti domiciliari.

Tornato a Fivizzano – dopo aver trascorso un periodo a Genova, dove continuò a condurre una vita mondana, contraendo nuovamente numerosi debiti – si dedicò allo studio dei classici latini e in particolare di Orazio. In questo stesso periodo, comunque, la vita del Fantoni fu sconvolta anche da un evento tragico: a seguito di una sua relazione amorosa con una domestica di casa, Caterina Mancini, nacque un figlio (“frutto infelice di un funesto amore”), ma la madre del piccolo, non avendo intenzione di tenerlo, gli tolse la vita. La vicenda verrà amaramente ricordata dal poeta nell’ode In morte di un bastardo.

Nel 1785 si recò a Napoli (ove restò fino al 1788), sperando invano di ottenere un posto nella burocrazia borbonica. Gli anni napoletani si rivelarono comunque estremamente stimolanti per il poeta che ebbe l’occasione di instaurare numerosi rapporti con alcuni tra i più importanti intellettuali del periodo come Alberto Fortis e Mario Pagano. Divenne inoltre membro della loggia massonica di Napoli “La Vittoria”. Nel 1788, deluso dall’esperienza napoletana e ancora una volta alla ricerca di un impiego, si recò a Roma, dove accrebbe la sua fama di letterato recitando versi molto acclamati nell’Accademia dell’Arcadia. Sperando di entrare nelle grazie del pontefice, gli dedicò il poema georgico (mai ultimato) Le piante e la carestia, nel quale taluni riferimenti umanitari, volti alla realizzazione di una giustizia sociale più ampia e radicale, lasciano trapelare l’influenza che potrebbe aver avuto su di lui non solo l’illuminismo napoletano ma più in generale la cultura idéologue, accolta, comunque, più come orientamento di massima che come diretto legame.

Nel 1796, con la campagna di Bonaparte in Italia e il conseguente avvio di quello che poi si chiamerà il Triennio giacobino, Fantoni, che (come s’è detto) aveva già maturato, specie nell’ambiente napoletano, opinioni progressive, entrò con molta energia nella lotta politica, cui prese parte non solo con l’azione diretta ma anche dedicandovi le proprie capacità e la fama di scrittore. Nominato nel 1800 professore di eloquenza nell’Università di Pisa, ma sospeso dopo qualche mese per la franchezza delle sue prese di posizione politiche, divenne segretario e poi presidente, a Carrara, dell’Accademia Eugeniana di Belle Arti. Morì a Fivizzano nel 1807.

È particolarmente notevole, nel caso di Fantoni, come l’attività poetica venga svolgendosi in parallelo, con regolarità spesso illuminante, alla vicenda biografica. Autore già ventenne di versi di vario genere e – come s’è detto – introdotto all’Arcadia col nome pastorale di Labindo, di cui farà uso volentieri, egli giunge a pubblicare nel 1782 le Odi, nel 1784 gli Scherzi e nel 1785 un volume di Poesie varie e prose (seguiranno poi diverse edizioni, con graduali aggiunte, sino a quella definitiva apparsa in Firenze, col titolo di Poesie, in tre volumi nel 1823). Ora se i versi più giovanili, in cui largamente confluiscono le suggestioni più varie della poesia contemporanea, ci appaiono soprattutto come un commento, modulato con indubbia eleganza, a quel vivere teso, inquieto cui si accennava, con insistite aperture in direzione erotico-edonistica, nei versi degli anni maturi acquista vistosamente rilievo l’esigenza di cantare, intonare, celebrare i temi dell’impegno civile e politico e insieme di dar voce alle complesse relazioni via via intrattenute dall’io poetico con il mondo della prassi e della storia.

Tale esigenza, conviene aggiungere, si compie per gran parte attraverso la mediazione della lirica oraziana, da cui Fantoni deriva, con un’oltranza che non ha uguali nella poesia del secolo e gli varrà da Alfieri l’appellativo affettuoso di «etrusco Orazio», non solo una fitta trama lessicale, movenze sintattiche e invenzioni fantastiche, ma gli stessi metri, rilavorati con straordinaria perizia, poi sottilmente tenuta d’occhio dal Carducci «barbaro», che di lui scrive: «Il Fantoni, oltre all’ingegno vivace e l’animo alacre, e un’immaginazione di movimento lirico, aveva cultura varia e moderna. Di latino sapeva fino a comporre versi non da meno degli altri che si stampavano allora in Italia, ma scriveva francese alle signore, conosceva lo spagnuolo, e della letteratura tedesca pare avesse un’idea sua, più che del libro del Bertola in voga dopo l’ ’84. Era insomma un letterato alla moda, riproduceva in un italiano incipriato di gallicismo la galanteria delle prose francesi di società: deduceva nell’Arcadia nostra canora le cupaggini enfatiche dello Young, che pareano profondità di passione, e morbidezze di Gessner, che pareano naturalità di sentimento, un po’ dietro le orme del Bertola, ma con versi più andanti e sonanti. Nelle Odi era oraziano […] d’Orazio imitando sempre l’andamento e il fraseggiamento, il colorito e i metri. Odorava la rivoluzione; eppur tra una genuflessione e l’altra, abitudine di educazione, naturalissima nei contemporanei di Voltaire e di Diderot, a qualche sovrano, era già di massime e aspirazioni repubblicane».

