Alberto Radicati
Alberto Radicati nacque a Torino nel 1698 da Giovanni Francesco, conte di Passerano e Cocconato, rettore della Compagnia di San Paolo e decurione del Comune di Torino, e da Maria Maddalena Biandrate di Foglizzo. Nel 1707 entrò nella vita di corte e nel 1719 – dopo la morte della prima moglie – si recò in Francia, ove sposò Angelica Teresa de Manin de la Villardière (1721). Nello stesso anno fece ritorno in patria ove condusse una vita inquieta. Nonostante ciò godette della fiducia di Vittorio Amedeo II[1], che si consigliava con lui nelle questioni di politica ecclesiastica. Tanto che la sua opera principale, Discours moraux, historiques et politiques (Discorsi morali, storici e politici), venne scritta su diretto incarico di Vittorio Amedeo II. Ma mutato il clima politico, migliorati cioè i rapporti tra Torino e Roma, il Radicati – che era già stato denunciato all’Inquisizione nel 1723 – comprendendo che la sua posizione in Piemonte si andava facendo sempre meno sostenibile, decise di lasciare segretamente il paese e di recarsi a Londra (1726).
A Londra cercò di insegnare italiano e pubblicò l’Histoire de l’abdication de Victoire Amédée (Storia dell’abdicazione di Vittorio Amedeo), assai fortunata in Francia e in Inghilterra, che ricostruiva i retroscena della recente abdicazione di Vittorio Amedeo II di Savoia in favore del figlio. Contemporaneamente scrisse la più audace e radicale delle sue opere, la Dissertazione filosofica sulla morte che, tradotta da Joseph Morgan, uscì dai torchi londinesi verso la fine del 1732, destando un enorme scandalo e provocando l’arresto sia dell’autore che dello stampatore.
Rilasciato dietro cauzione, il Radicati si trasferì nella più tollerante Olanda dove nel 1736 pubblicò una Recueil de pièces curieuses sur les matières les plus interessantes (Raccolta di pezzi curiosi sugli argomenti più interessanti). Ormai ridotto in estrema miseria – e sotto il falso nome di Arbert Barin – morì a L’Aia nel 1737.
Nonostante la ben differente indole, origine ed esperienza dei due autori, l’opera di Radicati è avvicinabile per più d’un aspetto a quella di Pietro Giannone. Situandosi press’a poco negli stessi anni, esse rappresentano in modi diversi l’aprirsi della più viva cultura italiana primo‑settecentesca alle esigenze di profondo rinnovamento civile che si erano venute determinando con la pace di Utrecht, e insieme ad un’assimilazione e rielaborazione non superficiali delle offerte della più nuova e radicale cultura d’Europa. Simili, ed in certo modo emblematici, sono anche i “luoghi” della vicenda umana dei due scrittori: all’inizio, due grandi città italiane, Torino e Napoli, in un momento di eccezionale vitalità politica e intellettuale; quindi, nel peregrinare dell’uno, Parigi, Londra, L’Aia; Vienna e Ginevra in quello dell’altro: i massimi centri di cultura europei.
Notevole è poi come in entrambi la proposta di un rinnovamento della coscienza individuale e della società implichi una rimeditazione appassionata e complessa del cristianesimo, riscoperto nei suoi valori essenziali di umiltà, carità e amore al prossimo. E tale rimeditazione spesso si traduce in una polemica a volte assai aspra (cui non è per altro difficile trovare riscontri nell’illuminismo del tempo) nei confronti della Chiesa romana, ma soprattutto si lega alla pronuncia di un mito fra i più alti e caratteristici della cultura settecentesca: il mito di un’innocenza originaria della natura, e della possibilità, garantita all’uomo dalla natura appunto, di realizzare, sapendolo volere, una società costituita sulla giustizia e sull’amore reciproco.
