Gian Rinaldo Carli
Nacque a Capodistria, nel 1720, primogenito del conte Rinaldo e di Cecilia Imberti. La famiglia Carli, di modesta nobiltà provinciale, forse proveniente dall’Italia centrale, era iscritta nel Registro dei nobili di Capodistria sin dal 1431 e doveva la dignità comitale a un prozio del Carli, che l’aveva conseguita nel 1716. A Gian Rinaldo seguirono tre fratelli e due sorelle..
Fino agli undici anni compì i propri studi in casa, poi li continuò lodevolmente nel seminario laico della sua città, gestito dagli scolopi, dimostrando una grande precocità di ingegno. Nel 1732 scrisse la sua prima opera, il dramma Melanca, che è andata perduta. All’età di quindici anni venne inviato a Flambro, per seguire i corsi di scienze esatte dell’abate Giuseppe Bini[1], che, arcade e muratoriano, rendeva partecipi i suoi allievi della più progredita cultura italiana d’allora. Nel 1738 intraprende gli studi di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova, sullo stimolo e il modello dell’intellettuale di maggior prestigio nella cultura veneta del tempo, Scipione Maffei. Sempre a Padova, incomincia a insegnare nautica e astronomia. Al periodo padovano appartengono i saggi l’Aurora Boreale (1738) le Antichità di Capodistria (1741) e l’Indole del teatro tragico antico e moderno (1743). È di quel periodo anche Osservazioni sulla musica antica e moderna, breve trattato scritto nel 1743, ma pubblicato solo quarant’anni più tardi.
Nel 1744 viene rappresentato a Venezia un suo dramma mitologico: l’Ifigenia in Tauride. Un anno più tardi le autorità universitarie istituiscono una cattedra di Scienza nautica che affidano al giovane erudito capodistriano. A Padova Carli resterà fino al 1751, alternando la sua attività di insegnante a quella di letterato. In quegli anni vengono infatti dati alle stampe alcune importanti opere fra cui: Della spedizione degli Argonauti in Colco (1748) e il poema: Andropologia, ovvero della società e della felicità, composizione didascalica in parte influenzata dagli ideali illuministi che in quegli anni si stavano diffondendo in Italia e nell’Europa tutta. Nel 1751, il trentunenne professore pubblica due saggi che costituiranno la base delle sue concezioni economiche in età matura: Dell’origine e commercio delle monete e Osservazioni preventive al piano delle monete.
In quello stesso anno Carli decise di lasciare l’insegnamento e di rientrare a Capodistria. A tale decisione lo spinsero, probabilmente, la morte della moglie, una nobildonna veneta spentasi di tubercolosi a soli venticinque anni di età (1749), la responsabilità di un figlio – restato orfano di madre alla tenerissima età di un anno e mezzo – e forse anche la nostalgia per la propria terra.
Nel 1753 lasciò quindi il Veneto e stabilì la propria residenza prima a Milano (1753-1756), poi in Toscana, dove venne dato alle stampe il Saggio politico ed economico sopra la Toscana fatto nell’anno 1757. In quest’opera di ampio respiro l’autore, prendendo spunto da situazioni di ambito locale, finisce con l’impostare un discorso di carattere generale sulla produzione della ricchezza in uno Stato moderno e su tutti gli ostacoli (dazi, balzelli, leggi anacronistiche o chiaramente inique, particolarismi locali ecc.) che ne impediscono lo sviluppo. L’incontro fra il pensatore capodistriano e le idee e i fermenti di matrice illuminista che percorrevano l’Italia del tempo si realizzarono in questo saggio pienamente.
Nella ricerca, a lungo protratta, di un impiego consono ai suoi interessi, ormai prevalenti, di economia e di finanza, si impegnò anche, fra il 1750 e il 1760, nell’elaborazione del saggio Delle monete e delle zecche d’Italia, una monumentale sintesi di storia, diritto e scienza delle finanze: «poderosa opera d’erudizione», come ha scritto il Venturi, «con pagine di acuta storia economica», e nella quale è possibile vedere quasi un naturale passaggio «tra lo sforzo erudito del primo Settecento e la cultura illuminista della seconda metà del secolo».
