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Marco M. G. Michelini | 27 Gennaio 2025

Già nel Seicento, dominato dalla commedia dell’arte, il teatro si era dimostrato parte assai viva della cultura italiana – e più generalmente europea – per cui, fin dall’inizio del Settecento, e quindi prima delle riforme apportate al teatro da Metastasio e da Goldoni, gli scrittori cominciano ad indagarsi e ad analizzare le forme teatrali alla ricerca di una nuova drammaturgia. Il lento distacco del teatro francese dalla commedia italiana – che veniva comunque universalmente identificata con la commedia dell’arte, con tutti quei pregi e difetti che essa si portava dietro – porta, sull’esempio di Molière[1], ad una forma di spettacolo che si configura come una via di mezzo tra la commedia dell’arte e la commedia erudita. Restano, insomma, i ruoli classici della commedia dell’arte (Arlecchino, Colombina, Brighella ecc.) ma, per la prima volta, gli attori gettano via la maschera e scoprono la faccia dando luogo a nuovi personaggi. Ed è così che gli autori italiani “pregoldoniani” cominciano a costruire le trame delle loro opere sulla falsariga di quelle di Molière, rasentando – non troppo raramente – il plagio vero e proprio.

Del resto, verso il teatro, come luogo insieme sociale e di scrittura, il Settecento presenta una naturale e particolarissima disposizione. Si realizzano ed esaltano, nell’esperienza del teatro, ben più che in altre, le esigenze, proprie e vivissime della società colta settecentesca, di incontro, di comunicazione, di dialogo, di scambio di idee, di attacco, di polemica. E sulla scena, come nel testo scritto che la precede, trovano voce, definizione e verifica le linee di tendenza, le tensioni, le scelte intellettuali e sentimentali, i miti, i conflitti di un mondo caratterizzato da una mobilità sino allora mai vista e impensabile; e tutto ciò con una incidenza assai maggiore che non in un libro, data l’accessibilità della rappresentazione a un pubblico in genere assai più ampio e differenziato. Non v’è quindi da meravigliarsi (e probabilmente non è neppure un caso) se tre dei maggiori autori italiani dell’epoca (Metastasio, Goldoni, Alfieri) abbiano scritto essenzialmente per il teatro e che, in varia misura, vi si siano comunque impegnati la più parte dei letterati del tempo.

Perfettamente inserito d’altronde nel tessuto e nella pratica della società settecentesca è anche il teatro come luogo concreto di rappresentazioni, sia quello offerto dal sovrano illuminato ai piaceri e all’«istruzione» dei sudditi, sia quello a gestione privata come i molti veneziani intorno alla metà del secolo, sia le sale delle ville aristocratiche, in cui capita si offrano, a un uditorio di eletti, sofisticati “tentativi” scenici; sia infine, e in certo modo all’opposto, i rozzi palchi su cui, negli anni della Rivoluzione, ed esattamente durante il Triennio giacobino, si inscenano drammi burattineschi di monarchi abbattuti ed aristocratici bastonati. E se, come per la poesia e la narrativa, è possibile rileggere i testi teatrali del tempo alla luce delle più varie correnti di sensibilità e di gusto che in genere percorrono allora la società colta e meno colta (soprattutto nella pratica scenica è ad esempio riscontrabile il dilagare di quel sensibilismo più o meno larmoyant[2] che caratterizza la seconda metà del secolo; ed è allora una pratica fitta di irriducibili conflitti familiari, amori impossibili, fanciulle sventurate e via soffrendo, temi e figure che costituiranno poi il farraginoso arsenale del teatro popolare ottocentesco); in particolare la letteratura teatrale di quegli anni si può considerare oggi come assai illuminante nei riguardi del suo specifico retroterra storico e socio‑economico.

 È così che, indipendentemente da una considerazione per generi, quella linea di prove che muovendo dal teatro tragico di Gianvincenzo Gravina, col suo motivo di fondo dell’intellettuale ingiustamente perseguitato, e passando per la commedia di Goldoni e Chiari giunge, alla fine del secolo, sino alle rappresentazioni – di più esplicito impegno politico – di Giovanni Pindemonte[3] (come Adelina e Roberto, messa in scena a Milano nel 1799, o l’antinapoleonico L. Quinzio Cincinnato, anch’esso rappresentato a Milano nel 1803) o di Simeone Antonio Sogràfi[4] (il Matrimonio democratico, rappresentato a Padova nel 1797 alla presenza di Napoleone), ci può dire parecchio sul complesso costituirsi e articolarsi, negli stati italiani del tempo, non solo di una classe ma anche, soprattutto, di una visione del mondo borghese. Mentre non è difficile leggere le estreme tensioni e gli agonismi fra ciechi ed eroici del mondo nobiliare al tramonto così nelle Fiabe gozziane come nelle tragedie di Alfieri o di Ippolito Pindemonte.

Certo, è possibile considerare il teatro del Settecento anche in una prospettiva più specificamente letteraria. Né in ciò si farà torto agli autori del tempo, tutti o quasi, anzi, in vario modo impegnati, forse proprio essendo, in molti, consapevoli della vitalità e novità dell’esperienza che venivano compiendo, in uno strenuo confronto con la tradizione, ancora autorevole e obbligante (si pensi, per il genere tragico, al problema delle unità), e al tempo stesso, in altro verso, con gli stimoli della cultura europea contemporanea o di poco precedente.

Più attivo, fra tutti, il dibattito – a livello sia teorico che di sperimentazione pratica – sulla tragedia. Qui il punto d’avvio, sul principio del secolo, consiste appunto essenzialmente nel dover scegliere fra un’adesione rigorosa ai modelli antichi, magari filtrati attraverso il teatro del Rinascimento, e l’attenzione in varia misura alle splendide prove francesi del gran secolo: Corneille, Racine soprattutto (che pure derivano dall’antico, ma concedendo con larghezza a motivi, come l’amore, in quello in prevalenza marginali). Sono, in sintesi, le posizioni rispettivamente di un Gravina e un Martello. Si pone, più tardi, a partire almeno dal Cesare di Antonio Conti, che appare nel 1726, il grosso problema di un rapporto (da accettarsi o da respingere) col “barbaro” Shakespeare, e con questo, fra le altre, le questioni, affrontate a livello teorico dal medesimo Conti sino ad Alessandro Verri, cioè sino al tardo Settecento, e lasciate quindi in eredità ai romantici e a Manzoni, se e in quali modi la tragedia debba riferirsi al vero storico e, in tale ambito, alla specifica storia nazionale.

