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Marco M. G. Michelini | 6 Febbraio 2025

Linea Biografica

 

Nacque nel 1712 a Brescia, che faceva allora parte della Repubblica di Venezia. A parte i suoi scritti, dove le notizie sulla sua vita sono alquanto allusive e vaghe, non si hanno notizie certe sulla prima fase della sua esistenza. Quasi sicuramente era il figlio primogenito di una famiglia di modeste condizioni economiche e di tradizioni militari. La madre morì dando alla luce il secondo figlio e Pietro, per qualche tempo dovette seguire il padre, colonnello dell’esercito veneziano, nei suoi spostamenti.

 Ben presto, però, il giovane si rese conto di non avere alcuna attitudine per la vita militare, per cui iniziò i suoi studi presso i Gesuiti (forse nel convento di Modena), mostrando una particolare predisposizione per la letteratura, la storia e la filosofia, e coltivando – come molti altri studiosi del tempo – l’ambizione di acquisire una elevata cultura enciclopedica. Insofferente – però – della disciplina, abbandonò l’ordine (nel quale, non si sa quando, era tuttavia entrato), mantenendo in ogni caso lo stato di abate che gli procurava ampi privilegi.

Le sue iniziali esperienze, così come le sue prime prove letterarie, si svolsero (fra il 1736 e il 1737) a Modena, dove nel collegio dei Gesuiti di S. Bartolomeo fu professore di eloquenza. Nello stesso periodo compose anche numerose poesie, in latino e in volgare: di stampo catulliano le prime, chiaramente frugoniane le altre.

Mondano e galante, come ogni libero abate del tempo che si rispetti, il Chiari non disdegnava ovviamente le “attenzioni” del gentil sesso e non restò quindi indenne dalle afflizioni amorose. Dopo l’insegnamento a Modena, ebbe periodici soggiorni a Imola, Parma e Bologna, dai quali trasse l’ispirazione per tutta una serie di componimenti “amorosi”, come quelli dedicati alla sprezzante Mirtinda o alla Crimatea “dagli occhi belli”.

Con la morte del padre dovette fare rientro a Brescia per un breve periodo, ma nel 1744 divenne segretario del cardinale Federico marcello Lante Della Rovere[1], al seguito del quale viaggiò a lungo per l’Italia. Con il cardinale fu anche a Napoli e a Roma, dove all’accademia dell’Arcadia recitò una sua composizione di stampo dantesco. Successivamente, stanco di viaggiare, alla fine del 1746 o all’inizio del 1747, grazie all’aiuto della famiglia Grimani, prese dimora stabile a Venezia, inserendosi – sempre con il favore dei Grimani – nell’ambiente dei letterati e nei salotti patrizi.

Come libero scrittore, a Venezia – città particolarmente favorevole per molti aspetti, fra cui l’attiva industria editoriale nonché per essere uno dei maggiori centri del cosmopolitismo culturale – Chiari trascorse, a parte un nuovo soggiorno modenese come poeta di Corte, parecchi anni, fervidamente impegnati nelle sue molteplici attività di letterato. Cominciò con diversi componimenti d’occasione, ma non mancano fra questi le poesie “amorose” dedicati alla bella Eurilla. Si volse poi alla moda delle Lettere ed iniziò anche – sempre grazie ai Grimani – quell’attività di commediografo che gli darà la fama maggiore anche fuori da Venezia.

Nel 1752, in seguito ad un dissenso con la compagnia teatrale, decise di buttarsi nel campo del romanzo, dal quale – ritenendosi particolarmente versato – si riprometteva di ottenere maggiori soddisfazioni. Così nel 1753 pubblicò La filosofessa italiana, il suo primo romanzo, che ebbe tanto successo che non smise più di produrne (ne scrisse anche due all’anno), assieme ad altre opere letterarie e teatrali di vario genere.

Nel 1761, anno in cui si riconciliò anche con il Goldoni dopo le polemiche sopra il teatro cui abbiamo già accennato, subentrò a Gasparo Gozzi nella compilazione della Gazzetta veneta, e di questo famoso periodico il Chiari fu redattore per centodue numeri, cioè fino al 1762, anno in cui – contemporaneamente al Goldoni – lasciò per sempre Venezia e si ritirò a Brescia. Nella città natale visse per oltre un ventennio i operosa solitudine: morì nel 1785 e fu sepolto nella chiesa dei SS. Nazaro e Celso.

