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Marco M. G. Michelini | 15 Gennaio 2025

Francesco Algarotti

 

Nacque a Venezia nel 1712 da Rocco Algarotti e Maria Mercati, in una famiglia appartenente alla ricca borghesia mercantile. In tale condizione variamente privilegiata (la ricchezza, l’appartenenza al terzo stato, l’origine veneziana), è facile pensare che potrebbe avere trovato le sue prime radici quell’elemento che appare come uno dei più salienti nell’esistenza dell’Algarotti: l’interesse per il mondo europeo, il gusto e la pratica dei viaggi, degli incontri e delle amicizie internazionali, che consentono oggi di accostarlo, sotto alcuni punti di vista e tenendo conto del diverso livello intellettuale, ad un altro veneziano, di consimili orientamenti cosmopoliti, l’aristocratico Antonio Conti.

Dopo un anno al collegio Nazareno di Roma e prima di una non lunga permanenza, a perfezionare la conoscenza del greco, a Padova e a Firenze, proseguì gli studi per gran parte «a Bologna e in quella città il suo gusto e la sua cultura ricevettero un impulso decisivo, tanto che, pur tra le varie esperienze europee attraverso le quali doveva passare negli anni maturi, egli poté restare a lungo fedele agli insegnamenti ricevuti durante i sei anni che studiò in quella città e serbare un sentimento di grata amicizia per quelli che allora gli furono maestri: E. Manfredi e F. M. Zanotti. A Bologna nei primi decenni del sec. XVIII al classicismo pittorico della scuola di Guido Reni e del Guercino faceva riscontro l’elegante e consapevole classicismo di letterati arcadi e di poeti petrarchisti, ma i maestri più autorevoli di letteratura erano al tempo stesso scienziati insigni, non solo il Manfredi e lo Zanotti, ma anche I. B. Beccari, che indirizzò l’Algarott agli studi di fisica sperimentale e di medicina, per non dire di coloro che per età furono più compagni di studio che maestri del nostro scrittore: L. M. A. Caldani, valente studioso di anatomia e fisiologia, ed E. Zanotti, successore poi del Manfredi. Negli Atti dell’Istituto bolognese l’Algarotti pubblicò le sue prime memorie di astronomia; ma dell’adesione alla scienza newtoniana, considerata a Bologna quale diretta continuatrice della corrente galileiana, dava anche prova componendo in latino una dissertazione sull’ottica newtoniana a confutazione del De luminis affectionibus di G. Rizzetti e stendendo nel 1729 il Saggio sopra la durata de’ regni de’ re di Roma, nel quale applicava alla storia “il sistema cronologico del Neutono”»[1]. ove sviluppò quell’armonica molteplicità di interessi – caratteristica appunto della cultura bolognese primo settecentesca – fra scienze sperimentali, belle lettere (con forti curiosità in direzione dell’antico) e arti figurative, che, unendosi all’esperienza e alla disponibilità europea di cui si è detto, fanno di Francesco Algarotti una fra le personalità più ricche e più articolate della nostra letteratura intorno alla metà del secolo.

Nel 1735 il giovanissimo intellettuale veneziano si stabilì a Parigi. Era questo l’inizio del lungo periodo (sino al 1753), ch’egli avrebbe trascorso soggiornando nelle più interessanti città d’Europa – Parigi appunto, Londra, Pietroburgo, Dresda, Potsdam, Berlino – a contatto con i diversi ambienti di cultura e godendo di fama crescente, sino all’amicizia con Augusto III di Sassonia[2] e con Federico II di Prussia[3], che lo nominava fra l’altro conte e ciambellano. A Parigi comunque Algarotti scrisse, mantenendosi in stretto contatto col benevolo Voltaire, il Newtonianismo per le dame, che – fatto uscire a Milano nel 1737 e poi tradotto in più lingue – diede al suo autore notorietà immediata e costituì l’avvio di una fra le più prestigiose carriere di intellettuale alla moda.

