Zoom
Cerca
Marco M. G. Michelini | 25 Febbraio 2025

Un discorso davvero nuovo, non puramente elencatorio, sulla prosa del Settecento, e in particolare sul romanzo, si potrà fare soltanto quando sarà stato compiuto un vario insieme di indagini sulle traduzioni, i traduttori (dal francese, per gran parte), l’attività dei molti stampatori e librai, gli ambienti di diffusione di certi libri e così via. Ciò soprattutto in quanto il romanzo, assai più che altre forme di scrittura, sempre più tende allora, forse anche per la sua più diretta fruibilità, a imporsi come testo eminentemente socializzato. Sembra insomma in prevalenza contare, per il romanzo settecentesco, non tanto, o non più solo, la sua composizione come circostanza privata di un autore con i problemi specifici che vi si connettono (di rispondenza esistenziale, di tecnica operativa ecc.), quanto il fatto di risultare il prodotto e insieme il portatore – oggetto di un’attività già a suo modo industriale – di ampie correnti di sensibilità, di gusto, di pensiero, in cui si esprimono e si riflettono le tensioni, i conflitti, i miti di una società impegnata in un rapido movimento di trasformazione..

Di qui, si può pensare, la parte toccata a scrittori attivissimi e non certo, neppure culturalmente, sprovveduti, come Antonio Piazza[1] o Pietro Chiari, la cui fama, strettamente legata al loro impegno di divulgazione di testi stranieri e di rielaborazione, in proprio, di storie, situazioni, figure in vario modo rispondenti alle esigenze di un certo pubblico di lettori, non poteva, col venir meno o col mutare di quest’ultimo, non declinare senza rimedio. Qualcosa di simile, in certo senso, alla situazione del cinema oggi, in cui, senza che manchino in assoluto gli autori di accentuata personalità creativa (anche questi comunque con un loro pubblico), prevale un tipo di vicenda analogo per molti versi a quello cui si è accennato ed è rapidissimo il succedersi non solo dei temi e dei miti, ma pure della notorietà e del prestigio, quando non sia ridotto a cosa da museo, di quanti ne hanno forse più mediato che veramente imposto la diffusione.

Un esempio notevole di questo tipo di narrativa lo offrono le pagine di Pietro Chiari. Quelle invece di Alessandro Verri possono essere indicative di una diversa linea accettabile, sia pure ai margini, nel romanzo settecentesco, o meglio, in questo caso, tardo‑settecentesco. Una linea per cui l’autore tende ad assumere certe convenzioni narrative e a forzarle immettendovi, con vario successo, ragioni accentuatamente private, a farne insomma il pretesto e lo strumento di un discorso da verificarsi nella complessa esperienza esistenziale e intellettuale di chi lo svolge. È questo il caso, anche, di un testo come l’Abaritte di Ippolito Pindemonte o come l’ancor meno noto Boezio in carcere di Benvenuto Robbio di San Raffaele[2]. A mezzo, questi e altri consimili «romanzi», fra la pronuncia solitaria e la destinazione, non comunque primaria o essenziale, ad un pubblico di rari e sofisticati estimatori, quest’ultimo si dovrà in prevalenza ricercare in certo mondo aristocratico pensosamente incline all’introversione e sempre più preoccupato, siamo ormai infatti fra gli anni ottanta e novanta, degli sviluppi della situazione politica contemporanea.

Non diverso è probabilmente l’ambiente di risonanza entro cui situare un testo come le pindemontiane Prose campestri. Pagine, queste, di squisita, rarefatta eleganza, in cui si celebrano non solo le dubbie delizie di un singolare umanesimo estenuato e solipsistico, ma soprattutto, appunto, gli inquieti erramenti di una solitudine aristocratica preoccupata di sottrarsi a una società riconosciuta per più aspetti come inaccettabile. Aperto, come ci appare, ad un immaginare liberissimo ma affidato al tempo stesso ai più vari suggerimenti della memoria, il libretto di Pindemonte appartiene per altro, in una mappa che si voglia disegnare della prosa settecentesca, a una zona intermedia fra la prosa di pura invenzione (com’è per gran parte quella del romanzo) e la memorialistica, intesa questa come un tipo di narrativa fondata pregiudizialmente sulla «verità» delle vicende che vi si fanno materia e occasione di racconto.

Conviene qui ricordare come la letteratura del Settecento sia straordinariamente ricca di quest’ultimo tipo. Solo si pensi ad alcuni fra gli scritti autobiografici più illustri: di un Vico, un Giannone, un Goldoni, un Alfieri – ognuno con le sue ragioni e la sua funzionalità specifica. E per quanto queste autobiografie possano apparirci come una sorta di letteratura “minore”, di certo non sono per questo meno significative: nelle pagine di Carlo Gozzi, che – come abbiamo già detto – è sicuramente uno fra gli esponenti più interessanti della cultura aristocratica del secondo Settecento, il racconto di una spiacevole esperienza giovanile si fa, tra le righe, discorso più generale, assai penetrante, sul declino di tutto un mondo.

Abbastanza legata infine, per ovvi motivi, a quella di “memoria” è la prosa (per così dire) di “viaggio”, cioè la narrazione (o il resoconto) dei viaggi che compie lo scrittore. Nella misura tuttavia in cui in quest’ultima è più ridotta quella che potremmo chiamare la partecipazione emotiva e l’invenzione dell’autore (com’è il caso di un Bertòla) e prevale invece l’intento di proporre l’osservazione di una certa realtà etnica, politico-civile ecc. (Algarotti, Fortis, Angiolini), è evidente la sua dimensione sostanzialmente e sottilmente saggistica: si diceva, appunto, laddove abbiamo parlato della saggistica, come tale dimensione risulti propria, benché spesso in modi non espliciti, di tanta parte della letteratura del secolo. Verificabile, comunque la si voglia considerare, per tutto il Settecento – dal Baretti al Denina[3] delle Lettere brandeburghesi o al Casti della Relazione di un viaggio a Costantinopoli – e diffusamente accertabile, al di là dei veri e propri libri, in gran parte dei carteggi del tempo, la prosa di viaggio si offre a segno di una fra le tensioni più significative della nostra cultura settecentesca: la curiosità e l’apertura nei confronti dell’Europa, ma anche la ricerca di spazi diversi entro cui sperimen­tare nuove ipotesi di esistenza.

