Linea biografica
Vittorio Alfieri[1] nacque nel gennaio del 1749 in Asti, da Antonio Amedeo (1695‑1749), conte di Cortemilia e Casa Bianca, e dalla savoiarda Marianna Monica Maillard de Tournon (1721-1792), già vedova del marchese Pio Alessandro Cacherano Crivelli Scarampi di Villafranca d’Asti. Poco dopo la nascita gli morì il padre, e passata ben presto la madre a nuove nozze con il cavaliere Giacinto Alfieri di Magliano, il giovane Vittorio restò sino a nove anni nel castello avito e affidato alle cure di un maldestro precettore, per entrare poi – per volere del suo tutore, lo zio Pellegrino Alfieri – alla Reale Accademia di Torino. Era questo un istituto destinato alla formazione dei paggi e dei nobili di corte, ma divenuto a poco a poco qualcosa come un collegio aperto ai giovani aristocratici di ogni parte d’Europa. Alfieri vi rimase circa otto anni, svolgendovi un corso di studi abbastanza regolare (press’a poco al livello di una scuola secondaria di oggi, con rilievo in direzione umanistico-letteraria) e uscendone nel 1766, dopo aver optato per la carriera militare, col titolo di portainsegna, da esercitarsi nel reggimento nazionale della provincia di Asti. Una scelta del genere era abbastanza normale per un giovane aristocratico negli anni dell’ancien regime, e difatti Alfieri – raggiunto il grado di luogotenente – decise di sciogliersi dai «lacci militari» (1774), sullo stimolo di una più matura visione delle cose e insieme di un’eccellente situazione patrimoniale.
Durante gli anni trascorsi all’Accademia, comunque, è opportuno notare come Alfieri venisse allora facendo, all’infuori del lavoro scolastico, molte letture, disordinate ma in genere riconducibili al contemporaneo e al divertente: Metastasio, Goldoni, Lesage[2], Prévost[3] ecc. Con la frequentazione di autori così intensamente vitali, e con lo sfogo a poco a poco e variamente concesso alle pulsioni di una vitalità sempre più accesa (i primi amori, le «gran cavalcate» nei boschi fra il Po e la Dora: tutti fatti che saranno rievocati nella Vita) il quindicenne Alfieri forse inconsapevolmente medicava le piaghe, i guasti di un’infanzia infelice, segnata, almeno a certi indizi che ancora si leggono nella Vita (con tutti i limiti di quest’opera come testo documentario), segnata dunque, si può pensare, da una nevrosi destinata a inquietare in profondo l’esistenza dello scrittore.
Dopo l’uscita dall’Accademia sino al 1772 Alfieri compie una serie quasi ininterrotta di viaggi, visitando prima le maggiori città italiane, poi gran parte dei paesi d’Europa, e poiché la sua condizione gli imponeva di presentarsi agli ambasciatori del suo sovrano (al quale come nobile doveva volta per volta chiedere il permesso di uscire dai suoi stati), e presso di essi poté entrare in relazione ed anche in dimestichezza con diplomatici europei e con i frequentatori dei loro salotti. Trovò in uno di essi, don José D’Acunha, ministro del Portogallo in Olanda nel 1768, un intimo amico e confidente, e a Londra nel primo e nel secondo soggiorno divenne familiare del principe di Masserano, ambasciatore di Spagna, e del ministro di Napoli, il marchese Domenico Caracciolo, il futuro viceré della Sicilia, «uomo, egli scrisse, di alto, sagace e faceto ingegno». Da un punto di vista esterno, tutto questo rientrava abbastanza normalmente nel tipo di formazione cosmopolita praticato nel Settecento dalla grande nobiltà europea. Di proprio, di originale Alfieri però immetteva in quest’esperienza un’oltranza, un accanimento, un furore, in cui si potevano esprimere, in un groviglio abbastanza confuso, quelle che sempre più emergono come le componenti di fondo del suo psichismo: l’impulso che si diceva, la tensione a realizzare liberamente il proprio talento vitale, e l’affiorare all’opposto di forze oscure e paralizzanti, gli accessi di «umor malinconico» che costellano, aggravandosi con gli anni e spesso complicandosi in stranissime infermità psicosomatiche, la biografia dello scrittore. Colmi di partecipazione, esasperati sono anche gli amori di questo periodo, e non diversamente si può dire delle letture. Ne vien fuori, nell’insieme, il quadro di una giovinezza tempestosa e fervidamente conflittuale, nei cui tratti non è poi difficile riconoscere l’aria del tempo, la temperie emozionale di tutta una generazione di intellettuali europei (in genere i nati intorno al 1750), una temperie che trovava allora la sua manifestazione più significativa, ma nettamente connotata in senso borghese, nella vita e nelle opere del giovane Goethe e dei suoi amici Stürmer.
Tensioni e fervori, per quanto indubbi e vistosi (ma a noi anche noti, per gran parte, attraverso la lente d’ingrandimento rappresentata dalla successiva autobiografia), non devono però far dimenticare, com’è spesso avvenuto, che i vent’anni di Alfieri furono anche un periodo di ricca maturazione intellettuale e di cultura. Se pur letti con tutti i trasporti del caso, i grandi esponenti del pensiero moderno e contemporaneo – Montaigne[4], Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Helvétius, ecc. – lasciano nel giovin signore piemontese un segno non certo marginale, e le loro idee troveranno ampia e varia rielaborazione negli anni della maturità. E anche se, percorrendo l’Inghilterra, poterono sfuggirgli – com’è stato osservato – le disastrose e immediate conseguenze della già avviata rivoluzione industriale, non c’è dubbio che il viaggiatore Alfieri già fosse sottilmente attento, e sempre più preparato a intendere i costumi e la congiuntura politico‑civile dei paesi via via visitati.
Non stupisce così che i circa quattro anni trascorsi a Torino a conclusione di questo grand tour europeo (maggio 1772) risultino sì, per un verso, vissuti all’insegna di un libertinismo sofisticato, diviso con eleganza brummeliana fra la pratica del «lusso» («In fine di quell’anno del mio ripatriamento, provvistami in Torino una magnifica casa posta su la piazza bellissima di San Carlo, e ammobiliatala con lusso e gusto e singolarità, mi posi a far vita di gaudente con gli amici») e la compiaciuta introspezione attestata da quella sorta di diario intimo che va sotto il nome di Giornali, secondo una scelta di vita che può trovare un facile riscontro non solo nel protagonista del Giorno, ma in tanti personaggi del teatro di un Goldoni o di un Albergati. Ma impegnati anche, ad un diverso livello, in un confronto continuo con l’intelligenza illuminata che opera allora nella capitale sabauda (un ambiente importante, che gli storici – poco a poco – hanno messo in luce) e nella ricerca accanita – fra gli spassi, gli amori e le crisi depressive – di una propria voce letteraria, di una scrittura, in cui non solo trovar «gloria», cioè affermazione personale e luogo di consistenza esistenziale, ma anche dar forma alle emergenze del proprio mondo interiore e alla visione delle cose, all’ideologia che in modo sempre più netto gli si doveva venire definendo.
In quegli anni ebbe anche una relazione con la marchesa Gabriella Falletti di Villafalletto («di non troppo buon nome nel mondo galante ed anche attempatetta»), di dieci anni più vecchia di lui, moglie di Giovanni Antonio Turinetti marchese di Priero, vecchia conoscenza del tempo dell’Accademia. Tra il 1774 e il 1775, mentre assisteva la sua amica malata, portò a compimento la tragedia Antonio e Cleopatra, rappresentata a giugno di quello stesso anno a Palazzo Carignano, con successo. Nel frattempo cominciò il lavoro su altre tragedie.
L’Alfieri, che come ogni altro piemontese del suo tempo e del suo livello, aveva avuto come madrelingua il diletto subalpino e parlava fluentemente il francese, improvvisamente maturò l’idea (pertanto non ancora ben chiarita) di scegliere la letteratura italiana come preciso spazio culturale e linguistico su cui lavorare; perciò cominciò ad orientare le proprie letture (Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Cesarotti, Maffei ecc.) nel senso di una varia sperimentazione e acquisizione di una lingua e di uno stile.
Nel 1775 troncò definitivamente la liaison amorosa con la marchesa Falletti, e studiò e perfezionò la sua grammatica italiana riscrivendo le tragedie Filippo e Polinice, che in una prima stesura erano state scritte in francese. Successivamente, nell’aprile del 1776, si recò in Toscana, prima a Pisa e poi a Firenze, «per avvezzare a parlare, udire, pensare e sognare in toscano, e non altrimenti mai più»: un viaggio dunque ben diverso da quelli compiuti qualche anno prima, e tutto fitto, curiosamente, di sudatissime carte («Nel soggiorno di Pisa tradussi anche la Poetica d’Orazio in prosa con chiarezza e semplicità per invasarmi que’ suoi veridici e ingegnosi precetti ecc.») e di travagliate consultazioni dei «dotti» specialmente pisani. Compilò anche piccoli vocabolari d’uso in cui alle parole e alle espressioni francesi o piemontesi corrispondevano «voci e modi toscani» e iniziò pure la stesura dell’Antigone e del Don Garzia.