E se anche come scrittore egli non riusciva a superare i limiti di una retorica concettosa e imponente, ma – a tratti – vigorosa e vivace, come artista (nel senso più stretto del termine) egli si dimostra assai valente, sia per lo sforzo costante con cui cercò di armonizzare nel linguaggio il repertorio e le forme classiche con la terminologia, le idee e le circostanze del proprio tempo, e quindi tentando – a modo proprio ­– di fondere contenuti moderni in una tecnica classicheggiante; sia perché, dopo Chiabrera e Rolli e assai prima di Carducci, profuse tutto il suo impegno nella costruzione di una metrica “barbara”, cioè nel tentativo di riprodurre in versi italiani il suono dei versi antichi, riuscendovi spesso felicemente. In definitiva, come egli stesso ammette nella prefazione alle sue poesie, i suoi interessi sono più di eloquenza che di ricerca formale, in quanto in lui v’è la volontà di assumere le nuove poetiche per elaborarle in forme letterarie piuttosto che di farle intimamente proprie.

 

Gian Carlo Passeroni

 

Nacque nel 1713 presso Nizza, da Gian Ludovico, poeta dialettale. La famiglia era di modeste condizioni per cui a quattordici anni Gian Carlo fu inviato a Milano presso uno zio prete per compiervi gli studi. Venne ordinato sacerdote nel 1737 e poco dopo entrò a far parte dell’accademia dei Trasformati, dove introdusse a sua volta l’amico Parini. Si dedicò soprattutto agli studi letterari, raggiungendo ben presto fama di erudito, tanto che venne chiamato come precettore presso una famiglia patrizia di Milano. Dopo 1770 il Passeroni ebbe a patire varie traversie economiche alla quali cercarono di porre parziale rimedio sia il governo austriaco, sia quello della napoleonica Repubblica Italiana. Trascorse pressoché in miseria gli ultimi anni, e morì nel 1803. Fra il 1755 e il 1774 aveva pubblicato la sua opera più nota, il poema Il Cicerone, cui erano seguite le Rime giocose, satiriche e morali (1776), le Favole esopiane (1779-1788) e una traduzione di Epigrammi greci (1786).

Sin dai titoli di queste opere si può comprendere chiaramente quello che fu il talento prevalente del Passeroni, cioè la disposizione alla critica dei costumi e alla satira, che se appare diffusamente presente nella letteratura di tutto il secolo, così colmo di tensioni polemiche, negli oltre cento canti del poema passeroniano trova senza dubbio una sorta di culmine e di fissazione monumentale. In esso la vita del notissimo oratore latino «offre pretesto a una serie inesauribile di digressioni e divagazioni che occupano la maggior parte del poema e ne costituiscono, per due terzi almeno, la vera materia. La forma è scialba e prolissa, ma non senza decoro. Il quadro della vita settecentesca è dipinto con piacevole e scherzosa vivacità accompagnata da intenzioni moralistiche che preludono alla satira più profonda e amara del Parini. Il poema fu lodato dal Rousseau, e lo Sterne ne trasse forse l’idea del suo romanzo umoristico. Arguzia, lepidezza e battute salaci ravvivano a tratti l’inevitabile monotonia e uniformità dell’insieme»[11]. Di particolare interesse il linguaggio. Legato per molti versi alla tradizione satirico-burlesca di origine rinascimentale e incline al tempo stesso a una sorta di discorsività parlata, ben lontano dunque dalla linea del Giorno pariniano, esso si situa in un’area assai frequentata, pur con vistose varianti, nel secondo Settecento.

Per quanto riguarda le altre sue opere, non c’è molto di cui si possa dire. «La stessa facilità e la stessa prolissità dell’opera maggiore il Passeroni prodigò in un’ampia raccolta di rime giocose, satiriche e morali, e nei sette volumi di Favole esopiane: imitazioni e rifacimenti che stemperano in una blanda e discorsiva moralità l’arguzia concettosa dell’originale»[12].