Va comunque ricordato che durante gli anni della maturità (in sostanza gli anni quaranta e cinquanta del secolo) l’attività dello scrittore andò orientandosi da una parte, ma piuttosto marginalmente, in direzione creativa, fra l’altro attestata da parecchie epistole in versi, sulla linea dei Sermones dell’ammiratissimo Orazio, dall’opera in musica Iphigénie en Aulide, da Il congresso di Citera, romanzo di ispirazione satirico‑libertina che fu specialmente caro a Metastasio; da un’altra, nel senso di una saggistica assai ricca e aperta, forse in genere senza importanti approfondimenti ma con singolare lucidità e ottima informazione, ai temi (filosofici, economici, critico‑letterari, ecc.) di maggior risonanza nella cultura del tempo. Per dar qualche esempio: Sopra il Cartesio, Sopra il commercio, Sopra lo stile di Dante, Sopra Orazio, Della pittura, Lettere sopra la scienza militare del Segretario Fiorentino, oppure i Viaggi di Russia.

Con questa così intensa attività lo scrittore veneziano finì per divenire, sul piano europeo, un protagonista del dibattito intellettuale intorno alla metà del secolo. E così nel 1768, a pochi anni dalla morte, scrisse di lui Thomas Gray[4]: «Egli possiede abbastanza merito per raccomandarlo presso ogni paese; egli ha un’idea dei diversi rami del sapere, una conoscenza, una facile padronanza di tutte le arti belle, precisione, calore e ricchezza di espressione, e un criterio che raramente cade in fallo, per giudicar l’argomento a cui si rivolge». Sul piano specifico della cultura italiana Algarotti ebbe invece modo di svolgere una funzione molto importante di sprovincializzazione e aggiornamento, di varia sperimentazione – su una linea di ormai maturo illuminismo – di un nuovo modo di leggere, di pensare, di ricercare, di scrivere.

Non è allora un caso che i giovani intellettuali più attivamente impegnati intorno al 1760 in un rinnovamento in senso progressivo della nostra cultura (Saverio Bettinelli, Pietro Verri ecc.) si trovino a guardare a lui come a un riferimento di prim’ordine. Così ad esempio ne scriveva sul Caffè il Verri, avvicinandolo ad un altro importante philosophe italiano di quegli anni, Antonio Cocchi[5]: «Non credo di far torto a quei che non nomino, nominando due scrittori che abbiamo per sventura dell’Italia perduti, cioè il signor dottore Antonio Cocchi, ed il signor conte Francesco Algarotti, i quali con diverso stile bensì, ma con un medesimo spirito di filosofia, hanno arricchita la nostra lingua colle loro opere, e ci hanno lasciati libri pieni di idee grandi e nobili, adornate da uno stile che le rende ancor più leggiadre». Per parte sua Goldoni aveva già reso omaggio, ne Il filosofo inglese (1753) al Newtonianismo per le dame. Ostile e malevolo era invece Baretti. E a quest’ultimo in qualche misura risalgono lo scarso credito, la disattenzione, talvolta il disprezzo con cui in genere i letterati del nostro Ottocento, fatta eccezione per Leopardi e per Giordani, avrebbero guardato all’opera algarottiana, sino al definirsi della formula, variamente discesa di manuale in manuale fino ad anni assai recenti, di un Algarotti «poligrafo brillante e superficiale».

Come si è detto, Il newtonianismo per le dame. Dialoghi sopra la luce e i colori venne pubblicato a Milano nel 1737. Scritta in anni di crescente interesse, un po’ dovunque nell’Europa colta, per gli studi fisici e matematico‑astronomici e in particolare per le ricerche di Newton, e scritta, vale la pena di notarlo, non da un puro letterato ma da un uomo indubbiamente esperto di cose scientifiche, l’opera rispondeva a precise esigenze di partecipazione, a un pubblico di lettori non specialisti, di alcune fra le nuove prospettive avanzate, a livello diremmo oggi specialistico, dal pensatore inglese e dalla sua scuola. Per dar forma concreta a questo disegno Algarotti si avvaleva in particolare del modello più prestigioso che fosse allora in circolazione nella cultura europea, gli Entretiens sur la pluralità des mondes (Conversazioni sulla pluralità dei mondi, 1686) con cui Bernard Le Bovier de Fontenelle[6], sullo scorcio del Seicento, aveva discorso di questioni astronomiche immaginando una serie di conversazioni intrattenute, per alcune notti di seguito, con una dama desiderosa di apprendere. Ora da Fontenelle lo scrittore veneziano derivava non solo l’invenzione strutturale del libro, ma anche la tensione a un linguaggio sciolto dai rigori e dalle gravezze dell’uso erudito e accademico, aperto a una discorsività insieme piana ed elegante, capace di render conto con precisione degli ardui temi trattati e al tempo stesso intrattenere gradevolmente il lettore. Nel corso degli anni l’opera sarebbe stata, in successive edizioni, accresciuta e rimaneggiata (attenuandone per esempio l’eccesso di forme linguistiche francesizzanti), sino al testo definitivo pubblicato nel 1752 a Berlino con lettera dedicatoria a Federico II e col titolo di Dialoghi sopra l’ottica neutoniana.

