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Marco M. G. Michelini | 12 Dicembre 2024

Linea Biografica

 

Lodovico Antonio Muratori fu personaggio di primo piano nella costellazione dell’intellettualità settecentesca italiana e profuse il suo impegno in quasi tutti i campi della conoscenza. Viene ad oggi considerato autorevole esponente dell’illuminismo moderato e cattolico, nonché il padre della storiografia italiana, con particolare riferimento alla medievistica. Nacque a Vignola nel 1672 – che allora faceva parte del Ducato di Modena e Reggio – da Francesco Antonio, artigiano di qualche benessere, e da Giovanna Altimanni, in una casa a tre piani a ridosso del locale castello (la casa è ancora visitabile e adibita a scuola di musica). A causa della modestia della famiglia, frequentò le «pubbliche scuole», ma sin da fanciullo dimostrò una forte passione per gli studi: «Il genio a sapere, ad imparare, lo sentiva io gagliardo in me stesso. Parevami che il mio intelletto facilmente abbracciasse le cose e che la memoria con egual prontezza le ritenesse». Studiò dapprima grammatica a Vignola, poi, dal 1685, lettere a Modena dai gesuiti, quindi filosofia e diritto nel Collegio dei Nobili di San Carlo, conseguendo le lauree in entrambe le discipline, rispettivamente nel 1692 e nel 1694.

Frattanto aveva ricevuto gli ordini minori (1688) ed era poi diventato diacono (1694). Di pari passi s’era sviluppata in lui la passione per la letteratura, la storia e le arti, tanto che, volontariamente, si dedicò allo studio della lingua greca. Questo fu però, soprattutto, un periodo di letture attente e accanite, per gran parte di avanguardia rispetto alla media cultura italiana del tempo, e da cui maturano quelle prospettive, fissate già nel 1793 nella dissertazione De graecae linguae usu et praestantia, cioè – come scrive il Falco – «gli interessi enciclopedici, il senso pungente della nostra inferiorità rispetto agli stranieri e della necessità di un rinnovamento, che rinverdisse gli allori dell’Umanesimo e del Rinascimento, il fastidio della nostra vecchia e vuota cultura di teologi, di causidici e di versaioli».

Nel 1795 Muratori ricevette l’ordinazione sacerdotale e lasciò Modena per Milano, dove assunse l’incarico di Dottore della Biblioteca Ambrosiana, che mantenne sino al 1700, quando ritornò a Modena come archivista e bibliotecario ducale. Frutto del lavoro all’Ambrosiana sono i diversi volumi di Anecdota, in cui si preannuncia il futuro gusto muratoriano per l’accertamento filologico del vero, e la Vita di Carlo Maria Maggi, apparsa a Milano nel 1700, in cui la figura e gli orientamenti del poeta milanese, morto l’anno precedente, vengono proposti come indicativi di quelle scelte che Muratori vorrà più tardi definire, in termini espliciti, nel trattato Della perfetta poesia italiana, pubblicato a Modena nel 1706. Oltre a quest’ultimo, dei primi anni del nuovo periodo modenese sono diversi scritti di analoga militanza letteraria, come I primi disegni della repubblica letteraria d’Italia (1703), le Osservazioni alle Rime del Petrarca (1711), e le più importanti Riflessioni sopra il buon gusto intorno le scienze e le arti (apparse, la prima parte nel 1708, la seconda nel 1715).

A proposito di queste opere sempre il Falco scrive: «Coloro che il Muratori celebra e da cui deriva il suo insegnamento sono Bacone da Verulamio, Cartesio, Gassendi, Galileo, i grandi che hanno appreso “a cavare dalle profonde miniere della mente e delle cose”. Il suo mondo culturale è quello del razionalismo e del metodo sperimentale; il nemico contro cui combatte è l’errore, l’opinione, sia che nasca da superstizione religiosa, sia da pregiudizi di varia natura, soprattutto, per l’appunto, da una prevenzione a favore degli antichi. La polemica contro il padre Bouhours e contro il Boileau lo conduce ad approfondire i princìpi metodici della sua critica letteraria e ad esaltare la sua coscienza nazionale».

