Linea biografica
Pietro Verri nacque a Milano il 12 dicembre 1728, primogenito del conte Gabriele, magistrato e politico conservatore, e di Barbara Dati della Somaglia, esponente di una delle più prestigiose casate ambrosiane. A Pietro seguirono sette femmine (di cui tre morirono in giovanissima età) e quattro maschi, dei quali tre gli sopravvissero: Alessandro (1741 – 1816), Carlo (1743 – 1823) e Giovanni[1].
Nell’ambiente familiare, bigotto e arido, l’infanzia di Pietro, alquanto triste e depressa, fu caratterizzata dal difficile rapporto con i genitori, e in particolare con il padre Gabriele, che ne segnò profondamente l’esistenza. Solo con il fratello Alessandro instaurerà un legame affettivo, destinato tuttavia a incrinarsi quando, alla morte del padre, i due saranno divisi da violenti litigi per questioni ereditarie.
Iniziò gli studi nel 1737 e fu allievo dei gesuiti a Monza, dei barnabiti a Milano, degli scolopi a Roma (periodo che fu, nel suo ricordo, il più terribile della sua vita) e nuovamente dei gesuiti a Milano e a Parma (1747) nel collegio di Santa Caterina, dove finalmente riuscì a trovare un ambiente a lui più congeniale grazie anche all’attrattiva delle nuove materie di studio, la filosofia e la fisica. Ma al ritorno in famiglia (1748) ebbero inizio nuovi malumori col padre, il quale, non tenendo in alcun conto le cognizioni di Pietro, volle impartirgli lezioni di diritto per avviarlo a una carriera pubblica. E a tale scopo il conte Gabriele riuscì a procurare al figlio prima l’ufficio di protettore dei carcerati, poi, nel 1753, lo portò con sé a Vienna per presentarlo a corte e fargli ottenere il titolo di ciambellano.
Particolarmente osteggiata dai genitori fu la relazione con la duchessa Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, moglie del duca Gabrio Serbelloni, che nella sfarzosa residenza del marito aveva dato vita ad un esclusivo “salotto” che ospitava scrittori, poeti e musicisti di grande fama, nonché intellettuali appartenenti alla società illuministica della Milano della metà del Settecento. Inoltre, la duchessa, grande conoscitrice e appassionata della lingua e della letteratura francese, ebbe l’indiscusso merito di tradurre e pubblicare a Milano i lavori di Destouches[2], e il Verri, che utilizzò per l’occasione lo pseudonimo di Modonte Priamideo, ne curò le prefazioni, nelle quali assegnò alla commedia un fine morale (aderendo in tal modo alla riforma teatrale di Carlo Goldoni).
Dopo la brusca interruzione della relazione con la duchessa (per decisione della stessa), il Verri, decise di arruolarsi in qualità di ufficiale nell’esercito imperiale (1759), che era impegnato nella Guerra dei Sette Anni[3] contro la Prussia, chiedendo di partire volontario per il fronte, e si trovò così alla battaglia di Sorau in Sassonia. Ma le durezze e le tristezze della vita militare[4] faranno sì che il suo servizio duri soltanto poco più di cinque mesi: nel gennaio del 1760 si recò a Vienna, dove si trattenne per tutto l’anno, e nel 1761 fece ritorno a Milano.
Sul finire dello stesso anno cominciò a raccogliere attorno a sé «una scelta compagnia di giovani di talento», fra cui alcuni giovanissimi come Cesare Beccaria e il fratello Alessandro, costituendo una sorta di insolita accademia (la «Società dei Pugni»[5]), dove i soci si ritrovano non più per leggersi a vicenda i propri innocenti parti letterari, ma per discutere insieme i massimi temi del dibattito filosofico e politico contemporaneo. Nasceva così, in questa dimensione di gruppo, il celebre Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, e nasceva anche prima l’idea e poi la realizzazione de Il Caffè, al quale Pietro dava un apporto primario e determinante, con i suoi molti scritti, pagine che raccolte insieme costituiscono una sorta di manifesto, assai nitido, della nuova intelligenza progressiva italiana: un’intelligenza molto colta, anche se in modo un po’ farraginoso, aperta con entusiasmo all’Europa, e tesa in maniera risentita, oggi diremmo con grinta, all’azione, a un impatto polemico e insieme costruttivo con le cose.
