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Marco M. G. Michelini | 21 Gennaio 2025

Capitolo I

Il pensiero e la filosofia

 

Antonio Prete, nell’introduzione al suo saggio Il pensiero poetante, ha scritto che «il pensiero leopardiano è il pensiero della crisi: inattuale, contro lo “spirito del tempo”, distruttivo. Eppure fitto di infinite curiosità, attento alla genealogia dei saperi e alla pluralità delle pratiche linguistiche, pronto alla escursione e alla frammentazione, insomma perso nel cerchio di quel movimento di scrittura che sa trasformare l’erudizione in fantasia, la disciplina in critica, la ragione in passione».[1] Niente di più vero, poiché alle radici della filosofia del poeta non vi è un processo logico ferreo e conseguente, fatto – questo – che favorirà il sussistere nel pensiero stesso  di una serie infinita di incongruenze (il più delle volte, però, soltanto apparenti) e di contraddizioni.

«Nello Zibaldone» scrive sempre il Prete «la frequentazione della cultura illuministica è giocata oltre se stessa, sospinta ad un punto di reinvenzione teorica che sottrae ogni fremito ottimistico e riporta i luoghi classici della filosofia morale ella casa di un ospite inquietante come il nichilismo.

Il riconoscimento della corporeità del desiderio e del suo essere perennemente vuoto, il dialogo tra pensiero e poesia, l’indagine sulle figure della civiltà dove è leggibile la diseguaglianza e il disagio e l’infelicità, l’interpretazione della natura diventata civiltà, e dunque luogo del non‑ritorno, il riporto dell’estetica nella teoria del piacere, infine lo sguardo sulla traccia animale come corpo e metafora dell’altro, di ciò che non è stato “spiritualizzato” nel civile e moderno: questi criteri, ora allusi e interrotti, ora scoperti e rigogliosi guidano il lettore nella foresta dello Zibaldone. E lo conducono non verso una teoria critica conclusa, ma verso un’interrogazione interminabile. Verso uno stato d’analisi che, nella fine di ogni illusione, nella caduta delle ideologie e nella morte del senso, non rinuncia al sogno di una mutazione».[2]

Del resto, lo stesso Leopardi affermava di essere arrivato tardi alla filosofia e senza maestri, avendo precocemente intuito ciò che poi lesse nelle opere dei pensatori illuministi. Ed in effetti, da principio, la sua filosofia è costituita da una serie di proposizioni sentimentali tradottesi solo successivamente in teoremi di dottrina, e ciò in contrasto con quella libertà ed ampiezza di deduzione, quell’acume e quella sottigliezza – ulteriori attestati delle indubbie doti speculative del Nostro – con cui essa riesce a svolgersi. Il pessimismo leopardiano rappresenta, in pratica, la condizione psicologica dell’adolescente nel momento in cui, affacciatosi sulla soglia della dura realtà della vita, scopre quanto fragile sia il tessuto delle illusioni, l’incastellatura dei sogni infantili. Ogni uomo, naturalmente, secondo il proprio grado di insensibilità, attraversa un simile momento psicologico, venendo a contatto con le delusioni amarissime che ad esso sono legate; tuttavia, nella maggioranza dei casi, la frattura si risana ben presto in una serena accettazione del ritmo dell’esistenza e si definisce in certi limiti e in certe leggi per cui, abbandonata la tensione ansiosa della fanciullezza e la sua indeterminata smania di azione, la vita si assesta in un corso lineare e ben circoscritto, non certo privo di scopo e di funzioni. Una simile soluzione, però, al Nostro fu preclusa tanto dall’ambiente ristretto in cui viveva quanto dall’educazione ricevuta, che insieme contribuirono a creare attorno a lui una fitta cortina di solitudine e di isolamento. La disperazione dell’adolescente, nell’attimo in cui si affaccia alla vita, doveva diventare caratteristica costante di tutta l’esistenza del Leopardi, e ad essa non sarebbe mai sottentrato il beneficio della rassegnazione. Agli inizi della sua speculazione, finché nel poeta sopravvive la fede religiosa, la coscienza dell’infelicità dell’uomo, della sua pochezza nel mondo, il dolore e la noia che formano la trama della nostra esistenza, si spiegano con il concetto della caduta dell’uomo dallo stato di natura, che era di perfezione e di felicità, all’infelicità del vivere moderno causato dalla ragione e dalla civiltà sua figlia. La ragione è nemica della natura perché questa ci crea e ci fa vivere nelle illusioni, sola fonte di felicità per l’uomo, laddove la filosofia – e quindi la ragione – ci fa scoprire il significato illusorio di tanti “valori”, lasciandoci freddi ed incerti, incapaci di perseguire ancora quei beni che oramai conosciamo come fantasmi vani, dominati dal tedio e dalla noia in un mondo dove «il tutto è solido nulla».