Nel 1765 venne chiamato a Milano come presidente del Supremo consiglio di economia. Ma già da qualche anno egli era in contatto con gli ambienti intellettuali milanesi, specie con quello ruotante intorno a Pietro Verri, sino alla collaborazione data al «Caffè» con il celebre articolo La patria degli italiani. Legati all’alto incarico assunto nel 1765, sono, degli anni successivi, diversi scritti su temi economici e monetari, e, in modo più indiretto, il saggio, diretto contro il «seducente Rousseau», che s’intitola L’uomo libero, apparso nel 1778, in cui Carli avrebbe essenzialmente inteso affermare, sempre secondo il Venturi «che la disuguaglianza esistente tra gli uomini, i loro diversi destini, le differenti forme della loro convivenza stavano in totale, integrale contrasto con le idee di libertà e di eguaglianza». Un’opera – dunque – che è testimonianza tra le più esplicite della crisi, abbastanza diffusa negli anni intorno al 1780, di certo utopismo illuministico di matrice rousseauiana.
Ma, ancora secondo Venturi, «quel che c’è di solido in questo libro non sta naturalmente in questo elemento passionale e reazionario. Carli aveva cercato di vedere tutta la società dal punto di vista economico: illusione o peggio gli era parso tutto quello che non poteva ricondursi a rapporti di lavoro e di proprietà. Libertà civile e politica era per lui soltanto proprietà di beni e di persone. Assurda dunque l’uguaglianza appunto perché contraddiceva allo sviluppo medesimo dell’economia dall’epoca dell’introduzione della moneta in poi. Questa aveva creato le “classi di ricchi, mediocri e di poveri”. L’originaria socialità umana ne era stata completamente trasformata. Tutta la storia dell’uomo si configura come risultato della “tacita guerra” che vedeva contendere tra di loro “le diverse classi nelle quali è divisa la società”». Di qui l’insorgere di una nuova utopia, l’idealizzazione dell’assolutismo, quell’assolutismo paternalistico e filantropico, nonché vagamente teocratico, che sarebbe divenuto, alcuni anni più tardi, uno dei massimi miti della restaurazione, e che allora Carli ritrovava, nelle Lettere americane pubblicate in varie edizioni fra il 1780 e il 1785, nel mondo peruviano degli Incas. Frattanto, nel 1788, egli incominciò a far uscire l’opera maggiore dei suoi ultimi anni, i cinque volumi Delle antichità italiche, un’opera di ampio respiro, in cui l’autore tratteggia un’erudita sintesi della storia delle passate grandezze del suo Paese dagli Etruschi fino al XIV secolo.
Nel 1780, dopo quindici anni ininterrotti di servizio come uno fra i massimi responsabili della politica economica e finanziaria imperiale asburgica nello Stato milanese, il Carli chiese di essere collocato a riposo, cosa che ottenne mantenendo l’intero stipendio. Ritiratosi a vita privata rimase operosissimo: oltre alle già citate Lettere americane, continuò a pubblicare i volumi Delle antichità italiche e scrisse il Ragionamento sulla disuguaglianza (1792) – notevole documento politico e passionale attacco alla Rivoluzione francese e alla ideologia roussoiana.
Tutte le sue perplessità su alcuni fra i grandi temi del progressismo contemporaneo finirono per tradursi (come capita del resto a molti altri intellettuali di età e di formazione analoghe) in aperto reazionarismo, e così, a proposito degli avvenimenti francesi, egli scriveva, in una lettera nel giugno del 1793: «Ecco dove ha precipitato gli uomini la falsa massima dei pseudofilosofi, che non hanno conosciuto mai la natura e non hanno saputo che per tenere in disciplina e tranquillo il popolo ci vuol pane, missionari e birri».
Carli morì di malattia a Cusano, presso Milano, nel 1795 e venne sepolto, per suo desiderio, presso il santuario di Nostra Signora della Cintura, ai piedi di una nicchia ancora oggi esistente.