Comunque, quando il Muratori fece ritorno a Modena, accolto dal duca con grandi onori, suo compito precipuo fu quello di riordinare l’archivio ducale. L’Europa, infatti, si stava preparando alla guerra di successione spagnola (che ancora una volta avrebbe portato lutti e miserie in Italia), e la capacità di orientarsi tra i documenti d’archivio era una qualità necessaria per potersi presentare al consesso delle potenze con eventuali rivendicazioni territoriali. Nonostante il duca si fosse nominalmente dichiarato neutrale, Modena venne tuttavia occupata dai francesi tra il 1702 e il 1707; quindi l’intero archivio, appena riordinato, dovette essere trasferito e fu naturalmente il Muratori a prendersene cura.

La fine delle operazioni belliche in Italia nel 1708, segnò per Muratori il ritorno all’indagine storica, la quale andò a consolidare le sue intuizioni sul Medioevo. Con l’insorgere della questione di Comacchio, cioè la disputa fra la Santa Sede e l’Impero circa le valli di Comacchio, Muratori si trovò impegnato per dodici anni (1708-1720) in una complessa difesa, perseguita sul piano storico e giuridico, delle ragioni della casa d’Este, contro Roma, sulla valle e il ducato di Ferrara. Questo lavoro culminò nella Piena esposizione dei diritti imperiali ed estensi (1712), ma pose anche le basi per il primo volume delle Antichità estensi ed italiane (1717), che raccoglieva la documentazione sulle origini dei suoi signori. Tuttavia, questi non furono per il Muratori solo anni di ricerca storiografica, ma altresì anni di ricerca di una più attiva esperienza religiosa come sacerdote. L’incontro con padre Paolo Segneri Juniore (nipote del gesuita omonimo) e il lavoro costante al fianco di questi nelle attività di carità e di formazione del clero instillarono in lui il desiderio di ricevere una parrocchia ove operare: fu esaudito nel 1716 con il conferimento della prepositura di Santa Maria della Pomposa in Modena. L’esercizio religioso fu intenso e lo assorbì nella vita quotidiana affiancandosi al lavoro intellettuale. Restaurò la chiesa affidatagli, creò in Modena la compagnia della Carità per l’assistenza ai bisognosi, e incrementò la produzione di testi di carattere religioso (iniziata nel 1714 con il De ingegnorum moderatione in religionis negotio): Vita del padre Segneri juniore (1719), Esercizi spirituali (1720) e Della carità cristiana in quanto essa è amore del prossimo (1723).

Sono numerosi, negli anni seguenti, gli scritti muratoriani di consimile ispirazione, in arduo equilibrio fra la difesa della tradizione cattolica e l’apertura a motivi del più avanzato dibattito europeo: basti ricordare, per questo riguardo, la Filosofia morale, apparsa nel 1735. Ma sono soprattutto, questi ultimi anni, anche il momento di maggior impegno nell’indagine storico-erudita sul medioevo italiano, allorché appaiono, col secondo volume delle Antichità (1740), i ventisei tomi dei Rerum Italicarum Scriptores (1723-1738), i sei volumi delle Antiquitates italicae medii aevi (1738-1742), il Novus thesaurus (1739-1743).

Negli ultimi anni di vita Muratori scrisse il saggio Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni prìncipi, pubblicato a Venezia nel 1749, nel quale ritornavano, come in una summa, alcuni fra i temi centrali della vicenda intellettuale dello scrittore, e si delineavano prospettive, come quella del principe «filosofo», di grande rilievo nella cultura illuminata del medio Settecento; e gli Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno 1500, pubblicati per i primi nove tomi nel 1744 e per i tre successivi nel 1749 col titolo Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno 1749. Ma anche in ambito religioso non cessò di produrre e scrisse il De Superstitione Vitanda (1732‑1740), con cui rilanciò le tematiche già esposte nel De Ingeniorum Moderatione in religionis negotio (1714) e condannò gli eccessi di culto come il voto sanguinario; mentre nel saggio Cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay (1743-1749) si espresse sul Cristianesimo primitivo di matrice gesuita importato nelle Americhe. Ma, soprattutto, risalta per imponenza il De regolata devotione de’ cristiani, opera cardine del Settecento religioso italiano, e nella quale si ritrova la sintesi dell’apporto razionale alla religione, al culto e alla vita pratica dei cristiani.

Lodovico Antonio Muratori morì, ormai cieco, a Modena nel 1750.