 

 Alessandro Verri

 

Nacque a Milano nel 1741 dal conte Gabriele e da Barbara Dati della Somaglia, ed era quindi fratello minore di Pietro, dal quale lo separavano ben tredici anni. Studiò al collegio di Merate e alle scuole Arcimbolde di Milano prima di conseguire la laurea in giurisprudenza a Pavia nel 1760. Esperienze centrali della sua iniziale formazione letteraria sono la partecipazione all’Accademia dei Pugni e alla conseguente redazione de Il Caffè, su cui pubblicò numerosi saggi brevi su temi storici, giuridici, morali, filosofici e letterari. Celebre, in questo ambito, l’animosa Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca, espressione e manifesto assai limpido delle esigenze radicalmente innovative anche sul piano linguistico dell’aggressivo gruppo lombardo. Di questi anni è anche una notevole Storia d’Italia, scritta con l’occhio rivolto ai modelli più prestigiosi della storiografia contemporanea, ma lasciata poi inedita, per ragioni di opportunità pratica e soprattutto per un sopraggiunto nuovo modo di sentire e di pensare.

Nell’autunno del 1766 Alessandro accompagnò a Parigi l’amico Cesare Beccaria; ma venutogli a noia ben presto l’ambiente dei salotti intellettuali di questa città, proseguì da solo il viaggio per Londra. Di qui scrisse alcune lettere memorabili, poi raccolte nell’amplissimo Carteggio (di Pietro e di Alessandro Verri); conobbe, pur nella brevità del soggiorno, uomini di cultura e scrittori importanti e trovò modo, più in generale, di confermarsi in quell’adesione di fondo alla cultura inglese (da lui poi spesso contrapposta alla francese, o meglio all’illuminismo francese, che sempre più gli apparirà frivolo, incauto, superficiale), che finì col costituire uno dei tratti salienti della sua maturità.

All’inizio del 1767 ritornò in Italia e si stabilì a Roma. Questa sua scelta fu sicuramente influenzata dal fatto che la Roma pontificia veniva allora assumendo un ruolo di preminenza nella cultura del neoclassicismo e dell’ellenismo europei, ma anche dalla speranza di potervi condurre l’esistenza raffinata e appartata, sgombra di ogni impegno politico‑civile, che sempre più egli veniva vagheggiando.

A Roma nacque il suo interesse per il teatro e – per diletto – divenne attore e scenografo. Fu anche uno dei primi traduttori italiani di Shakespeare con Amleto (1768) e Otello (1777). Scrisse inoltre alcune mediocri tragedie, Pantea, La congiura di Milano, Arria (andata perduta), La morte di Giovanni Doria e Galeazzo Maria Sforza, delle quali le prime due furono pubblicate insieme nel 1779 con il titolo di Tentativi drammatici.  Nel 1782 pubblicò il romanzo Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene e successivamente quello che gli dette maggiore fama, cioè Notti romane al sepolcro degli Scipioni, uscito in due parti, nel 1782 e nel 1804. Tra gli altri suoi scritti vanno ricordati una traduzione di Dafni e Cloe di Longo Sofista[4] (1812), il romanzo Vita di Erostrato (1815), le Vicende memorabili de’ suoi tempi dal 1789 al 1801 (pubblicate postume nel 1858) e il già citato Carteggio.

Alessandro Verri morì a Roma nel 1816 e fu sepolto nella basilica di S. Carlo al Corso.

Il romanzo Le Avventure di Saffo si presenta come storia ambientata nell’antica Grecia, e riproposta di un mondo che certa cultura ellenizzante del maturo Settecento veniva proprio allora ricostruendo e mitizzando in termini di perfezione inarrivabile di vita e di forme; il lavoro del Verri si inseriva quindi a notevole livello e tempestivamente in una linea ben precisa del gusto e della narrativa europea di quegli anni. Per un altro verso, invece, come trasposizione nell’immaginario di una problematica esistenziale e intellettuale, il romanzo mostra l’ormai irrimediabile ripiegamento dell’autore, che già nel 1767 aveva definito le discussioni degli enciclopedisti «un mare di parole e di sragionamenti», verso una presa di distanza dai lumi intesi come strumento di formazione dell’opinione pubblica e del cittadino costituito giudice dell’azione politica.

Quanto al nucleo problematico che vi si dibatte, in modo ora implicito ora esplicito, lo si potrà individuare nelle varie componenti di una crisi che investiva non solo Alessandro Verri ma, almeno a giudicare dal successo del romanzo in certi ambienti, una zona abbastanza ampia della cultura aristocratica del tempo: stanchezza di ogni impegno politico‑civile; diffidenza nei confronti di forze, come il mondo popolare, su cui l’illuminismo più radicale sempre più invece veniva puntando; desiderio di ritiro e di pace, nella prospettiva per altro di una sensibilità inquieta, aperta alle suggestioni dell’irrazionale; impulso ad evadere, ad esempio appunto negli spazi fittizi, immaginari di un’Ellade ridente, deliziosamente serena.

L’avvio della storia, che Verri finge scritta in origine da un anonimo autore greco, è dato dalla partecipazione di Faone, giovane mercante di Lesbo reso da Venere bellissimo, a una gara di lotta durante la festa di Mitilene. Saffo, giovinetta non bella ma sensibilissima, vi assiste e ne rimane affascinata. Ha inizio il suo lungo delirio amoroso, acuito dal fatto che Faone ama a sua volta la bella Cleonice. Si saprà poi che tutto ciò è il frutto della vendetta di Venere, sdegnata con Saffo per avere questa, un tempo, lasciato libere due colombe riservate al sacrificio. Partito quindi Faone per la Sicilia, Saffo abbandona nottetempo la casa paterna per inse­guirlo. In Sicilia viene accolta nella casa di Eutichio, uomo raffinato e di complessa esperienza, e qui si trattiene qualche tempo, prendendo parte alle conversazioni che vi si svolgono e dando anche prova delle proprie facoltà poetiche. Finché non giunge la crudele notizia, ma non vera, della morte di Faone per naufragio. Mentre Saffo dà fondo all’estrema disperazione, il giovane si presenta, facendo rifiorire nel cuore di lei un’ultima speranza d’amore, per altro subito delusa. Saffo sceglie allora la morte nel salto dalla rupe di Leucade.