«Tutta l’opera del Radicati si risolve in una battaglia contro la tradizione, in nome dell’uomo concepito come essere razionale, come forza prima e autonoma della vita sociale, creato libero, scaduto in conseguenza del peccato, ma da Cristo restituito alla primitiva libertà naturale. Un governo è necessario e la forma migliore è la democratica (intesa come uguaglianza assoluta, abolizione della famiglia, comunione dei beni), perché rispondente alle esigenze morali e naturali dell’uomo. Se poi il governo è monarchico, il sovrano deve impedire che esista anche un solo suddito il quale goda di privilegi non comuni alla totalità. Di qui l’estrema conseguenza cui giunge il pensiero giurisdizionalista del Radicati, che poi nella prassi si concreta in una lotta a fondo contro le immunità ecclesiastiche e in un complesso di riforme proposte a Vittorio Amedeo II […]. Sul pensiero religioso del Radicati esercitarono un’influenza notevole il Bayle e la corrente dell’indipendentismo inglese. Fedele al principio del libero esame, il Radicati fu alieno da ogni insegnamento dogmatico e da ogni sistemazione teologica. Vivo è in lui il concetto di tolleranza, inteso come norma morale voluta dalla ragione, in cui si attua la libertà di coscienza, diritto insopprimibile ed esigenza immanente nell’uomo»[2].
Tommaso Crudeli
Nacque nel 1703 a Poppi nel Casentino, da Atto, appartenente a una famiglia di giuristi, e Antonia Ducci. Studiò prima a Firenze, con il celebre grecista e traduttore Anton Maria Salvini[3], quindi a Pisa, dove si laureò in giurisprudenza. Dopo qualche viaggio e un soggiorno, che si può pensare culturalmente importante, a Venezia, sul principio degli anni trenta si stabilì a definitivamente a Firenze. Qui visse impartendo lezioni d’italiano agli stranieri ed entrò in contatto con l’ambiente della diplomazia inglese, divenendo ben presto fra gli esponenti più in vista della loggia massonica, che appunto i residenti inglesi avevano fondato nella capitale toscana nel 1733.
Nel 1738 venne pubblicata la bolla In eminenti Apostolatus specula con la quale il pontefice Clemente XII[4] scomunicava la massoneria. Sebbene i massoni fiorentini avessero deciso di sciogliere la loggia, il potente cardinale Neri Corsini, nipote del papa, con l’aiuto del padre inquisitore ottenne dal granduca di procedere contro i massoni. Crudeli fu arrestato con l’accusa di empietà e di sodomia. Relegato quindi, dopo oltre un anno di prigionia, prima nella sua casa di Poppi, e successivamente a Pontedera, egli riottenne infine, in cambio di un’abiura, la libertà e potè fare ritorno a Firenze. Tuttavia morì poco dopo, consunto dalla tisi e da queste vicende, nel 1745.
Dettate per gran parte ad amici nell’imminenza della morte, le sue Poesie apparivano a Napoli nel 1746; nel 1762 era invece pubblicato a Lucca, ma con falsa indicazione di Parigi, il trattato L’arte di piacere alle donne e alle amabili compagnie. Un’edizione complessiva di Rime e prose sarebbe comparsa a Pisa, ma anche questa con falsa data di Parigi, solo nel 1805.
Ora se nell’esercizio della poesia lo scrittore casentinese appare facilmente collocabile nell’ambito di un’Arcadia diremo matura, divisa da una parte tra una varia attenzione a esperienze non italiane, dall’altra tra l’intonazione di motivi alti e ideologicamente risentiti e una prevalente insistenza su temi erotici risolti spesso secondo invenzioni di nitida e insieme intensa sensualità, il trattato, lo posiziona decisamente in quell’area di cultura avanzata, aperta in particolare agli stimoli del pensiero francese e inglese, cui induce a guardare la stessa biografia.
A lungo considerato, da lettori distratti o prevenuti, una sorta di cicalata licenziosa (altro scritto noto del crudeli è appunto la Cicalata accademica, che illustra con due piccanti novellette erotiche in versi, l’arguta distinzione, esposta nella prosa iniziale, tra la breve età in cui le donne amano solo per amore, e l’altra in cui, superati i vent’anni, «esse non ci rimiran più come amanti, ma come sposi»), L’arte di piacere affonda in realtà le sue radici in una visione estremamente seria dell’esistenza, ben riferibile alla varia ripresa di prospettive epicureo-lucreziane che appunto si verifica nella cultura europea fra tardo Seicento e primo Settecento. La convinzione dell’autore – sottile variazione, magari per negativo, ai margini di un motivo di grande rilievo in Lucrezio – che l’infelicità dell’uomo derivi per lo più dalla capacità di pensare, è il discorso di fondo del trattato, che propone l’amicizia e l’amore, goduto fino agli «estremi contenti», quale rimedio al male radicale dell’esistenza.
