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Gian Vincenzo Gravina

 

Nacque a Rogiano, presso Cosenza, nel 1664 da Gennaro e Anna Lombardi. Dopo avere ricevuto la prima istruzione dal padre, fu mandato a continuare gli studi a Scalea, nella “scuola” del cugino Gregorio Caloprese, filosofo cartesiano e acuto interprete di poesia, cui affiderà, diversi anni più tardi, la formazione del futuro Metastasio. Fu a Napoli dal 1681, dove conobbe il cardinale Antonio Pignatelli, futuro Innocenzo XII, e dal 1689 a Roma, quale procuratore dell’arcivescovo di Taranto. Nel 1691 pubblicò, in polemica con la casistica e la morale gesuitica, a Napoli ma con falsa data di Colonia, la Hydra mystica, sive de corrupta morali doctrina. Del 1692 è il Discorso sopra l’Endimione di Alessandro Guidi[1], primo nucleo, insieme col Discorso delle antiche favole, di poco successivo, di quello che sarà il suo maggiore lavoro in ambito critico‑estetico, la Ragion poetica, poi pubblicata nel 1708.

In tale ambito si potranno però ancora ricordare il De disciplina poetarum, indirizzato nel 1712 a Scipione Maffei; il più tardo trattatello Della tragedia; le cinque tragedie pubblicate a Napoli sempre nel 1712 – Palamede, Andromeda, Appio Claudio, Papiniano, Servio Tullio – e lodate, fra gli altri, da Vico e assai importanti in relazione agli sviluppi del teatro tragico italiano del primo Settecento (ne derivano, ad esempio, due opere di massimo rilievo come la Merope di Maffei e il Giulio Cesare di Antonio Conti). E tutt’altro che irrilevante si dovrà considerare la partecipazione di Gravina alle vicende dell’Arcadia, di cui fu proprio lui a scrivere le leggi sul modello delle dodici tavole, salvo poi allontanarsene, nel 1711, allorché diede origine all’Accademia dei Quirini.

Non meno significativa, infine, fu la sua presenza nell’ambito degli studi storici e giuridici, strettamente connessa del resto alla sua professione specifica, di docente, dal 1699, di diritto civile e, dal 1703, di diritto canonico. Così, a parte numerosi scritti minori, egli pubblicò a Napoli nel 1713 gli Originum iuris civilis libri III, opera di grande respiro che verrà considerata a lungo, su un piano europeo, un modello di storiografia e bibliografia giuridica. Morì nel 1718, nell’imminenza di partire per Torino, dove lo aveva invitato Vittorio Amedeo II, allora impegnato in una complessa riorganizzazione degli studi universitari.

Sulla figura e sull’opera di Gravina, a lungo rimasto un po’ stranamente ai margini della nostra tradizione, chiuso in una luce di “erudito” scostante e illeggibile, è ancor oggi in corso un non facile riesame, inteso a ricucire in una prospettiva unitaria le diverse linee di un’esperienza così articolata e insieme a individuare, di quest’ultima, gli essenziali rapporti sia col pensiero che con il processo di sviluppo della società italiana ed europea fra ultimo Seicento e primo Settecento.

Nello specifico ambito critico‑estetico la posizione di Gravina si può ricondurre, specie all’altezza della sua opera maggiore, a un’assimilazione e rielaborazione assai fini della più viva problematica contemporanea (la questione della preminenza degli antichi o dei moderni, il rapporto nella poesia di «ragione» e «passione», la varia incidenza del fatto artistico sui suoi fruitori ecc.) ed all’impegno di individuare un criterio di base, una «ragion poetica» appunto, fondata sulla natura ed, essenzialmente, sull’esempio degli antichi greci. Onde il particolare classicismo graviniano, non ovvio e non scolastico, che avrà grande fortuna e notevoli sviluppi per tutto il Settecento, almeno sino a Foscolo, e non solo in Italia. Ciò anche per i diversi germi di modernità settecentesca presenti nell’opera dello scrittore calabrese: l’idea, ad esempio, di una poesia atta a educare i suoi lettori o uditori, connessa comunque in profondo a una dinamica e una struttura sociali; il vagheggiamento di una mitica semplicità primitiva e il senso, che pure vi si avverte, di un progressivo decadimento del mondo civile.

 

Antonio Conti

 

Nacque a Venezia nel 1677, secondogenito di Pio e di Lucrezia Nani, nobili veneti. Entrato nel 1699 nella Congregazione dei padri dell’oratorio della Fava, in Venezia, vi fu ordinato sacerdote, ma nel 1708 preferì lasciare l’Ordine, cui doveva la sua prima formazione platonico-agostistiniana, per coltivare l’interesse per la cultura francese e per gli studi scientifici moderni. L’agiata posizione economica e sociale di abate gli permisero di dedicarsi liberamente agli studi di filosofia, matematica, scienze. Nel 1708 si trasferì a Padova, dove, a contatto con la vivace tradizione padovana dello sperimentalismo galileiano, fece propria senza incertezze l’interpretazione meccanicistica della natura. Fra il 1713 e il 1715 compì un lungo soggiorno in Francia. Qui ebbe modo di entrare in contatto con numerosi intellettuali, fra cui Malebranche[2] e Charles Francois Du Fay[3], con il quale strinse amicizia; ma qui egli superò anche l’iniziale interesse per il pensiero malebranchiano e si dispone a una proficua assimilazione degli orientamenti leibniziani e newtoniani, che tenterà poi sottilmente di conciliare.

