Linea Biografica
Cesare Beccaria Bonesana nacque nel marzo del 1738, da Giovanni Saverio, marchese di Gualdrasco e di Villareggio, e da donna Maria Visconti di Saliceto. Il padre discendeva da un ramo collaterale di un’illustre famiglia pavese, che aveva ottenuto il titolo marchionale nel 1712 e che beneficiava pure di tre fidecommessi entrati in famiglia attraverso sua nonna, Maddalena Bonesana, con l’obbligo di portarne stemma e cognome. La famiglia, insomma, era nobile, non ricca ma benestante, e con un vasto parentado nel clero e nella pubblica amministrazione.
All’età di otto anni Cesare entrò nel collegio Farnesiano di Parma, retto dai gesuiti, dove diede ampia dimostrazione della sua precoce e lucida intelligenza sia nelle scienze matematiche che nelle lingue. Dopo il collegio passò all’Università degli Studi di Pavia dove, nel 1758, si laureò in giurisprudenza.
Tornato a Milano, entrò a far parte dell’Accademia dei Trasformati e scrisse dei versi, ma nell’autunno del 1760 intraprese una relazione sentimentale, ferocemente osteggiata dalla famiglia, con Teresa Blasco, una ragazza vivace e volubile di origine spagnola. L’opposizione della famiglia a questa mésalliance e il chiacchiericcio maligno che sorse attorno ad essa, fecero sì che il Beccaria si raffermasse ancor più nella convinzione che quell’amore rappresentasse una sorta di conquistata indipendenza. Così nel 1761 egli sposò la donna, dalla quale ebbe quattro figli: Giulia (1762-1841), Maria (1766-1788), nata con gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni Annibale nato e morto nel 1767 e Margherita anch’essa nata e morta nel 1772.
Parallelamente il Becaria si convertiva alla philosophie, abbandonndosi del tutto alle idee degli illuministi. «L’amore per Teresa Blasco impallidì ben presto. L’esaltazione della scoperta illuminista venne rapidamente convogliandosi in un’attiva ed originale partecipazione alla vita del gruppo dei giovani che s’era andato formando attorno a Pietro e Alessandro Verri (l’Accademia dei Pugni). In quell’ambiente gli parve d’aver raggiunto il tanto desiderato equilibrio con se stesso e con gli altri»[1]. Cominciò a scrivere sporadicamente per il Caffè, e nel 1762 uscì a Lucca la sua prima opera: Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano. Successivamente, tra il 1763 e il 1764, iniziò a scrivere e portò a termine il trattato Dei delitti e delle pene, che fu stampato a Livorno nell’aprile del 1764. Il successo del libro fu immediato, tanto che nello spazio di due anni ne furono pubblicate sei edizioni.
Ovviamente, accanto agli elogi e agli attestati di stima che il trattato ricevette, non mancarono le critiche. Contro le posizioni del Beccaria uscì, nel 1765 il testo Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene del padre Ferdinando Facchinei, monaco vallombrosano, che accusò esplicitamente l’autore di aver offeso la religione e l’autorità sovrana. Le polemiche che ne seguirono contribuirono alla decisione di mettere il trattato Dei delitti e delle pene all’Indice dei libri proibiti (1766), soprattutto a causa della distinzione tra peccato e reato. Il Beccaria fu letteralmente atterrito per tutto questo, temendo un processo per eresia o per ribellione all’autorità pubblica. I Verri, tuttavia, come s’è già detto, lo rincuorarono e in pochi giorni scrissero la Risposta ad uno scritto che s’intitola: Noie ed osservazioni sul libro Dei delitti e delle pene, che venne pubblicata anonima a Lugano.
Nel 1766 gli enciclopedisti di Francia lo invitarono a Parigi, e il Beccaria, dopo molte esitazioni e rinvii, si decise ad andarvi partendo il 2 ottobre in compagnia di Alessandro Verri. Giunto a Parigi il 18 ottobre, vi fu accolto trionfalmente, ma l’agitazione e le sofferenze che gli procuravano la lontananza dalla patria, la sua giustificata gelosia per la moglie lontana e il suo carattere ombroso e scostante, lo fecero decidere di tornare a Milano appena possibile, abbandonando il suo accompagnatore Alessandro Verri, che proseguì il suo viaggio verso l’Inghilterra.