Francesco Mario Pagano
Nacque a Brienza (in Lucania) nel 1748, primogenito di Tommaso e di Maria Anna Pastore. Il padre apparteneva a una un’abbiente famiglia di notai. All’età di quattordici anni, in seguito alla morte del padre, si trasferì a Napoli, dove si stabilì presso lo zio Nicola. Ultimò gli studi classici sotto l’egida di Gerardo De Angelis[2], da cui apprese anche il latino, il greco, l’ebraico e frequentò i corsi universitari, conseguendo la laurea in giurisprudenza nel 1768, e dando un saggio della sua cultura giuridica, d’impronta neoumanistica, nel Politicum universae Romanorum nomothesiae examen (1768): opera pregna di ideali illuministici, in cui la riflessione storico-filosofica sul diritto romano trascorreva nella critica del presente e si accendeva nelle istanze di riforma della legislazione e della pubblica educazione.
Ebbe la cattedra di etica (1770), poi quella di diritto criminale (1785) all’Università di Napoli, distinguendosi come avvocato presso il tribunale dell’Ammiragliato (di cui diventò poi giudice) nella difesa dei congiurati anti-borbonici della Società Patriottica Napoletana, tentando di evitarne –senza successo – la messa a morte (1794).
Frattanto s’era avvicinato alla massoneria ed era entrato nella loggia La Philantropia, della quale fu maestro venerabile, e nel 1782 aveva scritto la sua prima opera teatrale: Gli esuli tebani. Questa produzione drammaturgica del Pagano, collegata a un’approfondita riflessione estetica e animata dalla fiducia nella funzione civico‑pedagogica del teatro, si arricchì in seguito di altre due tragedie, Gerbino (1787) e Corradino (1789), di un monodramma lirico, Agamennone (1787), e di una commedia, L’Emilia (1792).
Frutto della sua attività di professore alla cattedra di diritto criminale sono i Saggi politici (1783-85), le Considerazioni sul processo criminale (1787), i Principii del Codice penale e la Logica de’ probabili[3] (pubblicati postumi), nonché il Ragionamento sulla libertà del commercio del pesce in Napoli (1789), nelle cui pagine trovano espressione le sue idee economiche e le sue aspirazioni di progresso civile ed equità sociale.
«Sulla base di una dottrina giusnaturalistica dei diritti umani, Pagano sviluppava in queste opere una riflessione sul fondamento, i limiti e l’organizzazione del potere pubblico, che si articolava in una concezione dello Stato come strumento di protezione degli individui, in una teoria del diritto penale come tecnica di garanzia della vita e della libertà personale, in una visione repubblicana della convivenza civile e della giustizia sociale. Distante dall’ideologia dell’assolutismo illuminato, egli giungeva così a occupare le posizioni politicamente più avanzate (e conseguentemente più esposte) dell’illuminismo meridionale»[4].
Nel 1796 fu incarcerato in seguito ad una denuncia presentata contro di lui da un avvocato condannato per corruzione che lo aveva accusato di cospirare contro la monarchia ma venne liberato nel 1798 per mancanza di prove. Una volta scarcerato, riparò clandestinamente a Roma, dove venne accolto positivamente dai membri della Repubblica Romana e ricevette la cattedra, creata appositamente per lui, di Diritto Pubblico nel Collegio Romano. A Roma, nel settembre dello stesso anno, pronunciò un discorso alla Società di Agricoltura Arti e Commercio Sulla relazione dell’agricoltura, delle arti e del commercio allo spirito pubblico, che fu immediatamente pubblicato, e che – pur essendo fra le cose meno note dello scrittore lucano – costituisce, com’è stato osservato, una testimonianza di estremo interesse dal punto di vista del pensiero economico-sociale del giacobinismo italiano, nella misura in cui, in esso, «il programma riformatore si inserisce concretamente nella nuova situazione storica determinata dalla “democratizzazione” del paese e trae da essa nuovo vigore». In particolare, l’oltranzismo, l’astratto massimalismo, caratteristici di tanta pubblicistica progressiva del tempo, inclinano in quest’ultimo Pagano a far luogo a una considerazione così realistica come indubbiamente compromissoria dei dati effettivi della situazione socioeconomica.
Tuttavia il precipitare degli eventi bellici lo costrinsero nuovamente a fuggire per un breve periodo a Milano; e nel 1799, quando i francesi conquistarono il regno di Napoli, poté fare ritorno in patria, divenendo immediatamente membro del governo provvisorio.