Naturale quindi, nell’aprile del 1715, la partenza dalla Francia per Londra, dove avviò una serie di conversazioni con Newton[4]; ma nell’inverno dello stesso anno si ritirò a Kinsington, dove si occupò in prevalenza di problemi estetici e letterari, alla luce degli scritti di Addison[5] e del duca di Buckingam[6] (e dall’Essay on Poetry di quest’ultimo Conti derivava, esplicitamente, un suo, ancora inedito, Saggio di poetica). Fra il 1716 e il 1717 compì un ulteriore viaggio in Olanda e in Germania, principalmente per incontrare Leibniz[7]. A questi già Conti aveva scritto, nell’imminenza di partire per Londra, proponendogli un’interpretazione del suo sistema. In Germania, trovatolo non più vivo, riuscì a procurarsi alcuni manoscritti, di cui curò un’edizione nel 1719 con altri testi di Clarke[8] e Newton.

Nel 1718, dopo un nuovo soggiorno in Inghilterra, ritornò in Francia, dove rimase sino al 1726. Qui frequentò in particolare gli esponenti dell’intellettualità più orientata in senso libertino e compose diverse opere di carattere filosofico ed estetico‑letterario, il cui «tema fondamentale […] è un richiamo alla realtà di fatto da cui siamo condizionati, e che nessuna metafisica può spiegare pienamente. Il nostro stesso modo di sentire le cose, di amare ecc., è imposto a noi dalla nostra materialità e fattualità e ne è anzi là prima espressione. Entro questa condizione sentimentale originaria […] la ragione ha il compito di dar luogo ad analisi, a comparazioni, ad astrazioni, che non sono condizioni alternative del sentimento, ma invece l’unico modo di rendere possibile il passaggio dal sentire immediato ad una rigorosa teoria della esperienza»[9].

Nel 1726 Conti rientrò in Italia, cercandosi un clima più adatto alla sua salute malferma. Pubblicò a Faenza, appena rientrato, la sua prima tragedia, il Cesare, maturata negli ambienti di cultura di Parigi e di Londra (seguiranno il Lucio Giunio Bruto nel 1743, il Marco Bruto nel 1744, il Druso nel 1748). Fra i dati notevoli di quest’ultimo periodo italiano (morì nel 1749) si può ancora ricordare la stesura, nel 1730, del Discorso storico e politico sullo stato politico di Francia dal 1700 al 1730, e, intorno al 1746, di un Trattato dell’anima. Accusato nel 1735 di ateismo e irreligiosità, si salvò per la protezione accordatagli dal patriziato veneto. Nel 1739 fece uscire il primo volume delle sue Prose e Poesie; il secondo uscirà postumo, lasciando però inedita una parte notevole dell’opera manoscritta, nel 1756.

Se il pensiero filosofico contiano ha ormai avuto in questi ultimi anni, grazie soprattutto al lavoro di Nicola Badaloni, una persuasiva definizione, la complessa meditazione su temi letterari ed estetici affidata dall’abate veneziano a numerosi saggi (in parte riprodotti, nelle edizioni settecentesche cui si è accennato, per esteso o per sunti ed estratti, in parte rimasti manoscritti), attende invece ancora di venir adeguatamente riconsiderata. È però già possibile ricavarne un’impressione di ricerca geniale, perseguita da una parte a contatto e alla luce delle grandi esperienze intellettuali europee che si sono richiamate, dall’altra in un dialogo, sottile e ininterrotto, con i più significativi teorici italiani del tempo, da Gravina a Vico a Muratori.

In questo senso Antonio Conti, così come rappresenta anche per questo riguardo un tramite attivissimo fra cultura italiana e cultura europea (fondamentali i carteggi, sinora solo in parte esplorati), ci appare quanto mai indicativo dell’impegno – che animò con lui, nei primi decenni del Settecento, numerosi altri intellettuali di minor nome – di integrare in qualche modo e magari rivedere e discutere le idee fissate sul principio del secolo in opere di essenziale riferimento come la Ragion poetica o Della perfetta poesia italiana. Interessante, appunto, a tale proposito, è l’inedito trattato Della poesia e delle sue speci (scritto da Conti probabilmente nel torno di tempo in cui apparve il saggio muratoriano Della forza della fantasia umana, con cui presenta diversi punti in comune, intorno dunque al 1745) nel quale il Nostro attua il tentativo, non privo di oscurità e di nodi, anche linguistici, non facilmente risolvibili, di andare più a fondo, di quanto avessero fatto appunto Gravina e il primo Muratori, nei meccanismi misteriosi della creazione artistica.

 

Giuseppe Baretti

 

Marc’Antonio Giuseppe Baretti, figlio primogenito di Luca e Anna Caterina Tesio, nacque a Torino nel 1719. Nel 1733, per finanziare la sua formazione, il padre, impiegato a corte come architetto militare, rivendicò le rendite di una cappellanìa rimasta vacante alla morte di un lontano parente. Il quattordicenne Baretti fu così ordinato chierico tonsurato e, presumibilmente, venne iscritto al seminario metropolitano. Morta la madre (1735), il padre dopo un solo mese di vedovanza si risposò. Ciò provocò dei contrasti, a seguito dei quali Giuseppe abbandonò la casa paterna per recarsi a Guastalla da uno zio, che lo collocò come scrivano presso un commerciante, ove conobbe il poeta Carlo Cantoni[10], che lo avviò agli studi letterari.