Ammalato di tubercolosi, Francesco Algarotti lasciò la corte di Prussia nel 1753 e fece ritorno in Italia. I primi anni visse a Venezia, poi – fra il 1757 e il 1762 – a Bologna e infine a Pisa, ove morì nel 1764.

 

Giuseppe Luigi Lagrange

 

Giuseppe luigi Lagrange (o Lagrangia) nacque a Torino nel 1736 da Giuseppe Francesco Lodovico, tesoriere dell’Artiglieria del Re di Sardegna, e da Maria Teresa Grosso, figlia unica di un medico benestante di Cambiano. Lagrange era il maggiore di undici fratelli ma di questi solo lui e un altro riuscirono ad arrivare all’età adulta. Ebbe come insegnante il teologo Sigismondo Gerdil[7], che lo avviò ai grandi classici quali Cicerone e Virgilio. Tuttavia, pur essendo il latino sua materia preferita, l’interesse per la matematica prevalse, iniziando a frequentare le lezioni di geometria di Filippo Antonio Revelli[8] e quelle di fisica sperimentale di Giambattista Beccaria[9]. Nel 1757 partecipò con altri alla fondazione del gruppo di ricerca scientifica definito Società privata torinese (la futura Accademia reale delle Scienze di Torino). Fu per dieci anni professore di analisi sublime (calcolo infinitesimale) nelle torinesi Scuole tecniche di artiglieria. Nel 1766 si trasferì a Berlino, alla corte di Federico II di Prussia, per succedere a Eulero[10] come presidente della classe di scienze dell’Accademia di Berlino, e nello stesso anno si sposò con Vittoria Conti. Nel 1783 morì la moglie e nel 1787, dopo la morte di Federico II, si trasferì a Parigi, dove pubblicò nello stesso anno la celebre Mécanique analytique. Luigi XVI lo nominò direttore della sezione matematica dell’Académie des Sciences, gli concesse una pensione di 6000 franchi e un appartamento al Louvre. Nel 1792 si risposò con la venticinquenne Renée Françoise Adélaïde Le Monnier, figlia dell’astronomo e amico Pierre Charles[11], acquisendo con questo matrimonio, in base alla Costituzione della Repubblica, il diritto alla cittadinanza francese. Nel periodo della Rivoluzione, Divenne presidente della commissione cui era stato affidato il compito di fissare un nuovo sistema di pesi e misure (il sistema metrico decimale) e insegnò successivamente alla Ecole Normale e alla Ecole Polytechnique. Dopo aver raggiunto sotto l’Impero i più alti onori, morì a Parigi nel 1813.

L’opera più importante del Lagrange, la Mécanique analytique è uno fra i capolavori della letteratura matematica; essa ha influenzato generazioni di studiosi, anche per le introduzioni storiche, ricche di considerazioni profonde sugli autori che avevano scritto di meccanica fino ad allora. Accanto ad essa si colloca la Théorie des fonctions analytiques, risalente agli anni francesi (1797, nella quale, al di là del contenuto specifico, estremamente tecnico (ma non tuttavia privo d’interesse per chi voglia ricercarvi gli antecedenti di un discorso scientifico che ha poi assunto sviluppi certo allora impensabili), il lettore di oggi potrà trovare un esempio di limpidissima prosa settecentesca, in ciò beninteso aiutando lo stilizzato francese della tradizione scientifico‑filosofica post‑cartesiana, e insieme la celebrazione, del tutto implicita ma non inavvertibile, di quel mito dell’armonia, di un’armonia radicale dell’universo, che ci appare fra i più alti e centrali della cultura di quegli anni.