A questa sentimentalità intensa e all’eccessività dei temi (non sorprendenti del resto in un autore che aveva frequentato a lungo Rousseau e Shakespeare, e per cui si son potute agevolmente inserire le Avventure di Saffo nell’ambito del cosiddetto “preromanticismo” italiano) fa riscontro un linguaggio ben lontano da ogni immediatezza e naturalezza, inteso invece, puntigliosamente, a realizzare sulla pagina quella misura di distacco, fermezza, stabilità (entro e oltre la passione), di «nobile semplicità» e «tranquilla grandezza», che Winckelmann aveva creduto d’intravedere nell’arte greca e in genere i teorici neoclassici venivano allora teorizzando come propria del Bello. Di qui una prosa antitetica a quella, ad esempio, di un Chiari: scioltamente e talvolta sciattamente discorsiva quest’ultima, tutta invece fondata, quella di Alessandro Verri, su un lessico arcaizzante, su complicazioni sintattiche e sottili ricerche ritmiche, con risultati che possono avvicinarla alla prosa di certo arcaismo del primo Ottocento, come, per rimanere nella tradizione neoclassica, il Panegirico ad Antonio Canova di Pietro Giordani, un fervido estimatore, non a caso, del fortunato romanzo verriano.

Il tema del romanzo le Notti romane al sepolcro de’ Scipioni era stato suggerito al Verri dalla scoperta, nel 1780, del sepolcro degli Scipioni lungo la via Appia. L’opera era costituita da una serie di conversazioni, di argomento storico e morale, distinte in due parti: nella prima lo scrittore immaginava di discendere nel sepolcro degli Scipioni e di trovarsi a colloquiare con le ombre degli illustri romani; nella seconda, invece, immaginava di guidarle egli stesso al chiaro di luna attraverso le contrade romane per mettere a confronto la città antica e quella moderna. «L’intento storico‑civile dell’opera è l’esaltazione della civiltà cristiana, con il suo senso di umanità e di giustizia, contrapposta alla violenza e alla prepotenza sanguinosa dell’antica civiltà imperiale; l’atmosfera del racconto è quella fantastica e tenebrosa, paurosa e lugubre, della poesia notturna e sepolcrale, sia nei paesaggi e negli scenari densi di terrore e di solitudine, sia nelle rievocazioni di tragiche vicende e di orribili delitti; lo stile tende all’attuazione di una prosa numerosa e poetica, lontanissima tuttavia dai modi ampi e solenni della tradizione boccaccesca, fatta di periodi brevi e spezzati, ma tutti ugualmente intensi e vibranti, sollevati dall’ansia di un ritmo che li innalza al di sopra del linguaggio comune. Nel complesso è una prosa monotona, che dà quasi sempre l’impressione dello sforzo; ma rappresenta un tentativo degno di nota sulla strada che condurrà all’Ortis del Foscolo»[5].

Nella Vita di Erostrato, l’ultimo dei suoi romanzi, scritto tra il 1793 e il 1813 (ma pubblicato solo nel 1815), il Verri, fingendo di tradurre un vero testo greco, narra in modo fantasioso l’avventurosa vita di Erostrato, colui che per il solo scopo di essere in qualche modo ricordato dai posteri, incendiò il Tempio di Artemide ad Efeso. E nella smodata smania di potere che muove tutte le azioni del protagonista alcuni vollero vedervi adombrato lo smodato desiderio di gloria di Napoleone.

Ma l’opera più imperitura di Alessandro e Pietro Verri rimane quel Carteggio bisettimanale che dal 1766 proseguirà fino alla morte di Pietro (1797), con una sola interruzione di cinque anni dovuta alle liti per l’eredità paterna. Il Carteggio si configura come un vero e proprio “romanzo epistolare” e ci offre una delle più ricche testimonianze sulla storia, la cultura, la vita sociale e intellettuale del XVIII secolo. Quindi non è semplicemente uno “spazio” di comunicazione tra i due fratelli, ma uno spazio di collaborazione, di dissensi, di dissonanze, di osservazioni fatte con eccezionale vivezza sull’aria culturale respirata da Alessandro nei “salotti” milanesi prima, in Francia e in Inghilterra poi, ed infine nei “circoli” della Roma pontificia.

 

Ippolito Pindemonte

 

Nacque a Verona nel 1753, nel ramo di S. Egidio, ultimo dei tre figli del marchese Luigi, dilettante di pittura, musica ed erudizione, e di Dorotea Maffei, nipote del grande Scipione. Alla morte del padre (1765), Ippolito entrò con il fratello nel collegio dei Nobili di Modena, retto dai preti di S. Carlo, dove condusse studi in prevalenza letterari. In quel periodo iniziò a comporre i primi versi: la canzone Sacrifizio di Gefte e il sonetto Eva che specchiasi al fonte, entrambi perduti, e, nel febbraio 1769, un’egloga dialogata in latino in morte del rettore del collegio. L’anno successivo compose un’ode sul tema Niuna cosa è più atta ad inspirare coraggio nelle battaglie quanto la Poesia, mentre una sua cantata, Il genio delle Amazoni, fu inserita nella Talestri regina delle Amazoni, un’azione scenica del fratello, stampata a Modena.

Tornato a Verona insieme al fratello, nel 1775 tradusse in versi e pubblicò la Berenice di Racine, alla quale unì un’Ode sulla tragedia e due discorsi, sull’Arte tragica e sulle Maschere, andati perduti. Durante quegli anni viaggiò molto in Italia e nel 1778 pubblicò anonima a Firenze la sua prima tragedia: Ulisse. Ma il vero avvio della carriera letteraria di Pindemonte avvenne nel 1779, quando, durante la tappa romana del viaggio in Italia, fu accolto in Arcadia, assumendovi un nome significativo delle sue aspirazioni di tragediografo, Polidete Melpomenio. Conobbe anche diversi esponenti dell’ambiente intellettuale romano, tra i quali Vincenzo Monti. Giunto a Napoli, vi strinse amicizia con Aurelio de’ Giorgi Bertòla e l’ambiente massonico partenopeo, e di lì intraprese un viaggio in barca a vela in Sicilia, Malta e Grecia (una sorta di grand tour nel mondo intellettuale neoclassico del tempo). Sulla via del ritorno si fermò a Palermo dove visitò le Catacombe dei Cappuccini, rimanendo tanto profondamente colpito dalle mummie lì raccolte da trarne l’ispirazione di un suo carme, e ricordarle ancora trent’anni dopo nei suoi omonimi Sepolcri dedicati al Foscolo.