 

Ambrogio Viale

 

Nacque a Cervo, presso Savona, nel 1770 da Giuseppe e da Antonietta Siccardi (o Sicardi), secondo di otto figli. L’essere particolarmente versato negli studi classici, spinse il padre a mandarlo a Genova, affinché si formasse presso le Scuole pie dei padri scolopi. Contemporaneamente, Ambrogio coltivò i suoi interessi letterari, che iniziò a mettere a frutto nel marzo del 1789, quando fu cooptato dall’Accademia liguistica di belle arti di Genova, meglio nota come Accademia degli Industriosi, colonia d’Arcadia della città ligure. Al suo ingresso prese l’inusuale soprannome arcadico con cui avrebbe firmato le sue opere: Il Solitario delle Alpi. Attorno ai vent’anni si trasferì a Torino, dove divenne amico di numerosi intellettuali, e nel 1791 entrò a far parte dell’Accademia dei Filopatridi, sorta alcuni anni prima come luogo d’incontro e discussione di giovani nobili e borghesi orientati in senso illuministico e francamente progressivo. La produzione poetica entrò nel vivo tra 1792 e il 1794, periodo in cui furono pubblicate tre raccolte: I Canti (1792), Le Rime (1794) e I Versi (1793). Subito dopo l’uscita del terzo volume, forse a causa di motivi politici, Viale abbandonò Torino, facendo perdere per tre anni le sue tracce. Nel 1798 ritornò a Cervo ove sposò Pellegrina Rivara, una giovane di modesta famiglia. Per brevi periodi occupò anche delle cariche pubbliche, dalle quali si dimise sempre dopo poco tempo adducendo motivi di salute. Ritiratosi a vita privata, i suoi ultimi anni furono dedicati ad una traduzione dell’Eneide, che rimase incompiuta. Morì nel 1805, a soli trentacinque anni.

Nelle opere di Viale, pubblicate sotto lo pseudonimo di Solitario delle Alpi (estremamente allusivo di una certa sensibilità), per quanto non ancora considerati con la dovuta attenzione critica, si è voluto vedere un contributo italiano di un certo rilievo al “preromanticismo”. In realtà, si tratta essenzialmente di una poesia intesa a dar conto di una condizione psichica, di un “io” radicalmente sconvolto e in conflitto dichiarato, anzi esplicito, con tutto quanto vi si pone intorno, che potrebbe integrarlo o limitarlo. Come invenzioni e linguaggio si è ancora nell’ambito del petrarchismo del tempo. Ma alcuni nuclei semantici, come il “nulla” conclusivo, ne infrangono irrimediabilmente gli equilibri, proiettandolo su un paesaggio ideologico che è, entro certi limiti, quello della grande tradizione libertina, nutrita dei succhi più intensi della cultura antica, latina e greca. Da un punto di vista creativo, la poesia del Viale, anche se a tratti ingenua e raramente originale, ebbe comunque il merito di assorbire nuovi modelli e di attingere in modo vario a un immaginario che avrebbe sedotto, dopo di lui, molti illustri poeti.

 

Carl’Antonio Tanzi

 

Nacque nel 1710 a Milano «d’un antica, e già cospicua famiglia», come scrive il Parini suo primo biografo, ma che a quei tempi versava in condizioni relativamente modeste. Il padre era archivista presso la ferma del sale e la madre, della quale non si hanno notizie, morì probabilmente prima del 1740. I suoi primi studi, come scrive sempre il Parini, «furono tali, quali era permesso alla fortuna del Padre, alla qualità de’ tempi e de’ coltivatori; ma il terreno per se stesso felice rendette assai più abbondantemente che non promettevano le circostanze». Tanzi frequentò le scuole di Brera, per poi trovare impiego come archivista e revisore presso la ferma del sale dove poi sempre lavorò. La sua vita restò molto legata alla città in cui visse, se si eccettuano pochi viaggi di lavoro o diporto.

La cultura di Tanzi fu più tradizionale e conservatrice che al passo con le novità di quel riformismo settecentesco che a Milano ebbe il suo momento di massimo splendore negli anni Sessanta del secolo. Anche se risulta impensabile immaginare i progressi dell’Illuminismo senza il lavoro certosino degli studiosi delle generazioni precedenti. Orientati sulla poesia e sull’erudizione, gli interessi culturali di Tanzi presero avvio negli anni Trenta, con la frequentazione di salotti e cenacoli letterari milanesi. E quando nel 1743 venne rifondata l’Accademia dei Trasformati, Tanzi ne divenne segretario perpetuo.