Tornato a Milano, nel 1768 – grazie alla sua fama estesasi ormai a tutta l’Europa – venne nominato professore di economia politica (cattedra creata appositamente per lui) nelle Scuole Palatine di Milano. Nel 1769 tenne la sua prolusione che venne stampata a Milano e ripetutamente tradotta in francese. Nel 1771, dietro sua richiesta, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell’Economia, contribuendo alle riforme asburgiche: fra queste ci fu la riforma delle misure dello stato milanese, intrapresa prima di quella del sistema metrico decimale francese, e a cui Beccaria, insieme al fratello Annibale, dedicò quasi vent’anni della sua vita. S’occupò anche d’una nuova legislazione sulle lettere di cambio e della riforma delle monete. A partire dal 1773 si dedicò soprattutto ai problemi annonari e nel 1778 divenne magistrato provinciale per la zecca e membro della delegazione per la riforma delle monete.
Frattanto, il 14 marzo 1774, la moglie Teresa, gravemente malata da tempo, era morta e il Beccaria, dopo la consueta disperazione iniziale, si lasciò trascinare dall’altrettanto consueta reazione abulica e artificiosamente epicurea; così, dopo appena quaranta giorni di vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti Barnaba Barbò – la cui dote doveva servire a riparare le sue dissestate finanze – e che sposò in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena ottantadue giorni dalla morte della prima moglie. Da Anna Barbò ebbe un altro figlio, Giulio.
Cesare Beccaria morì a Milano nel 1794 a causa di un ictus e venne tumulato nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in una sepoltura popolare (dove fu sepolto anche Giuseppe Parini) anziché nella tomba di famiglia. Ai funerali di Beccaria era presente anche il giovane nipote Alessandro Manzoni, nonché il figlio superstite ed erede, Giulio.
Il pensiero e le opere
Il trattato Dei delitti e delle pene «segna il punto di partenza della storia del diritto penale, poiché in esso abbiamo il primo tentativo veramente sistematico di ricondurre la molteplicità delle norme giuridiche a un criterio informatore preciso»[2]. Beccaria fu influenzato dalla lettura di Locke, Helvétius, Rousseau e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo di Condillac[3]. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in particolare da Voltaire e Diderot[4].
Partendo dalla classica teoria contrattualistica del diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da Rousseau, che sostanzialmente fondava la società su un contratto sociale teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo l’ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica. La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delitto commesso e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito nemmeno il suicidio, in quanto non l’uomo, ma la natura, nella visione del ginevrino, aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva certamente andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto individuale).
Inoltre, per Beccaria era indispensabile che la determinazione dei delitti e delle pene fosse formulata in base ad un codice ben chiaro e definito di leggi, in modo che nulla fosse lasciato alle “interpretazioni”, spesso arbitrarie, dei giudici. D’altro canto gli uomini tutti dovevano conoscere i limiti della propria facoltà; e per ottenere questo i codici dovevano essere redatti nitidamente. Tra l’altro, nella disamina, si avanzavano idee modernissime sulla cautela nell’adottare il carcere preventivo, sulla condanna della tortura e della pena di morte, sull’idea di prevenzione del crimine e di recupero dei criminali. Una pena mite ma tempestiva avrebbe ottenuto maggiori risultati di una pena sproporzionata e inficiata dalla speranza di impunità.
Beccaria voleva dimostrare pragmaticamente l’inutilità della tortura e della pena di morte, più che la loro ingiustizia, e per tale motivo venne da lui parzialmente accantonata la tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire. Egli era infatti consapevole che i legislatori sono mossi più dall’utile pratico di una legge, che non da principi assoluti di ordine religioso o filosofico. La sua dottrina si mosse dunque in un ambito generalmente preventivo: in pratica egli supponeva che l’uomo fosse condizionabile in base alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, riteneva che sussistesse fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno latente. Sostenne la laicità dello Stato. Adottò come metodo d’indagine quello analitico‑deduttivo e per lui l’esperienza era da intendersi in termini fenomenici.