Con questa “leadership”, esercitata sul gruppo dei Pugni e sul Caffè, Pietro Verri diveniva ben presto un termine di riferimento importante, in Italia, per i radicali della sua generazione. Ma risultava anche, e non al di là delle sue intenzioni, l’intellettuale più idoneo, in Milano, a intraprendere un’organica collaborazione col potere asburgico, che veniva avviando appunto in quegli anni una varia esperienza di svecchiamento e di riforme. Così, secondo una prassi che avrebbe investito poco dopo, a diversi livelli, altri uomini di cultura come Beccaria e Parini, nel 1765 egli era assunto a far parte del Supremo Consiglio d’Economia pubblica[6]; e funzionario imperiale, pur con varia alternanza di disincanti e di entusiasmi, egli rimase per oltre vent’anni. E a questa attività si sarebbero legati diversi saggi di teoria e di intervento economico e politico, come le Riflessioni sulle leggi vincolanti principalmente nel commercio dei grani, del 1769, o le Meditazioni di economia politica del 1771.
A questi anni della maturità risalgono anche alcuni scritti – come il Discorso sulla felicità, del 1781, il Discorso sull’indole del piacere e del dolore, del 1773, le Osservazioni sulla tortura (1777), i Ricordi a mia figlia del 1777 – in cui Pietro dava più libero gioco alle proprie esigenze di carattere etico-filosofico e a una sottile vena introspettiva, già emersa in quella sorta di diario che sono le Lettere dalla guerra dei sette anni. Molto importanti anche, sempre di questo periodo e fino alla morte, sono anche le numerosissime lettere scambiate con il fratello Alessandro.
Nel 1779 il Verri iniziò a scrivere una Storia di Milano, rimasta incompiuta; tale opera «costituisce una delle più coerenti espressioni del liberalismo illuministico italiano», nel senso che «tutte le vicende milanesi vi sono rappresentate come materiale esemplificativo di quella filosofia. Fanatismo, superstizione, violenza, guerra, odi nazionali vi appaiono come la causa di tutti i guai che hanno afflitto gli uomini; tolleranza, “vera religione”, “spirito moderato”, pace, cosmopolitismo, come la determinante, in tutti i tempi, del bene, di quel poco di bene che ha rotto le tenebre del passato con radi e discontinui sprazzi di luce»[7].
Nel 1786 Verri venne messo in pensione dal governo austriaco. A ciò seguì un periodo di ritiro e di ripensamenti, da cui egli uscì con un atteggiamento di definitiva sfiducia nei confronti dell’assolutismo illuminato, o di quello almeno che conosceva più da vicino, e di attesa di più risolute esperienze di libertà politico‑civile. Di qui, con il 1789, l’interesse per le vicende francesi, beninteso non senza molte cautele, diffidenze, perplessità; e nel 1796, con l’arrivo di Napoleone, la sua partecipazione – accanto all’altro grande vecchio illuminato di Milano, Giuseppe Parini – alla Municipalità provvisoria. Il senso, sottilmente moderato, di questa partecipazione si può cogliere da uno dei suoi ultimi scritti, i Pensieri di un buon vecchio che non è letterato, apparso allora su un giornale milanese.
Morì improvvisamente il 28 giugno del 1797: fu colpito da apoplessia mentre si svolgeva un’adunanza serale della Municipalità. Le sue spoglie sono conservate nella cappella di famiglia, che si trova a latere del Santuario della Beata Vergine del Lazzaretto, nel comune di Ornago in provincia di Monza e della Brianza.