Come poeta esordì alla fine degli anni Trenta, con versi in italiano, e ai primi del decennio successivo, con poesie in dialetto milanese, nelle quali il riecheggiamento dei motivi arcadici, idillici ed erotici, si mescola con spunti di satira lieve e di bonaria canzonatura, specie in certi gustosi quadretti di genere. Amico di tanti letterati lombardi, tra cui in particolare Domenico Balestrieri, prese parte insieme a quest’ultimo alla “Brandana”, una vivace polemica fatta di opuscoli e composizioni poetiche contro il padre Onofrio Branda[13], autore nel 1759 di un Dialogo sulla lingua toscana in cui irrideva all’uso del dialetto.

Affetto fin dalla giovinezza da gravi problemi di salute (s’era ammalato di , tubercolosi), morì per uno sbocco di sangue, nel 1762, non lasciando altro – come scrisse il Parini – «che un’ottima fama di sé, poche suppellettili, alcuni scritti e, avuto riguardo al poter suo (per quanto lo consentivano i suoi mezzi), una copiosa e scelta libreria, nella quale un’insigne raccolta di drammi italiani».

Davvero illuminanti per comprendere non solo le ascendenze immediate della poesia del Tanzi, ma anche le sue motivazioni specifiche, in quanto poesia dialettale, sono ancora una volta queste parole del Parini: «I Milanesi, allo stesso modo che altri popoli d’Italia, si sono dilettati di scriver poesie nel loro particolar dialetto. Egli è abbastanza noto quanto felicemente ci sia riuscito Carlo Maria Maggi sul terminar del passato secolo: e il Tanzi, ad imitazion di questo e di varii altri, ci si è pure esercitato con molta sua lode, di modo che oseremmo dire che le sue poesie milanesi avanzino d’assai quelle ch’egli ha scritte in toscano, sebbene anch’esse abbiano molto pregio. Gli uomini di lettere suoi compatriotti ne potranno esser giudici competenti. Il Tanzi non era di questi poeti che, come hanno trovato un concettino e adornatolo di poche lasciviuzze toscane, si collocano da se medesimi sulle cime del Parnaso. Egli sapeva che la vera Poesia dee penetrarci nel cuore, dee risvegliare i sentimenti, dee muover gli affetti. Egli sapeva che ogni popolo ha passioni; che queste le esprime nel suo linguaggio; che qualsivoglia linguaggio acquista una particolar forza ed energia in bocca dello appassionato; che la Poesia raccoglie questi segni energici della passione, gli ordina ad un fine, li riunisce in un punto, e produce l’effetto che intende; e che conseguentemente ogni lingua, qual più qual meno, è capace di buona Poesia».

 

Edoardo Calvo

 

Nacque a Torino nel 1773 da Carlo e da Giulia Antonia Bottacchio. Trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Cinzano, dove il padre esercitava la professione di medico, e seguendo – le orme del padre – si laureò in medicina all’università di Torino. In quegli anni aveva maturato ormai delle convinzioni politiche che lo spingevano a simpatizzare per la Rivoluzione francese (cui diede espressione già a partire dai suoi primi componimenti: Il mondo in statu quo, poemetto eroicomico in ottave, scritto in italiano, e la canzone patriottica Passaport dij aristocrat, scritta in piemontese), di cui accoglieva soprattutto i motivi libertari e antireligiosi.

Nel 1797, sospettato di essere coinvolto nei moti che in quell’anno erano scoppiati specialmente ad Asti, Alba e Moncalieri, fu costretto ad allontanarsi da Torino ed emigrò a Parigi. Con il rientro in Italia, a seguito dell’occupazione francese del Piemonte, iniziò la sua produzione letteraria più intensa, quasi esclusivamente in lingua piemontese.

Nel 1799 aveva avuto l’incarico di medico assistente all’ospedale di S. Giovanni Battista, ma dopo la sconfitta delle truppe francesi ad opera delle forze austrorusse, il Calvo fu costretto a salvarsi con l’esilio. Ritornò in Piemonte, a Torino, dopo la battaglia di Marengo, riprendendo l’incarico presso l’ospedale di S. Giovanni. Morì nel 1804, per il tifo contratto nell’esercizio della sua professione di medico.