Al di là del caso eminente e per molti aspetti inconfrontabile dell’Alfieri (nel senso che i diversi problemi del genere vi vengono accolti e trascesi in una risoluta, fortissima intenzione di discorso privato), nel secondo Settecento la tragedia, legata ad una cultura e un costume letterario in via di esaurirsi, sembra dibattersi fra difficoltà sempre meno risolvibili. Lo spirito di Weltliteratur, di una letteratura cioè aperta alle esperienze e agli apporti più vari, proprio in genere del secolo, induce ad esempio alla considerazione, oltre che di Shakespeare, di nuovi modelli, come quelli proposti dal teatro barocco spagnolo. Derivano di qui prove insolite, come I due fratelli nemici, “tragicommedia” composta da Carlo Gozzi nel 1773. In altri casi, la tragedia inclina ad assumere i caratteri e le invenzioni propri del contemporaneo dramma “flebile”, della commedia cioè non tanto comica in senso stretto quanto realistica e sentimentale; ed è questo, fra i molti, il caso di Elena e Gerardo, «rappresentazione tragica famigliare» scritta da Giovanni Pindemonte sullo scorcio del secolo. Senza insistere in rilievi più dettagliati, noteremo che si tratta di una crisi complessa, insieme teorica e operativa, certo non disgiungibile dalla crisi di fondo, a livello socio‑economico e politico, vissuta dalla società italiana fra tardo Settecento e primo Ottocento. La tragedia, quale era venuta definendosi dal secolo d’oro dei Greci, attraverso il Rinascimento, sino all’età dell’Arcadia, ne esce, come tale, definitivamente esaurita, al più riesumabile per ricuperi in vario modo eccentrici, da Manzoni sino a D’Annunzio.

Vicenda in qualche modo analoga a quella della tragedia presenta per questo riguardo nel Settecento il dramma per musica. Ad annetterlo all’area del teatro tragico (a parte s’intende la specificità di certi problemi, come quello del rapporto fra musica e testo) induce non solo la indubbia affinità di temi, di situazioni, di toni (si pensi a testi celebri come la Didone abbandonata o l’Attilio Regolo di Metastasio), ma l’idea, diffusa in tutto il secolo e formulata in particolare nei vari scritti sul tema dello studioso napoletano Saverio Mattei[5] e nel Saggio sopra l’opera in musica di Francesco Algarotti, che l’«opera» moderna debba considerarsi e insieme cercar di essere l’erede per eccellenza delle antiche tragedie. Comunque si possa valutare quest’opinione, è un fatto che nella prima metà del secolo il maggior impegno, teorico e operativo, degli scrittori – e sono gran parte – che si occupano di melodramma appare rivolto a fare di quest’ultimo, dello spettacolo disordinato, macchinoso e composito quale era stato in prevalenza nel Seicento, una rappresentazione essenzialmente fondata su un testo poetico: costruito, nonostante alcune varianti, appunto sui modelli del teatro tragico antico e rinascimentale, e preoccupato di quelle esigenze di ordine, verisimiglianza, contenuto patetismo presenti in genere nella cultura del tempo.

È questa la “riforma”, per molti aspetti simile a quella che si realizza nella commedia. Il merito maggiore, o il merito almeno di averla consapevolmente iniziata, è attribuito per tradizione al coltissimo veneziano Apostolo Zeno, principale redattore per alcuni anni del primo importante periodico di cultura italiano, il Giornale de’ letterati d’Italia, e poi fra il 1718 e il 1729 poeta di corte a Vienna. Ma vi recano in realtà un vario contributo i più prestigiosi scrittori di quegli anni: Maffei, Martello, Rolli, lo stesso Goldoni. E in questa prospettiva si situa per ogni riguardo l’ampia e prolungata attività di Metastasio, cui si devono senza dubbio i risultati più suggestivi.

Benché il prestigio, la rappresentazione e l’imitazione dei drammi per musica dell’abate romano perdurino sino agli anni della Rivoluzione, costituendo in ogni caso un punto di riferimento indiscusso, il medio e soprattutto il tardo Settecento sono per il melodramma, appunto come per la tragedia anche se in modo diverso, un momento di crisi complessa e per più versi definitiva. Nell’ambiente gallicizzante di Parma si tenta, ad opera soprattutto di Carlo Innocenzo Frugoni[6], un vario ricupero dell’opera francese, caratterizzata dall’ampio spazio lasciato alla dimensione coreografica dello spettacolo. Ovvero, mentre in genere si vengono riaffermando, contro quelle che erano state le cure dei riformatori cui si è accennato e secondo, evidentemente, le esigenze del pubblico, le componenti uditive e visive del melodramma (le musiche, le danze ecc.), si riprende a puntare da più parti sul testo scritto, e in particolare sulla verisimiglianza delle invenzioni e sulla significatività – anche sociale e politica – dei temi. È questo ad esempio il caso di Ranieri Calzabigi, letterato di varia esperienza teatrale e autore, intorno al 1770, di un curioso lavoro, Amiti e Ontano, in cui si rappresenta la vicenda d’amore di due «selvaggi» e si affronta, con impegno polemico, il problema dello sfruttamento degli schiavi. Occorre però dire come l’opera di Calzabigi sia propriamente una «commedia per musica», e come in quest’ultima parte del secolo sempre più incerti, come nel caso del teatro tragico, si vadano facendo i limiti specifici del melodramma.

Si può pensare, anche in questo caso, al riflesso, a livello scenico, di fenomeni di più ampia portata storico‑sociale. Al pubblico piuttosto di élite, come classe e cultura, del teatro di corte primosettecentesco viene a poco a poco sostituendosi un pubblico più ampio, meno idoneo forse a valutare l’eleganza di certe invenzioni classicizzanti e in prevalenza desideroso di veder rappresentati sulla scena, pur sempre entro i confini del “serio”, i problemi del proprio tempo o anche solo di dimenticarsi nelle suggestive delizie della musica: ragioni poi, l’una e l’altra, della fortuna grande, popolare veramente, del teatro d’opera nella prima metà dell’Ottocento.

Come per il melodramma, anche per il teatro comico i primi decenni del Settecento appaiono caratterizzati da un vario impegno di riforma. Benché un luogo comune della tradizione non solo manualistica soglia attribuirne iniziativa e merito a Goldoni, è un fatto che i fervori razionalistici diffusi nella cultura italiana dell’età dell’Arcadia stimolano molti scrittori (spesso i medesimi che si son visti impegnati in altre forme di teatro) ad operare sul vasto e farraginoso materiale offerto dalla pratica comica del Seicento (commedia dell’arte, commedia di tipo spagnolo, commedia erudita di ascendenza rinascimentale) in vista di un testo, ideale ma anche non di rado raggiunto, in cui, al solito, la verisimiglianza delle situazioni e dei caratteri si sposi a condizioni di urbanità e di equilibrio compositivo, con richiami non dissimulati a modelli classici (antichi, come Terenzio[7]; cinquecenteschi, come Ariosto; ma anche, spesso, quasi contemporanei, come Molière), e in una prospettiva di «osservazione», variamente mordace, del costume contemporaneo.