Il pensiero e le opere
«Pochi uomini hanno legato il proprio nome a una città e a un’epoca come Pietro Verri, la cui parabola esistenziale e intellettuale si consuma all’interno della settecentesca Milano dei lumi. Anima inquieta e al tempo stesso razionalmente critica, Verri incarna lo spirito di un’età che, come lui, fu contraddittoria e percorsa da fremiti diversi, in costante equilibrio fra difesa della tradizione e spinte riformiste. Fu personalità complessa e dai molteplici interessi: dal diritto alla filosofia, dalla politica economica a quella finanziaria. Imbevuto di cultura illuministica francese, aderì per lungo tempo ai programmi asburgici, coniugando il duplice volto di un Illuminismo lombardo che come suo tratto originale ebbe quello di essere ora a servizio del potere ora in opposizione a esso»[8].
Come abbiamo già visto, dopo il soggiorno a Vienna, Verri Tornava a Milano pronto a trasformare in azione le sue idee politiche ed economiche. Fondata l’Accademia dei Pugni, fondò la rivista Il Caffè, che nella sua breve ma intensa stagione (1764-1766) affrontò un ampio ventaglio di problemi. Sebbene gli articoli toccassero talvolta argomenti più leggeri, nella sostanza sancirono la scelta di un protagonismo culturale che fa carico all’intellettuale dei grandi problemi della società civile. La testata stessa della rivista sintetizza lo spirito nuovo: il logo del dibattito intellettuale non è più la buia sala delle accademie, ma il luminoso locale pubblico, che andava proprio in quegli anni prendendo piede, in cui si riferiscono «tutte le scene interessanti […] e tutti i discorsi degni di registrazione» nati dal vivo colloquio dei cittadini comuni e attivi e non dallo sterile monologo dei letterati di mestiere.
L’ansia di rinnovamento e di riforma è la caratteristica precipua dell’anima del Verri, che si manifesta sia nella sua vita pubblica, cioè come funzionario dell’impero asburgico, sia nella sua vita artistica e quindi in tutte le sue opere. E – forse – è proprio a causa di questa ansia di rinnovamento che il Verri non prenderà mai le distanze, a differenza di altri scrittori del tempo (Parini, Alfieri, ecc.), dalle correnti illuministiche più radicali. Da quest’ansia viene, durante il suo operoso periodo di amministratore asburgico, il civismo e la lotta contro gli abusi fiscali e l’iniquità tributaria, contro le barriere doganali, contro il disordine monetario, contro i metodi antiquati della procedura penale, contro il feudalesimo ecclesiastico e la dittatura romana.
Come “economista” il suo scritto di maggiore rilievo sono le Meditazioni sull’economia politica (1770), opera che gli valse notevole apprezzamento negli ambienti in cui si andavano rapidamente sviluppando le riflessioni sull’economia negli ultimi decenni del diciottesimo secolo, nella quale si discorre sulla formazione dei prezzi, sulla distribuzione delle ricchezze, sulla disciplina del commercio, sulla moneta, sul cambio, sull’agricoltura e sulle questioni fiscali. Il concetto di fondo che regge tutte le argomentazioni è che «il bisogno è il pungolo col quale la natura scuote l’uomo». Il dovere dell’econamista, quindi è – per Verri – di insegnare al “mondo” il modo in cui si realizza il buon mercato.
Già nel 1761, comunque, egli aveva composto un breve scritto sopra il tributo del sale a Milano, in cui egli ne illustrava la storia a partire dal Medioevo, inserendolo tra le imposte necessarie per permettere al sovrano e allo Stato di svolgere funzioni essenziali per i cittadini di quello stesso Stato. Il tributo del sale era, tuttavia, una delle principali imposte riscosse attraverso la ferma generale; per questo fu in seguito indicato da Verri come destinato all’abolizione.