 

Il pensiero estetico e le opere

 

Come s’è più sopra ricordato, tra le molteplici opere del Muratori, gli Annali d’Italia  – narrazione dei fatti intervenuti dall’era cristiana sino agli anni in cui scrive l’autore e, com’è stato notato, «dai tempi del Guicciardini, il primo grande tentativo di una storia d’Italia, che servirà di trama a una grande parte della storiografia successiva» – rappresentano quella in cui il Nostro fece confluire tutte le notizie di sua conoscenza e che aveva a disposizione: contengono infatti continui riferimenti alle moltissime storie anteriori che il Muratori aveva potuto consultare, sia a quelle pubblicate sia a quelle tramandate in forma manoscritta. Il nome dato all’opera inoltre riflette l’impostazione e la struttura dell’esposizione: la storia, infatti, è raccontata anno per anno. All’inizio di ogni anno vi è la collocazione della narrazione nella sequenza degli anni dopo Cristo; segue, ogni volta, l’anno dell’indizione[1], il nome del papa regnante, con indicazione dell’anno di regno di quest’ultimo, il nome dell’imperatore seguito anch’esso dall’anno di regno. Scrive giustamente il Falco: «Intenzione, ripetutamente espressa dal Muratori, era, non altrimenti dal Giannone, di comporre una storia civile. […] V’era una ragione intrinseca, chiarissima, anche se non espressa, cioè che l’opera intrapresa doveva aver carattere laico, secolare, rispondente per l’appunto agl’ideali civili dell’autore e dei suoi tempi. Quando parliamo della modernità degli Annali intendiamo non solo e non tanto accennare alla spigliatezza e alla vivacità del dettato, quanto in particolare all’aperta battaglia per il trionfo della “verità”, al costante riferimento del passato ai problemi e agl’ideali del presente, che collocano l’opera in maniera inequivocabile nel momento storico del pensiero illuminato. Vissuto in un’età di sanguinosi conflitti quasi incessanti, risoluto partigiano della pace e delle arti che da essa derivano, il Muratori tocca ad ogni passo gli argomenti che sono stati oggetto della sua riflessione storica e civile: le superstizioni […], i duelli […], le epidemie, e i provvedimenti per prevenirle e combatterle, il problema demografico, le rovine della guerra e la gravezza dei tributi, il lusso e la bilancia commerciale, l’usura, le feste di precetto che tolgono il pane all’artigiano e al contadino, i difetti e gli abusi dell’amministrazione giudiziaria e finanziaria, l’ideale paterno del “principe proprio”, e lettere, arti, scienze, costumi, istituzioni, in una parola quella storia della cultura, di cui è uso far caposcuola il Voltaire, e di cui il Muratori aveva dato un magistrale esempio nelle Antiquitates».

Per il Muratori del periodo milanese – cioè, come s’è detto, negli anni in cui lavorò alla biblioteca ambrosiana –  ebbe esemplare significato l’opera di Carlo Maria Maggi[2]. È infatti importante notare che il giovane bibliotecario dell’Ambrosiana era stato in particolare consenziente con le tesi di fondo formulate nelle due lettere sul Petrarca pubblicate dal Maggi stesso a Bologna nel 1696, l’esigenza cioè di basare sul vero gli elementi nuovi e insoliti della poesia e di considerare i tropi, così giustificandoli, come linguaggio naturale degli «affetti». E nella Vita, cui si è già accennato, apparsa nel 1700, difendendo il poeta milanese dalle censure, che gli erano state rivolte nel 1687 dal gesuita francese Domenico Bouhours[3] nella celebre Manière de bien penser dans les ouvrages de l’esprit, circa un uso eccessivo, in una sua canzone, della metafora e dell’iperbole, Muratori osservava: «la ragione può abbastanza difender la causa del Maggi. Imperocché a mio credere non è altro l’iperbole che una poetica fantasia, con cui il poeta rappresenta una cosa maggiore o minore di quello che è, secondo che a lui o sembra tale o s’immagina di vederla tale».

Ora questa esigenza di far valere, in polemica con le posizioni più astrattamente razionalistiche, di cui Bouhours appunto era stato e continuava a essere fra gli esponenti più prestigiosi, le ragioni, nel far poesia, della soggettività del poeta, e più in genere le ragioni degli «affetti» e del «cuore», si trova essenzialmente all’origine del trattato Della perfetta poesia italiana, scritto durante l’occupazione francese di Modena e già circolante manoscritto nel 1703.

