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Marco M. G. Michelini | 31 Gennaio 2025

Linea Biografica

 

Nacque a Venezia nel 1720, sesto degli undici figli del Conte Jacopo Antonio e Angiola Tiepolo.  Come abbiamo già detto a proposito del fratello Gasparo, la prosperità della famiglia all’inizio del Settecento era venuta meno, per cui Carlo, a differenza dei due fratelli maggiori, cui veniva impartita un’istruzione regolare presso collegi pubblici, ebbe solo delle occasionali lezioni da mediocri sacerdoti. Egli fu costretto, dunque, ad approfondire i propri studi da autodidatta, spronato dal desiderio di imitare Gasparo che proprio in quegli anni stava emergendo come letterato; studiò in modo particolare gli autori della letteratura toscana del Tre-Cinquecento, come i novellieri Sacchetti e Firenzuola e gli irregolari Pulci, Burchiello e Berni. Apprese anche i rudimenti della lingua francese per riuscire a comprendere le novità di una nazione che, comunque, non amava.

Nel 1740 si arruolò nell’esercito e visse per quattro anni in Dalmazia, «a conoscere», dirà poi nelle Memorie inutili, «l’indole de’ militari e di que’ popoli». Al ritorno a Venezia riprese gli studi letterari e si fece ben presto una reputazione come il membro più brillante dell’Accademia dei Granelleschi, devota alla convivialità e allo spirito, ma che aveva anche obiettivi letterari seri e preservava con zelo la letteratura toscana da influenze straniere.

Contro l’operato di Goldoni e di Chiari, che mettevano a rischio gli stessi sforzi “puristi” dell’Accademia, nel 1757 Gozzi la salvò scrivendo un poema satirico, La tartana degli influssi per l’anno 1756. Poi, nel 1761, con il ritorno a Venezia – dopo una lunga peregrinazione fino in Portogallo – della compagnia teatrale di Antonio Sacchi[1], il grande capocomico coautore e protagonista del goldoniano Servitore di due padroni, si offrì al Gozzi l’occasione di diventare autore teatrale, per cui ideò e mise in scena al teatro S. Samuele la prima delle dieci Fiabe teatrali: L’amore delle tre melarance, che ebbe un successo di pubblico straordinario.

Quando nell’aprile del 1662 Goldoni decise di accettare le offerte che provenivano da Parigi, lasciando per sempre Venezia, e Chiari, per parte sua, si allontanò dalla città (sempre nell’aprile dello stesso anno), il Gozzi si trovò improvvisamente “padrone” delle scene veneziane. Si mise dunque a produrre una serie di pezzi drammatici basati sulle fiabe: inizialmente queste opere divennero popolari, ma dopo lo smembramento della compagnia Sacchi caddero nel dimenticatoio.

Nei suoi ultimi anni, egli iniziò a scrivere tragedie in cui introdusse ampiamente elementi comici: le sue opere risultarono, perciò, troppo innovative per l’epoca. Così, man mano che le sue innovazioni si rivelavano inaccettabili ai critici, Gozzi cominciò a volgere la sua attenzione ai drammi spagnoli, da cui ottenne modelli per varie rappresentazioni, che ebbero, però, un successo minore rispetto ai suoi primi drammi, pur valorizzando le doti artistiche dell’attrice Teodora Ricci[2], che era la sua amante.

Carlo Gozzi, se si esclude il periodo militare, trascorse a Venezia tutta la sua lunghissima vita, priva di eventi notevoli e persino di viaggi, divisa fra la continua ricerca, sino agli ultimi anni, di una decorosa sussistenza e un’attività letteraria assai intensa (ma piuttosto libera, non così condizionata, come il fratello Gaspare, da quelle esigenze di tipo già industriale cui già si è accennato), e morì nel 1806.