Nel 1782 videro la luce a Verona i due poemetti La Fata Morgana, ispirato al fenomeno ottico osservabile sullo stretto di Messina, e Gibilterra salvata, prima attestazione dell’anglofilia dell’autore. Nel 1783 pubblicò a Milano una Dissertazione sul gusto delle belle lettere in Italia, e nel 1784, sempre a Milano, incontrò Giuseppe Parini.

Nel 1788 intraprese un lungo viaggio per Torino, la Savoia, la Svizzera, infine Parigi, dove ebbe modo di assistere alla presa della Bastiglia e all’apertura degli Stati Generali, divenendo inoltre molto amico di Vittorio Alfieri. Pubblicò anche il poemetto La Francia (1789), sull’onda delle speranze destate dalla Rivoluzione, e compose altri versi ad essa ispirati: il sonetto Per l’albero della libertà e l’ode Sopra i sepolcri dei re di Francia nella chiesa di San Dionigi. Quindi si recò a Londra, in Germania, in Austria, e di nuovo in Francia, a Marsiglia, dove compose, nel 1790, il romanzo autobiografico Abaritte. Storia verissima, palinodia delle giovanili infatuazioni illuministico-massoniche.   

 Ritornato in Italia, dopo un ultimo viaggio verso la Toscana, Roma e Napoli, si stabilì in modo pressoché definitivo nel Veneto, prima nella sua villa di Avesa, poi, dopo il 1796, quando la villa fu distrutta dalle truppe francesi, dividendo il proprio tempo fra Verona e Venezia. Frattanto nel 1795 aveva pubblicato a Verona il Saggio di prose campestri e successivamente, nel 1798, pubblicò a Pisa una raccolta di rime varie dal titolo Poesie di Ippolito Pindemonte. Aveva iniziato anche (1797) la stesura dell’Arminio, certamente la migliore delle sue tragedie.

Dal 1804, anno della pubblicazione dell’Arminio, fino al termine della sua vita (morì nel 1828), Pindemonte proseguì a scrivere intensamente come sempre aveva fatto (sebbene nell’ultimo decennio la produzione si diradasse). Seguitò a tradurre dai classici greci, latini e moderni, e scrisse versi di vario impegno e riuscita. Tuttavia, i soli lavori di rilievo, frutto di lunga applicazione, furono la fortunata versione dell’Odissea, intrapresa fin dal 1805 e pubblicata in due volumi a Verona e Livorno nel 1822, e gli Elogi di letterati italiani, editi a Verona tra il 1825 e il 1826.

«Tra gli scrittori del neoclassicismo, il Pindemonte è quello forse più durevolmente e spontaneamente legato agli spiriti garbati e al pacato sentimentalismo del tardo Settecento. […] L’indole, l’educazione signorile e mondana, i lunghi viaggi, le assidue letture di poeti stranieri e soprattutto inglesi, l’avevano disposto al dolce fantasticare, al gusto dei paesaggi solitari, delle lunghe soste riflessive e contemplative, dei pensieri malinconici sulla caducità della vita, assaporati e accarezzati ancora essi come sorgente di un piacere meno grossolano, più raffinato e raro. Nelle Poesie campestri (1788), sulle orme del Gessner, del Gray e del Bertòla, cantava appunto il sottile diletto che deriva agli intelletti pensosi dalla malinconia “ninfa gentile”, ritraeva la mesta e dolce tranquillità dei tramonti sulle vaste distese dei campi, la pace degli interni casalinghi nelle capanne rustiche. Nelle Prose campestri (1794), riecheggiando in tono minore l’intensità dei paesaggi rousseauiani e il pittoresco del Bertòla nelle sue descrizioni di viaggi, diceva l’amenità delle colline presso l’Adige, i piaceri della solitudine agreste, l’“odor del fieno tagliato”, il canto degli uccelli nelle prime ore del giorno, l’armonia delle “bizzarre romanzesche rovine”. Nell’epistola citata[6] al Foscolo riandava con nostalgia al ricordo dei giardini inglesi, in cui la natura è ammaestrata e corretta solo di quel tanto che basta a renderla più armoniosa, senza distruggerne la varia e temperata ricchezza e spontaneità degli atteggiamenti. Questo culto della natura, questa sensibilità pronta sebbene contenuta, le timide puntate nei regni del sublime fin dell’orrido (la descrizione, per esempio, della necropoli dei cappuccini di Palermo, nell’epistola al Foscolo) non dovevano dispiacere più tardi ai nostri romantici; il Pindemonte stesso, nella sua vecchiaia, si compiaceva di vantare le sue benemerenze di cauto precorritore della nuova scuola, che aveva trascurato, o almeno usato assai parcamente gli ornamenti mitologici. Preromantica poté esser giudicata persino la formula con cui egli aveva stabilito i confini e i modi del suo ideale poetico : “antica l’arte | Onde vibri il tuo stral, ma non antico | Sia l’oggetto in cui miri…”. In verità si trattava piuttosto di un’esplicita adesione all’idea della poetica neoclassica e di una delle varianti, allora numerose, della formula già citata dello Chénier; di originale, il Pindemonte non vi metteva se non la sua temperata sensibilità settecentesca e un certo atteggiamento polemico contro le audacie e le novità autentiche della fantasia foscoliana»[7].

Come s’è già detto, fra i primi lavori di Pindemonte si trova una traduzione della Berenice di Racine e un’Ode sulla tragedia. Era questo il primo segno di un serio interesse per il teatro tragico, sia sul piano direttamente creativo che su quello teorico, attestato dai tre Discorsi riguardanti la tragedia (1812). Ma nella vastissima attività dello scrittore veronese è possibile individuare, accanto a questo, altri e diversi settori di interesse: l’epico, di cui fanno prova i numerosi poemetti e soprattutto la fortunata traduzione dell’Odissea; il lirico, per cui si dovranno ricordare almeno i Versi di Polidete Melpomenio, pubblicati nel 1784, e – appunto – le Poesie campestri; il satirico, nel senso di una poesia intesa a esercitarsi, nella forma dell’epistola o del sermone, sull’osservazione minuta dei fatti minori o maggiori dell’esistenza. Di particolare rilievo erano infine i tentativi in un ambito fra la saggistica di breve respiro e quella che poi si sarebbe detta la “prosa d’arte”: la “dissertazione” Su i giardini inglesi e sul merito in ciò dell’Italia, del 1792, e le Prose campestri.