Cercava Longino (nel fine del trattato del Sublime) perché al suo tempo ci fosse tanta scarsezza di anime grandi e portava per ragione parte la fine delle repubbliche e della libertà, parte l’avarizia, la lussuria e l’ignavia. Ora queste non sono madri ma sorelle di quell’effetto di cui parliamo. E questo e quelle derivano dai progressi della ragione e della civiltà, e dalla mancanza o indebolimento delle illusioni, senza le quali non ci sarà quasi mai grandezza di pensieri, né forza e impeto e ardore d’animo, né grandi azioni che per lo più sono pazzie. Quando ognuno è bene illuminato in vece dei diletti e dei beni vani come sono la gloria, l’amor della patria la libertà ec. ec. cerca i solidi cioè i piaceri carnali osceni ec. insomma terrestri, cerca l’utile suo proprio sia consistente nel denaro, o altro, diventa egoista necessariamente, né si vuol sacrificare per sostanze immaginarie né comprometter se per gli altri né mettere a ripentaglio un bene maggiore come la vita le sostanze ec. per un minore, come la lode ec. (lasciamo stare che la civiltà fa gli uomini tutti simili gli uni agli altri, togliendo e perseguitando la singolarità, e distribuendo i lumi e le qualità buone non accresce la massa, ma la sparte, sì che ridotta in piccole porzioni fa piccoli effetti). Quindi l’avarizia, la lussuria e l’ignavia, e da queste la barbarie che vien dopo l’eccesso dell’incivilimento. E però non c’è dubbio che i progressi della ragione e lo spegnimento delle illusioni producono la barbarie, e un popolo oltremodo illuminato non diventa mica civilissimo, come sognano i filosofi del nostro tempo, la Staël ec. ma barbaro; al che noi c’incamminiamo a gran passi e quasi siamo arrivati. La più gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguita però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile […]. Le illusioni sono in natura, inerenti al sistema del mondo, tolte via affatto o quasi affatto, l’uomo è snaturato; ogni popolo snaturato è barbaro, non potendo più correre le cose come vuole il sistema del mondo. La ragione è un lume; la Natura vuol essere illuminata dalla ragione non incendiata.[3]

La natura, come ho detto è grande, la ragione è piccola e nemica di quelle grandi azioni che la natura ispira. Questa inimicizia di queste due gran madri delle cose non è stata accordata se non dalla Religione, la qual sola proponendo l’amore delle cose invisibili di Dio ec. e la speranza di premio nella vita futura ha conciliato con mirabile armonia la grandezza generosità sublimità, apparente pazzia delle azioni (come sono quelle dei martiri, il distacco dai beni terreni da’ parenti dalla patria ec. il disprezzo della morte, il sacrifizio de’ piaceri e di tutto all’amor di Dio al dovere ec.) colla ragione: armonia che fuor della religione non si può trovare se non a parole, perché tolta la speranza della vita futura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza della virtù della sapienza della verità della beltà personificata in Dio, la cura di questo essere intorno ai portamenti nostri ec. non ci sarà mai si può dire, azione eroica e generosa e sublime, e concetti e sentimenti alti, che non sieno vere e prette illusioni e che non debbano scadere di prezzo quanto più cresce l’impero della ragione, come già vediamo e che sono illusioni quelle grandezze anche presenti nelle quali la religione non ha parte, e collo indebolirsi la forza della fede negli animi, scemano presentemente quelle azioni sublimi, delle quali erano molto più fecondi i secoli passati ignoranti che il nostro illuminato. Similmente si può dire della dolcezza e amabilità di tante idee ed opinioni che senza la religione sono chimere, e colla religione sono verità, e alle quali la ragione per se ripugnerebbe, la quale com’è nemica della grandezza così è nemica della profonda e vera bellezza, e con lei, come tutto è piccolo così tutto è brutto e arido in questo mondo.[4]