Antonio Genovesi
Nacque nel 1713 a Castiglione presso Salerno, da Salvatore, calzolaio e piccolo imprenditore, e da Adriana Alfinito di San Mango. Fu prima studente, poi professore di eloquenza nel seminario di questa città, fino al 1737, anno in cui consegui il sacerdozio. Nel 1738 si trasferì a Napoli, ove si occupò attivamente di studi filosofici ed ebbe modo di ascoltare le ultime lezioni di Vico. « Nel 1739 aprì una scuola privata, in cui insegnare i suoi “nuovi piani di filosofia e di teologia”, in particolare il “piano di un’etica” (Vita, p. 53), frutto delle riflessioni di quegli anni. Cominciò a maturare in quest’esperienza – che durerà tutta la vita – la vocazione pedagogica che caratterizzerà tutta l’attività del Genovesi e che si realizzerà in un metodo d’insegnamento dinamico, in cui l’ampliarsi dell’orizzonte culturale del docente sollecitava e promuoveva l’apprendimento in interazione costante con i giovani»[5]. Successivamente ottenne di insegnare egli stesso all’Università – metafisica dal 1741 ed etica dal 1745 sino al 1753. Erano quelli anni di accese polemiche, mosse dalla qualità illuminata e francamente progressiva del suo insegnamento. In quel periodo uscirono le prime opere di rilievo, di accentuato taglio “filosofico”: i Disciplinarum metaphysicarum elementa, 1743; gli Elementa artis logicocriticae, 1745; infine la Metafisica, pubblicata fra il 1743 e il 1747.
Accentuatosi frattanto l’orientamento riformatore di Carlo III di Borbone, Genovesi venne a poco a poco assumendo una posizione di notevole prestigio. Ne fanno prova i numerosi pareri di cui egli era richiesto ufficialmente dal celebre ministro Tanucci[6] (ad esempio, dopo la cacciata dei Gesuiti, circa la riforma delle scuole nel Regno), e la cattedra, assunta nel 1754, di commercio e di meccanica, così aperta, come suggerisce l’intitolazione stessa, sul mondo della prassi e dell’economia[7]. Caratterizzati da un accentuato interesse per quest’ultima furono in effetti gli ultimi anni di Antonio Genovesi, e a tale ambito si dovranno ascrivere le Lezioni di commercio ossia di economia, pubblicate a Napoli, come pressoché tutte le sue opere, fra il 1766 e il 1767.
Ma notevoli di quest’ultimo periodo, in cui Genovesi veniva fra l’altro raccogliendo intorno a sé una vera e propria scuola che forse non ha eguali, per ampiezza di sviluppi anche politici, nella cultura italiana del Settecento, sono gli scritti di ispirazione pedagogico-didattica, come il Discorso sul vero fine delle lettere e delle scienze, apparso nel 1753, o la Logica e la Metafisica per li giovanetti, entrambe del 1766 (modello di un tipo di saggistica rivolto a una concreta diffusione e partecipazione della cultura, che avrà ampi sviluppi soprattutto sullo scorcio del secolo e in ambito giacobino, ma che già trova un seguito notevole nel Saggio dell’umano sapere, pubblicato nel 1768, di un genovesiano «minore» ma interessante come Antonio Jerocades).
Degli ultimi anni di Genovesi sono ancora diversi scritti di tipo più specificamente filosofico. L’attenzione è però ora rivolta a temi in prevalenza di ordine etico-morale, come attestano le Meditazioni filosofiche, pubblicate nel 1758, in cui appare declinato, entro una risentita prospettiva esistenziale, il tema, che percorre tutto il versante «illuminato» del secolo, dell’umana felicità.
Antonio Genovesi morì a Napoli nel 1769 e la salma fu sepolta nella chiesa del monastero di Sant’Eframo Nuovo.