Di ritorno a Torino, alla fine dell’anno, dove rimase comunque per pochi mesi, tradusse gran parte della Guerra Catilinaria di Sallustio, il suo primo impegnativo lavoro di prosatore, in cui venne provando quelli che saranno i modi caratteristici della sua prosa; verseggiò l’Antigone e la lesse alla «Società Sanpaolina», testé istituita dal conte Bava di S. Paolo. Nel 1777 fece ritorno in Toscana: partì con otto cavalli e un vistoso apparato, forse deciso e render perfetta la condizione, e soprattutto l’immagine, di nobiluomo raffinato e sempre più preso dalla passione delle lettere. Appena giunto a Siena, annotò sul diario: «Da prima voglio comparir bello; poi ricco; poi uomo di spirito; poi autore ed uomo d’ingegno. Sto disponendo le mie batterie per tale effetto». Ma proprio a Siena conobbe quello che sarebbe diventato, come dice Alfieri stesso nella Vita, «amico vero, buono, ingegnoso, disinteressato e caldissimo» il mercante Francesco Gori Gandellini[5]. Questi influenzò notevolmente le scelte letterarie dell’Alfieri, convincendolo ad accostarsi alle opere di Niccolò Machiavelli. Da queste nuove ispirazioni nacquero i trattati Della Tirannide e Del Principe e delle lettere, e le tragedie composte in tale periodo: La congiura de’ Pazzi, l’Agamennone, l’Oreste e la Virginia (che in seguito susciterà l’ammirazione del Monti).
Altro punto importante nella biografia dell’Alfieri è l’incontro che avvenne a Firenze, nell’ottobre dello stesso anno, con la principessa Luisa di Stolberg-Gedern[6], moglie poco felice di Carlo Edoardo Stuart, conte di Albany, pretendente al trono d’Inghilterra, la cui abitazione egli prese a frequentare. Tra i due vi fu un vero e proprio colpo di fulmine e da quel momento essi misero in atto, tra molte difficoltà, una serie copiosa di stratagemmi per poter continuare il loro amore. La sua ennesima relazione con una donna sposata rischiava di finire come le altre se non fosse che lo Stuart, alcolizzato e violento, scoperta la relazione, non si limitò a far scoppiare uno scandalo ma aggredì fisicamente la giovane moglie, per cui ella riuscì con uno stratagemma e con l’avallo del governo granducale ad abbandonare il marito rifugiandosi a Roma presso il convento delle Orsoline.
Frattanto, nel 1778, l’Alfieri, aristocratico ricchissimo, aveva compiuto il noto passo – definito da lui come «disvassallarsi» dalla monarchia assoluta dei Savoia di cui non voleva essere suddito – di donare i propri beni e tutte le proprietà di nobile feudatario alla sorella Giulia, in cambio di una pensione. Un passo che non lo riduceva naturalmente in povertà, ma che aveva senza dubbio molto di strepitoso e di estremo, e a parte le motivazioni di ordine piuttosto pratico addotte nelle lettere e poi nella Vita – come l’esigenza di poter stampare liberamente i propri lavori – implicava in chi lo stava compiendo il senso profondo di rifiuto e di liberazione, insieme personale ed esemplare, dal proprio «nido natio», che non era poi semplicemente l’organismo familiare di origine o il Piemonte sabaudo, ma l’insieme del vecchio ordine contro cui lo scrittore Alfieri veniva intanto svolgendo il suo discorso polemico e liberatorio.
Dopo qualche tempo Alfieri, raggiunse a Roma la Stolberg-Gedern e si recò poi a Napoli, dove terminò la stesura dell’Ottavia ed ebbe modo di iscriversi alla loggia massonica della Vittoria. Ritornato a Roma, si stabilì a Villa Strozzi presso le Terme di Diocleziano, con la Stolberg-Gedern, che nel frattempo aveva ottunuto una dispensa papale, che le aveva permesso di lasciare il monastero di clausura. Nei due anni successivi di soggiorno romano lo scrittore portò a compimento le tragedie Merope e Saul (1782), il suo capolavoro, e venne ricevuto in udienza da papa Pio VI. Nel 1783, Alfieri fu accolto all’Accademia dell’Arcadia col nome di Filacrio Eratrastico e nello stesso anno terminò anche l’Abele. Tra il 1783 e il 1785 pubblicò in tre volumi la prima edizione delle sue tragedie stampate dai tipografi senesi Pazzini e Carli.
Tuttavia, questo periodo di tranquillità era destinato ad avere fine; infatti, allorché il cardinale Enrico Benedetto Stuart, fratello di Carlo Edoardo, scoprì la relazione dello scrittore con la cognata, gli intimò di abbandonare Roma, pena un decreto di espulsione papale che non gli avrebbe più permesso il ritorno. Alfieri, allora, anticipò qualsiasi intervento e si risolse dolorosamente a partire. Con il pretesto di far conoscere le proprie tragedie ai maggiori letterati italiani, intraprese quindi una serie di viaggi. Conobbe Ippolito Pindemonte a Venezia, dove per un periodo frequentò la salottiera Alba Corner Vendramin; incontrò Pietro Verri, suo fratello Alessandro, e Giuseppe Parini a Milano, infine Melchiorre Cesarotti a Padova (giugno 1783). Ma le sue tragedie raccolsero per la maggior parte giudizi negativi. Il Parini gli diede alcuni consigli e gli dedicò dei versi. Successivamente si recò per la terza volta a Londra, per comperare dei cavalli, e passando per Parigi assistette ai primi esperimenti con il pallone areostatico.
Nell’aprile del 1784, la Stolberg-Gedern ottenne la separazione legale dal marito (ma non l’annullamento del matrimonio ) e il permesso di lasciare Roma; si ricongiunse così all’Alfieri ad agosto, nel castello di Martinsbourg a Colmar, in segreto, per salvare le apparenze e la pensione pagata dalla corona di Francia ai parenti degli Stuart in esilio. A Colmar, Alfieri scrisse l’Agide, la Sofonisba e la Mirra.
Alla fine dell’anno furono costretti ad abbandonare l’Alsazia, per via dell’obbligo della principessa di risiedere negli Stati papali; e così la Stolberg-Gedern si sistemò a Bologna e l’Alfieri a Pisa. La già insostenibile situazione fu aggravata dalla morte improvvisa dell’amico Gori, che aveva confortato e sostenuto Alfieri in tutti quegli anni. Sono di quel periodo alcune rime, il Panegirico di Plinio a Traiano e le Note, sorte in polemica risposta verso le critiche negative alle sue tragedie. Inoltre, nel 1785 vennero portate a termine le tragedie Bruto primo e Bruto secondo, e poco dopo Alfieri diede alle stampe la Mirra (dedicata apertamente a Luisa Stolberg-Gedern) ritenuta, assieme al Saul, il suo capolavoro assoluto, opera anticipatrice, come i miti greci a cui si rifà, di tematiche della psicoanalisi.
Nel dicembre del 1786, l’Alfieri e la Stolberg (che sarebbe divenuta vedova due anni dopo), per sfuggire definitivamente all’influenza del cardinale Enrico Benedetto Stuart e del potere papale, si trasferirono a Parigi acquistando due case separate; in questo periodo furono ripubblicate le sue tragedie per opera dei famosi stampatori Didot. Nella capitale francese Alfieri conobbe o vide molti letterati, intellettuali e personaggi importanti del tempo, tra cui alcuni futuri rivoluzionari, e strinse amicizia con il console Filippo Mazzei[7], diplomatico toscano naturalizzato statunitense, e con André Chénier[8].
Nel 1789, Alfieri e la sua compagna furono testimoni oculari dei moti rivoluzionari di Parigi. Gli avvenimenti in un primo tempo fecero comporre al poeta l’ode A Parigi sbastigliato (in occasione della presa della Bastiglia), ode che poi però rinnegò: l’entusiasmo si trasformò in odio verso la rivoluzione e i francesi mai troppo amati, esplicitato nelle rime de Il Misogallo (1793-1795). Ma prima che più aspro e irriducibile si facesse il contrasto col presente e più tormentoso il senso del disinganno, in un momento di equilibrio e relativa serenità egli stese rapidamente dal 3 aprile al 27 maggio 1790 la Vita, quasi a concludere l’opera ormai tutta stampata.
Nel 1791 Alfieri accompagnò la Stolberg in Inghilterra, dove la donna si adoperò per ottenere una pensione dalla corte inglese, essendo ormai più che dubbia quella francese; quindi, attraverso l’Olanda e il Belgio, ritornò in Francia sperando di riprendere fra i suoi manoscritti e i suoi libri il lavoro, per cui aveva steso un preciso programma da attuare ora che riteneva finita la sua stagione poetica. Ma nel 1792, l’arresto del re di Francia avvenuto il 13 agosto, in seguito alle stragi del 10 agosto, convinsero la coppia, ottenuti i passaporti, a lasciare in tutta fretta Parigi[9] per tornare – passando attraverso Belgio, Germania e Svizzera – in Toscana.
Tra il 1792 e il 1796, l’Alfieri, stabilitosi a Palazzo Gianfigliazzi a Firenze, in condizioni economiche precarie dopo l’entrata dei francesi in Piemonte con la campagna d’Italia del generale Napoleone Bonaparte e il blocco della rendita vitalizia piemontese, si immerse totalmente nello studio dei classici greci (dopo aver appreso il greco antico da autodidatta in due anni) traducendo Euripide, Sofocle, Eschilo, Aristofane. Proprio da queste ispirazioni nel 1798 nacque l’ultima tragedia alfieriana: l’Alceste seconda, da lui stesso definita «ultime scintille d’un vulcano presso a spegnersi» e considerata più che altro un approfondimento della sua traduzione Alceste prima. Studiò anche la lingua ebraica sulle traduzioni interlineari della Bibbia. Si appassionò inoltre a recitare le proprie tragedie personalmente, preferendo per sé il ruolo di Saul. Nel 1799 scrisse le ultime Rime («sigillai la lira, e la restituii a chi spettava, con un’Ode sull’andare di Pindaro, che per fare anche un po’ il grecarello intitolai Teleutodìa»).