Pubblicato solo due anni prima della Ragion poetica graviniana, il saggio di Muratori è in ogni caso il primo importante tentativo, nel nostro Settecento, di affrontare, nel clima di apertura europea cui si è più sopra accennato, un discorso nuovo e organico sulla poesia. Notevole è che di questa il giovane intellettuale modenese intenda esaminare non già, secondo una diffusa abitudine di origine rinascimentale, le componenti estrinseche e formali, ma ciò che lui stesso definisce, delle opere di poesia, «l’anima e lo spirito», la qualità insomma intrinseca e «universale», indipendente dai tempi, dai luoghi, dai generi. Ora tale qualità viene individuata nel rapporto profondo intrattenuto dalla poesia con la natura, o meglio col vero naturale. Proprio della poesia è dunque, per Muratori, «dipingere» il vero, e il bello poetico sarà «l’aspetto risplendente del vero».

Su questi principi s’innesta il caratteristico e risoluto rifiuto muratoriano di qualsivoglia classicismo, in termini che avranno, secondo le declinazioni più varie, grandissima fortuna nella cultura illuminata e illuministica del secolo. Detto a grandi linee: se specifico della poesia è il rapporto di fondo con la natura, e se quest’ultima è una pur nelle sue innumerevoli forme e varianti, non si potrà allora in alcun modo pensare alla posizione privilegiata ed esemplare di un qualche popolo o di alcuni poeti (come i greci del Gravina), ma in ogni luogo e tempo e lingua si dovrà ritenere possibile un’esperienza di poesia autentica e fruibile (fruibile, s’intende, da parte di chi, «possiede il buon gusto universale ed è libero dalle anticipate opinioni»). Opinioni analoghe saranno espresse circa sessant’anni più tardi da Melchior Cesarotti – per ricordare qui uno dei critici più prestigiosi di formazione illuministica operanti nel maturo Settecento – secondo la formula, relativa a due poeti lontanissimi fra loro appunto nella lingua, nei tempi e nei luoghi, Omero e Ossian, che essi sarebbero «élèves chéris de la Nature», alunni prediletti della Natura.

Ma su quei principi si innesta anche, in tutt’altra direzione, uno dei nuclei più interessanti del saggio, la sottile meditazione sui temi della «fantasia» e degli «affetti». «Dipingere» il vero è infatti, nel far poesia, compito specifico della «fantasia». Ora questa, definita anche da Muratori come la facoltà che riceve e conserva le immagini, può realizzare la «dipintura» del vero sia con le «immagini naturali» (direttamente vere per la fantasia stessa e per l’intelletto) che con le «immagini artificiali» (vere direttamente per la fantasia ma solo indirettamente per l’intelletto); e ad agire in profondo su queste ultime sono gli «affetti», cioè, come si direbbe oggi, la situazione emozionale del poeta.

Muratori ne discorre ampiamente – e in polemica esplicita contro il razionalismo estetico dei teorici francesi – nella parte conclusiva del primo libro, ove, dopo aver dato alcuni esempi tratti da Petrarca e da Virgilio, egli così conclude, riferendosi ai vv. 27-28 della quinta egloga virgiliana («I monti selvaggi e le foreste raccontano che anche i leoni fenici hanno pianto, o Dafni, la tua morte»): «Ancor queste immagini, quantunque drittamente da noi considerate, sieno false, pure non parvero già tali alla fantasia di Virgilio, il quale anzi le immaginò e le concepì come vere. E la sperienza ne fa continuamente fede. In un amante la fantasia è tutta piena di quelle immagini che le sono trasmesse dall’oggetto amato. L’affetto violento le fa, per esempio, concepire come rara e invidiabil fortuna l’essere vicino alla cosa che s’ama e l’essere da lei toccato. Quindi ella veramente e naturalmente immagina che tutte le altre cose, che l’erba, che i fiori bramino e sospirino questa felicità; e in tal guisa immaginò il Petrarca ne’ soprammentovati versi. Ora non può mettersi in dubbio che questa immagine alla fantasia non sembri o vera, o almen verisimile. E perciò sufficiente ragione ha il poeta d’abbracciarla e di adoperarla nella poesia, a cui spezialmente si richiede la pompa delle proposizioni maravigliose e nuove, come appunto è il veder fare azioni proprie di cose animate a una cosa inanimata. È questo un inganno della fantasia innamorata; ma il poeta rappresenta questo inganno ad altrui, come nacque nella sua immaginazione, per far loro comprendere con vivezza la violenza dell’affetto interno ».