«Maestro riconosciuto della Scuola di economia della seconda metà del Settecento oltre che primo cattedratico della disciplina,» il Genovesi «inaugura una stagione feconda del pensiero economico italiano. Pur all’interno di una visione ispirata a forme di utilitarismo settecentesco, Genovesi è profondamente influenzato dalle impostazioni neoplatoniche (Shaftesbury) e dalle filosofie del senso morale (da Gershom Carmichael a Francis Hutcheson), il cui insegnamento è raccolto anche da Adam Smith. È altresì influenzato dalla concezione tomista del bene comune e dell’etica delle virtù. L’idea della eterogenesi dei fini, da un lato, e dall’altro l’idea antropologica di animal civile (ispirata a Giambattista Vico), entrambe al centro del suo pensiero, rendono per la prima volta esplicita una concezione cooperativa del mercato concorrenziale. È una linea argomentativa di questo genere che induce Genovesi a rovesciare il celebre adagio di Thomas Hobbes (homo homini lupus) [l’uomo è un lupo per l’uomo n.d.r.] nel suo contrario: homo homini natura amicus [Ogni uomo è per natura amico di un altro uomo n.d.r.]»[8].
Antonio Jerocades
Nato nel 1738 a Parghelia, in Calabria, da una modesta famiglia, fu destinato dai genitori al sacerdozio e studiò nel seminario di Tropea ove si distinse per la sua precoce abilità nel comporre versi ispirati, come ha ricordato Benedetto Croce, all’opera del Metastasio[9]. Nel 1759 aprì una scuola privata nel paese natale. In questo periodo scrisse il Saggio dell’umano sapere, di stampo illuministico, che verrà successivamente pubblicato a Napoli, e un componimento drammatico, La partenza delle Muse, edito nel 1765 a Messina. Jerocades si formò, nell’ambito della scuola genovesiana, secondo quelle prospettive di cristianesimo “ragionevole” e illuminato, allora variamente diffuse nella cultura soprattutto meridionale: prospettive da cui discenderà il suo impegno politico, specialmente vivo e generoso nell’ultimo decennio del secolo (gli anni, per molti intellettuali così formati, della verità), e insieme, oltre al Saggio, il poema Il Paolo o sia l’umanità liberata, pubblicato a Napoli nel 1783. Di ispirazione analoga, tradotta per altro nei modi oscuri, esoterici cari ai gruppi massonici con cui Jerocades fu a lungo in contatto, sono le liriche, di cui una raccolta apparirà a Milano nel 1809 sotto il titolo di Lira focense. Oltre che di questi testi così caratterizzati sul piano ideologico, Jerocades fu autore anche di drammi e di traduzioni dai classici: Pindaro, Grazio, Fedro.
Nel 1765 si trasferì a Napoli e, dietro raccomandazione di Antonio Genovesi, col quale era entrato in corrispondenza, venne assunto al “Collegio Tuziano” di Sora come maestro d’ideologia. Tuttavia le sue idee democratiche, indotte dalla frequentazioni degli ambienti massonici napoletani, spinsero il vescovo di Sora ad emettere un editto di censura per le sue opere: ne seguì un processo per eresia e sedizione, con la reclusione dell’intellettuale nel carcere vescovile. Scarcerato dopo sette mesi, nel 1771 lasciò Sora per tornare a Napoli, dove divenne popolare come poeta improvvisatore. Nel 1775, invece, fu in Calabria: qui si dedicò alla composizione delle raccolte Quaresimale poetico e de La lira focense, di cui s’è già detto.
Nel 1791 ottenne la cattedra di filologia e nel 1793 quella di economia e commercio all’Università di Napoli. Nello stesso periodo fondò la Società Patriottica Napoletana, coagulo dei principali esponenti del giacobinismo e dell’anti‑giurisdizionalismo partenopeo, cosa che gli costò l’incarcerazione a Castel dell’Ovo e un processo per apostasia (1795). Tuttavia, dopo la sua ritrattazione, poté riottenere la libertà. Poi nel 1799 sostenne attivamente le idee rivoluzionarie, che, in seguito alla breve esperienza della Repubblica Napoletana, gli costarono nuovamente il carcere, e quindi l’esilio.
Antonio Jerocades, morì nel 1803 nel convento dei Liguorini di Tropea.