Il lavoro letterario del Calvo risulta inscindibilmente connesso al suo impegno politico e la sua fama deriva dall’uso del dialetto, che, adoperato dall’autore come mezzo per conseguire più facilmente l’obiettivo di “educare” ed emancipare il popolo, fornendogli sorta di riferimento ideologico, gli valse, se non altro, il merito di essere considerato l’iniziatore della poesia dialettale piemontese. Il valore poetico delle sue opere è, invece, generalmente modesto. Tra le più riuscite si debbono considerare le Favole morali, in cui egli riprende i consueti schemi favolistici di modello francese, adattandoli alle circostanze politiche del tempo: ma esse, dirette soprattutto a colpire l’ipocrita politica bonapartistica nei confronti dei “patrioti” italiani con temi storico‑moraleggianti, interessano più sul piano propagandistico‑politico che su quello estetico.

Dal punto di vista dell’ispirazione viene considerata migliore, e non senza motivo, l’ode An sla vita d’campagna (Sulla vita di campagna), lontana dai consueti temi prediletti dall’autore, in cui la delusa esperienza politico-civile si traduce in un’intensa, vitalissima immersione nella natura, senza la consunta retorica di tradizione bucolica.

 

Giorgio Baffo

 

Nacque a Venezia nel 1696, da Giannandrea e da Chiara Querini; la famiglia era patrizia, ma economicamente ormai dissestata. Dopo aver trascorsa la giovinezza non brillante tra noiosi precettori ed aridi studi scolastici venne ammesso diciottenne al Gran Consiglio, abbracciò una monotona e tranquilla carriera di pubblico funzionario, sulla linea di una normalità di vita che singolarmente contrasta con l’intemperanza e la sconcezza dell’opera (ma una tradizione abbastanza accreditata non ignora, di questa vita così ligia e ovvia, anche un risentito versante “notturno”). Morì nel 1768, quando era stato chiamato a far parte di un’importante carica della Giustizia veneta, la Quarantìa criminale. Diffusi da prima sparsamente, se non proprio clandestinamente in Venezia, i versi di Baffo apparivano postumi in una prima edizione, parziale, nel 1771, quindi nel 1789, in quattro tomi pubblicati probabilmente a Londra, col titolo di Raccolta Universale delle Opere di Giorgio Baffo Veneto.

Sottilmente diffusa nella cultura europea e ammirata da lettori di indubbio rilievo, ma rimasta in sostanza ai margini, se non del tutto al di fuori della nostra tradizione (se si eccettua, come per gli altri autori non in lingua, il permanere di un culto, o almeno di una memoria, regionali o municipali), la poesia del nobiluomo veneziano solo di recente è divenuta oggetto di un’effettiva riconsiderazione critica. Nella stessa audacia del linguaggio e delle invenzioni, nell’insistere ossessivo sui temi dell’eros, si inclina oggi ad avvertire la voce di una coscienza che dalla crisi, inquietamente vissuta, della cultura illuministica e di un mondo, come quello veneziano del tempo, ormai prossimo alla dissoluzione delle sue strutture secolari, cerca scampo in una solitaria, delusiva, disperata esperienza della natura.

La critica, anche quella del Novecento, ha sempre liquidato per lo più il Baffo come un poeta licenzioso e pornografico, un «meraviglioso cantore della mona», come lo definì Guido Almansi[14]. E per quanto vi sia stato chi ha tentato di leggere gli scritti del Baffo alla luce di una più complessa problematica storica e sociale, nulla si può riconoscere a questo poeta dialettale «di autentica testimonianza storica, o pur solo di costume, nella sua oscena idealizzazione di Venezia “città di piaceri”, uno dei primi documenti di quella superficiale mitizzazione della Serenissima settecentesca che preludeva alla mistificazione retorica d’un’intera civiltà. Lo stesso dialetto perde la sua ricchezza e la sua spontanea inventività nella immutabile oscenità delle rime e delle parole obbligate, e diventa puro formulario. Gli va solo riconosciuto un ingegno notevole di verseggiatore dialettale; artefice coscienzioso, confessava la sua paradossale cura e preoccupazione per cesellare le sue poesie e rinnovare continuamente il repertorio (“Me lambico el cervelo zorno e note / Per far soneti grassi e butirosi, / Per divertir le done e i so’ morosi”), e in talune occasioni egli seppe anche dare alla propria penna la felicità inventiva del poeta autentico, come in una canzone “Per una proposta di matrimonio” o in altra “Per el primo dì de quaresima”. Eccezioni, e pur esse parziali per la ricorrente trivialità del linguaggio, in un panorama morbosamente uniforme»[15].