Prima che Goldoni all’altezza degli anni quaranta intraprenda la sua straordinaria esperienza e concepisca la sua riforma del teatro, Il Forca (1706) del napoletano Niccolò Amenta[8], Il cicisbeo consolato (1708) del fiorentino Giovan Battista Fagiuoli[9], La serva padrona (1709) del senese Jacopo Angelo Nelli[10], il Don Pilone ovvero il Bacchettone falso (1711) dell’altro senese Girolamo Gigli[11], il Femia sentenziato (1724) del bolognese Pier Jacopo Martello, Le cerimonie (1728) del veronese Scipione Maffei sono alcuni fra gli episodi più notevoli di una vicenda assai viva, non o non solo libresca ma ogni volta verificata a livello di rappresentazione, dunque di pubblico, e neppure priva, anche se in minor misura che nel caso della tragedia e del dramma per musica, di un dibattito teorico. Si può rilevare, al più, come il fenomeno investa soprattutto la Toscana e la Padania: a Napoli, dove pure opera l’Amenta, ottengono grandissimo successo le commedie di Domenico Luigi Barone[12], cose di gusto spagnolo, molto intricate, fitte di situazioni e di personaggi, e tali da richiedere – nonostante il curioso svolgersi, sulla scena, di più azioni contemporaneamente – almeno sette ore di rappresentazione.

Con Goldoni e in Venezia, come si è già avuto modo di dire, il teatro comico assume intorno alla metà del secolo una più risoluta intenzione e consapevolezza ideologica. Sullo stimolo di quest’ultima, la commedia, come struttura scenica esercitata ormai da alcuni decenni su una varia osservazione e apprensione della realtà individuale e soprattutto sociale, si fa decisivo strumento di conoscenza di un mondo in crisi complessa (veneziano ma non solo, naturalmente). Di qui il teatro di reazione di Carlo Gozzi, per il quale, fra gli anni sessanta e settanta, la ricerca di un tipo di rappresentazione rivolto non a far luce sulle cose ma piuttosto a intrattenere e dilettare, e ciò al fine di potervi svolgere un esplicito e insistito discorso politico antiprogressivo, finisce per implicare un ricupero, non certo imputabile a stravaganza, della commedia dell’arte e di certo teatro spagnolo del Seicento. Quanto al teatro del Chiari, considerato a lungo insignificante e sul quale ancora mancano illuminanti indagini critiche (benché per diversi anni sulle scene di Venezia abbia conteso il primato alle commedie di Goldoni), sembra trattarsi, senza far qui questione del suo intrinseco valore letterario o scenico, dell’esperienza – negli anni, intorno al 1760, che rappresentano in Italia il culmine della cultura progressivo‑illuministica – di maggior tensione ideologica in tal senso e di più vivace apertura nei confronti della contemporanea letteratura, teatrale come narrativa, d’Europa.

È un fatto, che per la prima volta negli stati italiani col teatro di Pietro Chiari, più che non con quello del più moderato Goldoni, il «popolo» (e s’intende proprio quello incapace di leggere), anziché spassarsela ai lazzi delle maschere poi rimesse in uso dal conte Gozzi, può entrare in qualche modo in contatto con i temi più scottanti dibattuti nell’Europa progressiva del tempo e veder vivere sulla scena questioni come il contratto sociale o l’emancipazione della donna.

In ogni modo l’esperienza di Chiari e Goldoni – che non a caso, di fronte agli attacchi gozziani, si riconciliano nel 1761 – con quello che era stato il suo comune denominatore (attenzione penetrante e non qualunquistica ai dati della società circostante, cordiale considerazione delle classi emergenti, gusto per il dibattito ideologico su una linea in diverso modo e grado progressiva, apertura nei riguardi della cultura europea) e con il polverone di adesioni e polemiche suscitato soprattutto a livello giornalistico costituisce un termine di riferimento primario per un tipo di commedia diffusamente praticato negli ultimi decenni del secolo. Si possono fare, a questo riguardo, almeno i nomi del bolognese Francesco Albergati Capacelli; del padovano, già ricordato, Simeone Antonio Sogràfi; del veneziano Antonio Piazza[13]; del romano Giovanni Gherardo De Rossi[14]. È dunque, ancora, un fatto riguardante in prevalenza l’Italia del Nord: De Rossi non ha del resto fortuna in patria, dove invece, come a Napoli, ha allora grande successo un imitatore del Gozzi, Francesco Cerlone[15].

Si tratta comunque di un teatro in genere aggiornato sulla contemporanea produzione europea, e sempre meno comico nel senso oggi invalso del termine, ma a mezzo fra la rappresentazione satirica di un mondo (in prevalenza la nobiltà, o meglio la nobiltà più retriva e corrotta) e quel tipo di dramma “flebile” cui si è più sopra accennato. Si attenuano così sempre più i confini stabiliti dalla tradizione classicizzante e anche da una pratica secolare col genere tragico, il quale a sua volta, si è già rilevato, viene orientandosi in analoga direzione. Senza qui certo voler fare una storia naturale del nostro teatro, si può però notare come in quest’ultimo Settecento circostanze complesse di società e di cultura vengano segnando di fatto la fine di alcuni “generi”, o in assoluto dei “generi” di ascendenza classica, e il costituirsi di quel tipo di teatro, borghese, insieme realistico e sentimentale, che avrà ampio sviluppo fra Ottocento e primo Novecento.

Per ciò che ancora riguarda il maturo Settecento, noteremo infine come il ruolo della commedia in quanto spettacolo rivolto essenzialmente a dilettare e “far ridere” venga assunto, con grandissima fortuna e risultati a volte memorabili, da un tipo di rappresentazione in cui confluiscono o convivono l’intermezzo e il melodramma giocoso (sviluppi in senso appunto giocoso del dramma per musica) e l’opera buffa, di origine autonoma e propriamente napoletana. Prevalgono in genere, in questi spettacoli, le componenti mimiche e musicali, ed è indubbio che il grande successo di alcuni debba gran parte alle musiche di famosi compositori, tra i quali anche Mozart. In alcuni casi tuttavia la capacità letteraria e la personalità spiccata degli autori riescono a mantenere ai testi scritti un’autonomia ancor oggi seducente ovvero, com’è più giusto, a stabilire un equilibrato e sottile rapporto con la musica. È questo soprattutto il caso di Giambattista Casti, nei cui esiti migliori si realizza un mirabile incontro di apertura fantastica e senso vivo del reale, di abbandono alle seduzioni dell’immaginario e di rinvio ai dati anche più inquietanti della storia contemporanea.