Nel 1738 si trasferì a Venezia, dove conobbe la famiglia Gozzi, e nel 1740 a Milano, dove entrò in contatto con i membri dell’Accademia dei Trasformati. Successivamente trascorse alcuni anni di nuovo in Piemonte, ma nel 1747 fece ritorno a Milano, quindi a Venezia, dove pubblicò fra il 1747 e il 1748 le Tragedie di Pier Cornelio[11] tradotte in versi italiani con l’originale a fronte. Nel 1750, di nuovo a Torino, pubblicò, oltre ad altri scritti in prosa e poesia, Le piacevoli poesie di Giuseppe Baretti torinese.

«Si può nelle rime edite e inedite, in mezzo al profluvio della chiacchiera bernesca e fra i soliti temi del genere, cogliere qualche tentativo di rappresentazione dell’autore, del suo carattere e dei suoi gusti e qualche spunto di satira del costume, ma più notevoli sono le pagine di prosa, le lettere private, le prefazioni alle tragedie del Corneille, le Lettere contro lo Schiavo, non tanto per alcune idee critiche che vi si accennano e a cui egli si manterrà fedele per tutta la vita, quanto per la insistente preoccupazione linguistica, che lo porta a infarcire quegli scritti di locuzioni e vocaboli “di forte e vivace significato”, desunti dal Berni e dai berneschi, dal Pulci, dai novellieri e comici fiorentini, e per l’attitudine che egli attraverso questo esercizio venne acquistando, a dominare il sovrabbondante materiale linguistico con un piglio suo proprio e a trarre da quei vocaboli e da quelle locuzioni effetti gustosi e personali di caricatura e di satira»[12].

Nel 1751 si recò a Londra, ove restò per nove anni, prima come addetto alla direzione del teatro italiano, poi dando lezioni di lingua italiana e attendendo a varie pubblicazioni. Entrò anche in contatto con i romanzieri Charlotte Lennox[13] e Samuel Richardson[14], con l’attore shakespeariano David Garrick[15], il pittore Joshua Reynolds[16] e il dottor Samuel Johnson[17], assicurandosi così un posto nei più importanti circoli artistici e letterari della capitale britannica. Tra le opere di tipo manualistico scritte in questo periodo devono ricordarsi The Italian Library (1757), un repertorio bio‑bibliografico da considerarsi come la prima crestomazia della letteratura italiana in lingua inglese, e A Dictionary of the English and Italian Languages (1760), lavoro che gli fruttò molta fama e un buon guadagno.

Nel 1760 lasciò Londra per il Portogallo; quindi si recò in Spagna e poi nuovamente in Italia. A Milano, dove ricercò invano un impiego, pubblicò nel 1762 il primo volume delle Lettere familiari a’ suoi tre fratelli (il secondo uscì a Venezia l’anno seguente). Sempre a Venezia, dove allora risiedeva, pubblicò fra il 1763 e il 1764 La Frusta letteraria di Aristarco Scannabue, soppressa per intervento superiore sul principio del 1765.

Lasciata Venezia, fece ritorno a Londra, dove, a parte i frequenti viaggi in Francia e in Italia, rimase praticamente sino alla morte, avvenuta nel 1789. Qui Baretti ebbe modo di rinsaldare e accrescere le numerose amicizie a livello intellettuale e mondano, qui trovò finalmente un suo spazio sociale, di borghese uomo di lettere in grado di vivere decentemente del proprio lavoro intellettuale. Si possono ricordare, fra i molti scritti di questo periodo, An Account of the Manners and Customs of Italy ( 1768); A Journey from London to Genoa, through England, Portugal, Spain and France (1770); il Discours sur Shakespeare et sur Monsieur de Voltaire (1777).

Il segno distintivo della ricca e articolata figura barettiana è probabilmente da ricercarsi nell’esperienza di intellettuale cosmopolita, tutta giocata su una significativa vicenda di spostamenti, fra alcune delle città italiane allora più aperte all’Europa (Torino, Milano, Venezia) e i centri più attivi e prestigiosi della cultura europea: Parigi, Londra soprattutto. Un’esperienza cosmopolita non dunque affidata, come in Bettinelli, a qualche viaggio e intense letture, o, come in Cesarotti, ai libri, ma, per dire così, sostanza effettiva di un’esistenza, e prezzo pagato, in assoluto, allo sradicamento dalle abitudini della provincia, all’assunzione di un’ottica appunto europea, che non trova riscontro se non in pochissimi altri intellettuali italiani del tempo, nei quali gioca tuttavia il vantaggio della condizione grande‑aristocratica.

È comunque dall’intensa pratica di alcune fra le principali lingue e culture d’Europa che viene al Baretti, o almeno al Baretti più maturo, la caratteristica disponibilità a un discorso letterario e critico insolitamente articolato, in cui, accolti volta a volta o discussi, gli autori italiani figurano accanto agli spagnoli, agli inglesi, ai francesi. E sono, in particolare, l’esperienza assidua di certo mondo intellettuale londinese, e soprattutto la frequentazione di Samuel Johnson, il critico inglese allora di maggior prestigio, all’origine di alcuni non meno caratteristici orientamenti barettiani: il conservatorismo di fondo; l’aderenza a una religione ragionevole ma non in conflitto con l’ortodossia; l’esigenza di una letteratura intesa essenzialmente a riflettere, con immediatezza e senza complicazioni di stile o di lingua, la verità delle cose e della vita.