Per quanto riguarda certi caratteri generali di queste ultime, oltre a ciò che abbiamo già detto, possiamo qui aggiungere come esse appaiano radicarsi in un senso non ovvio della precarietà dell’esistenza, intesa, con Seneca, come una sorta di continuo morire. Di qui viene un sottile recupero dell’io nel suo labile presente, e della solitudine campestre come spazio particolarmente idoneo. Nel mondo della campagna e della «villa», l’io può concedersi indisturbato ai piaceri dell’immaginazione, a meditazioni «soavemente tristi», e ancora illudersi di avvertire le «languide sì, ma inestinguibili voci della natura». Può iniziarsi alle squisite emozioni della notte, la quale «ha un certo che di sublime insieme e di dolce». Può, infine, e questo è un tema che potremmo definire quasi centrale, riandare alle «più care memorie della scorsa […] vita, che il senso […] addolciscono della presente».

Successivamente, «si accentuò in lui una tensione neoclassica, che nelle Epistole in sciolti (1805) si concilia agevolmente ed elegantemente con la sua malinconica vena preromantica, nell’orizzonte di una nuova sintesi preromantica-neoclassica quale si può trovare nell’epistola A Elisabetta Mosconi, e perfino nei Sermoni (1819), che tuttavia rappresentano un’involuzione senile, più fredda e classicistica. Né andrà dimenticata la sua versione dell’Odissea omerica, che realizzava in direzione diversa la sua particolare sintesi preromantico-neoclassica»[8].

E proprio la traduzione del testo omerico, che ebbe grandissimo successo e numerose edizioni e ristampe, resta la sua opera di impegno maggiore e quella a cui ancora oggi è legata la sua fama. Certo, per quanto l’Odissea del Pindemonte, che venne appaiata – anche per precise scelte scolastiche – alla diversa e più originale Iliade del Monti, non riesca raggiungere quelle qualità di calore riflesso, di splendore descrittivo e di senso epico dell’opera montiana, va comunque rilevato con il Marucci che il testo originale greco si trasfonde in «formule auree di una disincantata sapienza, di una sottile malinconia del vivere che è tutta anche del traduttore e della sua epoca»[9]. E in ogni caso rimane sempre e comunque il fatto che l’incipit del proemio resta una delle più note traduzioni italiane:

            Musa, quell’uom di multiforme ingegno
Dimmi, che molto errò, poi ch’ebbe a terra
Gettate d’Ilïòn le sacre torri;
Che città vide molte, e delle genti
L’indol conobbe; che sovr’esso il mare
Molti dentro del cor sofferse affanni,
Mentre a guardar la cara vita intende,
E i suoi compagni a ricondur: ma indarno
Ricondur desïava i suoi compagni,
Ché delle colpe lor tutti periro,
Stolti! che osaro vïolare i sacri
Al Sole Iperïon candidi buoi
Con empio dente, ed irritaro il nume,
Che del ritorno il dí lor non addusse.
Deh! parte almen di sí ammirande cose
Narra anco a noi, di Giove figlia e diva.

 

Alberto Fortis

 

Nacque a Padova nel 1741 da Giovanni Antonio Fortis Feracini e da Francesca Maria Bragnis. Studiò nel seminario vescovile di Padova, seguendo i corsi di umanità e retorica, e nel 1757 entrò (per ragioni di opportunità più che di una solida vocazione) nell’Ordine degli eremitani di S. Agostino, soggiornando nei conventi di Padova, Verona, Bologna e infine di Vicenza, dove studiò teologia; a tutt’oggi non vi è però alcun documento che dimostri la sua ordinazione sacerdotale. Nel 1766 le sue doti di intellettuale lo misero in luce presso i superiori dell’Ordine che lo inviarono a Roma per fargli compiere degli studi approfonditi di teologia, ma il Fortis allo studio dei padri della Chiesa preferì le lingue orientali e l’erudizione profana, consolidando in tal modo le proprie conoscenze storiche e antiquarie. Avendo tentato, ma inutilmente, di trovare una sistemazione adatta alle sue esigenze, nel 1767 fece ritorno in patria entrando in “rotta di collisione” con i suoi superiori. Abbandonò poi ufficialmente l’ordine nel 1771, rimanendo però abate.

Frattanto i suoi interessi letterari, stimolati e guidati in particolare da Melchior Cesarotti, lo aveno portato a pubblicare, nel 1768, sotto lo pseudonimo di Solitario, una versione del libro IV dell’Eneide (quello dedicato alla passione e morte di Didone). Successivamente, nel 1783, pubblicò una raccolta di Versi d’amore e d’amicizia. In secondo luogo, continuò ad approfondire i suoi interessi scientifici, in direzione specialmente delle scienze naturali e di una disciplina allora in grandissimo sviluppo come l’etnologia.

A tale proposito compì numerosi viaggi finanziati da autorevoli mecenati inglesi e dal Senato veneto – da cui scaturirono la scoperta del mondo slavo e le conseguenti relazioni e memorie (che sono all’origine di buona parte della fortuna letteraria del Fortis in Europa), fra cui il Saggio d’osservazioni sopra l’Isola di Cherso ed Osero (1771), il Viaggio in Dalmazia (1774), e gli incompiuti, per la morte sopravvenuta nel 1803, Mémoires pour servir a l’histoire naturelle, et principalement a l’orychtographie de l’Italie, et des pays adiacens (1802). Nonostante l’ampia notorietà europea, solo in seguito alla pubblicazione di quest’opera il Fortis riuscì ad ottenere, da Napoleone, una occupazione onorevole, come custode della Biblioteca delle Scienze di Bologna e membro, fra i primi, dell’Istituto Nazionale Italiano, dopo aver aspirato invano, per anni, a una sistemazione universitaria in patria.

È bene ricordare anche la notevole attività pubblicistica, che il Fortis realizzò collaborando soprattutto all’Europa letteraria e al Giornale enciclopedico, i periodici pubblicati da Domenico Caminer[10] e dalla figlia Elisabetta. A quest’ultima, figura di spicco nella cultura progressiva veneziana del secondo Settecento, Fortis sarebbe rimasto a lungo legato, dedicandole ancora inediti versi d’amore.