Scipione Maffei

 

Nacque a Verona il 1 giugno 1675, terzogenito maschio e ultimo degli otto figli del marchese Giovanni Francesco e della marchesa Silvia Pellegrini. Formatosi presso i collegi gesuiti di Parma e di Roma, abbracciò da giovane la carriera delle armi, divenendo ufficiale nell’esercito bavarese. Tornato in Italia dopo la battaglia di Donauwörth (1705), cui partecipò, iniziò a scrivere, pubblicando trattati su vari argomenti e rilanciando il teatro italiano della prima metà del Settecento.

Consultato dal governo sabaudo, nel 1718 fornì un Parere sull’Università di Torino nel quale prefigurava un’Università destinata a formare non solo eruditi, ma studiosi in possesso di strumenti critici in grado di essere utili allo Stato: «uno squadrone preparato a sostener con la penna, in ogni materia ed in ogni incontro» la gloria e le ragioni del sovrano. E per quanto le suo proposte rimanessero sulla carta, la riforma dell’Università di Torino voluta dal re Vittorio Amedeo II presentò non pochi elementi nuovi, e il suo ideale di Università, fondato sul cattolicesimo illuminato, fu per tutto il Settecento un punto di riferimento per intellettuali italiani e governanti riformatori.

Contribuì inoltre alla scoperta di importanti manoscritti alla biblioteca capitolare di Verona. A lui si deve l’istituzione del Museo Lapidario di Verona, avvenuta tra il 1716 e il 1720, che risulta essere il primo del genere in Europa. Sistemato provvisoriamente grazie al contributo di un sodalizio di privati cittadini, giunse a compimento solo intorno al 1745, corredato dal catalogo descrittivo. Se il Lapidario di Torino si inseriva in un progetto museale pubblico, voluto dal sovrano e centrato sulle collezioni universitarie, quello veronese rimase l’impresa di un singolo, sostenuta solo parzialmente dalle magistrature cittadine, ma destinata a creare un modello. Dal punto di vista scientifico si deve a Maffei il merito di aver compreso per primo che i fulmini visibili dal nostro occhio si formano dal basso e poi ascendono verso le nubi, l’opposto di quanto asserito dal pensiero comune della sua epoca..

Circa il suo specifico lavoro letterario, di eccezionale ampiezza (sarà raccolto nel 1790, a Venezia, in ventuno volumi), si può rilevare anzitutto la parte rappresentata dalle moltissime pagine, in forma di lettere o di articoli o di interventi estemporanei, che Maffei ebbe modo di scrivere, in pratica durante tutta la prima metà del Settecento, nella funzione, che gli fu congeniale, di organizzatore e animatore di cultura: specialmente notevole, in questo ambito, la fondazione (nel 1710, con Apostolo Zeno e con lo scienziato Antonio Vallisnieri[16]) e la cura del Giornale de’ letterati d’Italia, poi ripreso nel 1737 con le Osservazioni letterarie. E tuttavia la zona più cospicua dell’opera dell’aristocratico veronese appare costituita dai numerosi lavori di erudizione storica e archeologica, in cui, per dirla con Foscolo, altro suo estimatore, egli in prevalenza «illustrò le romane antichità e la storia di Verona da uomo di genio». Appunto Verona illustrata era per questo riguardo il risultato più prestigioso, in un’attività, centrale nella cultura di tutto il secolo, di ricupero dell’antico, che pone in tale ambito Maffei accanto a Muratori (il quale in effetti gli fu amico e volle definirlo, in una lettera del 1750, «il campione più coraggioso e vigoroso della letteratura in Italia»).

Variamente e attivamente, come già si è accennato, Scipione Maffei ebbe comunque modo di occuparsi anche di teatro. Si potranno qui anzitutto ricordare, in linea generale, il trattato, del 1753, Dei teatri antichi e moderni, e l’amicizia con l’attore Luigi Riccoboni[17], da cui Maffei fece rappresentare, sulle scene di Venezia, diverse tragedie italiane, poi raccolte, fra il 1723 e il 1725, nel Teatro italiano. Su un piano più propriamente creativo, al teatro comico il patrizio veronese pagava un tributo notevole soprattutto con Le cerimonie, commedia composta nella prospettiva di riforma cui si è accennato (in versi, priva di maschere, derivata in parte dai Fâcheux[18] di Molière) e rappresentata per parecchie sere a Venezia durante il carnevale del 1728. Piacerà ancora, a distanza di un secolo, a Leopardi, che la giudica «commedia piena di vero e antico ridicolo», mentre Goldoni, nella dedica al suo Molière, rivolgendosi al dedicatario, Maffei appunto, avrebbe scritto, significativamente: «Voi m’inspiraste quel genio che andar mi fece della buona commedia in traccia, e da Voi l’oggetto primario della onestà e della modestia apprendendo, trovai la maniera di destare il riso negli uomini, senza offender l’innocenza».

Quanto al teatro tragico, la Merope venne composta da Maffei nel 1713. Scritta, nel clima di polemiche franco‑italiane di quegli anni e all’indomani delle prove, in vario modo notevoli, di Martello e Gravina, soprattutto col proposito di dimostrare le capacità della cultura italiana nell’ambito della tragedia, nonostante un’origine così cerebrale e bellettristica la Merope avrebbe incontrato per anni uno straordinario successo di pubblico, divenendo al tempo stesso uno dei testi italiani più noti nell’Europa del Settecento: imitato da Voltaire, tradotto da Pope, discusso da Lessing, meditato da Goethe.

A chi oggi la riconsideri non è però difficile trovare i motivi di un incontro così strepitoso. Vicina per certi aspetti al teatro francese del Seicento ma da quello anche sottilmente diversa (nel puntare ad esempio su una passione femminile, ma di madre infelice più che di donna innamorata) e strutturalmente difforme dall’antico, specie per l’eliminazione dei cori, pur essendo costruita su figure e situazioni e percorsa da un’aura di Ellade leggendaria, la Merope dovette apparire qualcosa di nuovo e di originale, ma insieme di saldamente legato a un gusto e una tradizione allora, e poi per gran parte del secolo, di estremo e indiscusso prestigio. Inoltre alcuni temi di fondo, come quello del tiranno e del tirannicidio o l’altro, di una condizione di muliebrità esasperata e in rivolta, e più in genere l’accentuato patetismo che percorre l’intera tragedia erano certo elementi tali da esercitare una suggestione notevole su spettatori e lettori sempre più segnati, col maturare del secolo, da un’inquieta sensiblerie e da consimili preoccupazioni di ordine ideologico. Infine il linguaggio: alto e arcaizzante secondo la tradizione del genere, ma in molti luoghi non poi tanto lontano da una sorta di parlato nobile, e comunque in prevalenza sciolto e fluente (sulla scorta di una novità tecnica importante: l’endecasillabo sciolto), ben più fruibile quindi, a livello scenico, che non – per fare due esempi significativi di un prima e di un dopo – quello di un Gravina o di un Alfieri.