 

Carlo Allioni

 

Nacque a Torino nel 1728 da Stefano Benedetto, medico consulente del re Vittorio Amedeo II, e da Margherita Ponte. Conseguita la laurea in medicina nel 1747 e aggregato lo stesso anno al Collegio della facoltà medica, si dedicò all’esercizio della professione, ottenendo la carica di protomedico del re Vittorio Amedeo III[12] di Savoia. Ben presto, però, l’attenzione di Allioni fu catturata dalle Scienze Naturali e, in particolare, dallo studio delle specie vegetali. Il suo nome, infatti, è ricordato soprattutto per i suoi studi e i suoi lavori nel campo della botanica.

Scienziato fra i maggiori nell’Europa del tempo, si dedicò anche a studi di zoologia, paleontologia e di malattie allora di particolare incidenza come le febbri miliari o flegmasie esantematiche, onde il Conspectus praesentaneae morborum conditionis (Torino, 1793), e il Ragionamento sopra la pellagra (Torino, 1795). Particolare importanza nei suoi studi di botanica ha la sua fondamentale opera Flora pedemontana sive enumeratio methodica stirpium indigenarum Pedemonti, apparsa in 3 volumi a Torino nel 1785.

Dopo esser stato dunque fra i protagonisti del rinnovamento della cultura scientifica italiana, e più precisamente del nord Italia, nel corso del secondo Settecento, Allioni morì a Torino nel 1804.

Il Ragionamento sopra la Pellagra, colla risposta al signor Dottore Gaetano Strambio è l’ultima opera data alle stampe dall’Allioni e l’unica scritta in italiano, quindi ciò denuncia le intenzioni dell’autore di fare quella che oggi diremmo divulgazione scientifica (ma ad un livello piuttosto alto). In particolare va assolutamente notato l’atteggiamento accentuatamente sperimentale di chi scrive, sino al limite del «racconto» di cose avvenute, e la presenza di una lingua piana, discorsiva appunto, e non complicata ma resa più nitida e precisa dal fitto ricorso alla terminologia scientifica allora in uso.

 

Gasparo Gozzi

 

Nacque a Venezia nel 1713, primogenito degli undici figli del conte Iacopo Antonio e della nobildonna Angela Tiepolo. Dall’inizio del Settecento, tuttavia, il patrimonio familiare si ridusse progressivamente, cosicché solo Gasparo e il secondogenito Francesco poterono seguire corsi di studi regolari in collegi pubblici. Fino al 1732 studiò presso il collegio dei padri Somaschi di Murano; a Venezia, poi, seguì corsi  di giurisprudenza e matematica, ma i suoi interessi erano già stabilmente rivolti alla letteratura. Durante gli anni trenta, a causa delle difficoltà economiche dovute al dissesto del patrimonio di famiglia, compì le sue prime prove letterarie orientate nel senso del conservatorismo classicistico proprio della cultura veneziana del tempo. Nel 1738 sposò la poetessa Luisa Bergalli, di dieci anni più vecchia di lui, dalla quale ebbe cinque figli. Dal 1740, sempre a causa di gravi dissesti finanziari dovuti anche al matrimonio, fu costretto a un intensissimo lavoro letterario, consistente per gran parte nel rifacimento e nella traduzione di opere francesi o già tradotte in francese: caso notevole di intellettuale strettamente legato, per necessità, alle vicende di una già vivace industria della cultura. Nel 1746 prese in gestione con la moglie il Teatro Sant’Angelo e dal 1747 partecipò col fratello Carlo alle adunanze dell’Accademia dei Granelleschi. Dal 1748 incominciò a collaborare col potere politico, in una lunga attività che lo vide nel 1762 revisore delle stampe, poi soprintendente all’arte dei librai, infine nel 1774 soprintendente alle scuole di Padova.