Il pensiero e le opere

 

Gran parte dell’attività del Gozzi fu dedicata al teatro, ma ciò non deve far dimenticare la sua figura di intellettuale puntigliosamente rivolto a un certo passato e una certa tradizione (e in qualche misura di “nobile”, cioè di uomo dedito a coprire delle paillettes forse ancora scintillanti, ma polverose e legate ad una cultura passatista, il proprio sostanziale rifiuto del nuovo), è il ruolo svolto, con più vivacità che non dal fratello, fra i Granelleschi, nel culto classicistico e nella pratica di una bizzarra poesia rinascimentale, fra Berni e Burchiello. Di qui, da questo rifiuto del presente come società e come cultura e dal recupero di forme poetiche quattro-cinquecentesche, deriva un’opera singolare come il poema satirico in ottave intitolato La Marfisa bizzarra, composto fra il 1761 e il 1768. «Le vicende narrate ne La Marfisa bizzarra sono quelle della stravagante eroina boiardesca, trasformata in una bizzosa dama del Settecento. L’impasto tra gli antichi modelli dell’epica cavalleresca e gli anacronistici camuffamenti rimanda immediatamente alla linea, pedantesca e “divertente”, che dall’esempio di M.M. Boiardo e del suo “rifacitore” toscano F. Berni viene attraversando la sei-settecentesca sperimentazione eroicomica, da A. Tassoni a N. Forteguerri, fino a talune soluzioni satiriche del Giorno pariniano che il G. ricorda nella prefazione. Tuttavia anche questo più approfondito e sapiente uso del gioco letterario era ormai interamente finalizzato a una radicale denuncia. Come ai tempi della Tartana il poeta, nelle vesti del buon paladino Dodone, si era riservato uno spazio da cui giudicare personaggi ed eventi. Travestiti a loro volta da cavalieri, reggono le fila degli intrighi e delle confusioni Goldoni e Chiari. Del resto Marfisa è una “filosofessa” cavata di peso dalle loro commedie e destinata a finir male come molte eroine della drammaturgia contemporanea»[3].

Ma prima ancora della Marfisia, come abbiamo già detto nella breve Linea Biografica, il Gozzi aveva scritto La tartana degli influssi per l’anno 1756, nella quale «il G. finse di stampare un almanacco d’un amico appena defunto, organizzato come tradizione voleva per ottave, sonetti, capitoli in terza rima. L’autoritrattistica denuncia di un “poeta” affannato e solitario, che per un’ultima volta irride con i suoi versi il mondo circostante, corroso dalle permissive dottrine dei “lumi”, e la recente letteratura che quelle degradazioni sociali e morali agevola e veicola, ha come bersaglio ambiti e personaggi di stretta attualità. Intanto, tra i luoghi in cui da sempre cultura e società dialogano, viene individuato il vasto campo del teatro, importante nella Venezia del tempo per le sue capacità di richiamo e le istanze riformatrici che lo percorrevano, attraendo persino l’“illuminato” Gasparo. In secondo luogo vengono additati alla pubblica esecrazione i due scrittori che – in opposizione tra loro e con modi e risultati affatto diversi – stavano impegnandosi per un rinnovamento della drammatica. Pietro Chiari e Carlo Goldoni, ritratti nelle buffe vesti di spadaccini che si scambiano fendenti scomposti e proibiti in mezzo a una folla tumultuante, sono appunto coloro che lavorano un tanto a pezzo, scrivono troppo e troppo sciattamente, rubano idee e mescolano linguaggi, importano dalla vicina Francia “Marianne” e “filosofesse”, le interpreti più aggiornate dei perniciosi comportamenti, e le trasferiscono in palcoscenico»[4].

Quanto alle Memorie inutili (ossia Memorie inutili della vita di Carlo Gozzi, scritte da lui medesimo e pubblicate per umiltà), cominciate a scrivere nel 1780 ma pubblicate solo dopo la caduta della Repubblica, nel 1797, esse avevano almeno in parte un’origine occasionale, come replica alla Narrazione apologetica pubblicata nel 1779 a Stoccolma da un nemico del Gozzi, Pier Antonio Gratarol[5]. Al di là tuttavia dell’occasione esterna, e nelle zone meno funzionali a quest’ultima, il testo gozziano appare oggi fra le cose più notevoli della nostra letteratura tardosettecentesca: contemplazione lucida e talvolta amarissima della crisi di un mondo (quella stessa che si trova rappresentata, con spirito assai diverso, in tante commedie di Goldoni), risolta in uno strano linguaggio, come segnato da una sorta di feroce, inquietante allegria.