Il Saggio dell’umano sapere ad uso de’ giovanetti di Paralìa, pubblicato a Napoli nel 1768, è documento fra i più notevoli del nuovo pensiero pedagogico che si viene affermando anche in Italia nel maturo Settecento. Scritto con l’occhio ad alcuni maestri in quegli anni di grande quanto discusso prestigio (il «signor Rossò»[10], richiamato per il Contrat social; l’abate Genovesi, di cui Jerocades si definisce «alunno, ed amico»), esso si presenta come una guida offerta, ai «giovanetti appunto», per sottrarli a quel «sapere» che «non si stende più in là della Pedanteria, e del Casismo, donde poi nascono tanti bei figli, l’ignoranza, l’errore, la bacchettoneria, la stupidità, il fanatismo, l’ozio, la miseria, la brevità della vita », ed aprirgli la via di una cultura autentica, aperta ai problemi della società e alle esigenze del bene comune. Non manca, naturalmente, in esso la polemica vivace, in anni in cui di grandissima moda è il culto dell’antico, contro quest’ultimo nella misura in cui esso non sia altro che occupazione vana, infatuazione raffinata ma inconsistente e non, com’era parso a Giannone, studio perseguito in funzione e in favore della società presente.
Giovanni Maria Ortes
Nacque a Venezia nel 1713, in un’agiata famiglia della piccola borghesia manifatturiera. Avviato alla vita monastica (ma dal 1743 sarà semplicemente abate), si recò nel 1734 a Pisa a terminare gli studi, e qui, nell’ambiente universitario di tradizione galileiana ma anche vivacemente inteso ad assimilare il pensiero di Newton[11], maturò quella che sarà la sua tempra di intellettuale rigoroso e lucidissimo.
Negli anni successivi compì numerosi viaggi, per l’Italia e in Europa: in Francia, a Vienna, a Berlino. A Venezia, nel 1757, pubblicò il Calcolo sopra il valore dell’opinioni e sopra i piaceri e i dolori della vita umana. Nel decennio fra il 1760 e il 1770 maturò prevalenti interessi di carattere economico, onde la celebre e acuta Economia nazionale, apparsa nel 1774, e le Riflessioni sulla popolazione, pubblicate in parte, assai tardi, nel 1790. Del 1785 è il saggio Delle scienze utili e delle dilettevoli per rapporto alla felicità umana.
Dopo aver ripiegato, negli ultimi anni, dallo spregiudicato progressismo della maturità su posizioni genialmente quanto astrattamente conservatrici, Ortes moriva a Venezia nel 1790.
«Studioso esperto in più campi dello scibile, Giammaria Ortes fu interessato alla distribuzione delle risorse e agli effetti sociali della concentrazione delle ricchezze. Egli si orientò ad auspicare il contenimento della povertà attraverso una più equa assegnazione delle risorse disponibili per arrivare a un benessere dignitoso esteso a tutti i cittadini; il suo sforzo fu, infatti, di valutare quali beni e in quale quantità si dovevano produrre e distribuire per offrire a tutti un tenore di vita consono alla persona umana. La sua sagacia e la sua preparazione gli permisero di sviluppare una linea di ricerca che si è storicamente affermata, ossia quella di indicare obiettivi realistici di aumento del benessere condiviso degli uomini, piuttosto che tendere a uno sviluppo economico affidato alle scelte di pochi protagonisti»[12].
***NOTE AL TESTO***
[1] Vittorio Amedeo II di Savoia (Torino, 1666 – Rivoli, 1732), nacque dal duca Carlo Emanuele II di Savoia e da Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours. Salito al trono alla morte del padre (1675), nel 1690 entrò in guerra contro la Francia, ma sconfitto più volte fu costretto a trattare la pace di Torino (1696), con la quale ottenne tuttavia la restituzione di Pinerolo. Nella guerra di successione spagnola fu di nuovo contro la Francia e alla pace di Utrecht (1713) ottenne la corona di re di Sicilia che poi commutò con quella di re di Sardegna (1720). Nel 1730 abdicò in favole del figlio Carlo Emanuele III.
[2] Morandi Carlo, RADICATI, Alberto, conte di Passerano e Cocconato, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1935.