Più l’uomo pensa e più si rende conto della sua irrimediabile infelicità, mentre è portato a desiderare il piacere e la felicità che è, secondo il Nostro, il fine della vita, ma che sulla terra assolutamente non è possibile, non esiste. Di qui l’inutilità della filosofia che serve solo a darci la coscienza della nostra infelicità poiché l’unico modo di essere felici è di ignorare la triste realtà. Felici erano pertanto le antiche età; felici sono i fanciulli e gli adulti di scarsa sensibilità, superficiali e poco avvezzi a pensare, mentre l’uomo sensibile ha la coscienza acuta ed intollerabile del nostro nulla e della nostra infelicità.

Queste idee, che si trovano nel Leopardi fin dagli inizi della sua speculazione, preludono chiaramente ad un pessimismo ben più profondo, ma – da principio – resiste una speranza finché rimane ben ferma la convinzione che «una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo».[5] Tuttavia, l’accordo tra il suo pensiero – che viene con il sensismo a considerare la felicità come fine della vita – ed il Cristianesimo ben presto si sgretola, e a poco a poco il poeta scopre che il mondo e ciò che egli chiama “natura” sono pieni di contraddizioni. E’ fra il 1822 ed il 1823 che si ha la grande crisi leopardiana. La natura non è più madre bensì matrigna e nemica; il mondo non è fatto per gli uomini, e l’uomo non è che un fuscello in balia di forze oscure su cui non può nulla, di cui non conosce nulla.

La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi.[6]

Ogni cosa è relativa, non esistono valori assoluti: il bello, il brutto, l’amore, la giustizia, la verità stessa, tutto è soggetto al mutevole giudizio dei tempi.
La verità che una cosa sia buona, che un’altra sia cattiva, vale a dire il bene e il male, si credono naturalmente assoluti, e non sono altro che relativi. Quest’è una fonte immensa di errori e volgari e filosofici. quest’è un’osservazione vastissima che distrugge infiniti sistemi filosofici ecc.; e appiana e toglie infinite contraddizioni e difficoltà nella gran considerazione delle cose, massimamente generale, e appartenente ai loro rapporti. Non v’è quasi altra verità assoluta se non che Tutto è relativo. Questa dev’essere la base di tutta la metafisica.[7]

Questa scoperta, maturata lentamente, ma resa angosciosa dalla consapevolezza dell’orribile mistero di tutte le cose e dell’esistenza, dall’infelicità senza scampo dei viventi, paralizza le energie dell’uomo – specie se di grande sensibilità ed intelligenza – che, di fronte alla realtà ingannevole dei beni e dei valori, non può non sentirsi tanto più profondamente infelice quanto più è grande. La vita è male, è dolore; l’infinito è un parto della nostra immaginazione; l’idea di un Dio benigno e provvidente è nata dal bisogno di protezione che è insito in ognuno di noi. Nessuna intelligenza creatrice è postulata dalla materia: anche il pensiero è materia, il materialismo non è un’assurdità.

E’ naturale all’uomo, debole, misero, sottoposto a tanti pericoli, infortuni e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e discernimento, una perspicacia, una esperienza superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz’altra ragione; spessissimo eziandio, ne’ più gravi pericoli e ne’ più miseri casi, si consola e fa cuore, solo per la buona speranza e opinione, ancorché manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che egli vede o s’immagina essere in quella persona; o solo anco per una ciera lieta o ferma che egli vede in quella. […] E questa qualità dell’uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene, la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e nella cui provvidenza possiamo riposarci dell’esito delle cose nostre. La credenza di un ente senza misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e rutto ciò con ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna scoprire né intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno; questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici, un conforto maggior d’ogni altro possibile: il qual conforto non da altro procede, né consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una confidenza cieca nell’autorità, nel senno, e nel provvedimento altrui.[8]