Eminentemente di reazione (quindi davvero “reazionario”) si presenta il teatro di Carlo Gozzi, e in particolare quello più noto, le Fiabe, scritte e rappresentate, in numero di dieci, fra il 1761, anno conclusivo della fortuna in Venezia di Chiari e Goldoni, e il 1765. Di reazione ideologica, anzitutto, come scriverà lo stesso Gozzi, alcuni anni più tardi, nel Ragionamento ingenuo e storia sincera dell’origine delle mie dieci fiabe teatrali: «L’educazione del minuto popolo, a cui si concede un divertimento teatrale innocente dalle prudenti mire di chi presiede al governo, sta nella religione, nelle arti esercitate con sollecitudine e senza fraude, nella cieca obbedienza del suo principe, nell’abbassar la fronte nel bell’ordine della subordinazione a’ gradi della società, e non nel predicargli il ius di natura, le leggi un abuso, un usurpo tirannico la maggioranza (= nel senso della preminenza di alcune classi), e per un barbaro giogo lo stabilito per il migliore nella pur troppo infelice umanità». Parole quanto meno esplicite, che lasciano d’altra parte intendere in quale misura il nobiluomo veneziano, contrapponendo alle commedie di ideologia variamente progressiva di Chiari e Goldoni il proprio teatro segnato, ancora si legge, da un’«austera morale», si trovasse a dar voce alle correnti di cultura antiprogressiva allora non certo assenti o sopite non solo in Venezia ma in genere negli stati italiani.

A tali ragioni di fondo corrispondeva, piuttosto naturalmente, una scelta formale che, nel proposito di reagire alla pratica scenica degli avversari, puntava su una commedia intesa a istruire il pubblico, nel senso indicato, seducendone l’attenzione con una strepitosa alternanza di lazzi buffoneschi e di sottili invenzioni fantastiche. Di qui il vario recupero della letteratura favolistica, del teatro spagnolo, della commedia dell’arte. L’immediato e clamoroso successo di pubblico non trovava però in genere riscontro nei giudizi formulati sulle Fiabe dalla cultura italiana del tempo, a più voci preoccupata di porne in rilievo (è il caso di un Albergati, un Baretti, un Cesarotti, un Vannetti[6]) la stravaganza e la mancanza di osservazione realistica. Notevole incontro aveva invece il teatro gozziano nella cultura tedesca fra ultimo Settecento e primo Ottocento, in una cultura cioè specialmente idonea ad apprezzarne ed esaltarne, non di rado al di là dei loro limiti effettivi, le componenti fantastiche e il segno antilluministico, se non già propriamente irrazionalistico. Insomma, come scrive giustamente il Binni, nelle Fiabe il Gozzi «si proponeva di mostrare come si potesse conquistare il favore del pubblico ricorrendo ai procedimenti della vecchia commedia dell’arte e dando vita ad un’opera basata su argomenti fiabeschi e meravigliosi. In realtà a questi motivi egli mescolava un estro bizzarro e fantasioso, che è l’aspetto positivo di una tendenza in cui il meraviglioso appare spesso troppo cerebralmente inseguito e pertanto meccanico, e la stessa utilizzazione dell’elemento popolare è determinata dal compiacimento del conservatore verso la sanità e le virtù di obbedienza e fedeltà delle classi popolari intese come salvaguardia dell’ordine aristocratico e autoritario»[7].