Un certo nome come autore in proprio fu raggiunto da Gaspare solo nel 1750, con la pubblicazione del primo volume delle Lettere diverse e con i primi Sermoni. Poco dopo, nel 1751, egli fece uscire le Rime piacevoli d’un moderno autore e nel 1758 la Difesa di Dante, in risposta alle Lettere virgiliane di Saverio Bettinelli. Compose frattanto alcune tragedie. Nel 1760 tentò l’esperienza giornalistica, curando, successivamente, la Gazzetta veneta, il Mondo morale e il più fortunato, almeno per durata, Osservatore veneto periodico. Nella Gazzetta confluivano fatti di cronaca, narrati con chiarezza e vivacità, scenette di fantasia e recensioni librarie e teatrali; l’Osservatore affrontava temi di portata più ampia, con un linguaggio più complesso e un tono più sostenuto. Rilevante fu la composizione di una serie di ritratti psicologici in cui erano applicati a personaggi moderni, delineati con maestria, le regole di un genere “minore”: il ritratto satirico morale. In questo stesso periodo volgarizzò Longo Sofista e qualche dialogo di Luciano (autori greci allora in grandissima voga) e scrisse melodrammi giocosi. Nel 1763, anno di pubblicazione del Mattino pariniano, fece uscire i primi dodici Sermoni e nel 1765 il poemetto Della prudenza. Nel 1768 ritornò all’attività pubblicistica redigendo, come sembra, l’anonimo Sognatore italiano, in cui si esprime una visione straordinariamente amara e disincantata della realtà. Nel 1777 tentò il suicidio, senza riuscirvi. Nel 1779 pubblicò gli ultimi Sermoni e Alcuni componimenti in prosa e in verso. In questi ultimi anni tradusse ancora molto, in prevalenza scritti di Marmontel[13]. Morì nel 1786 e fu sepolto nel cimitero di San Michele in isola.

Non ancora adeguatamente considerata nel suo insieme, la varia opera di Gasparo Gozzi costituisce certo, anche sul versante delle traduzioni, una testimonianza notevole delle vicende di quel mondo intellettuale di fondo aristocratico rimasto, fra medio e tardo Settecento, in qualche modo ai margini delle profonde trasformazioni in atto nella società contemporanea, attestato, pur nell’ambito di un’adesione di massima alla cultura dei lumi, su atteggiamenti di cauta diffidenza e contegnosa, spesso sermoneggiante moderazione nei confronti del nuovo, con punte, negli anni più tardi, di accentuato, talvolta funereo pessimismo. Gozzi, infatti, era moderatamente aperto all’innovazione e consapevole della resistenza che la tradizione avrebbe opposto all’invito degli intellettuali illuministi a riformare il mondo. Per questo motivo nelle proprie pagine dipinse il ritratto di un ambiente intellettuale troppo colto per non intuire la decadenza degli ideali della propria tradizione, ma anche troppo fine e riflessivo per abbracciare con entusiasmo le nuove istanze radicalmente eversive.

In alcuni momenti di maggiore equilibrio, la disposizione di fondo cui si è accennato inclina a tradursi in un contegno di tranquilla, distaccata contemplazione della società circostante, spesso felicemente mediata da un discretissimo rinvio a temi di grande rilievo nella cultura del tempo (la nuova pedagogia, il dibattito sulla semplicità di natura ecc.). Il linguaggio del Gozzi presenta un carattere raffinato e anticonformista che, nonostante l’impeto umoristico e la concretezza, si distacca dalla realtà popolare e quotidiana. Assai funzionale a questo riguardo, nello stesso taglio breve di un discorso costituito insieme di “osservazione” e di “giudizio”, è la struttura giornalistica, messa a punto sul principio del Settecento soprattutto in sede di cultura inglese.

 

Giuseppe Visconti di Saliceto

 

Nacque a Milano nel 1731 dal conte Pietro Francesco e Maria Andreotti, ed era cugino di Cesare Beccaria. Nel 1768 sposò, contro il volere della famiglia, Emilia Adelaide Duminge, né ricca né nobile, di Lione, dalla quale ebbe due figli. Cultore di matematica e scienze naturali, divenne nel 1790 conservatore della Società patriottica milanese. Morì a milano nel 1803.