Riguardo alla pena di morte Beccaria la riteneva inutile poiché il criminale ha minor timore della morte piuttosto che di una carcerazione perpetua o di una miserabile schiavitù, in quanto la morte rappresenta una sofferenza definitiva, mentre il carcere o la schiavitù rappresentano una sofferenza che si perpetua nel tempo. Per lui il ricorso alla pena capitale era ammissibile soltanto quando l’eliminazione del singolo poteva rappresentare il vero e unico freno per distogliere altri dal commettere delitti, come nel caso di chi sobillava tumulti e tensioni sociali: ma allora sarebbe stata applicabile solo nei confronti di un individuo molto potente e solo in presenza di una guerra civile. Questa argomentazione fu utilizzata per ottenere la condanna a morte di Luigi XVI e giustificare il periodo del Terrore, e per tale motivo Beccaria, che giudicava simili comportamenti del tutto inammissibili, dopo il 1793 prese le distanze, come molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese.
In seguito, con la pubblicazione delle Ricerche intorno alla natura dello stile (1770), Beccaria affrontò una riflessione sulla natura dell’arte per giungere alla formulazione di una teoria della parola poetica. Fondandosi sulla filosofia del sensismo, affermò che idee e sentimenti provengono dalle sensazioni; mentre per quanto riguarda lo stile, sotto l’impulso del Vico, indicò come più artisticamente efficace quello improntato alla «naturalezza e alla bonarietà» e che potesse tradursi in una lingua primitiva, atta a rendere appunto il complesso delle sensazioni. Ogni scrittore, dunque, aveva, per il Beccaria, il dovere di far corrispondere a ciascuna idea una parola precisa che ne esprimesse il concetto.
Queste convinzioni, documentano da un lato l’incertezza dell’estetica settecentesca, in bilico tra retorica classicista e spunti vichiani, mentre dall’altro riconducono sempre, nonostante l’apparente estraneità di queste riflessioni, al suo pensiero precedente, alla polemiche del Caffè e dell’ambiente lombardo contro le assurdità dei pedanti, in nome dell’immediatezza e della concretezza. E certamente, chi ricorda le superbe pagine manzoniane sulle minacciose grida del governo spagnolo, voci di un potere vendicativo e impotente, o le pagine sull’arresto di Renzo, o sul servilismo di un don Abbondio o di un Azzeccagarbugli, può benissimo comprendere quanto il Manzoni debba al nonno materno; e non diversamente le acute pagine sulla carestia e sul prezzo del pane, o sulla colonna infame e il processo agli untori, insegnano quanti frutti abbiano germogliato dalle pagine economiche e giuridiche del Caffè.
***NOTE AL TESTO***
[1] Venturi Franco, BECCARIA, Cesare, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 7, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1970.
[2] Spirito Ugo, BECCARIA, Cesare, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1930.
[3] Étienne Bonnot de Condillac (Grenoble, 1714 – Beaugency, 1780), filosofo, enciclopedista ed economista francese, nacque da una famiglia di giuristi, e, come il fratello maggiore, prese l’ordine sacro e divenne abate di Mureau. Subì l’influsso dell’empirismo di Locke, da lui ridotto a un rigoroso sensismo. Le sue opere più importanti furono il Saggio sull’origine delle conoscenze umane (1746) e il Trattato sulle sensazioni (1754).
[4] Denis Diderot (Langres, 1713 – Parigi, 1784), filosofo, enciclopedista, scrittore e critico d’arte francese, fu uno dei massimi rappresentanti dell’Illuminismo e uno degli intellettuali più rappresentativi del XVIII secolo. Fu promotore, direttore editoriale ed editore dell’Encyclopédie. Nei Pensieri filosofici (1746) condivise le tesi del deismo, mentre in Dell’interpretazione della natura (1753) rifiutò ogni concezione finalistica della natura. Svolse un ruolo capitale anche nella storia della critica d’arte e nella storia dell’arte, e con il suo Traité du Beau (1765) precisò il suo pensiero relativamente al “bello”, conferendo una base filosofica all’estetica che è lontana sia dal sensismo puro sia dall’astrazione intellettualistica. Con il suo saggio Paradoxe sur le comédien, scritto tra il 1770 e il 1780, si fece propugnatore di una riforma del teatro in senso realistico, anticipando in tal modo il dramma borghese. Fu anche autore di romanzi e commedie.
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SETTECENTO»
Lascia un commento. Se vuoi che appaia il tuo avatar, devi registrarti su Gravatar
Devi essere collegato per lasciare un commento.