CAPITOLO II
Le versioni dei classici come momento decisivo nella formazione del linguaggio poetico leopardiano
Scriveva il De Sanctis a proposito della leopardiana giovanile traduzione del secondo libro dell’Eneide: «La forma non gli ha aperto ancora tutti i suoi segreti, e non si sente libero innanzi a Virgilio, anzi gli sta innanzi come servo, e ne spia gli atti e i gesti. Ciò che egli dice è proprio il testo, e come il testo lo dice; ma quegli atti e quei gesti imitati da lui sono goffaggini, e non c’è spontaneità, né sveltezza, e non sentimento e non colorito».[1]
Questo giudizio alquanto severo fu largamente ridimensionato dalle persuasive e limpide pagine che il Bigi[2] scrisse sull’argomento, ponendo in luce che la fedeltà del giovane Leopardi al testo virgiliano non era semplicemente frutto di una goffaggine servile, ma – come il poeta stesso scrive nel proemio alla versione – di una vera e propria volontà di aderenza assoluta alla parola originale, al fine di rendere in tal modo quella verità poetica di natura che egli considerava propria degli antichi. Leopardi insiste sulla «candida semplicità» dei poeti antichi, sul loro atteggiamento spontaneo e creativo verso la natura; ma ciò non è assolutamente visto come esclusiva prerogativa di un passato ormai irrecuperabile.
Imperocché quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna.[3]
Pertanto Virgilio ed Omero, del quale alcuni mesi prima il giovane Leopardi aveva tradotto il libro primo dell’Odissea, venivano a formare – all’interno di questa particolare ottica storico‑poetica – quasi un unico blocco, ed il tutto all’insegna dell’antico. «Vero è che rispetto alla “fedeltà” della traduzione omerica, legata a criteri rigidamente letterali, quella della traduzione virgiliana si presenta con caratteri più duttili e più suscettibili di interventi attivi da parte del traduttore, riguardato ormai espressamente come poeta‑traduttore («so ben dirti avere io conosciuto per prova che senza esser poeta non si può tradurre un vero poeta, e meno Virgilio, e meno il secondo Libro della Eneide»): e il Bigi non ha trascurato di rilevare il senso di quegli interventi in un’accentuazione di elementi patetici e indefiniti, oltre che nell’uso di aspri e solenni arcaismi (con un ulteriore incremento di tali elementi nella revisione del ’17), che conferiscono alla versione virgiliana, nei confronti di quella omerica, una relativa originalità letteraria».[4]
In questa sede, tuttavia, vogliamo esaminare non la versione virgiliana in se stessa né, tantomeno, la sua originalità, quanto la sua importanza – oltre che nella poetica del Leopardi traduttore – nella formazione del linguaggio poetico leopardiano; importanza che, del resto, non era sfuggita all’occhio attento di un lettore quale Giuseppe De Robertis, che già nel 1942 notava nella giovanile traduzione «il primo acquisto d’un tono poetico alto, d’una cert’aria grande, d’una versificazione complessa, d’un fatto di stile, insomma, già maturo»[5].
L’atmosfera stilistica della versione, con la sua accentuazione di elementi patetici ed indefiniti, con l’uso di aspri e solenni arcaismi, con la ricchezza di artifici ritmici, debitamente rimarcata anch’essa dal Bigi, consistente in un uso estremamente fitto di enjambements e di spezzature interne del verso, propone al futuro poeta una serie precisa e numericamente imponente di stimolanti soluzioni espressive e «particolarità di scrittura che fanno pensare non solo alla canzone All’Italia, e a quella Sopra il monumento di Dante, e all’altra Ad Angelo Mai e al Bruto Minore, ma, persino, a una parte descrittiva della Ginestra, per una furiosa potenza di parole»[6]. Ma gli studi del De Robertis fornivano scarse indicazioni circa i precisi riscontri tra il testo della versione ed i Canti; né le cose sono migliorate ad opera dei commentatori più recenti[7] , ai quali si deve qualche sporadica aggiunta. «Ma nel complesso» scrive giustamente il Blasucci «si è ancora lontani dalla reale consistenza del fenomeno: una serie ben più nutrita di riscontri è ricavabile infatti da una lettura sistematica della versione virgiliana, tale da poter fornire a un nuovo annotatore dei Canti una cospicua messe di materiali testuali, assai utili per una ricerca genetica del linguaggio poetico leopardiano, ricerca condotta finora con più attenzione alla tradizione letteraria che non alla storia interna di quel linguaggio (fanno lodevole eccezione in questo senso i ricordati commenti Giuseppe-Domenico De Robertis e Fubini-Bigi). Tanto per