Tra il 1799 e il 1801, a seguito delle vittorie francesi sul suolo d’Italia l’Alfieri fu costretto a rifugiarsi in una villa presso Montughi, ritornando a Firenze soltanto quando ottenne la rassicurazione di non dover ospitare soldati nel palazzo sull’Arno. Il suo misogallismo gli impedì persino di accettare la nomina a membro dell’Accademia delle Scienze di Torino nel 1801, dopo che il Piemonte era entrato anch’esso in orbita napoleonica; tuttavia non gli impedì di frequentare e di farsi ritrarre dal pittore François-Xavier Fabre[10], esule a Firenze. Frattanto la Stolberg era riuscita a riavere da Napoleone la pensione francese, mentre Alfieri non recuperò più i beni sequestrati in Francia, gli investimenti in titoli di stato francesi e, per diverso tempo, restò sospesa la rendita del Piemonte che veniva dalla famiglia.
Gli ultimi anni di vita, oltre che all’autobiografia e alle traduzioni, l’Alfieri li dedicò alla composizione delle commedie; ne scrisse sei, tutte tra il 1801 e il 1802: L’uno, I pochi, I troppi, L’antidoto, La finestrina e Il divorzio. Si spense improvvisamente a Firenze, nell’ottobre del 1803 e venne sepolto nella basilica di Santa Croce.
Il pensiero e la passione politica
Come scrive giustamente il Binni, l’origine più profonda dell’atteggiamento politico dell’Alfieri è contenuto interamente in questa frase: «Gli uomini tutti per lo piú, e maggiormente i più schiavi (come siam noi), peccano tutti nel poco sentire»[11], cioè «nella concezione della vita come forte sentire e nell’impedimento che l’oppressione politica crea a questa attività prima dell’anima umana. Nessun altro scrittore settecentesco avrebbe cercato una giustificazione simile per una lotta contro la tirannide, nessuna teoria dello Stato avrebbe posto come fine ultimo, come bene sommo degli individui la possibilità del forte sentire, ma piuttosto un equilibrato sviluppo delle virtù e della felicità razionalmente intesa. Tale è dunque il germe romantico che motiva la passione politica dell’Alfieri. Ma certo egli sentì in quella passione l’impiego più immediato della sua forza spirituale, la soddisfazione più libera dell’impaziente volontà di affermarsi, di ribellarsi, di distinguersi nella maniera più violenta. Da questo primo impulso ad un’affermazione di se stesso, della propria anima insofferente ad ogni condizione esterna, da questo torbido ma intenso presentimento di una lotta più profonda tra l’anima e le cose nasce la vocazione alla libertà, in cui si risolve ogni idea, ogni aspirazione, ogni convinzione politica alfieriana»[12].
Come si evince da quanto abbiamo scritto nella linea biografica, la personalità dell’Alfieri è caratterizzata in maniera fortissima dal suo indomabile carattere, dal suo anticonformismo, o – volendo essere più precisi – dalla sua naturale disposizione al conflitto con le convenzioni, con i modi di comportamento e le idee espresse da una umanità mediocre e comune; un carattere altresì attratto ed esaltato dalle grandi passioni, dalle azioni vigorose ed intrepide, da persone superiori per grandezza di sentimenti e di spirito, capaci, con le loro parole di illuminare e di arricchire il mondo. La generale simpatia per l’umanità di un Goldoni, o l’apertura pariniana alle virtù schiette della vitalità più elementare di laboriosi villani o di popolani stretti dal bisogno e dalla miseria, non gli appartengono. Solitario e sprezzante, aperto a poche amicizie e rari affetti, e sempre basati sul riconoscimento di qualità straordinarie nelle persone amate, egli rimane sempre l’«arciaristocratico», come lo definì Goethe, volontarista e di umore malinconico.
S’è già detto come l’incontro con Francesco Gori Gandellini abbia influenzato il pensiero dell’Alfieri. Probabilmente da un lato il Gori, orientato come sembra nel senso di un illuminismo repubblicaneggiante e democratico, nutrito di suggestioni machiavelliche, contribuivano a riproporgli quelle istanze più radicali, di un rinnovamento profondo e decisivo della società contemporanea, che egli aveva potuto assimilare qualche anno prima dai libri dei philosophes più risoluti, e aveva poi in certa misura accantonato, a contatto_con l’intelligenza torinese, aperta ma in genere moderata, e tutto preso com’era dall’infatuazione letteraria e dalla volontà di diventare scrittore. Da un altro la pratica assidua, e in fondo nuova per lui, di un effettivo ambiente borghese, l’esperienza di un concreto modo di essere, sentire e pensare borghesi acuivano certe insofferenze già presenti da tempo nell’inquieto conte nei riguardi del mondo nobiliare, ne facevano emergere l’esigenza di una condizione alternativa, non più o almeno diversamente aristocratica anche se non precisamente borghese, nella quale risultasse praticabile – con plausibilità, con libertà – quel difficile impegno di intellettuale inteso a contribuire alla liberazione del mondo, che gli si veniva intanto definendo con sempre maggiore nettezza. Difficile pronunciarsi, ad un diverso livello, sulle radici psichiche, sul probabile meccanismo nevrotico che spingeva allora Alfieri in una direzione così accentuatamente “redentoristica”. Certo è che in quel periodo egli pone le proprie capacità di scrittura decisamente in funzione di una volontà di discorso politico, o meglio etico‑politico, acremente provocatoria e di aggressiva radicalità. Inoltre, con la cessione dei propri beni alla sorella, svanisce allora la figura di dandy elegantemente appassionato di poesia, per far luogo a questa di “filosofo” preoccupato delle sorti del mondo e dei diritti dell’uomo, e fieramente in lotta, per intanto con la penna, contro chi li conculchi o ne limiti l’affermazione.
La cessione dei propri beni non si configura, dunque, in Alfieri solamente come una bizzarra vicenda, ma come il punto d’arrivo di una maturazione abbastanza coerente, almeno sul piano delle scelte intellettuali. Con essa, e in particolare con gli scritti che immediatamente ne derivavano, Alfieri assume un suo ruolo importante e organico, anche se sul momento isolato, non solo nell’intricato processo, allora appunto in corso, di crisi progressiva dell’ancien regime e di graduale affermazione, in Europa, di una società borghese, ma anche sulla linea di emergenza di quel discorso e impegno “per l’uomo”, che percorre la cultura occidentale trovando un impulso decisivo appunto nelle esperienze più radicali dell’illuminismo. Di qui la presenza attiva del teatro alfieriano nel momento più teso, in Italia, dell’imminente rivoluzione borghese, gli anni di poco successivi al 1796, e, in tempi più recenti, l’assunzione del tutto naturale dello scrittore piemontese nel discorso di resistenza delle élites borghesi al totalitarismo fascista.
Certo, come scrive il Sapegno, sono di ben scarsa rilevanza «gli argomenti addotti dai critici per illustrare i rapporti e le affinità di pensiero fra gli scritti di Voltaire, Montesquieu, di Helvétius, di Rousseau e le operette politiche alfieriane, nelle quali non un pensiero filosofico importa ricercare, sì appunto l’espressione potente di una volontà aspra e ribelle, tesa fino a spezzarsi»[13]. Su un piano ancora intellettuale, del resto, il suo discorso eminentemente puntato sul dover essere, su una fervida ipotesi di liberazione e rigenerazione del mondo, anziché contemperarsi in un’equilibrata, realistica valutazione dei limiti precisi opposti dalla società contemporanea, finiva per approdare, e in sostanza bloccarsi, su un giudizio complessivamente negativo e apocalittico del presente, che Alfieri sempre più avrebbe visto, durante gli anni ottanta e oltre, come una realtà monolitica decaduta e immodificabile, cui contrapporre un passato – il mondo greco e latino – pensato in termini di grandezza, di vitalità, di energia, e un futuro sempre più utopico e improbabile, irraggiungibile.
Due motivi in particolare, che non sembra difficile inserire in questa prospettiva, percorrono ossessivamente l’opera dello scrittore all’altezza degli anni ottanta e novanta: l’idea che all’età presente sia preclusa l’azione, e il mito, per converso, di un’umanità compiutamente, magari ferocemente energica (così fra l’altro gli appariranno, in un breve momento di esaltazione, gli espugnatori della Bastiglia). Si può aggiungere come motivi del genere, variamente configurati – primitivismo, goticismo, un certo neoclassicismo ecc. – risultino abbastanza diffusi nella cultura europea del tempo, specie se orientata in direzione diremo moderato‑pessimistica.
L’Alfieri «non vede una liberazione degli uomini, di tutti gli uomini, come condizione di un progresso di cui esplicitamente non si cura (guardando piuttosto ad un passato perduto o ad un futuro di sentimenti eroici); né si può tutto adeguare a quella moda dei nobili del suo tempo, che affettavano spregiudicatezza, audacia politica per snobismo, per gusto di distinzione mondana, pronti poi a trasformarsi negli emigrati di Coblenza. Certo anche nell’Alfieri un orecchio avvertito sente la spigliatezza dell’aristocratico che azzarda le idee come le carte da gioco, che manca di una esperienza diretta, e per spregiudicato che sia verrà il giorno in cui si ricorderà con orgoglio del proprio sangue. Certo un chiarimento circa le relazioni tra l’Alfieri e la sua nobiltà può contribuire a spiegare il tono risentito dell’ultimo periodo, il rancore contro il regime egualitario francese. Ma fin d’ora insisto sulla lateralità di questo motivo di fronte alla presenza del momento politico nell’anima alfieriana; ché anzi non di momento politico, ma di passione politica dobbiamo parlare per indicare la natura entusiastica, vitale che la politica ebbe per lui. Dato che la sua domanda alla vita esigeva una propria risposta senza indugio, se si presenta l’arte tragica come possibilità di vivere energicamente, eroicamente fuori degli impacci tragici, la politica si presenta come l’atto della liberazione più completa. Se si vuole intravedere la profondità e la eccezionalità di quella passione, la si deve considerare come simbolo di una lotta e liberazione più sostanziale, religiosa, su cui l’Alfieri esplicitamente non arrivò. Ecco perché il fine cui tende il suo atteggiamento politico non appena nato è l’uccisione del tiranno, l’atto del liberarsi, l’affermazione di questa libertà in un gesto eccezionale, passionale che sembra appagare d’un sol colpo tutti i desideri dell’anima eroica»[14].