Questa visione del mondo fatta di un pessimismo sempre più profondo, e anzi veramente cosmico, nega dapprima al Leopardi di provare solidarietà verso i sui simili, vittime anch’essi della natura. Gli uomini sono tutti malvagi, il mondo è «una lega di birbanti», dovunque regnano sovrani l’egoismo e l’amor proprio, motore e molla di ogni azione. Addirittura, egli arrivò al punto di ascrivere alla civiltà ed alla società contemporanea, nonché a quell’educazione tutta “spirituale e malsana” di cui lui stesso e tutta la sua generazione avevano così grandemente sofferto, la colpa del suo male fisico. E nell’importanza che tanto i greci come i romani avevano sempre dato all’educazione fisica, egli vide sempre uno dei molti punti di superiorità degli antichi sui moderni.

Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o ad essitare l’amor della gloria ecc., ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo debole […] in somma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo delle nazioni. Ed è cosa già osservata che il vigor del corpo nuoce alle facoltà intellettuali, e favorisce le immaginative, e per lo contrario l’imbecillità del corpo è favorevolissima al riflettere, e chi riflette non opera, e poco immagina, e le grandi illusioni non son fatte per lui.[9]

Ma era pure evidente che la migliore società di questo mondo, mentre avrebbe potuto eliminare le ingiustizie di origine politico‑sociale (ed anche su questo punto rimasero sempre nel pensiero del Leopardi forti riserve), nei confronti dell’oppressione attuata dalla natura sull’uomo avrebbe potuto soltanto esercitare una funzione palliativa. E proprio l’approfondimento di questo tema doveva orientare il pessimismo leopardiano in senso cosmico. Come s’è già detto, una scelta decisiva per l’ulteriore sviluppo del pensiero del Nostro consiste nell’aver rifiutato il discorso religioso, e quindi il rifugio nel mistero e nella trascendenza, per imboccare la strada opposta; quella, cioè, di un ateismo e di un materialismo sempre più conseguenti. È qui, in effetti, che si misura tutta la grandezza umana ed intellettuale del Leopardi, in confronto ai tanti “spiriti inquieti” del suo e del nostro tempo, per i quali il pessimismo è stato solo l’anticamera della conversione religiosa, della fabbricazione di un mitico regno dello spirito, o di un altro mondo (comunque inteso), in cui l’uomo prenderebbe la sua rivincita.

Parallelamente a questi pensieri, il Nostro continua a svolgere, raccordandoli con il pieno materialismo da lui raggiunto, quella teoria del piacere che era sorta qualche tempo prima nel suo pensiero, come estrema conseguenza nichilistica del suo iniziale vitalismo. In realtà, il collegamento tra materialismo e pessimismo è dato proprio dalla teoria del piacere, da quell’edonismo che è componente essenziale del pensiero leopardiano. E non contrasta certo con un materialismo conseguente la constatazione che l’uomo ha una costituzione fisico‑psichica tale da procurargli molta più sofferenza che godimento. L’infelicità umana di cui parla il Nostro non è il romantico “mal du siécle”, né una fumosa angoscia esistenziale: è anzitutto una infelicità fisica basata su dati concreti, come malattia, vecchiezza, fugacità del piacere. Naturalmente, il Leopardi sa bene che dalla base edonistica si sviluppano nell’uomo esigenze di ordine superiore (sentimentale, culturale, morale, ecc.), ma anche su questo piano più elevato ha ragion d’essere il pessimismo, poiché i valori elaborati dalla civiltà umana sono estremamente caduchi, e la natura li annienta non meno di quanto annienti gli organismi biologici. Leopardi è critico spietato di tutti i miti di immortalità delle opere. La morte fisica dell’individuo, che sul piano meramente edonistico‑individuale si può considerare – ed in realtà è considerata dal poeta – come un “non‑male”, un oggetto di timore infondato (di un timore, tuttavia, difficile ad eliminarsi e che dunque contribuisce all’infelicità della maggioranza degli uomini), ridiviene un male a livello dei rapporti affettivi tra le persone. E la conversione alla prosa ha precisamente un significato di rinuncia all’eroica disperazione ed alle “magnanime illusioni”, di alienamento da un’azione di carattere rassegnato‑ironico di fronte alla realtà.