Maffei morì nel 1755, lasciando un’impronta notevole nel mondo intellettuale in cui in prevalenza era vissuto, compreso fra Venezia, Modena e Verona, e in particolare in quest’ultima città, culturalmente fra le più vive nell’Italia del Settecento in una prospettiva di accorta, sottile conciliazione (sempre più ardua, certo, col progredire dei decenni) fra antico e nuovo, tradizione e modernità. Testimonianza significativa di questa sua ideale presenza offre l’Elogio che gli vorrà dedicare il concittadino Ippolito Pindemonte, l’uomo di lettere che nella seconda metà del secolo, tenuto conto della congiuntura e dei tempi mutati, forse più gli somiglia.

Francesco Albergati Capacelli

 

Nacque a Bologna nel 1728 dal marchese Luigi e da Eleonora Bentivoglio d’Aragona. Sebbene appartenesse ad una delle più nobili famiglie bolognesi, fin dalla giovinezza fu attratto da una grande passione per il teatro, al quale, superando incomprensioni e pregiudizi, dedicò tutta la sua vita, come traduttore, interprete dilettante, commediografo, protettore di attori e di autori. Una vita intensa e accidentata sul piano privato e sentimentale (si sposò tre volte e fu accusato di avere ucciso la seconda moglie in un impeto di gelosia); attenta e partecipe, non solo nei limiti del lavoro letterario, alle vicende e ai problemi del proprio tempo: investito più volte nella sua città di incarichi pubblici (succedette al padre nella dignità senatoria e ricoprì più volte la carica di gonfaloniere di giustizia della città di Bologna), poté inserirsi agevolmente, per il suo lineare ed equilibrato progressismo, nei gruppi dirigenti della Repubblica Cisalpina, dove, nel 1801, ricoprì l’ufficio di ispettore degli spettacoli. Assai attiva fu anche la sua presenza nella società letteraria del secondo Settecento, attestata dal rapporto di corrispondenza e di amicizia con numerosi intellettuali di notevole rilievo: Alfieri, Baretti, Cesarotti, Goldoni (che lo raffigura nel protagonista de Il cavalier di spirito), Voltaire.

Conforme a una delle linee di forza dell’illuminismo, un accentuato interesse pedagogico caratterizzò la varia attività letteraria di questo aristocratico così sottilmente aperto alla più viva cultura progressiva d’Europa. Lo si ritrova, in termini addirittura programmatici, nell’Educazione morale, rielaborazione del saggio omonimo del Comparet, così come nelle Lettere (varie, capricciose, piacevoli) e nelle Novelle. Ed esso si pone al fondo anche della sua produzione teatrale, intensa soprattutto intorno al 1770. Quale che sia infatti la forma prescelta (commedia in uno o più atti, in prosa o in versi; dramma in tre o cinque atti), l’invenzione scenica si fa qui in genere portatrice – su una linea che si richiama in modo esplicito insieme a Chiari e a Goldoni – di un’osservazione perlopiù penetrante del costume contemporaneo e al tempo stesso di un discorso inteso a promuoverne o almeno sollecitarne un progresso ritenuto doveroso e possibile. Così, ad esempio, ne Il ciarlator maldicente, Albergati affrontava il tema, toccato press’a poco negli stessi anni da Parini ne La musica, del cantante evirato, del «canoro elefante», appunto, che «manda per gran foce / di bocca un fil di voce». E nella fortunatissima commedia in un atto Le convulsioni rappresentava, con una ferocia che costituisce un indubbio sviluppo di certe glaciali durezze goldoniane, il tipo della dama fatua e alla moda, volonterosamente spregiudicata, fervida lettrice di libri avanzati, ma incapace di assimilarne la lezione di intelligenza e di civiltà; mentre in Rodolfo, dramma in cinque atti, il tema di fondo è che «siccome l’autorità paterna non può essere eccessiva, così neppur eccessiva deve essere la filiale obbedienza. Gli affetti del cuore, quando viziosi non sieno, non debbono né celarsi, né far arrossire».

L’irragionevolezza del duello per motivi d’onore è invece, sulla scorta esplicita di Rousseau, e in particolare di una nota pagina della Nouvelle Héloise, il nucleo problematico della commedia in tre atti e in prosa I pregiudizi del falso onore (1773). Si ritrova, in essa, l’impietosa rappresentazione di certa fatuità aristocratica con in più, un risvolto assai intenso di grottesco, costituito dalla laida, ributtante decrepitezza del personaggio di Flavia, che ne fanno un qualcosa di unico nella nostra letteratura tardosettecentesca (ma un riscontro è forse ancora possibile istituire con alcune invenzioni della Notte pariniana). I Pregiudizii sono comunque cosa notevole anche nell’offrire un esempio felicemente risolto di quel teatro comico (cui già s’è accennato precedentement) che sempre più, nell’avanzato Settecento, viene riducendo i confini fra il serio e il ridicolo, o meglio, in cui quest’ultimo si fa – molto più riso­lutamente che non già in certo Goldoni – elemento costitutivo di un discorso serio che lo coinvolge e lo supera, e in cui, infine, uno spazio sempre maggiore viene lasciato allo sviluppo di figure, qui in particolare Virginia e Riccardo, rappresentate, in chiave “flebile”, nella complessità dei loro conflitti e delle emozioni.

Francesco Albergati Capacelli morì a Bologna nel 1804 e fu sepolto con la famiglia Albergati nell’arco del portico nord del Chiostro annesso al Maggiore del cimitero monumentale della Certosa di Bologna.