Anche le Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano, rimaste per lungo tempo inedite, si collocano tra le migliori opere storico‑economiche del Settecento italiano per i pregi dello stile nitido e asciutto, l’ampiezza della documentazione, reperita anche negli archivi, la padronanza dei temi, il rigore logico con cui è argomentata la tesi di fondo, che attribuisce al malgoverno spagnolo e allo «spirito curiale» delle classi dirigenti locali la colpa della decadenza economica del Milanese.
In campo giuridico il Verri, oltre alla fondamentale collaborazione col Beccaria nella composizione del trattato Dei delitti e delle pene, si distinse per la composizione di tre scritti: l’Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese (1763), le Osservazioni sulla tortura (1776-77) e il saggio, pubblicato sul Caffè nel 1765, Sulla interpretazione delle leggi (i primi due scritti, per volontà dello stesso Verri, rimarranno inediti fino all’Ottocento). Nell’Orazione, un’opera parodistica, egli, con sarcasmo e fine ironia, lancia un atto di accusa in cui si condensano i cardini illuministici della dottrina penale, ma la battaglia politica diviene anche – in modo non troppo “sotterraneo” – il mezzo per dar voce a personali e mai sopiti rancori nei confronti della detestata figura del padre. Di maggiore spessore, da un punto di vista teorico e tecnico, è lo scritto Sulla interpretazione delle leggi, nel quale lo scrittore manifesta in modo evidente la sua avversione per ogni attività interpretativa della legge, spingendosi fino a fornire una definizione di interpretazione, intesa come la sostituzione dell’opinione dell’interprete alla volontà di chi scrive la legge.
Ma l’opera verriana più vibrante è sicuramente Osservazioni sulla tortura, nella quale, prendendo le mosse dal processo celebrato nel 1630 contro innocenti cittadini, sospettati di aver diffuso la peste mediante malefiche unzioni, il Verri si scaglia contro l’uso della tortura poiché impedisce di conoscere la verità, e solo i popoli retrogradi la usano per la loro procedura criminale. La tortura, quindi, deve essere abolita, poiché è ingiusta nei delitti incerti e inutile nei delitti certi: un’affermazione, questa, che si fonda sulla presunzione di non colpevolezza e ribalta la prospettiva entro cui si muovevano le pratiche inquisitorie. Anche Manzoni, nella Storia della colonna infame, prese le mosse dagli studi del verri sulla tortura, ma per capovolgerne il senso: la colpa non era solo dell’ignoranza e dei tempi oscuri, ma degli uomini; al determinismo laico che scaricava la responsabilità del male sulla società, Manzoni opponeva la coscienza cristiana, la responsabilità individuale.
Gli ostacoli incontrati nella vita politica lungo il cammino delle riforme indussero il Verri a sviluppare una maggiore attenzione verso i problemi dell’animo umano. Così, lo psicologismo che s’era già manifestato nelle Meditazioni sulla felicità (1763) e nelle pagine del Caffè, si tradusse in un vero e proprio studio antropologico nel Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773). Riprendendo idee che già erano della filosofia sensistica, egli basò l’attività dell’uomo sulla ricerca della felicità e del piacere. L’uomo, insomma, secondo Verri, tende al piacere, ma è pervaso dall’idea del dolore, e il suo piacere quindi non è altro che una momentanea interruzione di questo dolore. Tale tesi è riscontrabile anche in Leopardi e quest’ultimo potrebbe averla derivata da quella del Verri, essendo ispirato spesso dalla filosofia sensistica settecentesca. Per Verri, quindi, la vera felicità dell’uomo non è quella personale, ma è quella a cui partecipa il collettivo, quasi fosse eutimia o atarassia.