La privazione dei suoi oggetti, dei sui libri, dei suoi denari e di tutto quanto dovette abbandonare a Parigi, in seguito alla rivoluzione e allo scoppio del Terrore, dette enorme dispiacere e rabbia all’Alfieri, che non si curò minimamente di nascondere queste sue motivazioni personali, facendone l’esempio tangibile della totale mancanza di rispetto del regime rivoluzionario francese verso la libertà dell’individuo, che per lui comprendeva anche la proprietà privata, come bene che rientra nel raggio d’azione della personalità. L’avversione verso la Francia e i francesi, che già era in nuce al tempo dei viaggi giovanili, e più ancora durante il soggiorno a Parigi con la Stolberg-Gedern, diviene ancora più marcata, la critica al regime rivoluzionario aperta e intransigente. Questo negativo giudizio su Francia, francesi (che culmina come s’è detto nel Misogallo) era frutto del suo spirito violento e facile a reagire per contrasto alla realtà bruta, ma anche alla contraddizione tra il suo amore per la libertà e una rivoluzione libertaria condotta da esseri del tutto inadatti ad una vita libera vera.
Gli eccessi del Terrore gli parvero non più come all’inizio della rivoluzione un male inevitabile che accompagna i grandi cambiamenti, bensì come una violenza perpetrata da una rivolta di schiavi che, essendo del tutto carenti del senso stesso della libertà, non sanno e non possono organizzare una società. All’Alfieri tutto divenne odioso e si gettò contro quella nuova tirannide con lo stesso impegno, con la stessa passionalità che aveva profuso contro il dispotismo dell’ancien regime. Trovandosi solo, ma per certi versi accomunato a quei reazionari che desideravano il ritorno dell’assolutismo, gli venne a mancare l’ispirazione più genuina e più pura, così che la nuova lotta assunse un carattere più aspro, più polemico e più pedante, e ciò che prima si manifestava come pura affermazione del tragico, divenne satira, scherno, sorriso beffardo.
« La Rivoluzione francese diventava così il punto di divisione delle sue convinzioni politiche. Di fronte alla Rivoluzione e all’invasione francese gli italiani migliori provarono un naturale imbarazzo tra il loro nazionalismo, ancora vago e generico e ancora attaccato ad una tradizione letteraria e retorica, e l’altezza delle idee che bene o male venivano introdotte con gli eserciti repubblicani. Vi furono quelli che incondizionatamente aderirono e quelli che sperarono nella reale autonomia dei nuovi stati creati in Italia. Alcuni eredi del concetto cosmopolitico dell’illuminismo sentirono che le idee valgono più della patria, altri si infastidirono dell’imposizione e soprattutto dell’adesione servile di molti italiani che tra le nuove e le vecchie invasioni non facevano differenza nessuna, pronti ad acclamare ogni nuovo venuto, a cambiare non le idee, ma i padroni. Ma l’Alfieri visse questo dramma, oltre che con tutti i limiti accennati, con un elemento nuovo che praticamente doveva maturare in alcuni spiriti proprio nel contrasto ad un invasore che offriva da sé l’arma ideale della rivolta proclamando la libertà e il diritto di vivere secondo il proprio volere. L’Alfieri senti la passione nazionale prima ancora che esistesse una coscienza nazionale negli italiani, sentì con vivacità di presente un suo sogno eroico che presupponeva una nazione italiana non ancora esistente. Questo nazionalismo, che si deve naturalmente ben distinguere dalle teorie nazionalistiche di un secolo dopo, nasceva dal suo sforzo di distinguere un popolo vigoroso e veramente corrispondente al suo sogno di libertà da quello francese»[15].
L’Epistolario
L’Epistolario alfieriano non è sicuramente povero, come quello di Parini o Goldoni, ma neppure ricchissimo come quello di Metastasio, di Cesarotti o dei Verri; e ciò è in parte dovuto alla repulsione che il nostro autore aveva verso una epistolografia sovrabbondante, un po’ per le perdite che, in alcuni casi, sono state notevoli. Ciò vale in modo particolare per la probabile distruzione, successiva alla morte della donna, del carteggio con la principessa Luisa di Stolberg-Gedern, che ci avrebbe detto sicuramente moltissimo su questa esperienza così importante nella vita dello scrittore, nonché sul senso di un amore così decisivo e coinvolgente.
In realtà una lettura aperta e non preconcetta delle lettere di Alfieri può riuscire oggi particolarmente utile, pur con tutti i limiti di operazioni del genere, a far ritrovare una traccia della sua vicenda umana e della sua personalità, più concreta, meno astratta e meno condizionata dai diversi miti alfieriani che si sono susseguiti nella nostra cultura otto e novecentesca. «E, d’altra parte, proprio a correggere il pericolo di trasformare il vigoroso volto umano dell’Alfieri in una maschera rigida e scolastica (usata magari, in vecchie pedagogie, in appoggio al culto del volontarismo: “volli, sempre volli, fortissimamente volli”), occorrerà insieme insistere sul fatto che l’energia alfieriana, radice essenziale della sua presenza storica e poetica, non è una forza astratta ed assurda, disumana, ma nasce nella concreta e ricca vita di una personalità forte e complessa, capace di moti umanissimi e sin delicati, pronta ad aprirsi anche a fantasie dolci e a sogni di saggezza e di calma, a malinconie non solo “orribili” ma invece, a volte, soavi e consolatrici»[16].
Noteremo ancora, in via preliminare, come l’Epistolario inizi con il 1767, e incominci a farsi abbastanza nutrito solo all’altezza degli anni ottanta. Specialmente interessanti di questo periodo sono le numerose lettere (il gruppo più bello e più compatto di tutto l’Epistolario) ai senesi Mario Bianchi e a Teresa Regoli Mocenni[17], ai quali Alfieri viene affidando le emozioni e i pensieri più segreti. Altrettanto esemplari sono «le lettere alla madre, tenere e rispettose, con un tono squisito di condiscendenza amorevole che frena qualche desiderio di scatto e di rimprovero sino a fingere, per pietà filiale, un atteggiamento religioso non suo»[18]. Fra il 1783 e il 1785, quando, con la pubblicazione delle prime tragedie, Alfieri incomincia a cercare e coltivare rapporti con l’establishment letterario italiano, notevoli sono anche gli scritti a personalità di vario calibro come Albergati Capacelli, Cesarotti, ecc.
Le Rime
Cominciate a scrivere intorno alla metà degli anni settanta, furono stampate per la prima volta dall’autore nel 1789. Una seconda raccolta, comprendente anche i testi successivi a questa data, sarebbe apparsa postuma. A parte uscivano le cinque odi, composte fra il 1781 e il 1783, che costituiscono quella sorta di poema lirico intitolato globalmente L’America libera, e che si annettono, per consuetudine, al corpus delle Rime.
Di questa parte, certamente non marginale, dell’attività poetica alfieriana la tradizione critica è abbastanza concorde nel rilevare il carattere sottilmente diaristico. Converrà precisare come si tratti in genere (e questo vale soprattutto per i sonetti, che sono la gran parte) di testi strettamente legati a circostanze precise della vita (indicativo fra gli altri quello suggerito da Pisa in un giorno di pioggia), e intesi comunque a svolgere, muovendo da questa o quell’occasione, un discorso in versi in cui una salda trama logico‑riflessiva organizza le emergenze, non di rado enfatizzate, del mondo emozionale e mentale che vi si svela.
Segno dunque, in linea generale, fra i maggiormente interessanti del sempre più insistito investimento che Alfieri viene compiendo, specie durante gli ultimi due decenni di vita, nei confronti del proprio io, o se si preferisce dell’attenzione rivolta in modo sempre più ossessivo a quest’ultimo, le Rime, in cui non si dovranno in ogni caso ricercare quei risultati di “canto” che si trovano, per fare un esempio, nella contemporanea lirica goethiana o, di lì a non molto, in Leopardi, offrono invece un eccellente spiraglio a chi preferisca indugiare su certi temi di fondo dell’animo alfieriano.
Il lettore poi noterà altresì la curiosa durezza e arcaicità del linguaggio medio delle Rime, abbastanza difforme rispetto alla pratica della poesia contemporanea, che appare piuttosto rivolta a soluzioni di nitore armonioso, se pure intenso. A parte altre considerazioni (come la volontà di fondo dell’autore di risultare irto e talvolta urtante, o l’impiego di materiali linguistici, quelli offerti dalla tradizione aulica italiana, forse non perfettamente assimilati), era questo il frutto di un’accanita volontà di ricupero, o meglio di incontro con i massimi modelli trecenteschi, Dante e Petrarca, ripensati e vissuti entro una complessa dimensione insieme umana e stilistica.
Per quanto riguarda il modo in cui l’Alfieri compose solitamente questi testi, va detto che, come è stato scritto, «egli era solito meditare passeggiando, viaggiando o trattenendosi in letto la mattina, e così veniva preparando le sue poesie e componendole mentalmente, in modo da averle abbastanza elaborate prima di metterle per iscritto. Parecchi sonetti, per esempio, hanno nel ms. 13 l’indicazione a cavallo, e certo quella non sarebbe stata una posizione comoda per scrivere: la poesia veniva pensata, formulata, variata e ricorretta a mente, e infine stesa in carta; e questo spiega come spesso anche gli abbozzi non presentino tante correzioni quante ci aspetteremmo»[19].