Di qui, in un fecondo confluire di tali ragioni «inglesi» con le ragioni, già presenti in Baretti e abbastanza simili, dei «trasformati» lombardi, il discorso critico della Frusta: la polemica, condotta su toni vivaci e spesso inclini al grottesco, nei confronti di certa oziosità e inconsistenza arcadiche (come si potrebbe dire a proposito dell’«inzuccheratissimo» Zappi); la valutazione, all’opposto, ampiamente positiva dell’opera di Metastasio, o l’esaltazione della Vita celliniana.

 

Saverio Bettinelli

 

Nacque a Mantova nel 1718, da Girolamo e Paola Frugoni. Studiò presso i Gesuiti, del cui ordine entrò a far parte nel 1738. Furono, questi intorno al 1740, anni di insegnamento in diverse città, fra cui Bologna e Venezia, e di tentativi letterari, specie nella direzione, attestata dalla tragedia Gionata (1747) – scritta per il collegio S. Luigi di Bologna – e da altre successive (Demetrio Poliorcete ossia la virtù ateniese, 1754; Serse, 1756), di un teatro esemplato sui grandi modelli francesi, da Racine[18] a Corneille a Voltaire. Le tre opere, raccolte poi in volume (1771), e successivamente ristampate con discorsi critici sulla tragedia francese e italiana, ebbero un certo successo, tanto che poterono esercitare una suggestione sia sul Saul dell’Alfieri sia sull’Aristodemo del Monti. Attivi, inoltre, a questo riguardo furono soprattutto i sette anni trascorsi a Parma dal 1752 come Accademico del Collegio dei Nobili. In questo periodo poté compiere anche alcuni importanti viaggi, in quanto precettore dei principi Hohenlohe: in Germania nel 1775 e, fra il 1757 e il 1758, in Francia, dove incontrò, fra gli altri, Helvétius, Rousseau e Voltaire. E in qualche modo voltairiane, nel gusto polemico che le anima (oltre che in certe pregiudiziali ideologiche), sono le Dieci lettere di Publio Virgilio Marone scritte dagli Elisi all’Arcadia di Roma sopra gli abusi introdotti nella poesia italiana, poi più note come Virgiliane, composte per gran parte durante il viaggio in Francia. Soprattutto per la franca dissacrazione operata nei confronti del culto dantesco, l’operetta suscitatò immediato clamore nella cultura italiana del tempo, fra l’altro inducendo Gaspare Gozzi alla stesura della Difesa di Dante.

Prosecuzione per molti aspetti delle Virgiliane sono le Lettere sopra vari argomenti di letteratura scritte da un Inglese ad un Veneziano, redatte ad Avesa presso Verona, dove Bettinelli risiedette dal 1759 al 1767, e pubblicate nel 1766: rassegna sottilmente e spesso anche acremente polemica (non a caso sarebbe dovuta uscire sulle colonne del Caffè) degli usi e costumi, delle contraddizioni e dei limiti della cultura italiana contemporanea. E a questi stessi anni di grande impegno intellettuale e polemico (lo si potrebbe definire il momento eroico della lunga attività bettinelliana) risale la stesura del saggio Dell’entusiasmo delle belle arti, pubblicato nel 1769, in cui il tema dell’«entusiasmo», di per sé non certo nuovo (solo si pensi a Muratori), veniva affrontato alla luce delle più aggiornate prospettive sensistiche, toccando temi, come quello del «genio», che saranno per alcuni decenni al centro del più vivo dibattito europeo.

Conclusi gli anni veronesi, Bettinelli si trasferì a Modena, dove insegnò eloquenza dal 1772. Di qui il Saggio sull’eloquenza, pubblicato solo una decina d’anni più tardi, in cui si trova sostanzialmente ripreso il discorso di fondo dell’Entusiasmo: «La rettorica è un’arte», si afferma nelle prime pagine, «e però chetamente e posatamente procede: l’eloquenza è un impeto, un foco, un incendio dell’anima; e quella mai non produsse alcun de’ passi sublimi e trionfatori dell’animo umano, perché questa sola gli trae da una certa ispirazione, da un intimo sentimento, da una profonda commozione del cuore e dell’anima ardente». Allorché venne soppressa la Compagnia di Gesù, Bettinelli si ritirò come libero abate a Mantova, dove, a parte alcuni viaggi o fughe (come quella a Verona, nel 1796, per l’assedio posto alla sua città dai Francesi), rimase fino alla morte, avvenuta a novant’anni nel 1808.

Proprio all’inizio di quest’ultimo periodo mantovano risale la pubblicazione (1773) dell’opera forse di maggior impegno, già in allestimento da anni, Il risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti e ne’ costumi dopo il Mille. Si tratta di una storia del cammino compiuto dall’Italia sulla via della civiltà fra il 1000 e il 1400, storia dunque eminentemente civile secondo una tipica scelta illuministica, legata non a caso per un verso ai muratoriani Annali d’Italia, per altro all’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations pubblicato da Voltaire nel 1756. Notevole e significativa anche la soluzione dei problemi di struttura posti da un disegno del genere. L’opera consta infatti di due parti: una, in cui la materia è considerata nella sua successione per secoli; e un’altra, in cui la stessa materia è ripresa in esame alla luce di varie categorie, lingua, poesia, commercio ecc.

