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Marco M. G. Michelini | 12 Febbraio 2025

CAPITOLO III
La lettura, i segni, le domande

 

 

Il tramonto della luna fu scritta in una villetta presso Torre del Greco, alle falde del Vesuvio, nel 1836 successivamente a La ginestra.

Quale in solinga notte,
sovra campagne inargentate ed acque,
là ‘ve zefiro aleggia,
e mille vaghi aspetti
e ingannevoli obbietti                                                                  5
fingon l’ombre lontane
infra l’onde tranquille
e rami e siepi e collinette e ville;
giunta al confin del cielo,
dietro Appennino od Alpe, o del Tirreno                                       10
nell’infinito seno
scende la luna; e si scolora il mondo;
spariscon l’ombre, ed una
oscurità la valle e il monte imbruna;
orba la notte resta,                                                                    15
e cantando, con mesta melodia,
l’estremo albor della fuggente luce,
che dianzi gli fu duce,
saluta il carrettier dalla sua via;

tal si dlegua, e tale                                                                    20
lascia l’età mortale
la giovinezza. In fuga
van l’ombre e le sembianze
dei dilettosi inganni; e vengon meno
le lontane speranze,                                                                  25
ove s’appoggia la mortal natura.
Abbandonata, oscura
resta la vita. In lei porgendo il guardo,
cerca il confuso viatore invano
del cammin lungo che avanzar si sente                                       30
meta o ragione; e vede
che a se l’umana sede,
esso a lei veramente è fatto estrano.

Troppo felice e lieta
nostra misera sorte                                                                   35
parve lassù, se il giovanile stato,
dove ogni ben di mille pene è frutto,
durasse tutto della vita il corso.
Troppo mite decreto
quel che sentenzia ogni animale a morte,                                    40
s’anco mezza la via
lor non si desse in pria
della terribil morte assai più dura.
D’intelletti immortali
degno trovato, estremo                                                            45
di tutti imali, ritrovar gli eterni
la vecchiezza, ove fosse
incolume il desio, la speme estinta,
secche le fonti del piacer, le pene,
maggiori sempre, e non più dato il bene.                                   50
Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all’occidente
inargentava della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete; che dall’altra parte                                             55
tosto vedrete il cielo
imbiancar nuovamente, e sorger l’alba:
alla qual poscia seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,                                                         60
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi.
Ma la vita mortal, poi che la bella
giovinezza sparì, non si colora
d’altra luce giammai, né d’altra aurora.                                       65
Vedova è insino al fine; ed alla notte
che l’altre etadi oscura,
segno poser gli Dei la sepoltura.

Di questa poesia non intendiamo dare una “interpretazione”, ma soltanto alcuni elementi che possano facilitarne la lettura, o ancor meglio l’ascolto, in riferimenti alle riflessioni successive.

versi 1-19: svanisce la luce lunare e prevalgono le tenebre;

versi 20-33: il Quale del verso 1 si allaccia grammaticalmente al tal del verso 20, e ciò fa dell’avanzare delle tenebre del primo quartetto una “metafora” dell’inaridimento ed oscuramento della vita umana dopo la giovinezza, l’età mistica delle immagini;

versi 34-50: il tema è ancora l’“uomo”, per il quale l’oscurarsi della vita non conoscerà rinascita, una nuova alba, una nuova luce;

versi 51-68: di nuovo il tema “ambiental‑naturalistico” (di cui al primo punto), per il quale, contrariamente a quanto accade per il tema “uomo”, sorgerà un’altra alba che porterà fine all’attesa che faceva fremere la vallata dopo il tramonto della luna.

Sembra trattarsi, dunque, di due immagini, per cui ad una prima identificazione succede una dissonanza: l’uomo “legge” nella realtà la promessa di un’alba che nella sua vita non avverrà mai. Ma il consueto, quotidiano levarsi del sole, di per sé non è sinonimo né promessa di niente: dunque, chi scrive, dove legge questa promessa? In se stesso? Forse quell’alba temporale evoca una promessa che giace scritta nel ricettacolo più segreto delle sue fibre, da cui proietta la sua ombra sulle cose? Sarebbe difficile dirlo e, forse, persino arbitrario.

Allora chiediamoci: ciò di cui si parla, che paesaggio e che scena è? Dove si trova? Volutamente si è omesso di porre la domanda in questi termini: “è un paesaggio reale oppure immaginario?”, oppure “è un paesaggio interiore od esteriore?”. Il motivo di ciò è dato dal fatto che queste categorie non sono desumibili dal testo, quindi hanno la loro origine ed il loro significato “altrove”; potremmo servircene solo se volessimo porre subito termine all’itinerario di lettura, perché esentano dal capire. E non sarà un caso se alla fine di queste indagini risulterà totalmente ribaltata proprio l’accezione dominante di queste categorie (interiore/esteriore, reale/immaginario).[1] Ma ritorniamo alla nostra domanda: dove e cosa è ciò di cui si parla? Cercheremo delle tracce di questa domanda nel testo del primo quartetto, giacché tutti gli altri sembrano sgorgare da lì, come contemplazione o meditazione di un’immagine.