Il trattato Della tirannide
«La scrisse a ventott’anni, nel 1777, vale a dire nel periodo massimamente creatore del suo cervello, buttandola sulla carta “d’un sol fiato” in stato di delirio, per ispirazione avuta dallo stile “sugoso” del Machiavelli, ed essa vibra tutta come una lama tirannicida, dividendosi in due parti: che cos’è la tirannide, come spegnere la tirannide»[20]. Così scriveva Umberto Calosso in uno dei saggi più freschi e intelligenti scritti sul poeta piemontese. Rilevandone (in anni in cui il diffuso mito primonovecentesco dell’individualità genialmente eroica viene incanalandosi entro precise ragioni di resistenza al fascismo) l’ispirazione specialmente accesa, “delirante”, Calosso faceva comunque propria una linea interpretativa presente in vario modo nella cultura non solo italiana dell’Ottocento, linea di cui offrono una testimonianza assai notevole alcune pagine del 1903 di Eugenio Donadoni, nelle quali, fra l’altro, si osserva che «nell’Alfieri il lievito rivoluzionario non supera la forma primitiva del sentimento. Nella sua corsa vertiginosa egli poco osserva e poco studia: molto soffre, moltissimo sente. Qui è la caratteristica del suo animo. Sente, e non ragiona […] Non solo le opere poetiche, ma anche i trattati, come quello Della tirannide, sono da lui concepiti e abbozzati in pochi momenti di furore. Nessuna calma, nessuna serenità è mai nel suo stile. Scrive con la febbre e tra le convulsioni. Ha poche idee: come gli uomini, in cui non è sviluppata la facoltà razionatrice; ma ardenti, insistenti, monotone, fisse»[21].
In realtà, se è un fatto che il saggio Della Tirannide valeva più di altre opere dell’autore a dar corpo a questa immagine di genialità energica, furente, che si sarebbe costituita fra Otto e Novecento, è anche vero (come forse più e prima di altri ebbe a capire Piero Gobetti[22]) che le non molte pagine di questo che fu il primo intervento, la prima, oggi si direbbe, presa di posizione filosofica (nel senso settecentesco) di Alfieri richiedono di venir comprese e valutate nella loro precisa dimensione appunto filosofica, come testo cioè in cui il giovane, ma non più giovanissimo, intellettuale non solo effondeva, certo, le tensioni di un io in cui potevano “fremere” (come afferma Gobetti) sia il represso ardore di una attività individuale, sia l’impulso cieco all’azione, ma definiva e articolava i risultati di un’esperienza intellettuale tutt’altro che irrilevante. Un’esperienza avviata nel 1769 con la lettura tanto di Plutarco come dei maggiori ideologi contemporanei (Voltaire, Montesquieu, Rousseau, Helvétius), proseguita nel 1773 a contatto con la cultura progressiva torinese, arricchita nello stesso 1777 con la frequentazione degli amici senesi e l’assimilazione, suggerita da questi ultimi, dell’opera di Machiavelli come impulso all’azione in prospettiva decisamente democratica.
Si era venuta così definendo una visione delle cose, che si trova in sostanza al fondo del trattato e che situa Alfieri perfettamente in linea con l’illuminismo più radicale di quegli anni, costituita da una parte di un universo negativo al cui centro si pone appunto la tirannide (con i suoi postulati di corruzione, di decadimento e degradazione rispetto alle potenzialità naturali dell’uomo, di infelicità diffusa ecc.), e da un’altra dell’esigenza imperiosa (non priva di un risvolto irrazionalistico, anche questo abbastanza diffuso nel radicalismo del tempo) di interrompere, rovesciare quella realtà negativa, riaffermando, contro di essa, i diritti della natura e dell’uomo.
«Ma il trattato Della Tirannide non ci interessa solo come documento vivacissimo della passione politica alfieriana nel suo momento più rivoluzionario e impetuoso; esso si presenta ricco di pagine e di spunti importanti per lo studio delle tragedie, illuminanti lo scavo psicologico della figura del tiranno e dei cortigiani, l’atmosfera della reggia, scena della maggior parte delle tragedie. Come si può constatare leggendo il capitolo III del Libro I, Della paura, in cui la dimostrazione del singolare rapporto fra tiranno e sudditi (la paura reciproca) tende nella concitata e potente prosa alfieriana a trasformarsi in immagini suggestive che sembrano viva introduzione al clima delle stesse tragedie»[23].
Scritto, come s’è detto, nel 1777 e – a quanto si legge nella Vita – subito dopo un’intensa lettura di Machiavelli e l’ideazione della tragedia La congiura de’ Pazzi, il trattato sarebbe stato ripreso in mano da Alfieri solo nel 1786, e infine stampato in elegantissima edizione (a Kehl, nella tipografia di Beaumarchais) tra la fine del 1789 e l’inizio del 1790, ma con falsa data del 1809 (il libro non era infatti destinato, per il presente, alla pubblicazione, che avvenne solo, con viva irritazione dell’autore, nel 1801, per iniziativa di un libraio parigino). Nonostante quel che l’Alfieri scrive nella Vita, le differenze fra la redazione del 1777 e la prima edizione di Kehl sono notevoli. Non solo dal punto di vista della scrittura che diviene assai più elaborata, ma nelle stesse prospettive di pensiero, di cui nella redazione definitiva, compiuta nel 1789, risultano in vario modo attenuate la radicalità e la tensione.
Il trattato Del principe e delle lettere
Alfieri ideò questo trattato e ne iniziò la stesura nell’estate del 1778, a Firenze, all’incirca un anno dopo la prima redazione Della tirannide. Fra i due saggi scrisse due tragedie, l’Agamennone e la Virginia, quest’ultima di carattere risolutamente politico‑civile (la più celebre anzi delle cosiddette “tragedie di libertà”). Un rapporto assai stretto lega in effetti i lavori di questo periodo, che segna il momento, per lo scrittore, di un più risoluto radicalismo in direzione progressiva. La tirannide, dunque, o monarchia assoluta è un male, essendo contraria alla natura e ai naturali diritti dell’uomo; come tale, quando se ne sia intesa la negatività irrimediabile, essa va combattuta e annientata; non lontano appare, anzi, un rivolgimento radicale delle cose; il popolo infine, con la sua energia intrinseca, potrà esserne l’effettivo realizzatore. Ma, se alcune nazioni specialmente fortunate – i romani antichi, gli inglesi – hanno avuto ciò che poteva attivare un tale processo di riconoscimento comune del male e quindi di reazione (è il tema della Virginia), come potranno andare le cose al presente, dove regni il dispotismo, in che modo e per virtù di chi potrà effettivamente scattare l’avventura liberatoria?
Qui vengono chiariti per Alfieri il senso e la funzione nuovi dell’intellettuale e, delle “lettere”: «Ma fra noi popoli servi, che non abbiamo tribuni, chi altri mai ci potrà insegnare a conoscere i nostri diritti, a ripigliarcegli, e a difenderli, se ciò gli scrittori non fanno?». Di qui – ed è in genere il trattato Del Principe e delle Lettere – l’esame del come l’intellettuale‑scrittore possa assolvere a questa fondamentale e delicatissima funzione di illuminazione e di stimolo; e per questa via, acquisita preliminarmente l’esigenza di un suo stato non rinunciabile di autonomia, di non compromissione, di “libertà” rispetto al potere, l’aprirsi di un’analisi molto ricca e sottile, di intonazione duramente polemica ma anche di taglio oggi diremmo fenomenologico, dei diversi modi, ed effetti, del rapporto di subordinazione dell’uomo di cultura con chi appunto disponga di un potere assoluto.
Con ciò, è evidente, Alfieri finiva per mettere sotto accusa tutta una generazione di intellettuali (in genere i nati nei primi trent’anni del secolo), che aveva creduto, in buona fede sicuramente, di contribuire al progresso della società e dei lumi, e magari alla “felicità” del genere umano, accettando di collaborare a vari livelli – e avendone talvolta gratificazioni, più spesso amarezze, com’è il caso, e sarà soprattutto durante gli anni ottanta, di Parini e Pietro Verri – con l’assolutismo illuminato. Non era però, questo violento atto di accusa, una rivolta contro l’illuminismo, come spesso frettolosamente si è ritenuto, ma la constatazione (da parte di chi, non si dimentichi, non aveva avuto timore di dialogare con Rousseau, Helvétius e Machiavelli) dell’obiettiva impasse in cui la scelta riformistica era venuta a trovarsi, e insieme un riscoprire, dell’illuminismo, i postulati più radicali di compiuta liberazione dell’uomo.
Si può allora riprendere, in questa prospettiva, l’osservazione del Fubini, per il quale lo storico compito dello scrittore piemontese «sembra essere stato quello di aver presso di noi portato alle ultime conseguenze alcuni, e fra i precipui, motivi dell’illuminismo»[24], e magari anche ricuperare questo rilievo immaginoso del già ricordato Donadoni: «L’Alfieri non è solo. È uno dei molti clerici vagantes dei tempi nuovi, uno dei molti aironi procellari, che preannunziano il nembo»[25]. D’altra parte non c’è dubbio che col trattato Del Principe e delle Lettere Alfieri si pone tra i primi nella nostra cultura ad affrontare il problema del rapporto fra intellettuale e potere, destinato a rilevanza crescente fra Otto e Novecento, e lo affronta con una lucidità così stimolante, nonostante gli evidenti limiti imposti dalla sua condizione e dalla specifica congiuntura storico‑politica.
La virtù sconosciuta
Il lungo periodo trascorso a Martinsbourg, in Alsazia, fu tra i più attivi, sul piano del lavoro letterario, nella vita di Alfieri (e legata a questo acuirsi della tensione intellettuale era certo la recrudescenza dei mali psicosomatici). Come s’è già avuto modo di dire nella linea biografica, appartengono a questo periodo, fra l’altro, la composizione della Mirra, la conclusione del Principe e, subito dopo, la rapida stesura de La virtù sconosciuta (1786), che, rivista, sarebbe poi stata stampata nel 1789 nella tipografia di Kehl, con le altre operette in prosa.