Di stampo assai diverso sono i Ricordi a mia figlia, che furono scritti, come si è detto, nel 1777, poco dopo che al Verri era nata la figlia Maria Teresa. Non erano destinati a una pubblicazione, ma intendevano offrirsi (secondo l’accezione classica e rinascimentale della parola «ricordi») come suggerimenti, indicazioni di vita, che Maria Teresa avrebbe potuto in seguito utilizzare. Cosa minore, dunque, rispetto ad altre opere che avrebbero valso all’autore il rango, che oggi in genere gli si riconosce, di maggior esponente dell’illuminismo in Italia. Eppure qui, in un linguaggio estremamente limpido e spoglio, del tutto conforme alle esigenze antiretoriche affermate nel Caffè, il Verri, che aveva sperimentato la durezza dell’educazione paterna, sognava – quasi utopisticamente – una pedagogia della dolcezza e della libertà e fissava, al di là delle teorizzazioni non sempre originali che s’incontrano nei testi maggiori, una sua visione delle cose di sapore assai vivo, divisa come ci appare fra il rifiuto di certe tensioni più radicali della cultura illuministica (molto notevoli le pagine sulla passione e sull’amore) e la volontà di affermare una prospettiva di ragionevolezza, di sanità naturale, di sereno ed equilibrato rapporto col reale, e di affermarla nella concretezza minuta dell’esistenza. Una volontà, un impegno sottilmente illuministici e settecenteschi, il cui valore di attualità, ancor oggi, è però persino ovvio rilevare.
***NOTE AL TESTO***
[1] Giovanni Verri (Milano, 20 agosto 1745 – 1818) un marinaio, avventuriero e letterato italiano, cavaliere del Sovrano Militare Ordine di Malta era, probabilmente, il padre naturale di Alessandro Manzoni.
[2] Philippe Néricault Destouches, noto semplicemente come Destouches (Tours, 1680 – Parigi, 1754), Scrisse innumerevoli e mediocri commedie di carattere, a sfondo moraleggiante e pedagogico, tra le quali L’irresoluto (L’irrésolu, 1713), Il filosofo maritato (Le philosophe marié, 1727), Il vanitoso (Le glorieux, 1732).
[3] La guerra dei sette anni si svolse tra il 1756 e il 1763 e coinvolse le principali potenze europee dell’epoca. Gli opposti schieramenti vedevano da un lato l’alleanza composta da Regno di Gran Bretagna, Regno di Prussia, Elettorato di Hannover, altri Stati minori della Germania nord-occidentale e, dal 1762, il Regno del Portogallo; dall’altro lato, la coalizione composta da Regno di Francia, Monarchia asburgica, Sacro Romano Impero (principalmente l’Elettorato di Sassonia), Impero russo, Svezia e, dal 1762, Spagna. Francesi e britannici fecero anche ricorso a svariati alleati locali tra le popolazioni native dell’India e dell’America settentrionale. La guerra si concluse con la stipula di una serie di trattati di pace separati tra i vari contendenti. Trionfatrice del conflitto fu la Gran Bretagna, che si assicurò i maggiori guadagni territoriali e politici.
[4] Nelle sue Memorie sincere scriverà che quello del soldato è un «mestiere da disperato» e che l’esercito è un «rifiuto della società».
[5] La Società dei Pugni o Accademia dei pugni prese il suo nome da una gustosa diceria secondo la quale Verri e Beccaria si erano presi violentemente a pugni per risolvere una non meglio precisata questione
[6] Fra il 17761 e il 1763 aveva scritto le Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano, che – pur rimanendo per lungo tempo inedite – il Verri aveva inviato a Luigi Giusti, referendario del Dipartimento d’Italia creato a Vienna nel 1757; l’opera piacque moltissimo al Giusti e al cancelliere Kaunitz, che sentivano il bisogno di uomini nuovi per le riforme ritenute ormai mature nella Lombardia austriaca.
[7] Valeri Nino, Prefazione, in Pietro Verri, Opere varie, vol. I, Le Monnier, Firenze, 1947, p. XVIII.
[8] Garlati Loredana, VERRI, Pietro, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2012.
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «Appunti di Letteratura Italiana: Il Settecento»
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