Fra il 1780 e il 1782 Saverio Bettinelli, ormai sessantenne e illustre, curò un’edizione generale delle proprie opere (un’altra, più ampia, seguirà fra il 1799 e il 1801). Parecchi naturalmente sono ancora gli scritti posteriori al 1782: saggi di natura critico‑estetica o testi di più libera inventiva, come le Lettere d’un’amica tratte dall’originale e scritte a penna corrente, apparse nel 1785. Ma non vi si trova più il mordente degli anni sessanta, vi si avverte talora un che di fatuo e di inutile, e insomma quello scrivere ozioso proprio di tanti intellettuali ai quali capiti di sopravvivere a se stessi.

In merito al saggio Dell’entusiasmo, al quale si è già poco sopra accennato, si può qui aggiungere come scopo dichiarato dell’opera – come esplicitamente affermava l’autore nell’Introduzione – fosse «di ravvivare lo studio delle bell’arti, e sostenerlo contro gli studi inimici della imaginazione». Di fatto, lo scritto bettinelliano ci appare oggi un tentativo assai lucido, realizzato sia tenendo conto di una ricca tradizione (Diderot, Dubos[19], Muratori, sino al neoplatonismo antico e rinascimentale) sia sulla base di quelle che Croce, discorrendone nell’Estetica, avrebbe definito «vivaci ed eloquenti determinazioni empiriche della psicologia del poeta», un tentativo dunque di considerare il fatto artistico nella prospettiva specifica dell’ispirazione, e dei rapporti intrattenuti da quest’ultima con la condizione psichica ed emozionale dell’artista, e più in genere con il dato di natura, l’«indole», che la presuppone. Tema di interesse centrale nella cultura del secondo Settecento, in varia misura affascinata dalle motivazioni psichiche, irrazionali dell’esperienza artistica e gradualmente intesa a riconoscerne la qualità specifica, al limite l’eccezionalità e l’inspiegabilità, entro la categoria del «genio», spesso mitica ma anche, come in Bettinelli, sottilmente indagata.

 

Melchiorre Cesarotti

 

Nacque a Padova nel 1730 da Giovanni (Zanne) – prima avvocato e poi funzionario pubblico – e da Medea Bacuchi. La famiglia era di antica nobiltà, ma ormai borghese e non molto agiata. Studiò nel seminario della sua città, dove ebbe come guida il matematico Giuseppe Toaldo[20], di cui divenne amico. Qui ottenne il titolo e il privilegio di abate – prese gli ordini minori senza diventare sacerdote – e fu poi accolto come giovanissimo professore di retorica e belle lettere nei primi anni cinquanta del Settecento.

Tra il 1754 e il 1758 pubblicò il dialogo Homines histriones, importante in quanto in esso compare già la sua polemica contro la pedanteria dei grammatici e degli imitatori pedissequi dei classici, ribadita, sempre in quel periodo, da due epigrammi latini: In grammaticos e In homerolatras. Appartengono allo stesso periodo anche la traduzione del Prometeo di Eschilo, di sette Odi di Pindaro e delle tragedie di Voltaire, fatte rappresentare nel teatro del seminario. Nel 1760 lasciò Padova per trasferirsi a Venezia come precettore presso la famiglia Grimani, incarico che mantenne per otto anni. Qui entrò in contatto con le personalità più in vista nel mondo culturale quali i fratelli Gozzi e Carlo Goldoni. E fu quest’ultimo, allorché nel 1762 si recò in Francia, a portare in omaggio a Voltaire, per conto dell’amico padovano, il suo primo importante volume, contenente la traduzione di due tragedie voltairiane, la Morte di Cesare e il Maometto, e due scritti teorici, i «ragionamenti del traduttore» Sopra il diletto della tragedia e Sopra l’origine e i progressi dell’arte poetica.

Notevole, di questi, specialmente il secondo, frutto della complessa rimeditazione di una tradizione di pensiero recente ma assai ricca (Muratori, Vico, Dubos, il Voltaire dell’Essai sur la poesie épique) e il cui motivo fondamentale, ha notato il Bigi, è da riconoscersi nel «proposito di mostrare l’illegittimità di ogni regola basata sull’autorità e su ogni altro pregiudizio particolare, soprattutto del più radicato e pericoloso, quello fondato sul cieco rispetto per gli autori antichi». E ancora osserva il Bigi come nel saggio cesarottiano, «sempre nell’ambito della battaglia per una poesia libera dalle regole» si facciano luce «due altri e più interessanti motivi: un senso vivissimo, anzitutto, della individualità e originalità del “genio” poetico, al quale il Cesarotti perviene rielaborando in modo fortemente soggettivistico il vecchio argomento dell’infinità degli oggetti imitabili, e un’insistenza, altrettanto viva, sul carattere istintivo, fantastico‑passionale della poesia».

Di qui, assai naturalmente, l’incontro entusiastico con la poesia di Ossian, di cui Cesarotti si occupò, con traduzioni e commenti, per tutto il decennio seguente (una prima edizione è del 1763; una seconda, più ampia, del 1772). Di qui anche, in anni caratterizzati dalle più risolute accensioni neoclassiche, la «filosofica» cautela, il distacco con cui l’intellettuale padovano, ritornato nel 1768 nella città nativa come professore di greco e di ebraico, si aggirerà per l’antica letteratura greca, considerata, come già a suo tempo aveva fatto Muratori ma ora con più deciso piglio polemico, non altrimenti che una delle tante letterature possibili, da frequentarsi con ragionevolezza, semmai da far conoscere agli inesperti per certe sue «bellezze». Tale lo spirito del Corso ragionato di letteratura greca, apparso nel 1781, e della traduzione, prima in prosa letterale, poi, assai libera, in versi, dell’Iliade.