«Partecipò al dibattito sull’abolizione dei fedecommessi, affermando il principio di uguaglianza tra primogenito e figli cadetti come canone del diritto ereditario. Nella successiva, lacerante discussione sulla legge feudale, si distinse tanto dal fronte oltranzista dei radicali quanto dalle posizioni prudenti e compromissorie dei moderati, proponendo, da un lato, di abolire tutti i diritti personali, proibitivi, fiscali e giurisdizionali connessi al feudo, dall’altro, di verificare caso per caso la titolarità dei diritti patrimoniali sulle terre feudali.
Obiettivo di Pagano era la realizzazione di una profonda redistribuzione delle ricchezze, a partire da un’incisiva riforma perequativa degli assetti della proprietà terriera. In coerenza con l’ispirazione ideologica tendenzialmente egualitaria prorompente da tutta la sua opera di pensatore politico, egli intendeva ridurre le disparità economiche ereditate dal passato per dar vita a un’equa società repubblicana. Nelle sue proposte legislative trovavano rispecchiamento la sua dottrina giusnaturalistica del diritto alla terra come corollario del diritto alla vita e la sua visione della repubblica come regime politico fondato sulla piccola proprietà.
Messo in minoranza nei dibattiti sulla riforma del diritto successorio e sull’eversione della feudalità, influì invece, in maniera determinante, nell’elaborazione delle leggi sull’abolizione della tortura, sulle prove nel processo criminale e sull’organizzazione del potere giudiziario, nelle quali trovarono positivizzazione molte delle proposte riformatrici d’indirizzo garantistico propugnate nelle Considerazioni e nelle lezioni universitarie (habeas corpus, distinzione tra luoghi di custodia cautelare degli imputati e luoghi di esecuzione della pena detentiva, principio del contraddittorio, diritto di ricusazione, divieto di pene straordinarie ecc.)»[5].
Con la caduta della Repubblica, Pagano, dopo aver imbracciato le armi che difesero strenuamente gli ultimi fortilizi della città assediati dalle truppe borboniche, venne arrestato e rinchiuso a Castel Nuovo. Venne in seguito trasferito nel carcere della Vicaria e ai primi di agosto a Castel Sant’Elmo. Giudicato colpevole con un processo sommario, venne condannato a morte per impiccagione e salì sul patibolo assieme ad altri nell’ottobre del 1799.
Giambattista Vasco
Nacque a Torino nel 1733 – secondogenito del conte Giuseppe Nicolò e di Cristina Angelica Misseglia – e fu battezzato nel duomo di Torino. L’intelligenza e la vivacità intellettuale fecero sì che venisse affidato, grazie soprattutto alla madre, allo zio Dalmazzo, vescovo di Alba, che era stato lettore di filosofia e che lo introdusse agli studi di teologia scolastica e filosofia aristotelica. Proseguì poi i suoi studi presso l’Ateneo torinese, seguendo corsi di legge di chiara impronta giurisdizionalista. Nel 1750 conseguì la laurea in utroque iure, mentre nel 1751 prese l’abito domenicano, assumendo in religione il nome di Tommaso.
Nel 1758 era a Bologna, dove divenne lettore, e tra 1960 e il 1962 a Genova, nel convento di S. Domenico: il doge Agostino Lomellini aveva tradotto il Discours préliminaire all’Encyclopédie e il Vasco cominciò a “nutrirsi” di letture illuministiche. Nel 1764, a seguito di una segnalazione dell’Ordine domenicano, venne chiamato dal governo sabaudo alla cattedra di teologia e storia ecclesiastica a Cagliari. Ma le resistenze negative degli ambienti conservatori cagliaritani e del governo verso i suoi insegnamenti fecero sì che nel 1766, rientrasse a Genova, dopo aver consegnato al governo sabaudo un progetto per riformare i corsi di teologia, in cui consigliava di distribuire la materia dando maggior rilievo alle questioni filosofiche e storiche.