Collaborò al Caffè con diversi articoli di meteorologia, di medicina (Della maniera di conservare robusta, e lungamente la sanità di chi vive nel clima milanese), di etica. E di ispirazione etica è senza dubbio la Descrizione d’una famiglia rustica, in cui la «descrizione» appunto, di taglio impeccabilmente giornalistico, di un ambiente contadinesco colto nella sua più ovvia quotidianità si illumina dell’esigenza (del tutto in linea con uno dei massimi miti di quegli anni, si pensi ad esempio alla pariniana La vita rustica, composta pochi anni prima) di «sorprendere» e in qualche modo recuperare, «tra le rozze e le semplici capanne», quella «natura semplice e libera», che il mondo civile e della città parrebbe avere ormai definitivamente smarrito.

 

***NOTE AL TESTO***

[1] Bonora Ettore, ALGAROTTI, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 2, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1960.

[2] Augusto III di Sassonia (Dresda, 1696 – Dresda, 1763), elettore di Sassonia, re di Polonia e granduca di Lituania, era figlio di Augusto II e di Cristiana Eberardina di Brandeburgo-Bayreuth. Nel 1717 si convertì al cattolicasimo e nel 1719 sposò a Vienna Maria Giuseppa d’Austria, figlia del defunto imperatore Giuseppe I. Morto improvvisamente il padre  nel 1733, dovette affrontare la guerra di successione polacca (1733-1734) che si concluse con il suo riconoscimento come effettivo sovrano. Augusto delegò la maggior parte dei suoi poteri e responsabilità a Heinrich von Brühl, che servì in effetti come viceré della Polonia. Brühl a sua volta lasciò la politica in Polonia ai magnati e ai nobili più potenti, il che provocò una diffusa corruzione. Durante la guerra dei sette anni Augusto III si rifugiò a Varsavia.

[3] Federico II di Hohenzollern (Berlino, 1712 – Potsdam, 1786), re di Prussia e principe elettore di Brandeburgo, era figlio di Federico Guglielmo I e di Sofia Dorotea di Hannover. Ebbe un’infanzia difficile per i continui conflitti con il padre che voleva educarlo secondo i rigidi principi del luteranesimo. Salito al trono (1740), con una politica espansionistica e con una serie di guerre aggressive, Federico seppe far crescere nel corso di pochi decenni il piccolo regno prussiano da Stato di dimensioni regionali a una delle principali potenze europee. Versato nella letteratura e nella musica, amò circondarsi di intellettuali, soprattutto illuministi francesi.

[4] Thomas Gray (Londra, 1716 – Cambridge, 1771), poeta inglese, studioso dei classici e professore di storia all’Università di Cambridge, fu un importante esponente del preromanticismo e uno dei principali esponenti della poesia cimiteriale inglese (assieme ad Edward Young), con il suo indiscusso capolavoro: Elegy Written in a Country Churchyard (Elegia scritta in un cimitero di campagna).

[5] Antonio Cocchi (Benevento, 1695 – Firenze, 1758), medico, naturalista e scrittore italiano, nel 1713 studiò a Pisa poi a Firenze presso i Padri Scolopi e successivamente si laureò in medicina, seguendo l’attività paterna, presso l’Università di Pisa. Nel 1736 fu nominato lettore di Anatomia nello Studio Fiorentino. Sostenne l’importanza dell’anatomia per gli studi medico-chirurgici. Scrisse un importante trattato sulle acque termali dei Bagni di San Giuliano. La sua attività di scrittore fu indirizzata allo studio di importanti opere letterarie, pubblicando trattati e saggi su opere di Voltaire e di John Milton e alla traduzione di opere di Senofonte Efesio. Tradusse anche vari scritti greci che formarono la raccolta dei Graecorum chirurgici libri. Tra le sue altre opere si annoverano anche una Vita di Benvenuto Cellini e il trattatello Del matrimonio.

[6] Bernard le Bovier de Fontenelle (Rouen, 1657 – Parigi, 1757), avvocato, scrittore e aforista francese, era figlio  di un avvocato al Parlamento della Normandia e della sorella del grande drammaturgo Pierre Corneille. Destinato dal padre all’avvocatura, studiò diritto, ma riuscì a perdere l’unica causa che sostenne. Associato al lavoro di redazione dallo zio Thomas Corneille (fratello di Pierre) che dirigeva a Parigi il Mercure galante, vi stampò ventenne le sue prime poesie. Perfetto uomo di mondo, d’umore sempre eguale, dolce e raffinato, che amava piacere e temeva ancor più di dispiacere, nei suoi scritti fu un anticipatore di molti temi dell’Illuminismo.