Il Viaggio in Dalmazia, opera costituita da una serie di lettere itinerarie indirizzate ai suoi colleghi scienziati e a committenti aristocratici, che Gianfranco Torcellan[11] ha detto essere uno dei libri più interessanti e nuovi della letteratura settecentesca italiana, godette di una fortuna e di una fama che si diffuse ben presto per l’Europa in varie traduzioni. I pregi letterari d’una sua parte ormai celebre, cioè la lettera descrittiva sui costumi dei Morlacchi, hanno affrancato e fatto dimenticare la gran mole delle sue pagine troppo dotte ed erudite, nonché il carattere composito e un po’ greve dell’insieme. Tuttavia la fama del Fortis e della sua opera non è fama usurpata. Questo abate veneto, condotto dalla sua passione per le ricerche mineralogiche, da una irresistibile attrazione – ma assai viva in quel tempo – per i resti fossili e le iscrizioni antiche, per le vestigia naturali e storiche d’un paese dimenticato dalla vita civile, era giunto nelle terre dalmate con un animo fresco e libero da prevenzioni o paure, e le svelava al mondo colto dell’Europa settecentesca nella loro più pura realtà. Quel popolo rievocato nella famosa lettera in chiave quasi rousseauiana, la descrizione di quei nomadi morlacchi brutali e generosi, puri e selvaggi, riproponeva in termini di realtà geografica e sociale un mito che le pagine dello scrittore ginevrino avevano diffuso polemicamente in tutto il mondo illuminista. La bellezza di quelle pagine, l’incontro felice con un tema che la moda aveva reso attuale, una prosa sempre brillante e felice resero popolare questo libro, uscito subito anche in francese, in tedesco, in inglese, e diffusosi in pochi anni nella cultura del mondo dei lumi: un cammino lungo e felice, sino alle più lontane terre del Nord.

«In ambito veneto l’opera aprì un vivace dibattito tra intellettuali veneziani e dalmati sulla realtà sociale ed economica della Dalmazia. Nella cultura europea più avanzata i canti popolari raccolti dal Fortis furono tradotti da J.G. Herder e W. Goethe suscitando una vasta curiosità per la poesia dei Morlacchi che confluì nel grande moto romantico di riscoperta delle culture popolari e nazionali»[12].

 

Luigi Angiolini

 

Nacque a Seravezza, in Versilia, nel 1750, da Giuseppe e da Anna Salvi da Pietrasanta, di piccola nobiltà provinciale. Studiò a Pisa e a Padova, e, fatto ritorno a Pisa, ove conobbe alcuni degli uomini di cultura più illustri della Toscana, cercò di ottenere un impiego nei ranghi amministrativi della corte ganducale, impiego che non ottenne poiché considerato di idee troppo avanzate. Decise quindi di lasciare la Toscana e prese a viaggiare, fra il 1781 e il 1783, nel Veneto e nella Lombardia, frequentando ambienti di cultura diversi: a Padova strinse amicizia con il Cesarotti; a Venezia frequentò i salotti eleganti; a Milano conobbe il Parini.

Una volta tornato a Pisa riparti ben presto alla volta di Napoli, ove sperava di trovare un impiego a corte. Anche qui, però, la sua speranza andò delusa, per cui l’Angiolini intraprese una costante attività di pubblicista su argomenti di varia natura (finanza, industria, commercio e arte). Dal 1787 al 1789 ebbe comunque modo di compiere un lungo giro attraverso l’Europa, al seguito, sino a Londra, di una missione diplomatica napoletana. Visitò così la Spagna, il Portogallo, l’Inghilterra, la Scozia, i Paesi Bassi e la Francia. Al suo ritorno, nel 1790, pubblicò anonime in due volumetti a Firenze le Lettere sopra l’Inghilterra, la Scozia e l’Olanda. Nonostante il titolo l’opera, però, era incompiuta e conteneva solamente le lettere dall’Inghilterra, dalla Scozia e qualche scritto sulla Francia, poiché l’Angiolini venne assunto nella segreteria degli Affari esteri di Toscana, e questo fu l’inizio di un lungo periodo trascorso al servizio del proprio paese come funzionario e diplomatico.

Nel 1798 venne inviato  quale ministro di Toscana a Parigi, e quando il granduca fu cacciato dallo Stato toscano, riuscì a risparmiargli l’avvilimento di essere portato come ostaggio nella capitale francese. Nel 1803, su richiesta di Napoleone, si adoperò a negoziare il matrimonio di Paolina Bonaparte con il principe Camillo Borghese: di quelle trattative resta l’esauriente documentazione nella corrispondenza con il Borghese, continuata anche dopo il matrimonio del principe. Rientrato in Italia nel 1809, cercò di venire eletto senatore dell’impero, senza però riuscirvi. Si allontanò allora sempre più dalla vita politica, e trascorse gli ultimi anni nella sua villa di San Cristofano a Seravezza, dove morì nel 1821.

Nella stesura delle lettere l’Angiolini fu ampiamente favorito non solo dalla conoscenza della lingua e dalla lettura di opere che trattavano in modo specifico la società e la cultura inglese, ma anche da una apprezzabile preparazione riguardo alle questioni politiche amministrative ed economiche. Insomma, egli riuscì ad essere «un osservatore attento dei fatti che gli si presentavano, sebbene alieno dall’indulgere ai piccoli aneddoti e ai quadretti di colore, mai precipitoso nel trarre conclusioni definitive. La sua relazione unisce alla ricchezza dell’informazione l’esame delle origini storiche dei fenomeni considerati. Gli aspetti della vita inglese studiati dall’Angiolini vengono a formare un quadro nel quale la nota dominante è data dall’interesse vivissimo per il grado di libertà raggiunto da un popolo verso il quale, essendo ormai da tempo superati i pregiudizi religiosi che ne avevano impedito il giusto apprezzamento nei paesi cattolici, si rivolgeva la simpatia degli uomini di cultura sinceramente affezionati al progresso civile. […] Ma il suo consenso per gli istituti liberali inglesi era senza infatuazioni, dato che l’Angiolini considerava il grado di civiltà raggiunto dagli Inglesi come quello di una nazione arrivata al limite estremo di maturità e minacciata nella vita dello spirito dal pericolo di sterilità, che può sopravvenire ai popoli che godono dell’estrema opulenza e dell’estrema felicità. E anche quando egli istituiva confronti fra le condizioni dell’Italia e quelle dell’Inghilterra, non perdeva mai di vista la forte differenza di sviluppo storico dei due paesi. Anzi, la conoscenza dei costumi inglesi portava l’Angiolini a proporre alcune soluzioni dei problemi italiani che, per il tempo in cui furono scritte, suonano come anticipazioni di idee che sarebbero state dibattute dai patrioti liberali del secolo XIX. »[13].