Il De Sanctis[10] considerò la morale epittetéa come l’unica coerente con il pessimismo leopardiano, e l’altra, la morale eroica, come «tirata co’ denti, non dedotta bene, anzi in contraddizione con le premesse»[11], giungendo a scorgere in tale processo una scissione tra volontà ed intelletto che era pur la base di tutto l’edificio poetico leopardiano. «La sua utopia morale è una confederazione umana di mutua assicurazione contro l’azione malefica dell’intelletto o della scienza. Al che si riesce con rinvigorire le forze vitali, renderle atte alla resistenza, opponendo il sentimento all’intelletto. La vita ha quel valore che le da l’immaginazione e il sentimento, e più queste forze sono educate e sviluppate, più cresce quel valore, ancorché sappiamo che sia tutto un’illusione.

Queste conclusioni morali sono la scappatoia per la quale Leopardi sfugge alle strette mortali del suo intelletto. Lo chiamavano un misantropo, un nemico del genere umano. Ed egli può con questa scappatoia rientrare in grembo dell’umanità ed esservi tollerato.

Se non fosse una scappatoia, certo inconsapevole, ma fosse una persuasione efficace, Leopardi metterebbe il suo ingegno a’ servigi di questa causa, e sarebbe un potente apostolo di fratellanza e di solidarietà umana. Ma queste idee egli le fa valere nelle lettere agli amici, ai quali bisogna pur parlare un linguaggio umano, soprattutto nella lettera a Jacopssen, e le usa qua e là come attenuanti alla sua dottrina fatalistica. In fondo il suo pensiero è questo, che così è il mondo, e così è l’uomo, e non c’è rimedio. Ammette in astratto gli effetti salutari di una buona educazione fisica e morale e di una confederazione umana, ma non ci ha fede, non crede possa avvenire, e non ci mette di suo che la tesi, una semplice enunciazione così di passaggio».[12]

Le parole del De Sanctis, però, rappresentano una sottovalutazione del pensiero leopardiano. Infatti, come ha giustamente notato il Luporini[13], l’adesione del Nostro alla morale epittetéa è caratterizzata da un pudore ironico e da una mai sopita nostalgia della morale eroica. Leopardi di certo non s’acquietò mai in una morale tardo‑antica dell’atarassia, che sarebbe stata un’evasione dal pessimismo lucida e razionale, in un certo senso analoga all’evasione “buddistica” di Shopenhauer. Per di più, dietro la filosofia di Epitteto è possibile scorgere quella di Teofrasto, che ne controbilancia il peso; cioè il pensiero di un moralista empirico e mondano, il quale insegnava, seguendo l’etica Nicomachea, che non bastano virtù e saggezza a dare la felicità, ma che è indispensabile anche il concorso di circostanze esterne favorevoli. Tuttavia, va raffermato che la suggestione della morale epittetéa – o più in generale ellenistica – non fu sentita dal Leopardi sporadicamente per tutto l’arco della sua produzione, ma ne influenzò sostanzialmente soltanto una fase, e più precisamente quella degli anni di Bologna e del primo soggiorno fiorentino; e che essa segnò il culmine, nel suo pensiero, di un periodo di disinteresse politico. E di tale “apoliticità” non è difficile individuarne il motivo in quel senso di sconfitta, di ripiegamento e di stasi, che era succeduto al crollo del movimento di rivolta politico‑culturale contro la Restaurazione, culminato nei moti del 1820 e del 1821. Così, sebbene l’abbandono della prospettiva risorgimentale fosse già implicito nel nuovo corso impresso al suo pensiero dalla crisi del 1819, esso ricevette certo un forte impulso anche dalla crisi politica del 1821, la quale, in Italia, interessò tutta una generazione di intellettuali, che abbandonarono la prospettiva rivoluzionaria per passare ad una prospettiva riformistica. Lo spostamento del centro del progressismo culturale da Milano a Firenze, e più precisamente dal Conciliatore all’Antologia, coincide appunto con questa svolta. La nuova data rivoluzionaria del 1831 troverà tutti gli intellettuali su posizioni di sfiducia e di estraneità alle “sette”: persino il Giordani, che pure aveva esultato per i moti del 1820, si mantenne freddo e distaccato. In questo senso le Operette Morali, progettate dal Leopardi nel 1821 come prosecuzione, su un altro piano, del suo impegno di educazione politica e civile, segnarono di fatto, tre anni dopo, il temporaneo abbandono di quell’impegno. Al poeta “questo freddissimo e ridicolissimo tempo” appariva ormai refrattario non solo alla lirica politica appassionata (quella, per intenderci, delle canzoni civili), ma anche alla satira politica. Mentre il pessimismo storico di stampo democratico‑roussoiano degli anni precedenti era, per così dire, spontaneamente progressista, sul piano politico‑sociale, molto meno facile era il compito di coordinare il nuovo pessimismo materialistico con un atteggiamento politico‑sociale progressista, dal momento che la persuasione dell’infelicità radicale di tutti gli esseri viventi, a cui il Nostro era giunto, poteva fare apparire come trascurabili gli sforzi per conquistare migliori istituzioni. Nel caso di leopardi non si tratta poi minimamente di limitare il progressismo al piano razionalista‑laico, dal momento che egli progressista lo fu anche sul piano politico‑sociale. Ma la distinzione fra i due piani serve, per il Nostro, a raggiungere una visione più articolata del suo pensiero, a riconoscere che in diversi periodi della sua vita ora l’uno ora l’altro progressismo furono predominanti. Non è un caso quindi che in questo periodo lo sforzo del Leopardi sia caratterizzato appunto dal tentativo di armonizzare questi due pensieri.