Non c’è dubbio che proponendo questa sottile ipotesi di interrelazione fra «affetti» e «immagini» (potremmo anche dire, oggi, fra autore e testo, fra situazioni emozionali e strutture testuali) Muratori toccava, con tempestività notevole, un altro fra i temi centrali del dibattito estetico e critico del Settecento. E con ciò anche (oltre che per l’attenzione a problemi non meno colmi di futuro, come il rapporto, esaminato nel terzo libro, fra poesia e società) si spiega la grande fortuna, per tutto il secolo, del saggio Della perfetta poesia italiana.

Il trattato delle Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, apparso a Venezia nel 1708 – scritto, in un certo qual modo, in prosecuzione dei Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia pubblicati nel 1703, e manifesto quest’ultimo e piano circostanziato di un concreto e urgente rinnovamento della cultura italiana – è testimonianza notevole della vivacità e del rigore con cui, in sintonia con le tensioni innovative che allora variamente percorrono i maggiori ambienti intellettuali, nel primo decennio del secolo Muratori volle affrontare non solo i temi di fondo del dibattito estetico e critico ma il mondo stesso degli studi e delle lettere, chiuso per gran parte nei suoi pregiudizi, nei limiti di informazione, nelle strutture sclerotizzate o corrotte.

Ma ciò che alla fine rimane dell’opera monumentale del Muratori, della sua instancabile laboriosità condotta fino alla vecchiaia, della sua vastissima erudizione, è che egli, «sebbene grandissimo erudito, non si ridusse mai ad essere un erudito puro; trasportò nel suo lavoro filologico i suoi interessi morali e religiosi, non rimase estraneo alla polemiche e alle passioni del suo tempo, attribuì alle sue opere un intento e un significato nazionale, riconducendo gli italiani a prendere coscienza dell’origine e dello sviluppo della loro civiltà, specie in quell’età di mezzo, tanto disprezzata e maltrattata dai neoclassici e dai razionalisti del Settecento e di cui egli, tra i primi, prese amorosamente a studiare le reliquie e a ricostruire la vita in tutti i suoi aspetti umili e grandi»[4].

 

*** NOTE AL TESTO***

 

[1] Periodo cronologico di 15 anni, numerati progressivamente da 1 a 15 (dopo di che il conto ricominciava da 1), che, collegato dapprima con il sistema di esazione fiscale dell’Impero romano, divenne dal sec. 4° in poi una delle note cronologiche più importanti nei documenti pubblici e privati. Il giorno d’inizio dell’indizione, diverso nei varî paesi, era, nell’i. romana o pontificia (dal sec. 9°) il 25 dicembre o più spesso il 1° gennaio, e l’anno di origine era fissato tradizionalmente all’anno 3 a. C. (per cui, volendo trovare l’indizione romana di un anno, basta aggiungere 3 al numero dell’anno e dividere il totale per 15: il numero ottenuto come resto è l’anno di quella indizione; il resto zero corrisponde all’anno quindicesimo). (https://www.treccani.it/vocabolario/indizione/)

[2] Carlo Maria Maggi (Milano, 1630 – Milano, 1699) era l’unico figlio di di Giovan Battista Maggi, agiato mercante di ori e di sete, e di Angela Riva.  Si laureò in utroque a Bologna nel 1649 e quindi, dopo qualche viaggio in varie parti d’Italia, si stabilì definitivamente in patria, dove il 14 settembre 1656 sposò Anna Maria Monticelli, che gli avrebbe dato undici figli. Particolarmente apprezzato per la dottrina e la rettitudine con la quale tenne gli importanti uffici di segretario del Senato, di insegnante di lettere latine e greche nelle Scuole Palatine, di curatore dei confini e di soprintendente all’Università di Pavia, scrisse numerose opere letterarie (melodrammi,  prologhi, intermezzi, scene varie, una tragedia tratta da una novella del Boccaccio, due drammi sacri, commedie in versi, nelle quali alcuni personaggi parlano in dialetto milanese) per le quali ebbe alti onori e grandi lodi e fu fatto membro di molte accademie, tra cui la Crusca e l’Arcadia. Viene considerato il padre della letteratura milanese moderna.

[3] Dominique Bouhours (Parigi, 1728 – Parigi, 1702), gesuita e letterato, ebbe incarichi di fiducia dal suo ordine, fu stimato dalla corte e godette dell’amicizia di grandi scrittori della corrente classica, attirandosi le critiche dei giansenisti. Suscitò, soprattutto nel campo letterario, polemiche che si continuarono in Italia per un secolo intero dai nostri letterati settecentisti, preoccupati di difendere la lingua e la letteratura italiana.

[4] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 345.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SETTECENTO»

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