In questi stessi anni ottanta, che segnano probabilmente il momento di maggior prestigio dell’abate padovano, egli si dedicò a ridefinire e a riaffermare con una certa solennità i principi critico­‑estetici che sino allora lo avevano ispirato nel Saggio sulla filosofia del gusto all’Arcadia di Roma, pubblicato nel 1785. E al tempo stesso concluse, col celebre Saggio sopra la filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana, anch’esso del 1785, la complessa riconsiderazione dei problemi linguistici avviata già nel 1769 con la prolusione De linguarum studii origine, progressu, vicibus, predo.

Gli ultimi anni del Cesarotti, che morì nel 1809, furono piuttosto opachi, sia sul piano umano che su quello della produzione intellettuale. Fu un periodo di zelante attività accademica, di giardinaggio un po’ monomaniaco nella villetta di Selvaggiano presso Padova, di accettazione e celebrazione, quest’ultima veramente non facile a spiegarsi, dei diversi regimi politici che si susseguirono dal 1796, sempre comunque nella prospettiva, di fondo, di un cautissimo progressismo. Dal 1800 Cesarotti incominciò a pubblicare l’edizione completa delle proprie Opere, che si concluse, col quarantesimo volume, nel 1813.

Per ciò che riguarda il Saggio sopra la filosofia delle lingue, a cui si è fatto cenno poc’anzi, si può qui aggiungere – per meglio precisare la posizione critica (fatta nella prima parte del saggio) circa i pregiudizi vigenti sulla purezza della lingua e tendente ad evidenziarne il collegamento con la storia della civiltà – ciò che scrive lo stesso Cesarotti nella Lettera al Galeani Napione[21]: «Io m’era prefisso di toglier la lingua al despotismo dell’autorità e ai capricci della moda e dell’uso, per metterla sotto il governo legittimo della ragione e del gusto; di fissare i principii filosofici per giudicar con fondamento della bellezza non arbitraria dei termini, e per diriger il maneggio della lingua in ogni sua parte […]; di far ugualmente la guerra alla superstizione ed alla licenza per sostituirci una temperata e giudiziosa libertà».

Era, quest’ultima, una formula destinata a grande fortuna, come del resto il Saggio, nei decenni seguenti. Con essa Cesarotti definiva, felicemente, quanto di sagacemente conciliativo aveva potuto significare il suo intervento, in anni in cui, sotto la spinta di un complesso fenomeno di trasformazione della società italiana (al centro di tutto, la crisi del mondo e della cultura nobiliari, il progressivo emergere della borghesia con sue proprie esigenze comunicative ed espressive), a livello sia di pratica che di dibattito linguistico si erano venuti affrontando, con violenza crescente, da una parte gli assertori di una lingua astratta, immobile, fondata su remoti modelli letterari (i «patrassi» di cui aveva scritto il Baretti nella Frusta), dall’altra quanti, come il gruppo del Caffè, si erano impegnati per un uso linguistico tutto aderente alle cose e alla verità presente nella vita sociale.

Inutile dire che la proposta cesarottiana, che finiva del resto nel suo stesso equilibrio per codificare un uso già presente di fatto nella pratica linguistica dei maggiori scrittori italiani del tempo, avrebbe a lungo mantenuto una sua validità, o almeno un suo significato, nella misura in cui, altrettanto a lungo, non sarebbe venuto meno il conflitto cui prima si è accennato.

 

Vincenzio Russo

 

Nacque a Palma Campana nel 1770 da Nicola e Mariangiola Visciano, secondogenito di otto figli. Compì i primi studi nel seminario di Nola, quindi studiò diritto e medicina a Napoli e si diede all’avvocatura. Aderì ai principi giacobini ed entrò a far parte delle società segrete Club rivoluzionario e Società Patriottica Napoletana. Denunciato nel 1794 per aver preso parte alle attività cospirative della Società patriottica, riuscì a sottrarsi all’arresto grazie alla protezione dei cugini di suo padre (uno era medico di corte e l’altro giurista). Di nuovo inquisito dalla Giunta di Stato, nel 1797 lasciò Napoli per Genova, passando poi a Milano e quindi in Svizzera.

Dopo la proclamazione della Repubblica si recò a Roma, partecipò alle riunioni del Circolo costituzionale in qualità di moderatore e intervenne ripetutamente sulle pagine del Monitore di Roma, collaborando alla sua redazione. Con la nascita della Repubblica Napoletana si trasferì nella città partenopea, collaborando con il Monitore napoletano, animando l’attività dei circoli democratici e scendendo spesso a parlare fra il popolo.

Con la caduta della Repubblica venne arrestato ed impiccato nel 1799. L’anno precedente aveva pubblicato i suoi Pensieri Politici, che – a parte discorsi ed articoli apparsi sui giornali – costituiscono la sua sola opera.