Giovanni Battista Casti

 

Nacque ad Acquapendente, in provincia di Viterbo, nel 1724 da Francesco e da Francesca Pegna. All’età di dodici anni entrò nel seminario di Montefiascone, dove nel 1747 vi fu ordinato sacerdote. Nel 1752 il pontefice Benedetto XIV[19] gli affidò la cattedra d’umanità presso lo stesso seminario, dove rimase, con frequenti soggiorni a Roma, sino al 1764, quando si trasferì (o meglio riparò, per la condotta e i pensieri troppo liberi) nella ben più “illuminata” Firenze. Qui venne assunto, essendo già noto per un’abbondante pratica di versificazione, fra erotica e giocosa, dal granduca come poeta di corte; ma nel 1769, su invito dell’Imperatore, si recò a Vienna, dove soggiornò, ammiratissimo, una decina d’anni. Risale a questo periodo viennese la composizione delle prime Novelle galanti, in ottava rima, che Casti continuò a scrivere sino al 1802: si tratta di testi tratti, con molta libertà, dalla tradizione novellistica trecentesca e cinquecentesca, da Voltaire e da altre fonti, anche orientali, e a mezzo fra lo sviluppo di una varia aneddotica amorosa e un discorso satirico orientato in direzione risolutamente illuministica. Dei molti viaggi compiuti attraverso l’Europa durante il soggiorno viennese, specialmente notevole fu quello del 1778 a Pietroburgo, alla corte di Caterina II. Frutto di quest’incontro con il mondo russo, ancora più di altri vistosamente diviso fra una realtà quanto mai arcaica e animose ma velleitarie tensioni al nuovo, è il Poema tartaro, dodici canti in ottava rima, di ispirazione sottilmente critica nei confronti del despotismo cateriniano.

Benché pubblicato solo nel 1797, il Poema tartaro valse al suo autore un immediato, ma non definitivo, allontanamento da Vienna. Passato allora a Venezia, Casti ebbe modo di compiere, nel 1788, un viaggio a Costantinopoli, di cui avrebbe scritto una notevole Relazione, considerata fra le più acute pagine di viaggio del nostro Settecento. Quindi a Torino e a Milano, dove ispirò al Parini un acre sonetto, Un prete brutto, vecchio e puzzolente, che si può ritenere all’origine di un’accanita tradizione anticastiana, e durata (con l’eccezione della “dignità” riconosciutagli da Croce) fin oltre il Carducci che lo ritenne un «giullare di tutto e di tutti, di favoriti e di favorite» (cui si contrappone per altro una linea notevole di ammiratori di rilievo, quali Goethe, Foscolo, Leopardi, tanto per citarne alcuni). Di nuovo a Vienna nel 1790, vi divenne poco dopo poeta cesareo (l’ufficio che era stato di Metastasio, morto nel 1782). Ma nel 1798, indotto probabilmente dalla congiuntura politica e dalle proprie vedute ormai francamente democratiche, si trasferì a Parigi, dove morì nel febbraio del 1803. Nella capitale francese l’anziano scrittore non esitava ad assumere un atteggiamento critico nei riguardi del nascente cesarismo napoleonico, e nel 1802 pubblicava un singolare “poema epico”, Gli animali parlanti, ventisei canti in sesta rima, una sorta di «grande apologo» (come si legge nella «prefazione») inteso a ridiscutere i massimi temi politico‑civili di quegli anni. Questo spiega come l’opera, che nessuno oggi più legge, venisse tradotta in più lingue e divenisse uno dei testi italiani più noti nella cultura europea del primo Ottocento.

Alla composizione di melodrammi giocosi, che gli varrà poi l’assunzione a poeta cesareo, Casti aveva cominciato a dedicarsi solo nel 1778, durante il breve soggiorno in Russia, scrivendo, per la nascita di un nipote di Caterina II, un’«operetta a cinque voci» che s’intitola Lo sposo burlato. Ma le sue cose migliori e più originali  risalgono agli anni fra il 1784 e il 1788. Sono: Il re Teodoro in Venezia, La grotta di Trofonio, Prima la musica e poi le parole, Teodoro in Corsica, Cublai gran Can de’ Tartari, Catilina.

Abbiamo già avuto modo di accennare alla particolare posizione di Casti in relazione agli sviluppi di questo genere teatrale. Va comunque detto che, per quanto le prime due opere (Il re Teodoro in Venezia e La grotta di Trofonio, che incontrarono anche un grande successo di pubblico) dal punto di vista artistico non centrano completamente i bersagli che il Nostro si era prefisso, di più alto rilievo è invece Prima la musica e poi le parole, nella quale vengono affrontati i rapporti tra melodramma serio e melodramma buffo, e dove la satira castiana riesce a proporre un teatro musicale affrancato dalle pretese “commerciali” dei committenti e fondato su una base di armonica collaborazione tra libretto e spartito.

Sulla scia del successo di pubblico ottenuto con Il re Teodoro in Venezia, il Casti pensò di andare indietro negli anni e di sceneggiare l’arrivo in Corsica e l’incoronazione dell’avventuriero, scegliendo – nel costruire l’azione – di lavorare non solo su fatti realmente avvenuti alcuni decenni prima (appunto le avventure del tedesco Teodoro di Neuhoff[20]), ma più in genere su temi di estrema risonanza nella cultura del tempo: i temi del popolo in rivolta, del libertarismo eroico, dell’avventurismo politico ecc. Specialmente ricca di suggestioni, per questo riguardo, è la figura del protagonista, connotato come «uomo singolar», «spirito forte», «indipendente / alma a gran cose eletta / che alla plebea moral non è soggetta», un tipo di eroe negativo che avrà ampi sviluppi nella letteratura europea dei successivi decenni. Ne risultava non tanto un discorso satirico, più consono ad altri generi, quanto una sorta di trascrizione e ricreazione, su un piano di fantasiosa ilarità, di contemplazione dunque in certo modo estraniata di alcuni fra i dati più seri e inquietanti della realtà contemporanea. Circa poi lo specifico rapporto del testo castiano con la tradizione melodrammatica, va rilevato come nel Teodoro in Corsica sia possibile cogliere «la trasformazione parodistica degli elementi convenzionali del melodramma serio: del suo eroico e del suo patetico di maniera, dei suoi giochi di duetti, e persino delle sue variazioni metriche che vanno dai correnti quinari e settenari ai rombanti decasillabi[21]». Tuttavia l’opera rimase senza uno spartito musicale.

Con il Cublai gran Can de’ Tartari, il Casti riprendeva la sua satira contro la Russia con un sovrappiù di polemica anticlericale. Tuttavia l’opera non poté essere pubblicata a causa degli stessi motivi che avevano spinto la corte asburgica a sconsigliare la pubblicazione del Poema Tartaro. Stessa sorte Toccò al Catilina, scambiato dal Foscolo per una sorta di caricatura della romanità, mentre in realtà era una parodia della Rome sauvée di Voltaire.