E qualcosa veramente del nevoso inverno alsaziano si direbbe trasfuso in questa sorta di “dialogo dei morti” di ascendenza lucianea, in cui Alfieri con toni insolitamente sommessi (poi enfatizzati e un po’ induriti nella redazione definitiva), presentava se stesso in colloquio con l’ombra, emersa d’improvviso nella notte, dell’amico Francesco Gori, morto a Siena due anni prima. Quale il senso di questa invenzione? Si è già accennato che cosa avesse potuto significare per l’Alfieri ventottenne, nel 1777, l’incontro con questo intellettuale borghese, più anziano di lui di una decina d’anni. Qui, nel dialogo, molto esplicitamente egli definisce l’amico scomparso «la metà, e la migliore, dell’esser mio», e di sé, ormai privo di Francesco, così afferma: «in preda solamente a me stesso in tal guisa rimasto, me stesso invano ricerco, e non trovo». Si può davvero pensare che per l’Alfieri, teso esasperatamente all’affermazione di un dover essere di cui si è rilevata la radicalità per molti aspetti rivoluzionaria, Francesco Gori avesse rappresentato, e ora soprattutto dopo la morte sempre più venisse rappresentando, per un verso una voce fraterna e uno stimolo intellettuale, ma anche qualcosa come la precisa coscienza dei limiti opposti dalla realtà di fatto e insieme, secondo una visione delle cose sottilmente borghese, non aristocratica, della precarietà e dell’assurdo di ogni istanza di magnanimità e di gloria, di «questo umano delirio, che amor di fama si appella».
Così, conforme a quella che fu probabilmente l’intuizione profonda e in certo senso definitiva di Alfieri sul principio del 1786, subito dopo aver portato a termine il secondo trattato e mentre già lavorava all’Agide e alla Mirra, la voce dell’amico riemergeva recando un messaggio assolutamente desolato: ciò che conta è l’azione; essa però nella miseria presente è impensabile, impraticabile, e non rimane, quindi, che l’angoscia dell’inazione. E quale conforto resta forse lo sfogo della scrittura, ma appunto, oltre lo sfogo, solo in funzione dei tempi futuri; e soprattutto l’esercizio della “virtù”, una virtù appartata, nascosta, sconosciuta, in quanto estranea al mondo presente e nutrita del radicarsi profondo, di chi la pratichi, nell’antichità.
Una visione dunque del tutto negativa della realtà contemporanea, o meglio della sua recuperabilità a quelle che erano state le istanze più radicali del pensiero illuministico; la consapevolezza dell’impossibilità di operare in tal senso, agendo, si direbbe oggi, sia all’interno che all’esterno del sistema; il dubbio sull’utilità dello scrivere, sul valore cioè, al limite, dello stesso impegno intellettuale; l’ipotesi di un mondo diverso, “altro”, aperta per ora con equilibrio sia sul futuro che sul passato, o meglio sull’antico; il puntare sulla virtù, come ricerca e insieme esercizio, stoicamente connotati, di autenticità e consistenza della persona, dell’io: questo in sostanza Alfieri fissava, con molta lucidità, nelle poche e limpide pagine del dialogo, che ci appare così testimonianza notevolissima non solo della complessa e tutt’altro che irrazionalmente motivata crisi dell’autore durante gli anni ottanta (crisi che in diverso modo si esprimeva nelle Rime e nelle ultime tragedie), ma più in genere della impasse vissuta a più livelli (si potrà allora ripensare a Parini) dall’intelligenza progressiva nel medesimo periodo. Consapevole probabilmente di questo valore di testimonianza non solo personale, e in qualche misura di intervento etico‑politico, Alfieri non si limitò a stampare l’operetta, come nel caso del Principe e della Tirannide, ma la destinò alla pubblicazione. Converrà però tener presente che era già l’Ottantanove.
Le tragedie
«La più diretta applicazione letteraria e la scelta della missione poetica furono, nell’Alfieri, piuttosto tarde, e più scaturite da un prepotente bisogno interiore che da un’educazione coerente e continua. Infatti, se nel periodo dei viaggi giovanili egli non mancò di letture variamente importanti e di qualche dilettantesco esercizio letterario (come un sonetto piuttosto scorretto del ’71), solo nel periodo torinese fra ’73 e ’75 il giovane aristocratico, che sino allora aveva sfogato la sua naturale irrequietezza e insoddisfazione nelle avventure e nei viaggi, cercò di esprimere certi suoi umori polemici e satirici in un brillante «divertimento» scritto in francese e letto in una piccola adunanza di suoi amici letterati e libertini, l’Esquisse du jugement universel (già significativo per un acre attacco al vuoto mondo nobiliare senza virtù e senza «cuore», e per i suoi atteggiamenti violentemente anticlericali), per poi più genialmente applicarsi ad un diario (i Giornali, scritti per una parte in francese e poi in italiano), che, nella spietata analisi di se stesso e della sua situazione di ozio e di dissipazione, lo condusse a riconoscere nella propria scontentezza, nel vuoto tedioso delle sue giornate occupate da frivoli incontri di società o da furiose cavalcate solitarie, il bisogno di un impiego degno e assoluto della propria eccezionale energia, di una vita diversamente severa, al servizio di un’alta missione, coerente al suo crescente amore per la poesia e all’impulso delle sue idee antitiranniche. Così, durante lo strascico penoso di un’avventura amorosa e durante una malattia dell’odiosamata signora cui lo legava una passione tra frivola e degradante, l’Alfieri si accinse a scrivere la sua prima tragedia, l’Antonio e Cleopatra che, faticosamente e in forme incerte tra enfatiche e languide, tentava la costruzione drammatica degli affetti «che lo divoravano» trasponendo in quella la propria situazione biografica (la liberazione da un amore indegno) e una confusa ansia di grandezza eroica e morale.
Il risultato fu assai scadente (e perciò l’Alfieri ripudiò poi quella che chiamò con disprezzo la Cleopatraccia), ma costituì l’avvio di un’esperienza poetica che già nel ’75 trovava più sicura realizzazione nella ideazione (e poi stesura in prosa e versificazione, secondo il metodo laborioso e complesso sempre da lui successivamente seguito) di due tragedie, il Filippo e il Polinice, già contrassegnate dalla sua violenta e ardua concezione drammatica e dalla voce inconfondibile della sua poesia nel diagramma di un’azione intensa, incalzante verso la catastrofe orrenda e la sua profonda risonanza dolorosa e pessimistica, secondo il fondamentale modulo della tragedia alfieriana mossa da un impeto possente di liberazione e affermazione dei personaggi centrali (nella loro sete di assoluto e tirannico dominio o nella lotta eroica dell’uomo libero contro la tirannia politica o contro le sue stesse passioni invincibili) che nel finale ritrova anche l’ostacolo, il limite contro cui ha strettamente lottato e ne ricava un movimento grandiosamente dolente di infelicità e di pratica, ma eroica sconfitta»[26].
Sul principi del 1783 il poeta stampò a Siena il primo volume delle tragedie, comprendente il Filippo, il Polinice, l’Antigone, e la Virginia (nell’autunno dello stesso anno usci un secondo volume con l’Oreste, l’Agamennone e la Rosmunda, mentre un terzo con l’Ottavia, il Timoleone e la Merope, sarebbe apparso nel 1785), e lo inviò in omaggio a diversi altri scrittori italiani, tra cui Ranieri de’ Calzabigi[27], dal quale ricevette quasi subito una lettera in parte elogiativa e in parte critica, cui l’Alfieri si affrettò a sua volta a dar riscontro con un’ampia risposta che rappresenta il primo scritto teorico del Nostro attorno al proprio lavoro teatrale. La lettera di Calzabigi e questa risposta, così come un analogo scambio di vedute che Alfieri avrebbe avuto due anni più tardi con Cesarotti a proposito del terzo volume, vennero poi stampati nell’edizione definitiva delle tragedie compiuta a Parigi, presso Didot, fra il 1787 e il 1789, edizione che comprendeva, oltre alle opere che si sono indicate, la Maria Stuarda, La congiura de’ Pazzi e il Don Garzia (escluse dall’edizione senese per motivi di opportunità politica), il Saul e le più tarde Agide, Sofonisba, Bruto Primo, Mirra, Bruto Secondo. Si può qui aggiungere, come i tre volumi stampati a Parigi si concludessero con un ampio e dettagliato Parere dell’autore su le presenti tragedie, che insieme alle risposte a Calzabigi e a Cesarotti e a un breve Parere dell’autore sull’arte comica in Italia costituiscono il complesso della meditazione alfieriana, almeno all’altezza degli anni ottanta, sulla propria esperienza teatrale e più in genere sulla situazione del teatro tragico in Italia.
D’altra parte questa inconsueta abbondanza di interventi e delucidazioni intorno al lavoro compiuto o ancora da compiersi, così come la pratica di rivolgersi ai letterati più in vista per averne pareri e censure, e infine l’esercizio continuo e un po’ ossessivo, che si legava a tutto questo, di revisione e di lima compiuto per anni sui testi, dalla stesura iniziale sino alla redazione parigina, nettamente confermano l’impressione che si può ricevere dallo linea autobiografica da cui si è preso l’avvio. L’impressione, s’intende, di una pratica di scrittura teatrale intrapresa e poi anche, almeno ad un certo livello, portata avanti non tanto per esigenze profonde di ordine comunicativo o espressivo, ma (e questo, converrà ripeterlo, specialmente all’inizio) entro una dimensione più superficialmente letteraria, come «fortissimo impegno», appunto, a divenire «autor tragico», come tensione, non priva del resto di stimoli sotterranei, ad affermarsi in un settore ben definito della cultura italiana, affrontando, per questo, precisi problemi tecnico‑operativi e confrontandosi con gli esponenti più autorevoli del gusto letterario contemporaneo. Con, in più, una disposizione al fare artistico, alla invenzione e costruzione di un testo, abbastanza disimpegnata e nutrita di un edonismo sottilmente settecentesco. Basti pensare per questo a come nascano (secondo ciò che si legge nella Vita) le prime tragedie, fra cui un’inconclusa Romeo e Giulietta, a seguito, nel 1776, di una lettura variamente ricettiva di Racine, di Shakespeare, di Seneca, dei tragici greci in versione francese; o la Merope e il Saul, nel 1782, sullo stimolo di un vivido incontro, rispettivamente, con l’omonimo lavoro di Scipione Maffei e con la Bibbia.