 

Il pensiero e le opere

 

Autore assai fortunato, e ancora per gran parte da studiare, di vari scritti, si diceva, di divulgazione e anche di meditazione filosofica (L’Uomo. Lettere Filosofiche, La filosofia per tutti. Lettere scientifiche, I privilegi dell’ignoranza. Lettere di un Americano ad un Europeo, Il secolo corrente. Dialoghi di una dama col suo cavaliere) e di testi teatrali (in prevalenza commedie, come quelle, abbastanza note, sul mondo stesso del teatro: La ballerina onorata, La cantatrice per disgrazia, La commediante in fortuna; ma anche drammi giocosi per musica, come Le contadine furlane, e tragedie, come Il Catilina), Chiari raggiungese i risultati più notevoli soprattutto nell’intensissima attività di romanziere. E proprio in questa intensissima attività di romanziere – circa quaranta romanzi (ma oggi ne vengono a lui attribuiti in modo certo solo ventitré) scritti prevalentemente nel torno di tempo che va dagli anni cinquanta agli anni sessanta – il Chiari riesce a raggiungere i risultati più notevoli, soprattutto in virtù della sua ampia conoscenza della contemporanea narrativa inglese e francese e della pratica di traduttore che gli consentivano di realizzare un tipo di opera in cui la struttura di base, ovvia e ricorrente, si apre con varie accentuazioni ad una larga assunzione della verità anche più comune dell’esistenza, o alla provocazione e al dibattito ideologico politico.

Tutto questo, assieme al progressismo di fondo, alla moralità permissiva e all’impiego di una lingua abbastanza vicina al parlato medio di una certa società italiana del tempo in grado di leggere e di esprimersi non solo in dialetto, conferma come Pietro Chiari sia il maggiore portavoce in Italia, e più esattamente presso una certa borghesia italiana, di una ben definita corrente della cultura borghese europea. Diventa dunque assai indicativa l’irritazione del Baretti che nella Frusta sconsiglia ad una fanciulla «nobile di mente come di schiatta» la lettura dei libri dell’abate bresciano, invitandola a lasciare che «i nostri servitori in livrea, e che le più plebee nostre donnicciuole si godano i romanzi dell’abate Chiari che pel volgo più spregevole li ha scritti».

Ma se si guarda, ad esempio, a L’uomo d’un altro mondo, o sia memorie d’un solitario senza nome scritte da lui medesimo in due linguaggi Cinese, e Russiano, e pubblicate nella nostra lingua (1768), che narra la storia di un giovane vissuto sino a sedici anni in un’isola deserta del Pacifico, con la sola compagnia di un vecchio “maestro”, morto il quale egli compie (con la moglie europea Cattj, più tardi smarrita e infine felicemente ritrovata) un lungo viaggio attraverso la Cina e il mondo occidentale – viaggio che viene interrotto per il fastidio che il «selvaggio» avverte sempre più per la società civile e le sue imposture, fino alla scelta di ritornare all’isola per costituirvi, insieme con pochi amici, una colonia fondata sull’amore reciproco, l’uguaglianza dei beni e il lavoro di tutti – ci si rende conto come con questo romanzo lo scrittore bresciano ci si presenta perfettamente in linea con uno dei temi centrali della cultura europea del tempo: il tema‑mito di Otaiti, della fuga in un mondo appartato e alternativo, a mezzo, qui si direbbe, fra le implicazioni etico‑politiche, proprie del motivo specialmente nel primo Settecento, e le suggestioni edonistiche ed esotistiche, che il motivo viene assumendo fra la seconda metà del secolo e il primo Ottocento.

Per ciò che riguarda il teatro del Chiari, pesa senza dubbio su di esso la “rivalità” (ma anche la già accennata polemica) con il Goldoni. Delle sue commedie il Binni scrive che «sono ora frettolose riduzioni e rifacimenti di fortunati romanzi stranieri, ora commedie in versi martelliani scritte in gara col Goldoni su temi esotici ora tragicommedie fitte di effetti spettacolari, ora, infine, commedie lacrimose, che egli abilmente insaporiva di spunti sociali»[2]. Giudizio sostanzialmente vero anche se si dovrebbe riconoscere al Chiari il merito, per nulla trascurabile, di aver saputo individuare con certezza il gusto degli spettatori e dei lettori. Per quanto riguarda, invece, l’aver scritto in gara con il Goldoni, va notato che «il fatto di lavorare per il Sant’angelo mentre il suo rivale operava presso il San Luca, di iniziare la sua attività quando quella del Goldoni era già avviata gli permise di farsi interprete degli umori insoddisfatti di una parte del pubblico e di mettere a punto un’idea di teatro fondata sul principio della contrapposizione. Era una strada del tutto empirica, ma la risposta colpo su colpo era la tecnica giusta anche dal punto di vista delle società proprietarie dei teatri. In questo modo sulle scene si innescava una gara che incuriosiva, che chiamava la gente agli spettacoli e la sollecitava a discutere, a polemizzare, a schierarsi»[3].