E il favore del pubblico, come già s’è detto, il Gozzi lo conquistò realmente con la prima delle sue Fiabe teatrali[8]: L’amore delle tre melarance. «La pièce sceneggia la storia d’un principe malinconico, la cui felicità e la cui stessa vita dipendono, per la maledizione di una fata nemica, dal ritrovamento dei pomi incantati. Malamente protetto da un mago di scarso valore, il principe partirà per la difficile ricerca insieme con un fedele compagno. La fiaba ha diverse declinazioni folcloriche e una precisa ascendenza letteraria, la novella Le tre cetra (I tre cedri) in Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. Quel che conta notare, comunque, è l’intenzione allegorico-parodica che, tra folclore e letteratura, guida la sceneggiatura. […] Non soltanto lo stolto mago e una cattiva fata rappresentano direttamente il Goldoni e il Chiari, impegnati l’uno contro l’altro per conquistare la scena veneziana, ma tutti i passaggi fiabeschi servono a discutere i modi stessi della drammaturgia contemporanea: quelli delle basse “tabernarie” di Goldoni, appunto, o quelli delle dilatate e piagnucolose “tragedie” in roboanti versi martelliani dell’abate Chiari. Il lieto fine, che permette al principe di trovare felicità e amore, è dovuto agli interventi, casuali ma risolutivi, del “faceto” accompagnatore Truffaldino, vale a dire alla lezione scenicamente vincente della commedia dell’arte»[9].

L’augellino belverde, rappresentato nel 1765, è, secondo il Petronio[10], «la Fiaba più impegnata e complessa del Gozzi». «Fiaba filosofica» (altre saranno definite dall’autore «serio-faceta», «tragicomica», «tragedia fiabesca» ecc.), in particolare essa aduna in sé un esplicito, radicale discorso antiprogressivo e uno straordinario accumulo di elementi favolosi: fate appunto, ma anche statue parlanti e semoventi, pomi che cantano, un’«acqua d’oro» che suona e balla e simili. Inoltre, accanto alla proterva irrisione della cultura illuministica e fra le buffonerie che pure non mancano, il testo gozziano percorre una sorta di inquietante umor nero, che consente di annetterlo a certa zona oscura della cultura settecentesca: fra Piranesi[11], per restare in Italia, Varano[12] e Alessandro Verri. Emblematici appaiono, al riguardo, alcuni fra gli stessi ambienti in cui si svolge l’azione: spiagge deserte e notturne; il sepolcro in cui langue da anni, senza propriamente esser morta, la madre dei protagonisti; il «giardino» di Fata Serpentina: «Nel fondo da una parte arbore con pomi, dall’altra parte grotta con portone stridente, e che si chiuda, ed apra con impeto e romore. Alla bocca della grotta alcuni cadaveri per terra, parte scarnati, parte interi» (atto terzo, scena tredicesima).

Anche a livello di scelte linguistiche la reazione di Gozzi al teatro chiariano e goldoniano era risoluta. Alla uniformità di questo (commedie o in verso o in prosa; in dialetto o in lingua, con varianti interne dettate da esigenze di verisimiglianza) Gozzi oppone la compresenza, in un medesimo testo, di piani linguistici ed espressivi diversi. Così, nel caso specifico de L’augellino belverde, i personaggi di rango elevato parlano in versi e in lingua propria della tradizione letteraria; in prosa si esprimono invece i personaggi umili. E si tratta di una prosa che se per alcuni si dispone nei termini di una discorsività toscana sciatta e triviale, magari affidata a un semplice canovaccio, per altri, come il poeta Brighella e il ministro Pantalone, liberamente costruiti su figure della commedia dell’arte, sceglie invece la via di un veneziano stretto, di difficile comprensione per chi veneziano non sia.

***NOTE AL TESTO***

[1] Antonio Sacco o Sacchi (Vienna, 1708 – 1788), attore teatrale e celebre interprete comico, recitò nei ruoli di Truffaldino, Coviello, Arlecchino. Lavorò con impresari come Michele Grimani ed autori come Carlo Gozzi, Pietro Chiari, e Carlo Goldoni. Fu uno dei più celebri e importanti Arlecchino dell’epoca. Nel 1743 chiese a Goldoni di scrivere un canovaccio in cui Arlecchino non fosse solo uno dei comprimari: nacque così la commedia Il servitore di due padroni. Morì su una nave, mentre era in viaggio tra Genova e Marsiglia, e venne sepolto in mare.