[3] Anton Maria Salvini (Firenze, 1653 – Firenze, 1729) studiò Giurisprudenza all’Università di Pisa, ma poco dopo la laurea capì che la sua strada erano le lingue antiche e si perfezionò in greco e in latino; imparò anche il francese e l’inglese, così come l’ebraico e lo spagnolo. Come grecista, tra le sue traduzioni si ricordano Della caccia e Della pesca di Oppiano, l’Iliade, l’Odissea, gli Inni e la Batracomiomachia di Omero, le Sentenze elegiache di Teognide, gli Amori di Abrocomo e d’Anzia di Senofonte Efesio, l’opera poetica di Anacreonte, Le Opere e i Frammenti di Esiodo, gli Inni orfici e quelli di Proclo, il Ciclope di Euripide. Come scrittore e poeta non raggiunse mai i livelli di eccellenza delle sue traduzioni.
[4] Clemente XII, al secolo Lorenzo Corsini (Firenze, 1652 – Roma, 1740), nacque da Bartolomeo, marchese di Sismano e Casigliano, e da Elisabetta Strozzi. Studiò prima a Firenze, poi a Roma (Collegio romano) e infine al Collegio dei Gesuiti di Pisa. Nel 1675 conseguì il dottorato in legge. Entrò nella prelatura sotto papa Innocenzo XI, che lo consacrò sacerdote. Nel 1695 fu nominato tesoriere della Camera Apostolica e Clemente XI, come riconoscimento per i suoi ottimi servigi in campo economico, lo nominò cardinale (1706). Ebbe come residenza Palazzo Pamphilj in piazza Navona, che grazie a lui divenne un cenacolo di artisti e intellettuali. Alla morte di Benedetto XIII, venne eletto papa nel conclave del 1730. È noto perché, nonostante sia stato eletto pontefice in età molto avanzata, come papa di transizione, grazie al suo spirito illuminato riuscì ad imprimere un nuovo corso al governo dello Stato della Chiesa, in cui promosse la costruzione di numerose opere pubbliche, tra cui la Fontana di Trevi, la nuova facciata di San Giovanni in Laterano, l’apertura alla cittadinanza dei Musei Capitolini, primo museo pubblico del mondo, l’ampliamento del porto di Ancona e l’apertura della Strada Clementina.
[5] Perna Maria Luisa, GENOVESI, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 53, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2000.
[6] Bernardo Tanucci (Stia, 1698 – San Giorgio a Cremano, 1783), giurista e politico italiano, fu uomo di fiducia del re di Napoli Carlo di Borbone e di suo figlio Ferdinando IV, occupò le cariche di segretario di Stato della Giustizia e Ministro degli Affari esteri e della Casa Reale dal 1754 al 1776.
[7] Fu la prima cattedra di economia di cui si abbia traccia in Europa.
[8] Bruni Luigino, Genovesi, Antonio, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2012.
[9] Croce Benedetto, La rivoluzione napoletana del 1799. Biografie, storie, racconti, Laterza, Bari, 1953.
[10] Il Contratto sociale (Du contrat social: ou principes du droit politique), pubblicato nel 1762, è una tra le maggiori opere del filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau.
[11] Sir Isaac Newton, a volte italianizzato in Isacco Newton (Woolsthorpe-by-Colsterworth, 1642 – Londra, 1726), viene considerato uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi. Ha anche ricoperto i ruoli di presidente della Royal Society (1703-1726), direttore della Zecca inglese (1699-1701) e membro del Parlamento (1689-1690 e 1701). Noto soprattutto per la fondazione della meccanica classica, la teoria della gravitazione universale e l’invenzione del calcolo differenziale, contribuì significativamente a più branche del sapere, occupando una posizione di preminente rilievo nella storia della scienza e della cultura. Il suo nome è associato a leggi e teorie ancora oggi insegnate: si parla di dinamica newtoniana, di leggi newtoniane del moto, di legge di gravitazione universale. Più in generale, ci si riferisce al newtonianesimo come concezione del mondo, che ha influenzato la cultura europea per tutto il XVIII secolo.
[12] Erba Alighiero, Ortes, Giammaria, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2012.
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SETTECENTO»
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