In tale prospettiva di bella letteratura praticata con vitalissimo e abbastanza compiaciuto fervore, Alfieri si inseriva molto naturalmente nella situazione di crisi vissuta dal teatro tragico italiano nella seconda metà del Settecento, diviso e in certo senso bloccato, dopo le varie sperimentazioni in direzione classicistica del periodo arcadico‑razionalistico, fra l’ipotesi di un estremo recupero della tradizione classico‑rinascimentale, la cauta verifica di nuovi modelli (Shakespeare, il dramma barocco spagnolo, il dramma flebile, la rappresentazione tragica familiare ecc.) e l’esigenza, che si avverte in genere in misura crescente, di funzionalizzare il testo e lo spazio scenico, o almeno di non sottrarli a un più preciso impegno di ordine politico e civile. Si può dire, molto in sintesi, che dopo un momento iniziale di alacre disponibilità in più direzioni Alfieri sceglieva la via di un classicismo assolutamente non pedantesco (aperto anzi con prudenza agli apporti delle nuove esperienze), e sempre più orientato in senso neoclassico, come rielaborazione di temi greci o romani e soprattutto come ricerca, sul piano sia del linguaggio che dell’organismo compositivo nel suo strutturarsi, di una semplicità sublime, di una naturalezza insieme dignitosa ed energica. E col maturare, intorno al 1777, del suo impegno etico‑politico nella direzione che sappiamo, egli finiva poi per fare di tale ricerca il luogo privilegiato dove esplicare quell’esercizio di una scrittura libera, illuminata e illuminante che veniva intanto teorizzando nel trattato Del Principe e delle lettere. «Io credo fermamente », si legge infatti nella risposta a Calzabigi, «che gli uomini debbano imparare in teatro ad esser liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d’ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei propri diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti, e magnanimi. Tale era il teatro in Atene».
Operando però questa integrazione, è evidente che Alfieri si poneva sostanzialmente al di là, pur senza escluderlo in modo definitivo, di quel bellettrismo, di quel modo cioè autonomo e in qualche misura edonistico (oltre che legato a esigenze di rimedio alla noia di vivere, di autoaffermazione, di fama ecc.), che aveva caratterizzato, al principio, la sua pratica della scrittura teatrale. Due problemi in ogni caso gli si ponevano. Un primo, di come conciliare quest’ultima, in quanto esercizio libero, gratificante di invenzione e di composizione, con il progetto di un teatro utile e consapevolmente partecipe del dibattito politico‑ideologico contemporaneo. Un secondo, di come realizzare in concreto un progetto del genere. Era anzi in fondo un unico problema, nella misura in cui l’esecuzione rigorosa di un teatro di idee non poteva non implicare, se non la rimozione, almeno un attento controllo del momento diremo ludico della scrittura, come libero accoglimento di stimoli emozionali e fantastici e autonomo maneggio di materiali verbali.
Ora la varia vicenda dei tentativi di Alfieri di dar risoluzione a questo problema (oltre il quale non è poi difficile intravedere l’aporia di fondo della letteratura progressiva tardo‑settecentesca, divisa, per dirla con Parini, fra le ragioni dell’«utile» e quelle di un «lusinghevol canto») è un po’ anche, in tale prospettiva, la storia del suo teatro tragico. Che appunto si veniva configurando da una parte come una serie di esperimenti intesi a dar vita a una forma teatrale idonea a proporre un dibattito ideologico‑politico, a stimolare negli spettatori qualcosa come una presa di coscienza, a «educare» e «istruire» (ed erano per esempio la Virginia, la Congiura, il Bruto Primo e il Bruto Secondo); da un’altra, ma la distinzione non era mai così netta, come un prodursi, un rampollare in certo senso, di prove più o del tutto sciolte da preoccupazioni del genere, prove, come il Saul o la Mirra, che si direbbero piuttosto il risultato di uno spontaneo, irriflesso deversarsi, sulla pagina, dell’emozionalità, dello psichismo, dell’immaginario e della creatività dell’autore. Ed erano poi anche, questi ultimi, i testi su cui più volentieri avrebbe indugiato, riconoscendoli come capolavori, la critica più sensibile, già prima di Croce ma soprattutto con e dopo Croce, ai valori di “poesia”.
Secondo un diverso punto di vista, è però anche possibile pensare che nelle tragedie del primo tipo (per tener ferma questa ripartizione ormai canonica) giungesse in prevalenza a definirsi la componente diremo così razionale, la visione ideologico‑politica delle cose che non fu certo ai margini della personalità alfieriana; e in quelle del secondo tipo trovasse voce piuttosto quel molto che ci fu, in tale personalità, di oscuro, non conscio e altrimenti non detto. La chiave di lettura di queste ultime, in quanto specialmente rivelatrici del «profondo», dovrebbe essere allora non troppo dissimile da quella che si può impiegare per alcune delle Rime. Si potrà notare, infine, ed è questa un’impressione che si riceve da una lettura d’insieme delle Tragedie, come pressoché tutte risultino percorse e animate da quella che fu una preoccupazione e insieme un’ossessione centrale nell’Alfieri della maturità: dal mito, diremo semplificando, di un’umanità compiuta e appassionata, tesa, energica nel sentire e nell’agire. Mito nel quale lo scrittore dava corpo, appunto, alle proprie ossessioni e preoccupazioni personali, ma che anche offriva alla contemplazione degli spettatori, con cui stimolava la sensibilità e la coscienza dei contemporanei (o, come poi preferì pensare, dei posteri).
Nel Filippo e nel Polinice Alfieri si affida a due personaggi (Filippo II e il tiranno Eteocle) disumani, mostruosi, che nella sanguinosa rottura dei vincoli familiari trovano la dimensione del loro desiderio esasperato di dominio assoluto, l’attestazione e libertà orrenda della loro individualistica smania di potere. Personaggi crudeli sì, ma ricchi di poesia, molto più di quanto non lo siano i personaggi virtuosi e puri. Ma nelle tragedie successive (Antigone, Agamennone, Oreste) l’azione diviene più articolata e complessa, i personaggi divengono poeticamente più vivi e più ricchi di sfumature, nel loro duro contrasto, nel travagliato dibattersi tra la potenza trascinante di passioni feroci e la cognizione di ciò che è giusto, nella loro incapacità di trovare una pacificazione.
Poeticamente meno felici sono invece da considerarsi le «tragedie di libertà», come l’Alfieri stesso ebbe a definirle, e in modo particolare il Timoleone e la stessa Virginia. Discorso diverso invece va fatto per La congiura de’ Pazzi, che il Fubini definì come «la più fervida e disperata tragedia antitirannica»[28]. Essa non si presenta infatti come un mero sviluppo dato a un empito, a un grido di furia libertaria e antitirannica, ma piuttosto come il risultato di una meditazione, molto sottile e articolata, intorno al modo di configurarsi del potere tirannico (qui ben diversamente rappresentato nelle figure di Giuliano e Lorenzo de’ Medici), alle motivazioni dell’impegno libertario (il realismo prudente e un po’ scettico di Guglielmo, il calcolo di Salviati, la tensione rabbiosa, esasperata, eroica di Raimondo), alle sue effettive possibilità di realizzarsi. Rappresentazione, e analisi, di un’impossibilità, di una non riuscita, di uno scacco risultava infine la tragedia. Dove appare fra l’altro molto indicativa, oltre quanto si è notato, la presenza del popolo: una realtà definita in termini assai vaghi, oggetto di diffidenza e al più di iniziativa oggi diremmo paternalistica da parte dei congiurati, e presentata nel momento conclusivo come incapace di altra scelta, che non sia quella di applaudire al probabile vincitore del conflitto.
Insomma Alfieri, mentre lavorava alla Congiura, definiva e accumulava quelle ragioni di perplessità nei confronti dell’azione libertaria che sarebbero poi sfociate nel discorso risolutamente negativo de La virtù sconosciuta. A una di tali ragioni si può forse ancora ricondurre uno dei personaggi più interessanti della tragedia, Bianca, sorella dei due Medici e sposa del congiurato Raimondo. Figura assai delicata, nella sua situazione conflittuale, e senza dubbio inseribile in quella linea di femminilità tenera che percorre tutto il teatro alfieriano; ma figura anche su cui s’incentra il motivo del contrasto profondo, insanabile, delle ragioni dei semplici affetti, del cuore, della natura insomma, con le istanze ideali che inducono i congiurati all’azione e alla morte.
Inoltre, «proprio in questa tragedia potrebbe meglio osservarsi, in un’analisi del suo stesso linguaggio, come la poesia tragica alfieriana vive, anche nella sua tematica direttamente politica, solo quando questa risuona e vibra di allusioni e significati che vanno al di là dello stretto ambito della passione politica e nella situazione eroica e infelice dell’uomo libero, sottintendono come una più profonda allusione alla sorte alta e misera dell’uomo nel pertinace, ma doloroso e infelice conflitto fra ideale e reale, fra la sua volontà di vita alta e pura e i limiti inesorabili della triste e malvagia realtà»[29].