Nel 1769 pubblicò il suo primo lavoro sui temi economici, che segnò una svolta decisiva rispetto al percorso intellettuale che lo aveva portato ad approfondire gli studi di teologia, I contadini. La felicità pubblica considerata nei coltivatori di terre proprie, con il quale rispondeva ad un quesito posto nel 1767 dalla Libera Società Economica di Pietroburgo che recitava: «È più vantaggioso e più utile al bene pubblico che il contadino possegga in proprio terre o solamente beni mobili? e fino a qual punto deve estendersi il diritto del contadino su questa proprietà perché ne risulti il maggior vantaggio per il bene pubblico?». Il Vasco «affronta il problema in termini estremamente radicali per il tempo giungendo a prospettare una soluzione di tipo egualitario fondata su una sorta di legge agraria che fissasse la quantità massima di terreno che un uomo poteva possedere e quella minima necessaria alla sopravvivenza del contadino. Progetto vistosamente utopistico […] la cui importanza risiede proprio nella decisione con cui pone il problema della legge agraria in diretta polemica antinobiliare, anche se il Vasco precisava di ritenere realizzabile questo progetto solo nei nuovi mondi, come in America, o in paesi come la Russia. In realtà teneva lo sguardo ben fisso alla pianura padana e al Piemonte, “riuscendo così a darci una delle più intelligenti e ardite disamine della questione contadina scritte nel nostro Settecento” (Dionisotti)»[6]. Tali soluzioni proposte dal Vasco non passarono sicuramente inosservate, ma non contribuirono a fargli vincere il premio posto in palio dall’accademia russa.
Trasferitosi a Milano, prima nel convento Delle Grazie poi in quello di S. Eustorgio, pur restando attivo come pubblicista e saggista, cercò di ottenere – senza successo – una cattedra in economia e incominciò a frequentare il Beccaria. Nel 1772 pubblicò il trattato Della moneta. Saggio politico, di orientamento liberista, entrando così entrando così nel dibattito su una delle questioni allora più discusse.
Nel 1774 le delusioni per i mancati incarichi lo spinsero ad abbandonare l’abito, rimanendo abate, e a fare ritorno in Piemonte. All’Agenzia delle finanze del governo sabaudo indirizzò due memorie – una sulla perequazione dei terreni e l’altra sulla semplificazione dei tributi – che nel 1779 gli valsero una piccola pensione annua. Si dedicò anche a esperimenti e ricerche sulla sericoltura e la vinificazione, diffondendone i risultati in diversi periodici scientifici.
Negli anni Ottanta sorsero a Torino e in Piemonte numerose accademie scientifiche e letterarie, destinate a svolgere una fondamentale opera di rinnovamento culturale, e il Vasco vi partecipò attivamente: nel 1784 rispose al quesito dell’Accademia delle scienze di Torino sulla conservazione dei grani e fra il 1787 e il 1788 fu redattore, con grande vivacità di toni e di prospettive, della Biblioteca oltremontana di Torino, periodico coraggiosamente aperto agli stimoli della contemporanea cultura europea, cui collaborò anche suo fratello maggiore, Dalmazzo Francesco (che morì in carcere, a Ivrea, nel 1794).
Nel 1789 perse il ruolo di redattore alla Biblioteca oltremontana, ma fu ammesso a numerose accademie che contribuirono a diffondere i suoi studi sia in Italia che all’estero e nel 1790 pubblicò Mémoire sur le causes de la mendicité et sur les moyens de la supprimer (scritto però una decina d’anni prima) e un opuscolo sui problemi della disoccupazione. Ma nel 1791, anche a seguito dell’arresto del fratello, chiese il permesso di lasciare il Piemonte per un viaggio di salute e fece ritorno a Milano, ove riprese i contatti con i giornali letterari e con altri uomini di scienza. Nel 1792 pubblicò un saggio sull’Usura libera nel quale, con un’erudita ricerca sulla tradizione giuridica e teologica, affrontò il tema dell’ingiusta carcerazione per debiti e nel 1793 compose il saggio che resta forse la sua opera migliore (restato però inedito per oltre un secolo), Della carta‑moneta. Saggio politico, che è il superamento più maturo del saggio scritto in precedenza Della moneta.
Gli eventi della rivoluzione in Francia e la morte del fratello spinsero il Vasco a fare ritorno in Piemonte, ove mori nel 1796 a Rocchetta Tanaro.