[7] Giacinto Sigismondo Gerdil (Samoëns, 1718 – Roma, 1802) nacque da Pierre Gerdil, notaio, e Françoise Perrier. Nel 1734 entrò nell’ordine dei Chierici regolari di San Paolo a Torino. Nel 1735 fu inviato a studiare a Bologna. Nel 1738 ottenne l’insegnamento di Filosofia a Casale Monferrato e nel 1749 venne nominato titolare dell’insegnamento di Filosofia Morale alla Regia Università di Torino. Nel 1754 venne promosso alla cattedra di Teologia Morale. Pio VI lo nominò cardinale nel 1777.

[8] Filippo Antonio Revelli (Monastero di Lanzo, 1716 – Torino, 1801) insegnò geometria per 26 anni all’Università di Torino. Scrisse i due volumi degli Elementi dell’aritmetica universale e della geometria piana e solida (1778).

[9] Giovanni Battista Beccaria, al secolo Francesco Ludovico Beccaria (Mondovì, 1716 – Torino, 1781), fisico e matematico, prese giovanissimo i voti all’Istituto religioso degli Scolopi della città natale. Fu autore del Gradus Taurinensis (misurazione di una porzione di meridiano terrestre che passa dal Piemonte) e un’importante personalità nel rinnovamento scientifico dell’Ateneo torinese del XVIII secolo.

[10] Leonhard Euler (Basilea, 1707 – San Pietroburgo, 1783) matematico, fisico e astronomo svizzero, in italiano noto come Eulero, è considerato il più importante matematico del Settecento, e uno dei massimi della storia. È noto per essere tra i più prolifici di tutti i tempi e ha fornito contributi storicamente cruciali in svariate aree: analisi infinitesimale, funzioni speciali, meccanica razionale, meccanica celeste, teoria dei numeri, teoria dei grafi. Anche se fu prevalentemente un matematico diede importanti contributi alla fisica e in particolare alla meccanica classica e celeste. Complessivamente esistono 886 pubblicazioni di Eulero e buona parte della simbologia matematica tuttora in uso venne introdotta da lui.

[11] Pierre Charles Le Monnier (Parigi, 20 novembre 1715 – Bayeux, 3 aprile 1799), astronomo e geofisico francese, nacque da Pierre Lemonnier (1675-1757), matematico e professore di filosofia al “Collége d’Harcourt”. All’età di 16 anni fece la sua prima osservazione astronomica documentata, e quattro anni dopo, a soli 20 anni (1736) presentò una cartografia dettagliata della Luna che, assieme ad altri lavori, gli valse l’ingresso alla Accademia Reale delle Scienze (poi divenuta Accademia delle scienze di Francia). A lui si attribuiscono diverse iniziative e molti risultati notevoli: un’indagine su anomalie di Giove e di Saturno, una serie di osservazioni sulla Luna, varie ricerche sul magnetismo terrestre e l’elettricità atmosferica, la determinazione dei cambiamenti della rifrazione atmosferica terrestre in estate e in inverno, la riformulazione delle Tabelle solari, e altro ancora.

[12] Vittorio Amedeo III di Savoia (Torino, 1726 – Moncalieri, 1796), re di Sardegna e duca di Savoia, era figlio di Carlo Emanuele III e di Polissena d’Assia-Rheinfels-Rotenburg, sposò nel 1750 Maria Antonietta di Spagna (1729-1785), figlia più giovane di Filippo V di Spagna e Elisabetta Farnese. Salì al trono nel 1773 e, per quanto di spirito conservatore, portò avanti nel suo regno numerose riforme amministrative sino alla dichiarazione di guerra alla Francia rivoluzionaria nel 1792.

[13] Jean-François Marmontel (Bort-les-Orgues, 1723 – Habloville, 1799), romanziere, poeta e drammaturgo francese, collaborò all’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SETTECENTO»

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