 

Giovanni Meli

 

Nacque nel 1740 da Antonio, di professione orefice, e da Vincenza Torriquas. Coltivò interessi filosofici (orientati in senso enciclopedico) e letterari, perseguiti accanto allo studio della medicina e della botanica. Quella di medico del resto fu poi a lungo la sua professione effettiva, sino al 1787, quando, dopo la pubblicazione, avvenuta in parte qualche anno prima, delle Riflessioni sul meccanismo della natura, ottenne la cattedra di chimica nell’Accademia di studi di Palermo.

Il suo esordio poetico, avvenne a soli quindici anni con versi d’occasione, che vennero talmente apprezzati nella ristretta ed esigente cerchia dei letterati palermitani da farlo nominare socio dell’Accademia del Buon Gusto. Il tempo favorevole alla poesia in dialetto, ma anche la sua stessa creatività, indussero il Meli a comporre La Fata Galanti (1762), un poemetto bernesco, non privo di echi virgiliani e ariosteschi, che ebbe grande successo e gli diede la celebrità.

Nel 1767 si trasferì nel paesino di Cinisi, per esercitarvi la professione di medico, e vi restò per cinque anni. Furono anni di feconda meditazione sulle idee umanitarie correnti e di intensa attività poetica. Compose dapprima il poemetto L’origini di lu munnu, rassegna bernesca delle antiche e nuove teorie cosmogoniche, quasi tutte le Elegii e la famosa Buccolica, un poemetto pastorale, ripartito nella misura delle quattro stagioni (su una linea di gusto che variamente percorre anche la musica del Settecento: basti pensare ai primi quattro concerti de Il Cimento dell’Armonia e dell’Invenzione, più noti col titolo d’insieme appunto di Le quattro Stagioni, di Antonio Vivaldi). Ogni parte, tranne l’Inverno, è introdotta da un’egloga di tipo “dialogistico”, in cui cioè, come in Virgilio, dialogano due o più pastori, seguita a sua volta da una canzonetta..

Nel 1787 Meli curò un’edizione in diversi tomi delle sue poesie (il lavoro di oltre un ventennio), cui farà seguito nel 1814 una nuova edizione comprendente anche le Favuli murali, composte negli ultimi anni di vita. Opera notevole, nell’attestare la fedeltà dell’autore alle scelte progressive della prima giovinezza, sono le Riflessioni sullo stato presente del Regno di Sicilia intorno all’agricoltura e alla pastorizia, apparse nel 1801. Morì a Palermo nel 1815.

Nell’Avvertimento dell’editore, premesso all’edizione del 1814, si legge: «L’uomo dotto non è sempre il buon poeta, ma il buon poeta deve essere necessariamente l’uomo dotto, non potendosi arrivare ad un grado distinto nella poesia, senza non aver prima conversato a lungo co’ grandi uomini ed appreso a dovere il linguaggio de’ letterati; che val l’istesso, senza non esser prima un uomo scientifico». Sono parole dell’autore, o da lui comunque direttamente ispirate, e ben valgono a definire un carattere essenziale della sua poesia in genere, e in dialetto siciliano in particolare. Poesia che variamente aperta agli stimoli anche più sottili della cultura contemporanea, assolutamente non si presenta come poesia “popolare” (come cioè, secondo quello che sarà un mito romantico, voce genuina di un popolo), e neppure come poesia intesa a dar voce, mediante il dialetto, a una verità umile, quotidiana, dimessa o urtante (com’era in quegli anni il caso di un Tanzi e, a Catania, di Domenico Tempio) ovvero a istituire (come nel caso del Calvo) un contatto fattivo con il mondo popolare; ma come esperienza di straordinaria, e per questo riguardo senza dubbio, aristocratica raffinatezza. Per il Meli il gusto della sperimentazione stilistica si legava, secondo appunto uno dei massimi temi della cultura del tempo, al tentativo, nostalgicamente configurato, di recupero, almeno sulla pagina, di antiche, mitiche “semplicità” e vitalità, contrapposte all’opacità, alle “nebbie” del presente.

Avventura dunque di raffinata, forse solitaria aristocraticità, benissimo verificabile del resto sul piano stesso della lingua meliana, che è, come è stato notato, per gran parte il siciliano letterario, cioè il dialetto a sfondo palermitano, stilizzato e avvicinato all’italiano (e in parte anche al latino), da cui accoglie, con un adattamento spesso solo parziale alla struttura fonetica del dialetto, il frasario aulico caro alla poesia italiana contemporanea, molti modi della grafia, etimologizzante e italianizzante, e talvolta anche forme grammaticali e costrutti sintattici.