Francesco Milizia
Nacque nel 1725 a Oria, in Terra d’Otranto, da Raimondo e Vittoria Papatodero, appartenenti alla piccola nobiltà. Compì i suoi primi studi letterari a Padova, sotto la tutela dello zio medico Domenico; quindi, a Napoli, studi di fisica e geometria, logica e metafisica, questi ultimi sotto la guida dell’abate Genovesi. Nel 1751 sposò Teresa Muzio, per consolidare il proprio casato, di cui egli era investito, essendo il primogenito, e visse con la moglie a Gallipoli. Ma allorché entrò in possesso dell’usufrutto dei beni materni, affidandone la gestione al padre, soggiornò per un anno e mezzo a Roma (tra il 1758 e il 1760) ove poi si trasferì definitivamente nel 1761.
Nella Città Eterna ebbe modo di assumere, specie sotto il pontificato di Pio VI[7] e poi negli anni della Repubblica, posizioni risolutamente progressive. Tale progressismo si ritrova coerentemente, caratterizzandola, nella varia produzione di questo scrittore: dalle numerose opere e opuscoli di medicina, matematica, astronomia, economia, ai saggi, su temi di architettura e belle arti, cui è rimasta affidata la sua fama maggiore.
Nel 1768 pubblicò Vite de’ più celebri architetti d’ogni nazione e d’ogni tempo, poi ripubblicate a Parma nel 1781 con aggiunte e correzioni sotto il titolo, più noto, di Memorie degli architetti antichi e moderni, nel quale gli aspetti più originali riguardavano i caustici contrappunti critici nei confronti delle opere degli architetti romani degli ultimi due secoli. Le Vite erano precedute da un saggio sopra l’architettura, ma qui gli aspetti critici erano limitati ad alcune parti sull’educazione e sul ruolo dell’architetto in un quadro disciplinare fondato sulle scienze naturali e sulla filosofia morale. Tutta l’opera, in realtà, era soltanto il frutto di un abile florilegio dall’Essai sur l’architecture di Marc-Antoine Laugier[8] integrato con altre fonti, a formare secondo lo stesso autore una «specie di mosaico, i di cui pezzi presi tutti di pianta di qua e di là».
Pubblicò inoltre nel 1771 il saggio Del teatro – con successive edizioni emendate in seguito a un iniziale duro intervento censorio che lo aveva messo all’indice – che si rifaceva in maniera anche troppo manifesta al Saggio sopra l’opera in musica dell’Algarotti e al saggio Della perfetta poesia italiana del Muratori; nel 1781 Dell’arte di vedere nelle belle arti del disegno secondo i principii di Sulzer e di Mengs e infine, sempre nello stesso anno, i Principii di architettura civile. Lavori in cui, accanto a un’adesione attenta e insieme assai libera agli orientamenti neoclassici, appare di notevole interesse il rilievo centrale accordato alle ragioni del bene comune e dell’utile, e della «filosofia» che deve porsi alla base di ogni forma di operare artistico.
***NOTE AL TESTO***
[1] Giuseppe Bini (Varmo, 1689 – Gemona, 1773) nacque da Giovanni Battista e da Bernardina dei conti di Varmo. Avviato alla carriera ecclesiastica, prese gli ordini minori nel 1710 e studiò quindi teologia e filosofia ad Udine. Nel 1712 fu ordinato sacerdote. Nel 1714 ricevette dal marchese Rodolfo di Colloredo l’incarico di precettore del Figlio Fabio. Nel 1719 divenne segretario di gabinetto del conte Girolamo di Colloredo, governatore imperiale di Milano, reggendo importanti funzioni amministrative e politiche e intraprendendo nello stesso tempo lo studio e lo spoglio degli archivi ecclesiastici di Milano e di Monza e la stesura di una genealogia dei Colloredo. Nel 1725 il Colloredo venne nominato supremo maresciallo di corte e presidente del Consiglio d’Italia e si trasferì a Vienna, portando con sé il Bini. Ma la morte improvvisa del conte (1726) costrinsero il giovane ecclesiastico a fare ritorno in patria e nel 1727 ottenne il vicariato della pieve di Flambro. Nel 1739 venne nominato arciprete di Gemona. Insieme al cardinale Rezzonico (futura papa Clemente XIII) si recò a Roma, in qualità di consultore, e svolse un ruolo importante nell’annosa questione del patriarcato di Aquileia, che Benedetto XIV, dietro le insistenze imperiali, si apprestava a sopprimere, per sostituirvi i due arcivescovadi di Gorizia e di Udine. Morì lasciando un gran numero di manoscritti, oggi per la maggior parte conservati nell’Archivio Capitolare di Udine, ma anche in altre biblioteche della città. Da essi furono in tempi diversi estratte sue dissertazioni e lettere, che praticamente rappresentano tutto quanto di lui è divulgato a stampa.