Nei Pensieri, che sono una raccolta abbastanza ordinata di considerazioni sui temi più dibattuti dalla cultura progressiva, e in particolare giacobina del tempo, uno spazio centrale è dedicato all’«istruzione». È noto quanto importante sia il problema pedagogico‑didattico nella prospettiva del giacobinismo, incline a vedere nell’«istruzione opportuna e ben guidata» uno strumento essenziale di lotta contro la «rea educazione» e le sue conseguenze, primo fra tutte lo sviamento, dei giovani e più in genere della società, dalla retta via, diretta ad una possibile «felicità», consentita e suggerita dalla natura. Quali però i modi e i contenuti di questa istruzione? Il ferro su cui batte, duramente, lo scrittore campano è quello della «felice dimenticanza di tutto quello che non giovi o neccia ancora a sapersi». Di qui il discorso francamente dissacrante nei confronti di una letteratura consacrata da secoli e secoli di industria critica e scolastica (Omero, Virgilio ecc.), un rifiuto oltre la cui radicalità e forse ingenuità è possibile intravedere anche il fervido, e magari un po’ cieco, travaglio di una classe, appunto quella borghese che eminentemente si esprime nel movimento giacobino, che, impegnata allora ad affermarsi sul piano politico, viene al tempo stesso elaborando, in sostituzione della vecchia tradizione aristocratica, nuove forme e nuovi contenuti di cultura.

 

***NOTE AL TESTO***

[1] Carlo Alessandro Guidi (Pavia, 1650 – Frascati, 1712), poeta e drammaturgo italiano, nacque da Bernardo e da Maddalena Figarolla. Studiò presso i gesuiti, distinguendosi nella lingua e nella poesia latina, ma non apprese il greco. Le sue poesie, pubblicate nel 1671, mostrano influenze sia del Marino che del Chiabrera. Per il teatro scrisse i melodrammi La Parma nel 1669, Le navi d’Enea nel 1673 e Il Giove d’Elide fulminato nel 1677, l’Amore riconciliato con Venere e l’Amalasonta in Italia nel 1681. La sua favola pastorale in cinque atti L’Endimione mostra influssi dei modelli maggiori dell’Aminta tassiano e del Pastor fido del Guarini.

[2] Nicolas Malebranche (Parigi, 1638 – Parigi, 1715), filosofo, scienziato francese e religioso appartenente alla congregazione dell’Oratorio di Gesù e Maria Immacolata di Francia, inizialmente studioso del pensiero di Agostino d’Ippona, si dedicò in seguito alla filosofia cartesiana, divenendo, con il filosofo olandese Arnold Geulincx (1624-1669), un importante esponente dell’occasionalismo.

[3] Charles François de Cisternay du Fay (Parigi, 1698 – Parigi, 1739), chimico francese e intendente del Jardin du roi, è famoso per essere stato il primo scienziato ad affermare l’esistenza di un’elettricità positiva ed una negativa.

[4] Sir Isaac Newton (Woolsthorpe-by-Colsterworth, 1642 – Londra, 1726), matematico, fisico, astronomo, filosofo naturale, alchimista, teologo e cronologo inglese, viene considerato uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi. Ha anche ricoperto i ruoli di presidente della Royal Society, di direttore della Zecca inglese e di membro del Parlamento. Nella sua opera Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (nota anche come Principia) del 1687, che segna la fine della rivoluzione scientifica, definì le regole fondamentali della meccanica classica attraverso le sue leggi del moto. A lui si devono anche la teoria della gravitazione universale e l’invenzione del calcolo differenziale. Inoltre fu il primo a mostrare che la luce bianca è composta dalla somma di tutti i colori dello spettro, avanzando l’ipotesi che la luce fosse composta da particelle. Contribuì significativamente a più branche del sapere, occupando una posizione di preminente rilievo nella storia della scienza e della cultura. Il suo nome è associato a leggi e teorie ancora oggi insegnate: si parla di dinamica newtoniana, di leggi newtoniane del moto, di legge di gravitazione universale. Più in generale, ci si riferisce al newtonianesimo come concezione del mondo, che ha influenzato la cultura europea per tutto il XVIII secolo.

[5] Joseph Addison (Milston, 1672 – Kensington, 1719), politico, scrittore e drammaturgo britannico, viene comunemente ricordato per essere stato il fondatore del giornale The Spectator ed è passato alla storia con la definizione di “padre del giornalismo inglese”.

[6] John Sheffield, I duca di Buckingham e Normanby (Londra, 1647 – Londra, 1721), politico e scrittore britannico, fu amico di Dryden e di Pope. Oltre all’Essay on poetry, scrisse due tragedie che costituiscono un rifacimento del Julius Caesar di Shakespeare, e un Essay on satire (pubblicato anonimo).

[7] Gottfried Wilhelm von Leibniz (Lipsia 1646 – Hannover 1716), filosofo, scienziate, matematico, teologo e linguista, è uno tra i massimi esponenti del pensiero occidentale, nonché una delle poche figure di “genio universale”, poiché la sua applicazione intellettuale a pressoché tutte le discipline del sapere ne rende l’opera vastissima e studiata ancor oggi trasversalmente. A lui e a Newton si devono i primi sviluppi del calcolo infinitesimale, in particolare il concetto di integrale, per il quale si usano ancora oggi molte sue notazioni.

[8] Samuel Clarke (Norwich, 1675 – Londra, 1729), studiò presso la libera scuola di Norwich e al Caius College di Cambridge. La filosofia cartesiana era il sistema di pensiero dominante all’epoca; tuttavia Clarke accettò il sistema newtoniano e contribuì alla sua diffusione pubblicando una versione latina del Traité de physique di Jacques Rohault (1620 – 1675), arricchito da un notevole apparato di note.