Il Luporini, invece, prende in esame il materialismo – valutandolo positivamente – quasi soltanto in funzione del progressismo politico‑sociale: il momento materialistico viene ad assumere importanza non in sé, ma come raccordo tra il primo e l’ultimo Leopardi, come ancoraggio contro il rischio d’essere risucchiato nei vortici dell’irrazionalismo prima di avere elaborato la nuova morale laica e combattiva. Di qui la sottovalutazione luporiniana della Operette Morali; di qui anche il fatto che tra gli ispiratori del pensiero leopardiano siano sempre presenti al Luporini i “filosofi politici” Hobbes, Rousseau e Voltaire, ma non venga neppure una volta ricordato il materialista volgare Holbach, a cui Leopardi deve pure alcuni spunti importanti della sua filosofia.

Il nuovo vigore che il motivo della fraternità umana assume a partire dal Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827), la nuova grande fioritura dei canti pisano‑recanatesi (1828‑1829), segnano l’abbandono definitivo della morale dell’atarassia – ma non ancora un decisivo ritorno all’interesse politico. Non deve sfuggire a tale proposito che l’elemento che più direttamente interviene a distogliere il poeta da tale dottrina è dato dall’acquisita consapevolezza dell’impotenza della volontà di controllare alcune insopprimibili facoltà dell’animo umano, quali ad esempio la speranza; facoltà che si pongono come un momento strutturale dell’esistenza, fisiologicamente costitutive dell’uomo e perciò in grado di autoregolarsi adattandosi anche a rinunce e compromessi, ma in virtù di una loro logica intrinseca, all’interno di un movimento affatto irriflesso di atteggiamenti psicologico‑sentimentali. L’abbandono, dunque, della morale epittetéa passa soprattutto attraverso il rifiuto del volontarismo. La soluzione alternativa, perfettamente coerente con l’ideologia dello scrittore, corrisponde non tanto all’urgenza della morale eroica, come generalmente si sostiene, quanto alle ragioni di un materialismo radicale, deterministico e sensistico, che esclude l’opportunità di predicare come una norma di comportamento ciò che non può non rientrare in un ambito di reazioni meccaniche, spiegabili meglio con i processi spontanei dell’assuefazione che non appellandosi ad una pur ferma persuasione ideale.