Se ricostruiamo sintatticamente ci rendiamo subito conto che Quale del primo verso va collegato con nell’infinito seno / scende la luna; e si scolora il mondo (versi 11-12). Ora il frapporre a questi due “termini” ben dieci versi crea e drammatizza l’attesa: si tratta di un procedimento letterario tradizionale, funzionale alla creazione della tensione[2], ed infatti l’enjambement fra i versi 11 e 12, nonché la pausa proprio al centro del verso 12, rendono ancora più drammatico ed apocalittico il tramonto della luna, che sembra somigliare alla fine dei tempi. Giuseppe Ungaretti commentò questa poesia dicendo che qui è fissato quell’attimo di smarrimento cosmico in cui le cose, sospese fra la sparizione della luna ed un’alba ancora lontana, appaiono come appese al Mistero, vibranti fra l’Essere ed il Nulla in una totale gratuità. Ma questo primo elemento, cioè la “tensione”, l’“attesa”, il “dramma”, dov’è? È nella scena reale? Oppure è nell’autore? O nel lettore? Una prima risposta, ricavabile dalle righe precedenti, è che esso si trova nel linguaggio. Ed allora il linguaggio di che cosa è fatto? Come e di che cosa parla? E chi parla? Quest’ultima domanda non va né “enfatizzata” né “misticizzata”; diciamo che nel linguaggio parla un “uomo”, lasciandone per ora sospeso il senso.

Ma torniamo alle domande precedenti. Innanzi tutto colpisce la notevolissima frequenza della particella in[3] e delle parole sinonime come vago, ingannevole, ombra. Si noti poi la differenza fonico‑psicologica fra il verso 2, un endecasillabo dal senso compiuto con tre a accentate, ed il verso 12, che è spezzato con una u accentata e con due o accentate, che sono le vocali più chiuse. La “descrizione”, d’altra parte, non si cura né dell’enumerazione né dell’esplicazione dei particolari; al contrario. Soltanto il verso 8 enumera (e rami e siepi e collinette e ville), ma si tratta di mille oggetti persi fra mille ombre e forme soffuse, quindi l’effetto che si produce è addirittura opposto, cioè di una maggiore accentuazione dei vaghi aspetti. Infine alla parola campagne, il cui contenuto non è affatto descritto, è accostato l’aggettivo inargentate: l’uso di un solo aggettivo per un termine composito come campagne va, ovviamente, nella direzione prima notata; ma, soprattutto, inargentate è un aggettivo appropriato semmai per la parola acque (sempre al verso 2) e per la parola luna (sottintesa, allusa al verso 1 con solinga, che è l’aggettivo lunare per eccellenza del Leopardi). Perché, dunque, inargentate è usato per campagne? Si può dire che l’uso non descrittivo di aggettivi e sostantivi è volto a determinare come una compenetrazione delle cose; si tratta, in pratica, dello stesso procedimento usato in pittura da Paul Césanne che, ad esempio, in una natura morta assegna il “rosso” delle mele anche alle pareti circostanti, o viceversa, per raggiungere un’impalpabile coesione reciproca fra le cose, che perdono i loro confini l’una nell’altra.

Dunque, una prima possibile risposta è questa: il linguaggio della poesia non ambisce a riprodurre la realtà; esso crea piuttosto una “realtà trasfigurata”, un tempo ed una spazio “diversi” (come nel teatro), in cui le cose rivelano il dilatarsi dei propri confini ed i loro legami segreti con le altre cose e con chi le guarda. La poesia, forse, non parla né del reale né dell’uomo, ma del suo modo di vivere il “reale”, dell’“immagine” della realtà, come se colori ed aggettivi, musicalità e forme, cioè il linguaggio, appartenessero entrambi ai termini in questione e li esprimessero. Il linguaggio di cui la poesia è fatta è segno di un terzo elemento che si trova fra uomo e realtà, fra soggetto ed oggetto: potremmo dire che non si parla dell’uno o dell’altro, ma di come l’uno stia dentro (e fuori) l’altro e viceversa. Infatti il primo quartetto si conclude proprio con l’esplicitazione del punto di vista in cui è collocato il paesaggio, la scena: il carrettier, l’homo viator, l’uomo errante; gli altri elementi sono: via (parola in assonanza con vita, intesa con il senso di cammino) e melodia (cioè canto, linguaggio poesia, parola), che coglie il profilo fuggevole delle cose (l’estremo albor della fuggente luce).[4]

NOTE AL TESTO

[1] Da questo esempio è possibile intuire agevolmente come risulti facile neutralizzare o stravolgere un testo con la più semplice ed ingenua delle operazioni: l’uso di categorie il cui significato – legittimato solo dall’essere socialmente riconosciuto – sembra essere ovviamente universale (in questo caso, invece, vi è, per es., contenuto il postulato, non dichiarato, di una scomposizione e contrapposizione nella realtà fra “uomo” da una parte e “cose” dall’altra – quindi fra soggetto ed oggetto).

[2] La tensione tragica o drammatica nelle opere teatrali prelude alla catastrofe.

[3] Se ne contano ben undici nei primi undici versi.

[4] Si comincia ad intuire che la poesia parla di ciò che filosofia e scienza reclamavano come proprio territorio esclusivo; ma ciò che queste pretendevano esaurire con la descrizione analitica e concettuale, rivela qui ulteriori “pieghe” ed un “altro” volto. Tra l’altro, già da questi primi accenni si mette in discussione “figurativamente” il postulato cartesiano della Verità, fondato sulle categorie della “chiarezza” e della “distinzione”.


Il seguito dell’opera sarà pubblicato interamente come file PDF (scaricabile) nell’area riservata.

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