[9] Badaloni Nicola, Introduzione, in Antonio conti,  Scritti filosofici, F. Rossi, Napoli, 1972.

[10] Carlo Cantoni (Novellara, 1674 – Mantova, 1752) nacque da Giovanni e da Francesca Vezzadini. Seguì i primi studi presso il collegio dei gesuiti di Novellara, ma dovette lasciarli per seguire la famiglia a Brescia. In seguito si trasferì a Guastalla. Fra le sue rime, pubblicate postume, sono notevoli quelle giocose, di ispirazione bernesca.

[11] Pierre Corneille (Rouen, 1606 – Parigi, 1684), drammaturgo e scrittore francese, viene considerato uno dei tre maggiori del XVII secolo, insieme a Molière e Racine.

[12] Fubini Mario, BARETTI, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 6, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma, 1964.

[13] Charlotte Ramsay Lennox (Gibilterra, 1730 – Londra, 1804), scrittrice e poetessa inglese, è rimasta famosa aver scritto il romanzo The Female Quixote, or The Adventures of Arabella (La Donna Chisciotte, o le avventure di Arabella).

[14] Sir Samuel Richardson (Mackworth, 1689 – Londra, 1761), scrittore inglese, tra i più importanti del XVIII secolo, è famoso per avere scritto il romanzo epistolare Pamela: Or, Virtue Rewarded (Pamela, o la virtù premiata, 1740), Clarissa: Or the History of a Young Lady (Clarissa, 1748) e Sir Charles Grandison (1753).

[15] David Garrick (Hereford, 1717 – Londra, 1779), attore teatrale, drammaturgo e produttore teatrale inglese, esercitò una grande influenza su tutti gli aspetti dell’attività teatrale nel Settecento, interessandosi di produzioni, scenografia, costumi e perfino di effetti speciali, rinnovando l’interesse per le opere teatrali di Shakespeare.

[16] Sir Joshua Reynolds (Plympton, 1723 – Londra, 1792) fu uno dei più importanti e influenti pittori del XVIII secolo in Gran Bretagna e uno dei fondatori della Royal Academy of Arts.

[17] Samuel J. Johnson (Lichfield, 1709 – Londra, 1784), critico letterario, poeta, saggista, biografo e lessicografo britannico, viene spesso citato come “il dottor Johnson” ed è passato alla storia come il letterato più illustre della storia britannica. La sua opera più famosa è il Dictionary of the English Language, opera che ha avuto anche un influsso di vasta portata sulla lingua inglese moderna.

[18] Jean Racine (La Ferté-Milon, 1639 – Parigi, 1699), drammaturgo e scrittore francese, fu il massimo esponente, assieme a Pierre Corneille, del teatro tragico francese del Seicento. Tra le sue opere devono ricordarsi l’Ifigenia (1674), tratta da Euripide, e soprattutto la Fedra (1677), considerata oggi il suo capolavoro.

[19] Jean-Baptiste Dubos, o Du Bos (Beauvais, 1670 – Parigi, 1742), filosofo e storico francese, importante studioso della storia e della critica delle arti e della poesia, diede importanti contributi alla filosofia estetica tra il XVII e il XVIII secolo. Tra i suoi scritti sono notevoli le Réflexions critiques sur la poésie et la peinture. In esse, pubblicate nel 1719, si teorizzava che il sentimento è alla base della produzione della bellezza nell’arte e nella poesia, senza dar troppa importanza alle regole e agli schemi accademici. Si tratta di una visione completamente nuova di ciò che è bello, che tiene conto di ciò che ogni persona in generale cerca e trova nell’opera d’arte o letteraria. Il sentimento, per lui diventato il motore primario dell’estetica, ha nelle Réflexions la sua legittimazione definitiva, diventando così una base per l’estetica dell’Illuminismo.

[20] Giuseppe Toaldo (Pianezze, 1719 – Padova, 1797) nacque da Giovanni Battista e da Elena Barbieri di Breganze, primo di sette figli. Nel 1733 entrò nel seminario vescovile di Padova, nel 1742 si laureò in teologia e nel 1743 venne ordinato sacerdote. Sempre presso il seminario vescovile insegnò grammatica, filosofia e matematica. Nel 1744 curò l’edizione delle opere di Galileo in quattro volumi, redigendone una prefazione elogiativa e note critiche. Nel quarto volume, per la prima volta dopo la condanna di Galileo Galilei, si pubblicò con approvazione ecclesiastica dietro intervento di Papa Benedetto XIV il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.

[21] Gian Francesco Galeani Napione conte di Cocconato (Torino, 1748 – Torino, 1830) nacque da Amedeo Valeriano e Maddalena Maistre. Fu politico, storico, letterato e poeta. Nel 1773 pubblicò il Saggio sopra l’arte storica e nel 1791 pubblicò la sua opera più famosa: Dell’uso e dei pregi della lingua italiana, caratterizzata da una netta avversione alle idee illuministe del tempo, con una decisa posizione contro il Cesarotti che aveva teorizzato la lingua come una materia in continuo divenire. Galeani Napione dichiarava la necessità di rifiutare parole e forme derivanti dalle lingue straniere; il saggio è uno dei primi manifesti del Purismo.


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