Fu il contatto polemico con l’ambiente cattolico‑liberale, specialmente nel secondo soggiorno fiorentino e poi in quello napoletano, a porre al Leopardi il problema di ristabilire, su basi necessariamente diverse da quelle del periodo di tempo intercorso tra il 1818 ed il 1821, un nesso tra il proprio pessimismo ed un atteggiamento progressista. Il cattolicesimo liberale rappresentava qualcosa di particolarmente avverso a tutto il pensiero del Nostro. Era il mito del progresso, privato della carica di lucido razionalismo che aveva avuto nel Settecento francese, e riconciliato con i vecchi miti cattolici; era l’esaltazione delle conquiste tecnico scientifiche, accompagnata, però, da una rinuncia ad una visione veramente scientifica, cioè laica, della realtà; era il cattolicesimo ottimista che accusava il poeta recanatese di irreligione, di scarso patriottismo e di sfiducia nell’umanità. Il bisogno di rispondere a queste accuse costituì certamente la spinta decisiva per la ripresa polemica e combattiva, per il nuovo titanismo dell’ultimo Leopardi. Questo movente, anche se in qualche modo esterno all’ultima fase del pensiero leopardiano, non toglie nulla alla sua profonda sincerità e coerenza: dimostra piuttosto la capacità del Nostro di reagire al nuovo clima politico‑culturale, allargando il respiro umano e sociale del proprio pessimismo, fondando una morale integralmente laica e smitizzata. Non c’è libertà politica, egli afferma, senza libertà del dogma e del mito. E’ proprio questa esigenza di smascheramento degli “errori barbari” del cattolicesimo che fa superare al Leopardi ogni residuo di dubbio sull’opportunità o meno di rivelare agli uomini il male della condizione umana in tutta la sua crudezza. Basti ricordare il noto passo de La ginestra, in cui il poeta fa appello alla solidarietà di tutti gli uomini nella lotta contro la natura.

Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune.[14]

Nessun dubbio sulla grande potenzialità democratica di questo messaggio. Soltanto, bisogna parlare appunto di potenzialità per sottolineare, accanto all’estrema apertura e spregiudicatezza del discorso leopardiano, anche la sua indeterminatezza. Non vi è traccia in esso di preclusioni di classe, di cautele da “liberale”, anzi vi è l’esplicita esigenza di far partecipe della nuova morale laica tutto il popolo; ma non vi è neppure accenno ad una lotta contro l’oppressione politico‑sociale, come condizione preliminare per raggiungere la “confederazione” dell’intera umanità. Il Nostro pensa che i contatti umani fra i gruppi siano secondari, e perciò da mettersi a tacere di fronte all’esigenza di fare blocco contro il nemico numero uno: l’empia natura. E rifacendoci ancora una volta alla distinzione tra progressismo politico‑sociale e progressismo scientifico, possiamo dire che Leopardi assorbe il primo nel secondo. Solo che, in quest’ultima fase del suo pensiero, egli toglie al proprio pessimismo materialista quel carattere solitario ed umbratile che aveva assunto negli anni di Bologna, così come, riprendendo il titanismo del Bruto minore, ne elimina quella coloritura aristocratica che esso aveva sempre avuto fino ad allora. Non vi è più quella contrapposizione di principio tra l’eroe ed il volgo, anzi il pessimismo agnostico è destinato a divenire un atteggiamento comune a tutta l’umanità, una filosofia popolare. In questo senso si può dire che il progressismo politico non si risolve semplicemente nel progressismo scientifico, ma gli infonde la propria esigenza democratica. E qui è la differenza esistente tra il materialismo leopardiano ed il credo scientista dell’Ottocento.