 

Aurelio De’ Giorgi Bertòla

 

Nacque a Rimini nel 1753 da Antonio Bertolli (detto poi Bertòla), di famiglia nobile. Avviato, come tanti altri aristocratici cadetti del tempo, alla vita monastica, compì i suoi primi studi nel seminario di Todi e a sedici anni entrò nel monastero senese di Monteoliveto, mutando il proprio nome originario di Severino in quello di Aurelio. Temperamento irrequieto e mondano, si stancò presto della vita religiosa, e, fuggito dal monastero, si arruolò in Ungheria. Non reggendo tuttavia alle fatiche militari, egli finì per ritornare al suo monastero, dove gli fu affidato un incarico di lettore. Acquistata una certa notorietà letteraria con i suoi primi versi, e in particolare con Le Notti Clementine, nel 1776 venne chiamato alla cattedra di storia e geografia nell’Accademia di marina di Napoli, dove il suo fascino e il suo brillante ingegno lo fecero accogliere nei migliori  salotti dell’aristocrazia napoletana.

Abbandonata Napoli di sua volontà (1783), si recò a Vienna, dove il nunzio apostolico presso la corte asburgica era il cardinal Garampi[14], suo concittadino, mediante il quale ottenne di lasciare la condizione di monaco olivetano per quella, assai più libera, di prete secolare. Poi, nel 1784, ottenne la cattedra di storia universale all’Università di Pavia. Nel contempo portava avanti un’intensa attività poetica e critico-letteraria, interrotta tuttavia da frequenti peregrinazioni attraverso le città venete e lombarde (per visitare gli amici letterati e le sue numerose ammiratrici), e soprattutto da un più lungo viaggio, nel 1787, verso i paesi elvetici e renani.

A parte la poesia, la parte maggiore e più importante del lavoro di Bertòla (che fu anche autore, per ragioni connesse all’insegnamento, di scritti storici e storico‑filosofici) si situa comunque sul volgere degli anni ottanta. Essa si incentra – dall’Idea della poesia alemanna, 1779, all’Idea della bella letteratura alemanna e alle Osservazioni sopra Metastasio, entrambe del 1784; sino al Saggio sopra la grazia, del 1786, e al Saggio sopra la favola e all’Elogio di Gessner, del 1789 – su una coerente ricerca, strettamente legata alla pratica stessa di poesia che il giovane riminese veniva allora conducendo, in direzione di una sorta di estetica.

«L’opera letteraria del Bertòla deve essere collocata e valutata nell’ambito di quel pacifico rinnovamento del gusto, che avviene nell’interno della cultura arcadico‑illuministica intorno agli ultimi decenni del Settecento. A questo rinnovamento egli collabora in modo notevole, distinguendosi in particolare per la sua ricerca di una poesia che, partendo dall’edonismo e dal descrittivismo settecenteschi e senza oltrepassarne decisamente i limiti, giungesse ad esprimere, se non proprio la vita del “sentimento” nell’accezione romantica del termine, almeno i fremiti di una “sensibilità” capace di assaporare le sottili e deliziose emozioni di un fresco e immediato contatto con la natura e di un tenero abbandono alle dolci malinconie del cuore. Ad orientare il Bertòla in tal senso contribuisce in modo decisivo – oltre che naturalmente la sua indole personale, e in particolare quella irrequieta curiosità e sensualità che si rivela anche nella vita pratica – l’incontro con alcune tipiche manifestazioni della letteratura preromantica straniera»[15].

Su questa ricerca poetica agivano gli stimoli più vari del pensiero estetico contemporaneo (Bettinelli, Cesarotti, ecc.), ma soprattutto la guidava il mito, centrale nella cultura europea del tempo, di un’arte non elusiva in profondo della natura, e capace di rigenerare e in certo modo rivitalizzare l’uomo contemporaneo, troppo incivilito e dunque corrotto, mediante un rapporto radicale con quest’ultima. Di qui l’attenzione rivolta in modo così insistito alla poesia germanica, che Bertòla accosta (come Cesarotti aveva da poco fatto con Ossian, e come facevano certi ellenisti con la poesia degli antichi Greci) in una prospettiva di naturale, appunto, e se non di primitivo, almeno di autentico e incorrotto. Di qui anche l’interesse per il mondo tedesco. Come indica con chiarezza il Viaggio sul Reno e ne’ suoi contorni, l’opera derivata dal viaggio compiuto nel 1787 e apparsa nel 1795 in forma epistolare, l’itinerario renano dell’inquieto aristocratico riminese era essenzialmente un inoltrarsi, con tutta la disposizione estatica e sentimentale del caso, nelle terre incantate dell’«innocenza», della «semplicità», dunque di una «felicità» miracolosamente intatta.

Oltre alla sua attività letteraria non deve poi essere dimenticata «l’opera critica del Bertòla, la quale, mentre costituisce da un lato una preziosa conferma e illustrazione della genesi e dei caratteri del gusto dello scrittore, dall’altro, proprio muovendo da tale gusto, riesce a penetrare con un’adesione e una finezza critica ignota non solo agli altri critici italiani del Settecento, ma agli stessi romantici, poeti e forme d’arte più congeniali al sensibile edonismo bertoliano.

Notevoli in tal senso sono gli stessi saggi compresi nell’Idea della bella letteratura alemanna e l’Elogio di Gessner, ai quali va riconosciuto, dal punto di vista critico, non solo il merito generico di aver promosso l’interesse per una letteratura ancora poco nota in Italia, ma anche quello più specifico di averne illustrato con positiva simpatia alcuni aspetti nuovi o ostici, più di quanto oggi possa sembrare, alla media dei lettori italiani contemporanei, soprattutto “quel certo bisogno di risentire l’influenza della natura nella sua primitiva purezza”, e di aver sottilmente caratterizzato, se non la poesia troppo robusta di un Lessing, di uno Schiller, di un Goethe, la fragile arte del Gessner e della lirica minore del Settecento tedesco nel suo particolare sapore tra candido e manierato, tra familiare e letterario.