[2] Teodora Ricci-Bàrtoli (Verona 1750 – Venezia 1806) fu allieva dell’attore Francesco Bartoli, che sposò nel 1769. Fu la prima dama del palcoscenico veneziano. Uno dei suoi ruoli più conosciuti è stato quello principale de La principessa filosofa di Carlo Gozzi. Tra il 1777 e il 1782 fu ingaggiata al Théâtre Italien di Parigi.

[3] Beniscelli Alberto, GOZZI, Carlo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 58, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2002.

[4] Beniscelli Alberto, ibidem.

[5] Pier Antonio Gratarol (Venezia, 1730 – 1785) unico figlio di Giuseppe e della seconda moglie Regina Lesilion, perse il padre a dodici anni. Nel 1755 entrò come “effettivo” alla Cancelleria Ducale. Fu poi segretario del provveditore generale a Palmanova, segretario dei provveditori alle Artiglierie, segretario degli uffici della Zecca e, infine, entrò nella segreteria del Senato (1772). Frequentatore di teatri, casini da gioco, salotti alla moda e incline ai facili amori, a seguito di una relazione con Caterina Dolfin – moglie del potentissimo procuratore di S. Marco Andrea Tron – e poi con l’attrice Teodora Ricci, cadde presto in disgrazia e fu costretto a riparare all’estero. Morì sulle coste del Madagascar, dopo un avventuroso viaggio partito dal Brasile. Carlo Gozzi lo dileggiò in una sua commedia.

[6] Clementino Vannetti (Rovereto, 1754 – Rovereto, 1795), scrittore e letterato, era figlio dei letterati Giuseppe Valeriano Vannetti e Bianca Laura Saibante, fondatori dell’Accademia Roveretana degli Agiati. Studioso dei classici latini, scrisse varie opere in latino e, come critico letterario, si curò di linguistica e di letteratura latina.

[7] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – II. Dal Settecento al Novecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 50.

[8] Le altre sono: Il corvo (1762), Il re cervo (1762), Turandot (1762), La donna serpente (1763), Zobeide (1763), I pitocchi fortunati (1764), Il mostro turchino (1764), L’augellino belverde (1765), Zeim, Re de’ Geni (1765).

[9] Beniscelli Alberto, ibidem.

[10] Carlo Gozzi, Opere : teatro e polemiche teatrali, a cura di Giuseppe Petronio, Rizzoli, Milano, 1962

[11] Giovanni Battista Piranesi (Mogliano Veneto, 1720 – Roma, 1778), incisore, architetto e teorico dell’architettura, nacque da Angelo e da Laura Lucchesi. Introdotto allo studio dell’architettura dal padre, si formò prima sotto la guida di Giovanni Scalfarotto, anch’egli architetto orientato verso un gusto che già preannuncia il neoclassicismo, poi frequentò la bottega di Carlo Zucchi. Le sue tavole incise, segnate da un’intonazione e una grafica drammatiche, appaiono improntate ad un’idea di dignità e magnificenza tutta romana, espressa attraverso la grandiosità e l’isolamento degli elementi architettonici, in modo da pervenire a un sublime sentimento di grandezza del passato antico, pur segnato da inesorabile abbandono.

[12] Alfonso Varano (Ferrara, 1705 – Ferrara, 1788), poeta e drammaturgo, nacque da Giulio, già capitano nel reggimento Varano al servizio del duca di Mantova, e da Ippolita Camilla Brasavola, appartenente a un’illustre famiglia ferrarese. I Varano discendevano in linea diretta da quei duchi di Varano che fino ai primi anni del Cinquecento avevano dominato su Camerino. Dopo gli studi classici compiuti nel Collegio dei Notabili di Modena, trascorse la vita nella città natale, dedicandosi allo studio e alla poesia. Fu membro dell’Accademia della Crusca e dell’Accademia dell’Arcadia. La sua opera più nota sono state le dodici Visioni sacre e morali in terzine dantesche, genere ripreso nello stesso periodo da Vincenzo Monti.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SETTECENTO»

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