 

***NOTE AL TESTO***

 

[1] Domenico Luigi Batacchi (Pisa, 1748 – Orbetello, 1802) nacque in una nobile famiglia decaduta e non poté seguire un regolare corso di studi. Quindi da autodidatta studiò la letteratura italiana e straniera, raggiungendo una non comune conoscenza della letteratura francese e inglese. Per vivere si adattò a fare il gabelliere nel dazio della sua città. Nel 1793 si trasferì a Livorno (forse per migliorare le proprie condizioni economiche) ed incominciò anche una intensa attività di traduttore. Nel 1799 fu sospeso per tre anni dal lavoro con l’accusa di giacobinismo. Fu poi reintegrato nel servizio ma trasferito per punizione nella sede disagiata di Orbetello, ove dopo circa sei mesi, ammalatosi di malaria, morì. Notevole fortuna ebbero le sue Novelle galanti in sestine, sia per la vivacità dello stile, satirico e talvolta osceno, vicino a quello di Francesco Berni, sia per la fantasia allegra. Le altre sue opere che ci sono pervenute sono Il Zibaldone, costituito da dodici canti in sestine e La rete di Vulcano, dodici canti in ottave, due poemi anticlericali e antimitologici, caratterizzati da un gusto tanto capriccioso quanto popolaresco. Durante il periodo del Romanticismo, i suoi scritti raggiunsero l’apice di diffusione e apprezzamento.

[2] Domenico Tempio (Catania, 1750 – Catania, 1821) è considerato, insieme a Giovanni Meli, il maggiore poeta siciliano del suo tempo. Non si può dire che avesse perfetta conoscenza dell’italiano, visto che le prove che egli ci ha lasciato di rime e di drammi metastasiani in lingua si muovono tra impacci e sciatterie. Il suo genio di poeta plebeo e spregiudicato lo portava verso il dialetto, del quale si servì per quasi tutte le sue opere; dialetto alquanto ripulito, secondo un ideale linguistico regionale. Fu conosciuto e apprezzato dai contemporanei, ma fu presto dimenticato, censurato e bollato per tutto il XIX secolo come poeta pornografico. E comunque, al di là di qualsiasi oscenità, Tempio ci ha lasciato momenti di genuina poesia, ad esempio quando loda, dietro il modello del Meli, la semplicità della vita campestre, la solitudine e la bellezza delle campagne etnee. Ma occorre anche aggiungere che la stessa materia equivoca non è presentata nella sua sconcezza volgare e disgustosa, ma è per così dire adornata da immagini e colori belli per sé stessi e che fanno dimenticare gli argomenti, i quali talora non sono che pretesti per gli arabeschi, per le trovate strane e argute, per gli sviluppi poetici che arricchiscono la materia dei suoi numerosi poemetti.

[3] Domenico Balestrieri (Milano, 1714 – Milano, 1780) compì il corso di filosofia alle scuole di Brera; poi, per secondare i desideri paterni, studiò legge presso il Collegio Calchi e da adulto svolse la professione del cancelliere all’annona presso il magistrato straordinario del Ducato di Milano. Col conte Imbonati e il poeta Carl’Antonio Tanzi fu tra i restauratori dell’Accademia dei Trasformati (1743-1768). Dopo diciassette anni di lavoro, nel 1772 diede alle stampe la traduzione in dialetto milanese de La Gerusalemme liberata, che fu salutata da tutti (tra gli altri dal Baretti) con entusiasmo. Il ruolo di traduttore gli si confaceva tanto da affrontare, su invito del Parini, anche i testi lirici di Anacreonte. Nelle cose più sue, invece, la felicità dell’ingegno e l’elegante disinvoltura del verso scadono spesso a facile variazione su tema obbligato, ad una eloquenza che tiene più della dilettazione, dell’esercizio stilistico, che del dono di una poesia anche minore.

[4] Anton Maria Lamberti (Venezia, 1757 – Belluno, 1832) fu Console dei Cavalieri di Malta a Venezia, poi, con la fine della Repubblica, si ritirò a Belluno con un modesto impiego. Scrisse numerose poesie in dialetto veneziano, tra le quali spiccano le orecchiabili e maliziose canzonette. Di queste, particolarmente celebre è La biondina in gondoleta (1788), che fu musicata da Johann Simon Mayr. Scrisse anche varie malinconiche composizioni di gusto arcadico, che si adattano bene al tramonto di Venezia.