Criticamente più impegnative e mature sono tuttavia altre opere successive. Le Osservazioni sopra Metastasio (Bassano 1784), se valgono a chiarire i rapporti tra la poetica del Bertòla e quella arcadica, costituiscono al tempo stesso una aderente caratterizzazione della poesia e soprattutto dello stile metastasiano, del quale viene sottolineata non solo la “chiarezza”, anzi la “limpidezza”, ma anche e specialmente la suggestione musicale, “quel supremo artificio di una precisa, simmetrica, melodiosa collocazione di voci, e di una spontanea distribuzione de’ più morbidi accenti”. A sua volta, il Saggio sopra la favola (Pavia 1788), nato come una illustrazione dei criteri che avevano guidato l’autore nel comporre le proprie Favole, contiene una garbata e spesso acuta revisione dei giudizi tradizionali intorno ai principali favolisti antichi e moderni – da Esopo, ammirato per la sua “ingenuità”, per il suo equilibrio tra naturalezza e raffinatezza, al La Fontaine, di cui viene indicata come dote specifica e insieme come limite la squisita malizia psicologica e artistica – nonché certi rapidi ma suggestivi accenni, per esempio, ai “passaggi dilicatissimi” del Petrarca, già “ripresi dai commentatori come un vizioso deviamento”, o a certi tratti “ingenui”, che “come tali non sono oggi sentiti che da pochissimi”, del Boccaccio, del Sacchetti, del Passavanti e di altri scrittori di quella età. Ma il capolavoro del Bertòla critico è forse il Saggio sopra la grazia nelle lettere ed arti, letto a Pavia nel 1786, ma in seguito rielaborato, e pubblicato postumo ad Ancona nel 1822. Il concetto di “grazia”, in cui il gusto personale del Bertòla si condensa nella sua forma più pura, più libera da addentellati con il razionalismo e il moralismo illuministico, consente qui infatti al critico di trascorrere in mezzo agli artisti “morbidi e dilicati” da lui preferiti, con giudizi freschi e spregiudicati, e talvolta ancora stimolanti»[16].

***NOTE AL TESTO***

[1] Antonio Piazza (Venezia, 1742 – Milano, 1825), scrittore, giornalista e drammaturgo, nel 1787 fondò la Gazzetta urbana veneta che venne pubblicata fino al 1798. Scrittore poliedrico e molto prolifico scrisse numerosissimi romanzi, anche in più volumi, seguendo il modello di Piero Chiari, ai quali seguirono romanzetti più agili, privi di episodi secondari e asciutti nella scrittura. Fin dagli esordi la sua scrittura ottenne un discreto riscontro di pubblico, cui non corrispose però analogo apprezzamento da parte dei letterati. Scrisse anche otto commedie e vari drammi per musica.

[2] Benvenuto Robbio di San Raffaele (Chieri, 1735 – Torino, 1794) era figlio primogenito del conte Carlo Francesco e di Irene Cristina Valfredi di Valdieri. Studiò dapprima a Lione, poi all’Università di Torino, senza tuttavia laurearsi. La sua prima opera fu il Ragionamento intorno all’obbligo di allattare i propri figlioli (1763), un saggio che trattava un tema caro a Rousseau. Nel 1769 apparve, a Milano, Il Secolo d’Augusto, il suo testo storiografico più noto, nel quale si sosteneva l’idea di un’auspicata rinascita letteraria italiana. Fece anche alcune traduzioni dall’inglese e dal portoghese.

[3] Carlo Giovanni Maria Denina (Revello, 1731 – Parigi, 1813) nacque da Giuseppe Maria e da Anna Gabriella Boasso. Ottenuto il diaconato e il sacerdozio, si dedicò alla letteratura nacque così il Don Margofilo (rappresentazione teatrale che non ci è pervenuta), che generò polemiche e malumori, a seguito dei quali perse il suo lavoro di insegnante. Nel 1758 pubblicò De studio theologiae et norma fidei, che gli valse il reintegro nell’insegnamento, prima come supplente di umanità e retorica nel collegio di Torino e sei mesi dopo come professore ordinario a Chambéry. Tra le sue opere, oltre alle citate Lettere, va ricordato il Discorso sopra le vicende della letteratura (1760), poi seguito da un supplemento, Saggio sopra la letteratura italiana con alcuni altri opuscoli, serventi di aggiunte al Discorso sopra le vicende della letteratura (1762).

[4] Longo, detto Sofista (??? – III secolo circa), fu uno tra i più importanti scrittori e romanzieri dell’intera letteratura greca.

[5] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 450.

[6] Sepolcri [n.d.r.]

[7] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 32-34.

[8] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – II. Dal Settecento al Novecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 59.

[9] Homerus, L’Odissea di Omero, traduzione di Ippolito Pindemonte, a cura di Valerio Marucci, Salerno, Roma, 1998, pag. XVIII.

[10] Domenico Caminer (Venezia, 1731 – Orgiano, 1796), scrittore, giornalista ed editore, era nato in una famiglia borghese veneziana che gli consentì di ricevere una buona educazione. Esordì come autore teatrale con alcune commedie, ma nel 1762 cambiò attività e divenne redattore della Nuova Gazzetta Veneta, che ebbe modesto successo. Nel 1768 fondò L’Europa Letteraria e nel 1774 creò assieme alla figlia il Giornale Enciclopedico, uno dei principali periodici illuministi italiani. Nel 1777 (o forse nel 1783) assunse la direzione del Nuovo Postiglione, un settimanale di cronaca politica e fatti militari.

[11] Torcellan Gianfranco, Profilo di Alberto Fortis, in Illuministi italiani. Riformatori delle antiche Repubbliche, Ricciardi, Milano-Napoli 1965, VI, pag. 281-309, poi in Settecento veneto e altri scritti storici, Giappichelli, Torino, 1969.

[12] Ciancio Luca, FORTIS, Alberto, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 49, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1997.

[13] Bonora Ettore, ANGIOLINI, Luigi, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 3, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1961.

[14] Giuseppe Garampi (Rimini, 1725 – Roma, 1792) era figlio secondogenito del conte Lorenzo Garampi e della marchesa Diamante Belmonti. Avviato alla carriera ecclesiastica, fu ordinato sacerdote nel 1749 e divenne prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano dal 1751, nonché prefetto degli archivi di Castel Sant’Angelo nel 1759. Rappresentante pontificio al Congresso d’Augusta (1761), rappresentante del papa all’incoronazione dell’Imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena nel 1764, venne consacrato arcivescovo titolare di Berito nel 1772. Nel 1776 divenne nunzio apostolico in Austria e nel 1785 Pio VI lo elevò al rango di cardinale.

[15] Bigi Emilio, BERTOLA DE GIORGI, Aurelio, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 9, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1967.

[16] Bigi Emilio, ibidem.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SETTECENTO»

Lascia un commento. Se vuoi che appaia il tuo avatar, devi registrarti su Gravatar

Devi essere collegato per lasciare un commento.