Questa “visione” del teatro comportava però una sostanziale trasformazione dello scrittore che doveva farsi, secondo il volere degli impresari e degli editori, un professionista in grado di produrre testi che fossero di facile consumo. Di qui l’accusa dei suoi contemporanei d’essere soltanto un “pennaiolo”, un plagiario, insomma La scimia col fagotto[4]. E comunque, per quanto il debutto del Chiari sulla scena con L’avventuriere alla moda si rivelasse un sostanziale insuccesso, la polemica divampò ugualmente, forse a causa del divulgarsi in città di un sonetto satirico attribuito al Goldoni. E così alla goldoniana rappresentazione de La vedova scaltra, ripresa con successo, il Chiari rispose con una indegna parodia che chiamò, in stile molieresco, La scuola delle vedove. La contesa sollevò un gran chiasso, tanto da determinare l’intervento della magistratura, che proibì il lavoro del Chiari, imponendo praticamente la censura teatrale. Questo, naturalmente non smorzò la polemica, anzi la fomentò: alla Pamela del Goldoni Chiari contrappose una Pamela maritata, al Molière un Molière marito geloso, e così via.

Ovviamente la scelta di questa contrapposizione, più commerciale che non di reali contenuti, portò il Chiari ad assecondare principalmente il gusto del pubblico e a sottovalutare la funzione pedagogica del teatro, invece di favorirla. «Alla scelta realistico‑borghese compiuta dal Goldoni in sintonia con le esigenze espresse altrove in Europa da un Diderot e da un Lessing, Pietro Chiari contrappose un teatro d’evasione, ricorrendo a piene mani ai “coup de théatre”, alle agnizioni, alle trame romanzesche, a tutto l’armamentario scenico. Di contro alla poetica teatro‑mondo, sostenuta dalla ricerca di uno “stile familiare, naturale e facile” […], il Chiari dilatò tanto i due termini di riferimento del Goldoni da proiettarli in un’ambigua atemporalità, sospesi tra presente e passato, tra un tempo favoloso e il mondo nuovo»[5].

Comunque sia il Chiari ebbe grande fama (e non soltanto a Venezia), poiché per molti la sua superiorità rispetto al Goldoni consisteva nel fatto che egli sembrava – e forse lo era – più colto ed erudito del suo avversario. È anche curioso rilevare che le donne nella maggioranza parteggiavano per l’abate bresciano, il quale invero nelle sue opere, romanzi e commedie, aveva saputo accortamente sollecitarne il favore.

Il Chiari espose le proprie riflessioni sul teatro (in forma contraddittoria e confusa, come i suoi critici ebbero modo di far rilevare) nella Dissertazione storica e critica sopra il teatro antico e moderno, che fece precedere al primo volume delle sue Commedie in versi, che pubblicò a Venezia nel 1756. In sintesi egli affermava che: i teatri erano stati creati per essere utili alla società; le opere teatrali dovevano avere come fine non il divertimento, ma “la riforma dei costumi”; le norme degli antichi erano apprezzabili, ma ciò che contava maggiormente era il consenso del popolo; le unità aristoteliche andavano comunque rispettate per poter “rendere universale il carattere d’una buona commedia”; le opere teatrali dovevano essere scritte in versi e il martelliano era il verso più adatto per la commedia; lo stile doveva essere facile e piano, mai triviale. Sulle maschere nella Dissertazione non veniva detto nulla, ma il pensiero del Chiari era che esse non andassero eliminate (come invece pensava Goldoni) ma “regolate” e “vincolate” al testo come gli altri personaggi. Tuttavia, successivamente, esse vennero piano piano relegate in ruoli del tutto marginali e secondari.

Come s’è già avuto modo di dire, la polemica tra Chiari e Goldoni si affievolì fino a scomparire del tutto, prima della partenza di entrambi da Venezia, a fronte degli attacchi che dovettero subire dal Gozzi, quasi a significare che tra i due litiganti il terzo gode.

***NOTE AL TESTO***

[1] Federico Marcello Lante Montefeltro della Rovere (Roma, 18 aprile 1695 – Roma, 3 marzo 1773) nacque da da Antonio, secondo duca di Bomarzo, e da Louise-Angélique de La Trémoille. Papa Benedetto XIV lo elevò al rango di cardinale nel concistoro del 9 settembre 1743. Protettore d’Inghilterra e dei due ordini carmelitani, si dilettò di poesia e di musica.

[2] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – II. Dal Settecento al Novecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 50.

[3] Turchi Roberta, Il teatro del secondo settecento, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, VII, Il secolo riformatore. Poesia e ragione nel Settecento, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 626.

[4] Secondo la definizione di Giuseppe Antonio Costantini (1692-1772) che si riferiva alle Lettere scelte di varie materie piacevoli, critiche ed erudite, scritte ad una dama di qualità, che il Chiari aveva scritto muovendosi sulla falsariga appunto del Costantini, e a seguito del successo che questi aveva ottenuto con le sue Lettere critiche.

[5] Turchi Roberta, ibidem.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SETTECENTO»

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