corredare di un esempio minimo un rilievo del genere, restando all’interno del nostro argomento, noterò che quando per il verso “ch’abbella agli occhi tuoi quest’ermo lido” (Nelle nozze della sorella Paolina, 4) i commentatori citano a proposito di “ermo lido” un precedente dell’Alfieri (sonetto Solo fra i mesti miei pensieri, 5), essi dimenticano che l’espressione era già apparsa nella traduzione virgiliana (“I Greci / qua giunti, s’appiattar ne l’ermo lido”, 33) proprio in clausolola di verso come nella canzone; e che semmai il rapporto con la tradizione dovrebbe qui chiamare in causa la versione di Annibal Caro, dove peraltro quel sintagma appare invertito nei suoi termini e diluito in una dittologia sinonimica (“lito ermo e deserto”).»[8]
La traduzione dell’Eneide è piuttosto ricca di queste piccole aggregazioni verbali, tipo appunto ermo lido, o di alcune brevi frasi sintatticamente compiute, che sono destinate a riprodursi nel tessuto linguistico dei canti. Ma non solo, molte volte le riprese sono costituite da frasi più ampie e sintatticamente articolate, con la conservazione più o meno evidente di elementi sintattico metrici; o ancora, da immagini che subiscono una rielaborazione radicale, pur mantenendo alcuni elementi lessicali che denunciano uno stretto contatto con il testo della versione; oppure da alcune generiche espressioni‑formule, o da caratteristiche espressioni in enjambement.[9]
Va comunque tenuto presente che le riprese dalla versione virgiliana investono in larga misura il primo Leopardi, cioè quello delle canzoni e degli “idilli”, e soltanto in misura marginale il Leopardi più maturo; «per quel che può valere in questi casi una precisazione numerica, diciamo che il rapporto dei riscontri, complessivamente presi, è di 70 a 16. Un’altra constatazione altrettanto evidente è che all’interno del primo Leopardi la bilancia pende nettamente in favore delle canzoni rispetto agli “idilli” (anche se si sommino a questi Il primo amore e i Frammenti XXXVII e XXXIX): il rapporto è di 58 a 12. Una terza constatazione riguarda la distribuzione delle riprese all’interno delle stesse canzoni: qui la parte del leone, per numero e qualità, la fanno All’Italia (12 riprese) e il Bruto minore (11 riprese); seguono Sopra il monumento di Dante (7 riprese), Ad Angelo Mai e Alla Primavera (6 riprese), Nelle nozze della sorella Paolina e l’Inno ai Patriarchi (5 riprese), A un vincitore nel pallone (3 riprese), Ultimo canto di Saffo (2 riprese). Tra gli “idilli” il più rappresentato è Il sogno, con tre riprese abbastanza cospicue: esse si spiegano con la particolare situazione narrativa del componimento, a cui forniscono materiali la rappresentazione del sogno di Ettore e quella dell’apparizione di Creusa. Tra le liriche dell’‘altro’ Leopardi spicca La Ginestra con 3 significative riprese descrittive. Restano così comprovate da questi rilievi, compreso l’ultimo, le indicazioni del ‘lettore’ Giuseppe De Robertis»[10].
NOTE AL TESTO
[1] Francesco De Sanctis, opera citata, “L’Eneide”, pag. 65.
[2] Emilio Bigi, Il leopardi traduttore dei classici (1814-1817), in Giornale storico della letteratura italiana, CXLI, 1964; ora in La genesi del «Canto notturno» e altri studi sul Leopardi, Palermo, 1967.
[3] G. Leopardi, Discorso di un italiano sulla poesia romantica, in Tutte le opere a cura di Walter Binni ed Enrico Ghidetti, vol. I, Firenze, 1983, pag. 919.
[4] Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, 1985, pag. 10.
[5] Giuseppe De Robertis, Saggio sul Leopardi, Firenze, 1944, pag. 224.
[6] Giuseppe De Robertis, Saggio sul Leopardi, opera citata, pag. 225.
[7] Citiamo a tale proposito: H. L. Sheel, “Leopardi un die Antike”, München, 1959; G. Leopardi, “Canti”, con introduzione e commento di M. Fubini, edizione rifatta con la collaborazione di E. Bigi, Torino, 1964; G. Leopardi, “Canti”, a cura di G. e D. De Robertis, Milano, 1978.
[8] Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, opera citata, pag. 12.
[9] Si veda a tale proposito il già citato Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, pag. 14 e seg., ove sono elencati numerosi esempi delle espressioni in questione riscontrate nei canti, con l’equivalente latino tra parentesi e la segnalazione del nome degli studiosi che hanno registrato per la prima volta alcuni di quei riscontri.
[10] Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, opera citata, pag. 21.
Lascia un commento. Se vuoi che appaia il tuo avatar, devi registrarti su Gravatar
Devi essere collegato per lasciare un commento.