Il pessimismo del Nostro, nella sua seconda e più matura fase, trae origine dalla constatazione di alcuni dati della vita fisica dell’uomo, che sono in contrasto con quell’aspirazione alla felicità, ch’è anch’essa naturale tendenza umana. Il Leopardi non ignora affatto che la natura ha la sua storicità, ma sa che è una storicità di ritmo incomparabilmente più lento, di carattere meccanico ed inconsapevole, a cui non si può attribuire alcun teologismo o provvidenzialismo. Egli non ignora nemmeno la possibilità di “forzare” la natura stessa, ma ritiene che tale intervento dell’uomo su di essa non potrà mai giungere a modificare quei dati fondamentali, a cui accennavamo poc’anzi, dai quali inevitabilmente scaturisce l’infelicità. In questo senso strettamente materialistico si può, a nostro giudizio, parlare di un valore permanente del pessimismo leopardiano, senza nulla concedere ad interpretazioni metafisiche ed esistenzialistiche del pensiero di Leopardi, e senza affatto rinunciare ad indagare sulle esperienze concrete, individuali, storiche e sociali, da cui quel pessimismo nacque. Il Luporini osserva che ciò che impedì al Nostro di sviluppare fino in fondo il nucleo più progressista del suo pensiero fu, oltre alla mancanza di contatto con il movimento rivoluzionario popolare, la mancanza della dialettica, il nuovo “strumento mentale” che si andava in quegli anni sviluppando nella filosofia tedesca. Ora è indubbio che il Leopardi constati alcune difficoltà logiche (contraddizioni evidenti e palpabili che sono in natura, le quali sembrerebbero infirmare la validità del principio stesso per cui una cosa non può al medesimo tempo essere e non essere[15]), le quali apparivano giustamente insolubili con il vecchio sistema della logica aristotelica. Ma supporre che l’acquisizione di un nuovo strumento teoretico avrebbe potuto indicargli la via per superare il pessimismo, significa disconoscere il carattere tutto pratico, sensistico‑edonistico, del pensiero leopardiano. Per un pensatore così profondamente antiteoreticista, antimetafisico come Leopardi, l’infelicità non la si supera dialettizzandola sul piano logico, ma soltanto – ove ciò sia possibile – eliminandola di fatto. Bisogna inoltre notare che la tesi provvidenzialistica secondo la quel Dio e la Natura conseguono, pur attraverso l’infelicità degli individui, la felicità generale dell’umanità, o la variante della stessa tesi, secondo cui la civiltà moderna assicurerebbe, se non la felicità degli individui, la felicità delle masse, erano in un certo qual modo un tentativo di superamento “dialettico” del pessimismo, che – in questa visione – sarebbe effetto di una considerazione frammentaria e statica della realtà, di una incapacità sostanziale di vedere il fenomeno in relazione con il tutto. Ebbene, il Nostro, seguendo Voltaire e andando molto oltre Voltaire, non s’è mai stancato di respingere tale soluzione dialettica proprio perché essa è un soluzione illusoria, una “negazione ideale” che maschera la reale incapacità di liberare l’uomo dall’oppressione che su di lui esercita la natura. Per Leopardi la Natura conserva, anche di fronte all’uomo civilizzato, tutta la sua formidabile forza logoratrice e distruttrice: perciò, la lotta dell’uomo contro di essa si configura nel pensiero leopardiano come una lotta disperata, e la distruzione di tutti i miti non dà luogo ad una visione ottimistica della realtà, ad un pessimismo lucido e combattivo.

NOTE AL TESTO

[1] Antonio Prete, Il pensiero poetante, Milano, 1980, pag. 10.

[2] Antonio Prete, Il pensiero poetante, opera citata, pag. 10.

[3] Giacomo Leopardi, Zibaldone, in “LEOPARDI – TUTTE LE OPERE” a cura di Walter Binni ed Enrico Ghidetti, vol. II, Firenze, 1983, 21‑22.

[4] Zibaldone, opera citata, 37.

[5] Zibaldone, opera citata, 40.

[6] Zibaldone, opera citata, 4428, 2 Gennaio 1829.

[7] Zibaldone, opera citata, 452, 22 Dicembre 1820.

[8] Zibaldone, opera citata, 4229-4231, 9 Dicembre 1826.

[9] Zibaldone, opera citata, 115, 7 Giugno 1820.

[10] Francesco De Sanctis, “La morale di Leopardi”, in Leopardi, Torino, 1983, pag. 271-277.

[11] Francesco De Sanctis, “La morale di Leopardi”, opera citata, pag. 273.

[12] Francesco De Sanctis, “La morale di Leopardi”, opera citata, pag. 273-274.

[13] Cesare Luporini, Leopardi progressivo, con una nuova “Avvertenza”, Roma, 1980.

[14] Giacomo Leopardi, La ginestra, in “I Canti – Operette Morali”, introduzione di Franco Montanari, note di Domenico Consoli, Basiano, 1968, pag. 235‑252, versi 126-135.

[15] Zibaldone, opera citata, 4128-4132, 5-6 Aprile 1825.

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