[2] Fra’ Gerardo De Angelis, o degli Angeli (Eboli, 1705 – Napoli, 1783), nacque da Giovanni, marchese di Trentinara, e da Angela De Caroli. Debole e malaticcio, ma di ingegno vivace ed incline allo studio, all’età di undici anni venne inviato dai genitori a Napoli a frequentare il corso di lettere superiori nelle scuole dirette dai gesuiti. Per compiacere il padre che lo aveva destinato alla professione di avvocato, si adattò a frequentare le lezioni di legge all’università e l’Ordine dei giudici per la pratica del foro. A vent’anni pubblicò dei sonetti che furono elogiati da Giambattista Vico in una lettera a lui indirizzata. Pubblicò un secondo volume di poesie nel 1726 e un terzo volume nel 1727. Nello stesso anno venne scelto come poeta cesareo a Vienna presso gli Asburgo ma vi rinunciò e nel 1729 entrò nell’Ordine dei Minimi a Napoli. Durante il periodo religioso produsse numerosi testi e rinnegò completamente le sue opere giovanili.
[3] Queste opere trattano i lavori sul diritto penale sostanziale e sulla teoria delle prove.
[4] Ippolito Dario, PAGANO, Francesco Mario, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 80, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2014.
[5] Ibidem.
[6] Santato Guido, Cultura e letteratura dell’Illuminismo, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. VII, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 312.
[7] Pio VI, al secolo Gianangelo Braschi (Cesena, 1717 – Valence 1799) nacque dal conte Marco Aurelio Tommaso Braschi e dalla contessa Anna Teresa Bandi, figlio primogenito di una numerosa famiglia di otto figli. Alla morte del padre (1759) ereditò il titolo di conte di Falcino. Studiò nel seminario locale retto dai Gesuiti ed a soli 18 anni si laureò in utroque iure all’Università di Cesena (20 aprile 1735) e in seguito completò i suoi studi di giurisprudenza all’Università di Ferrara. Divenuto prima assistente del cardinal legato Tommaso Ruffo, nel 1744 organizzò in maniera efficace la difesa della città di Velletri, durante la guerra di successione austriaca. Nel 1746 Benedetto XIV lo inviò a Napoli per risolvere dei conflitti giurisdizionali sorti tra Roma e il regno borbonico per i tribunali vescovili: la missione ebbe successo ed egli riuscì ad ottenere le dimissioni dell’arcivescovo di Napoli, il cardinale Giuseppe Spinelli. Come ricompensa venne nominato monsignore col titolo di cappellano privato di Sua Santità e successivamente il papa, stimandolo moltissimo, lo nominò suo segretario. In seguito alla scoperta della vocazione, Braschi decise di abbandonare la carriera professionale e di prendere i voti. Fu ordinato sacerdote nel 1758. Nel 1773 Clemente XIV lo creò cardinale presbitero con il titolo di Sant’Onofrio. Divenuto Papa nel 1775, condannò la politica ecclesiastica dell’imperatore Giuseppe II e, negli anni della rivoluzione francese, la Costituzione civile del clero e l’espulsione dei preti giurati. Nel 1796 Napoleone gli impose la pace di Tolentino. Due anni dopo, proclamata la repubblica romana, fu arrestato ed espulso in Francia, dove morì.
[8] Marc-Antoine Laugier (Manosque, 1713 – Parigi, 1769) è stato un teorico dell’architettura e storico dell’architettura francese, che con la sua opera contribuì al dibattito teorico all’interno del neoclassicismo europeo.
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SETTECENTO»
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