***NOTE AL TESTO***

[1] Molière, pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin (Parigi, prima del 15 gennaio 1622 – Parigi, 17 febbraio 1673), commediografo, drammaturgo e attore teatrale francese, era figlio di Jean Poquelin, un agiato artigiano (tappezziere del re). Compì i suoi studi dal 1635 al 1639 al Collège de Clermont, collegio di gesuiti, considerato il migliore della capitale e frequentato da nobili e ricchi borghesi. Nel 1641 portò a termine gli studi di diritto, ottenendo la Licenza a Orléans, e cominciò a frequentare gli ambienti teatrali. Conobbe il famoso Tiberio Fiorilli (celebre Scaramouche) e intrattenne una relazione con la ventiduenne attrice Madeleine Béjart. Nel 1643, con la Béjart, fondò una nuova compagnia, l’Illustre Théâtre, che esordì nella capitale nel 1644 ma che si sciolse l’anno dopo per debiti. Dal 1645 al 1658 lavorò come attore ambulante e contemporaneamente inizio a scrive due farse e due commedie: Lo stordito (L’Étourdi) e Il dispetto amoroso (Le dépit amoureux). Nell’ottobre del 1658 recitò davanti a re Luigi XIV, che autorizzò Molière ad a occupare, alternandosi con la troupe degli Italiani, il teatro del Petit-Bourbon, e, quando nel 1659 gli Italiani se ne andarono, lo stesso teatro fu a sua completa disposizione. Sempre nel 1659 ebbe un grande successo con Le preziose ridicole (Les précieuses ridicules), cui seguì nel 1660 un altro successo con  Sganarello o il cornuto immaginario (Sganarelle ou Le cocu imaginaire). Le sue opere più importanti sono Il Tartuffo (Tartuffe ou l’Imposteur, 1664), L’avaro (L’Avare ou l’École du mensonge, 1667-1668) e Il borghese gentiluomo (Le Bourgeois gentilhomme, 1670). Il malato immaginario (Le Malade imaginaire, 1673)

[2] La comédie larmoyante (tradotta in lingua italiana come commedia lacrimosa) fu un genere teatrale nato in Francia nel XVIII secolo e che ebbe grande fortuna sia in terra natia che in Italia.

[3] Giovanni Pindemonte (Verona, 1751 – Verona, 1812), poeta e drammaturgo, nacque dal marchese Luigi e da Lodovica Maria Maffei. Fratello maggiore del più noto Ippolito, dopo la morte del padre, studiò con lui presso il collegio dei nobili di San Carlo a Modena, dove ebbe la possibilità di crearsi una formazione letteraria notevole. Nel 1782 sposò Vittoria Widmann-Rezzonico, dalla quale ebbe due figli: Luigi e Carlo. Ricoprì numerosi incarichi politici e fu attivissimo nei circoli patriottici. Della sua opera, oltre alle poesie, alle lettere e ad altri componimenti minori, resta una vasta produzione teatrale tragica.

[4] Simeone Antonio Sogràfi (Padova, 29 luglio 1759 – Padova, 4 gennaio 1818), librettista e drammaturgo, ebbe ingegno vario e arguto, ma non forza creatrice, sebbene componesse con decoro e abilità. Di lui si ricordano alcune commedie: Le convenienze teatrali (1794) e Le inconvenienze teatrali (1800); alcuni drammi storici: Lucrezia Dondi (1803) e Ortensia (1811); e vari libretti. Oggi la sua fama resta legata alla commedia Olivo e Pasquale, della quale il grande compositore Gaetano Donizzetti fece un’opera giocosa.

[5] Saverio Mattei (Montepaone, 1742 – Napoli, 1795), letterato, musicista, avvocato e storico della musica, aparteneva ad una famiglia di ricchi possidenti terrieri; il padre era esperto di diritto e di amministrazione feudale, oltre che di musica e di poesia. A dieci anni andò a studiare nel Seminario arcivescovile di Napoli, dove studiò il latino, il greco e l’ebraico. Nel 1759 sempre a Napoli conseguì il dottorato in diritto. La sua opera maggiore è la traduzione dall’ebraico in italiano dei Salmi biblici. La traduzione dall’ebraico in lingua italiana aveva un forte significato: dava impulso alla volgarizzazione della cultura e in particolare di quella biblica, che così si offriva al di fuori degli ambienti eruditi in un idioma comprensibile. L’intento era perseguito corredando i testi di illustrazioni letterali e spirituali. Numerosi di questi Salmi furono convertiti in musica da compositori di fama come Hasse, Jommelli, Piccinni, Paisiello, Mozart.

[6] Carlo Innocenzo Frugoni (Genova, 1692 – Parma, 1768), librettista e poeta, nacque da Giovan Stefano e da Camilla Isola, entrambi patrizi genovesi. fu ammesso ancor giovane nell’Ordine dei Somaschi, del quale farà parte fino al 1731. Successivamente entrò nell’Accademia dell’Arcadia con il nome di Comante Eginetico. Dal 1725 iniziò la sua carriera di poeta e librettista presso la corte del Ducato di Parma, all’epoca governato dalla famiglia Farnese. Frugoni scrisse la maggior parte dei suoi libretti (alcuni dei quali sono rielaborazioni di lavori di altri librettisti) per il teatro parmigiano. Fece dei tentativi per riformare il melodramma italiano sul modello della tragédie lyrique francese, che tuttavia non ebbero successo.

[7] Publio Terenzio Afro (Cartagine, 190-185 a.C. circa – Stinfalo, 159 a.C.), commediografo romano, era uno schiavo del senatore Terenzio Lucano, che lo educò nelle arti liberali, e in seguito lo affrancò per la sua intelligenza e la sua bellezza. Fu in stretti rapporti con il Circolo degli Scipioni e grazie a queste frequentazioni apprese l’uso alto del latino e si tenne aggiornato sulle tendenze artistiche di Roma. Di lui ci restano sei commedie (Andria, Hecyra, Heautontimorumenos, Eunuchus, Phormio, Adelphoe) riprese dal commediografo greco Menandro, con largo uso della contaminatio (fusione di contenuti di varia provenienza) e caratterizzate – rispetto alla tradizione plautina – da un’analisi più riflessiva dei caratteri, da una riduzione dell’elemento farsesco, da un linguaggio anche metricamente più composto, da una nuova funzione del prologo.

[8] Niccolò Amenta (Napoli, 1659 – Napoli, 1719), letterato e drammaturgo italiano, nacque da Francesco e da Maddalena Troiano, ambedue di famiglia gentilizia. Fu per molto tempo fulcro e cardine dell’Accademia degli Investiganti e scrisse la vita del fondatore di questa, Leonardo Di Capua. Come letterato e commediografo non conseguì risultati eccezionalmente brillanti e originali, ma il suo impegno ed il suo entusiasmo non furono privi di dignità. Realizzò sette commedie brillanti ispirate a importanti modelli (come il Della Porta), scrisse rime petrarchesche, ma spesso polemizzò con altri letterati su questioni di lingua italiana.