[5] Cristina Augusta di Svezia, o Cristina Alessandra dopo la conversione al cattolicesimo (Stoccolma, 1626 – Roma, 1689), era figlia di re Gustavo II Adolfo di Svezia e della regina Maria Eleonora del Brandeburgo. Succedette sul trono di Svezia all’età di sei anni, dopo la prematura scomparsa del genitore nella battaglia di  Lützen, durante la guerra dei trent’anni. Educata dal potente alto cancelliere Axel Oxenstierna e figlia di uno dei massimi difensori del protestantesimo, suscitò grande scandalo quando nel 1654, nel pieno di una profondissima crisi religiosa, si convertì al cattolicesimo e abdicò in favore del cugino Carlo Gustavo che divenne re Carlo X. Temendo le reazioni e le vendette dei protestanti, lasciò subito la Svezia per trascorrere il resto della sua esistenza in vari Paesi d’Europa, stabilendosi poi definitivamente a Roma, dove si occupò di opere caritatevoli, di arte, musica e teatro in un movimento culturale che, dopo la sua morte, portò alla fondazione dell’Accademia dell’Arcadia. Personalità complessa e anticonformista, educata in modo virile come un principe e non come una principessa, Cristina era dotata di viva intelligenza e di solida cultura umanistica e filosofica, a cui si dedicò particolarmente dopo la pace di Westfalia, che nel 1648 pose fine alla lunga guerra dei trent’anni. Durante gli anni del suo regno si prodigò per far divenire Stoccolma l’Atene del nord.

[6] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 371.

[7] Filippo Aldrovandi (Bologna, 1660 – Bologna, 1748) nacque dal conte Ercole, di famiglia patrizia bolognese, e da Maria Giulia Albergati. La prima parte della sua esistenza fu strettamente legata a quella dello zio Raniero Marescotti, anch’egli nobile bolognese, che, oltre ad accollarsi la sua tutela e la sua educazione, lo portò spesso con sé nei suoi frequenti spostamenti per l’Italia. Tornato a Bologna dopo la morte dello zio vi resterà fino al 1700 quando ripartirà alla volta di Roma per iniziare il suo incarico d’ambasciatore bolognese nella capitale pontificia, incarico che mantenne fino al 1715. Nel 1724 tornò a ricoprire l’incarico d’ambasciatore bolognese a Roma che si concluse nel 1731. Per otto volte ricoprì la carica di gonfaloniere di giustizia, l’ultima nel 1747, un anno prima della morte.

[8] Alessandro Marchetti (Pontorme, 1633 – Pontorme, 1714), professore di Filosofia naturale poi di Matematica all’Università di Pisa, fu anche poeta e scrisse alcune rime religiose, morali ed eroiche. La sua traduzione italiana del De rerum natura (Della natura delle cose) influì notevolmente sul gusto arcadico per la purezza della lingua e l’eleganza dello stile.

[9] Georg Friedrich Händel (Halle, 1685 – Londra, 1759) fu un compositore tedesco della tarda epoca barocca, che trascorse la maggior parte della sua carriera a Londra, dove si era stabilito nel 1712. Diventò un cittadino naturalizzato britannico nel 1727. Fu fortemente influenzato sia dai grandi compositori del barocco italiano sia dalla tradizione corale polifonica medio tedesca. Nel giro di quindici anni, Händel avviò tre compagnie d’opera commerciali per provvedere alla richiesta di opere italiane alla nobiltà inglese.

[10] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 373-374.

[11] Marcazzan Mario, PASSERONI, Gian Carlo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1935.

[12] Marcazzan Mario, ibidem.

[13] Onofrio Branda (Milano, 1719 – Milano, 1766) studiò grammatica e umanità nelle scuole di S. Alessandro dirette dai barnabiti, nel cui Ordine entrò, dopo un breve noviziato a Monza. Seguitò i suoi studi di retorica, filosofia e teologia a Milano e a Pavia. Insegnò retorica a Livorno e quindi a Milano, fino al termine della vita. È noto per una vasta polemica cui diede luogo col suo dialogo Della lingua toscana (1759), nel quale esaltava il toscano contro gli altri dialetti, tra cui il milanese. Le prime censure gli vennero dal Parini, già suo scolaro.

[14] Guido Almansi (Milano, 1931 – Mendrisio, 2001), anglista, scrittore e traduttore italiano naturalizzato britannico, insegnò nelle Università di Glasgow, Canterbury e Dublino. Fu critico letterario del quotidiano la Repubblica (dal 1976) e recensore teatrale di Panorama (dal 1986). Il suo primo saggio fu L’estetica dell’osceno. Per una lettura carnalista, pubblicato dall’Einaudi nel 1974.

[15] Torcellan Gian Franco, BAFFO, Giorgio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 5, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1963.


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