[9] Giovan Battista Fagiuoli (Firenze, 1660 – Firenze, 1742), scrittore, poeta e drammaturgo, nacque da Antonio Maria e da Maria Maddalena Libanori. Studiò letteratura e divenne uno dei più faceti e allegri poeti estemporanei della sua epoca. Fu tenuto in un certo riguardo da parte della Corte Medicea e dalle persone più abbienti di Firenze. La sua satira talvolta fu acuta e tagliente, raramente malvagia. Tra le sue commedie, oltre a quella già citata che è il suo capolavoro, si possono ricordare Gli inganni lodevoli (1706), l’Avaro punito (1707), Gli amanti senza vedersi (1734), Il marito alla moda (1735) ed altre che denunciano nei ruoli assegnati ai personaggi una stretta parentela con le maschere della commedia dell’arte.

[10] Iacopo Angelo Nelli (Siena, 1673 – Siena 1767) si laureò probabilmente nella città natale e prese i voti. Compilò una grammatica italiana e scrisse versi giocosi, ma la sua fama rimane legata alle commedie, nelle quali imitò gl’intrecci della commedia dell’arte e i caratteri di quella del Molière, senza raggiungere né il brio della prima né la vivace pittura di caratteri della seconda.

[11] Girolamo Gigli (Siena, 14 ottobre 1660 – Roma, 4 gennaio 1722), letterato e commediografo, nacque nella famiglia senese dei Nenci, ma fu adottato da un prozio, dal quale prese il cognome. Nel 1698 insegnò presso l’Università di Pavia e successivamente in quella di Siena. Gigli riprese i modi della commedia francese, risolvendoli in un vivace e spontaneo umorismo. Oltre alle commedie, scrisse anche circa quaranta componimenti musicali. Tradusse inoltre due tragedie di Corneille e scrisse un’opera di suo pugno, Il Balduino, fingendola anch’essa una traduzione del celebre autore francese.

[12] Domenico Luigi Barone marchese di Liveri (Liveri, 1685 – Napoli, 1757) formò e diresse una compagnia di filodrammatici a Liveri, che rappresentava sue commedie, ben presto divenute così famose da attirare un vasto pubblico composto soprattutto di nobili. Divenne il commediografo ufficiale della corte napoletana; il re remunerò molto lautamente il poeta e la sua compagnia, lo fece marchese di Liveri e lo nominò ispettore dei Teatro San Carlo (1741-1747), dove ogni anno veniva rappresentata una sua nuova opera.

[13] Antonio Piazza (Venezia, 1742 – Venezia, 1825) si dedicò con assiduità alla narrativa di consumo, componendo anche più romanzi in uno stesso anno. In un primo momento seguì da vicino il modello di Pietro Chiari e fin dagli esordi la sua scrittura ottenne un discreto riscontro di pubblico, cui non corrispose però analogo apprezzamento da parte dei letterati. Nel 1773 conobbe a Genova l’impresario Onofrio Paganini che impresse una svolta nella sua carriera, esortandolo a scrivere per lui. Ebbe inizio così una carriera teatrale che lo portò a comporre sette commedie (cui si deve aggiungere la tarda Chi la dura la vince del 1811) e vari drammi per musica.

[14] Giovanni Gherardo de Rossi (Roma, 1754 – Roma, 1827), poeta e commediografo, era figlio di un banchiere. Fu autore di 16 commedie e di saggi critici sul teatro.

[15] Francesco Cerlone (Napoli, 1722 – Napoli, 1812 circa), librettista e drammaturgo, scrisse circa 70 opere tra commedie, tratte per lo più da romanzi di successo, innovati mediante l’inserimento di maschere (Pulcinella) e tipi comici (Fastidio de Fastidiis) della tradizione napoletana, tragicommedie e libretti.

[16] Antonio Vallisneri o Vallisnieri (Trassilico, 1661 – Padova, 1730), medico, scienziato, naturalista e biologo, nacque da Lorenzo, capitano di ragione della vicaria di Trassilico (allora ricompresa nel ducato di Modena e Reggio) e da Maria Lucrezia Davini. Studiò medicina all’Università di Bologna, dove ebbe come proprio insegnante Marcello Malpighi, che lo accolse come allievo prediletto. Nel 1685 si laureò presso lo Studio di Reggio e cominciò il periodo di praticantato, che lo vide a Venezia, Padova e Parma. Ottenne la prima cattedra di Medicina Pratica (1700) e successivamente quella di Medicina Teorica (1709) all’Università di Padova. Fu membro della Royal Society (1703) e presidente dell’Accademia di scienze, lettere ed arti di Padova nel 1722-1723.

[17] Luigi o Louis Riccoboni, noto anche con lo pseudonimo di Lélio, (Modena, 1676 – Parigi, 1753), attore teatrale e scrittore italiano naturalizzato francese, fu tra i maggiori teorici ed interpreti della Comédie Italienne, che diresse dal 1716 al 1731. Tentò di riformare il teatro recuperando il testo scritto e coniugando la commedia regolare con i toni vivaci della commedia dell’arte.

[18] Les Fâcheux (1671) è una comédie-ballet in cui la danza è un riempitivo e un commento all’azione recitata con l’intervento di maschere. Si tratta del primo esempio in assoluto di questo genere di rappresentazione. Molière se ne servì per dare una lezione ai personaggi di corte, riconoscibili e riconosiutisi nella mordace tipizzazione dei caratteri. Les Fâxcheux sono infatti i seccatori, persone per lo più inutili.

[19] Benedetto XIV, al secolo Prospero Lorenzo Lambertini (Bologna, 1675 – Roma, 1758), nacque da Marcello – appartenente ad un’antica famiglia senatoria di Bologna – e Lucrezia Bulgarini. Educato dai somaschi a Bologna e poi, dal 1688, a Roma nel Collegio Clementino, si laureò in teologia e diritto nel 1694. Fece una rapida carriera curiale e nel 1724 venne nominato vescovo, nel 1725 arcivescovo e nel 1728 cardinale. Alla morte di Clemente XII (1740) venne eletto Papa. Durante il suo pontificato, considerato uno dei più significativi della storia del papato in età moderna, attuò una serie di riforme pastorali nello spirito dell’illuminismo cattolico di stampo muratoriano.

[20] Theodor Stephan von Neuhoff (Colonia, 1694 – Londra, 1756), militare tedesco, fu Re di Corsica dal marzo al novembre del 1736, contribuendo a creare sull’isola un piccolo Stato indipendente dalla Repubblica di Genova che però ebbe breve vita.

[21] Bonora Ettore, Il «Teodoro in Corsica» e i melodrammi giocosi di Giambattista Casti, in Giornale storico della letteratura italiana, CXXXIV, 1957, fasc. 406 e 407, pag. 183.


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