L’esperienza “scenografica”, la capacità di dar vita a personaggi minori, l’arricchimento dei mezzi tecnici e del linguaggio, si aggregano in maniera compiuta e perfetta nel Saul (di poco successivo alla Merope, quasi scritta “in gara” con l’omonima tragedia del Maffei), che di sicuro (assieme alla Mirra) è il suo capolavoro assoluto. Dopo una serie di tragedie tutto sommato qualitativamente scarse (Ottavia, Maria Stuarda e, appunto, Merope), l’Alfieri, in soli quattro mesi (dal 31 marzo al 30 luglio 1782), concepisce, stende e versifica l’opera, sotto lo stimolo di un’entusiastica lettura della Bibbia, e attratto dalla drammatica narrazione di quell’episodio riguardante il grande re ebraico che, sconvolto e abbandonato alla follia da Dio per la sua disobbedienza (cioè il rifiuto di sterminare lo sconfitto popolo degli Amaleciti e il loro re), ma anche roso dalla gelosia della giovinezza di David, dalla paura della vecchiaia, dall’ossessione del potere, fa uccidere i sacerdoti, fa guerra contro i Filistei e, sconfitto da essi, si uccide.
Ma la grandiosa vicenda del re biblico nella quale Dio, padrone assoluto e giudice implacabile, punisce la disobbedienza ai propri ordini con la sventura e la follia, nel testo alfieriano si riveste di nuova originalità: Saul diviene un personaggio grandioso e tormentato, nel quale il carattere del tiranno ossessionato dalla smania di potenza che lo fa diffidare di tutto e di tutti e lo rende geloso di David, si accompagna all’infelicità della vittima che il Dio terribile ha punito per una atto di nobile generosità. Con il suo suicidio finale il re diviene una sorta di titano che, con una cupezza sconsolata e slanci di una superstite nobiltà di sentimenti, riesce ad affermare ancora la sua dignità di eroe, pur sopra una scia di infamità e crudeli delitti, la sua volontà suprema di liberazione e a ritrovare la propria integrità di uomo – vinto ma non domo – attraverso una rinuncia radicale (un uomo che rifiuta la vita, un padre che rinuncia alla figlia, un re che rinuncia al suo popolo). Nel momento dell’estrema sconfitta, Saul riesce a ergersi impavido di fronte alla morte, non subita, ma cercata e voluta come prova suprema della sua ansia di libertà e di affermazione. Ed in tal modo il suicidio diviene catastrofe e catarsi.
«Saul, tiranno e vittima (vittima della sua stessa tirannide e della tirannide celeste), anima, con la sua gigantesca personalità e con la sua azione convulsa e irrequieta, tutta la tragedia, scuote e tormenta il mondo dei personaggi minori, che sarebbero di per sé disposti ad affetti più consueti e alla fiducia in Dio, e che vengono come travolti dall’azione di Saul, mentre, per contrasto, ne accentuano la solitaria grandezza anche quando cercano di comprenderlo, di assecondarlo o consigliarlo, o con la devozione filiale di Gionata, o con la delicatissima pietà femminile di Micol, o con la fedeltà di Abner tutto preso in una sua concezione mondana di guerriero e nella sua avversione per i sacerdoti e per David, anch’egli generoso verso Saul, ma persuaso della giustizia divina.
Come questa grande tragedia si presenta singolarmente complessa e ricca di motivi e personaggi, così essa si caratterizza per un linguaggio più vario, ora fortemente immaginoso, ora sommesso e delicato (come nelle parlate di Micol), e si svolge e articola – rispetto alle precedenti tragedie – in una linea particolarmente mossa, con rallentamenti e progressioni più sommesse e pausate, con impeti crescenti di estrema potenza, con oscillazioni profonde, con intrecci di toni tutti raccordati con la vita drammatica del personaggio centrale. E l’incalzare dell’azione verso la catastrofe è assecondata da una originalissima attenzione al tempo, all’ora che passa e inesorabilmente segna l’avanzare della tragedia verso il suo esito, fra i colori dell’alba sorgente – allusione di speranze e di fiducia, specie nei dialoghi dei personaggi minori nel primo atto e nel primo apparire di Saul – e il trascolorare della luce della giornata verso la notte fosca, in cui i Filistei assalgono di sorpresa il campo ebraico immerso nel sonno, sconfiggono e uccidono l’esercito avversario e gli stessi figli di Saul (mentre David si allontana secondo l’ordine divino e Micol è trascinata via in salvo da Abner) e si apre il grandioso, rapidissimo, travolgente finale. Allora Saul si ritrova solo, carico di rimorsi, di colpe (come l’inutile uccisione di Achimelech e degli altri sacerdoti momentaneamente creduti, nel suo spirito eccitato, unica causa delle sue sventure), privo di affetti, dolorosamente consapevole della sua pratica sconfitta, e insieme titanicamente proteso, mentre si uccide, a contestare la terribil ira dell’inesorabil Dio e a riaffermare – di fronte ai Filistei che irrompono vittoriosi sulla scena – la sua dignità di re e di uomo eroico»[30].
Terminato il Saul l’Alfieri, in quel fervido periodo trascorso in Alsazia, si dedicò dapprima interamente alle Rime, poi riprese la sua “vocazione” tragica con l’Agide (pubblicata solo nel 1788) e la Sofonisba (pubblicata nel 1789), ma lo schematismo dei personaggi, legati allo stereotipo delle incertezze e assorti in una perenne declamazione, fa sì che entrambe risultino meno riuscite da un punto di vista scenico e poetico, e sicuramente poco amate dai lettori e dagli studiosi.
È con la Mirra – altro capolavoro assoluto – che l’Alfieri ritrova la propria grande vena di autore tragico. L’opera – ideata in Alsazia l’11 ottobre 1784, stesa il 24 e il 28 dicembre dello stesso anno, versificata fra il 7 agosto e l’11 settembre 1786, dopo un lungo intervallo di meditazione – prende spunto da un celebre passo delle Metamorfosi di Ovidio, che racconta dell’amore incestuoso di Mirra per il padre Ciniro, re di Cipro. Per vendetta della dea Venere, Mirra consumerà questo amore (da cui nascerà Adone), e infine fuggirà in Arabia per la vergogna, dove verrà trasformata nell’omonima pianta. Alfieri, però, toglie dalla trama tutti gli elementi fantastici, mitologici e religiosi, lasciando l’amore di Mirra – che non viene consumato – sul piano del puro desiderio: una passione innegabile che anima la protagonista, ma che ella cerca in ogni modo di contenere e di non rivelare. Il dramma viene così trasferito sulla sfera psicologica, senza che mai venga nominata – tranne che nel finale, quando il padre sottopone la fanciulla ad un tempestoso interrogatorio – la colpa che segna la protagonista e che la spingerà al suicidio.
«La Mirra non è, in obbedienza al mito, la rappresentazione di una passione incestuosa; è la tragedia di un amore orrendo e innocente nel medesimo tempo, del sentimento colto in quel suo primo manifestarsi, nell’adolescente, nel suo stato germinale, immenso ancora e indiscriminato, senza nome, violento e pur verecondo, incolpevole e pur trepidante e sbigottito come per l’ansia di una colpa ignota. Se il Saul sottolinea la nota titanica e libertaria dell’individualismo alfieriano, pur contenendo in sé anche il motivo della tristezza e dell’orrore che abitualmente lo accompagna; la Mirra, senza rinunziare alla nota della grandezza, ne sottolinea invece l’elemento dell’angoscia e della colpa. L’erotismo di Mirra, intimamente legato alla sua debolezza, consiste nella tenacia con cui ella lotta fino all’estremo contro se stessa, e soprattutto nella chiarezza con cui riconosce nella sua cieca passione la presenza del peccato, e, come Saul, cerca la redenzione e la libertà nella morte. Senza tuttavia riuscire a trovarla: ché il suo slancio eroico, a differenza di tutte le grandi creature alfieriane, culmina in una suprema sconfitta; ed essa sente di morire empia. Quel che di giovanile è in tutto il mondo poetico del nostro si condensa in questa storia di un’adolescente, cui la vita e la realtà tutta contrasta ed opprime, non più con le forze aspre e violente delle tragedie antitiranniche, sì con quelle bonarie a affettuose, e pur altrettanto intollerabili e invadenti, della norma familiare; ma qui v’è anche la stanchezza precoce dell’uomo, e la sua malinconia maturata dagli anni, e l’oscura coscienza dell’inanità delle sue lotte»[31].
La solitudine in cui Mirra è costretta a vivere la propria indicibile passione, le rende dolorosamente intollerabile tutto quanto la circonda, persino il contesto familiare, che pure è improntato a sensibilità e tenerezza. La sua tormentata coscienza, il conflitto tra passione immonda e umana aspirazione a una vita “normale”, l’impossibilità di trovare ascolto (o conforto) negli altri, l’incapacità di trovare una via di fuga (quale all’inizio era parso il matrimonio con Pereo) non fanno della protagonista un’eroina (nel senso alfieriano del termine), ma ne fanno una povera creatura umana che si dibatte in un contesto più grande di lei e da questo verrà fatalmente travolta e annientata.
Mirra è un personaggio delicatissimo, costruito con estrema sapienza di gradazioni e quasi accarezzato da una luce profonda di simpatia, di pietà, di ammirazione pudica e lontanissima da ogni eccesso di enfasi oratoria. Tutta la vasta gamma di sentimenti e di toni (espansioni di tenerezza, scatti elegiaci e patetici, impeti profondi di energia e di sdegno) che già erano affiorati nel lungo “esercizio di scrittura” che l’Alfieri aveva già affrontatato nelle tragedie precedenti e nelle Rime, viene qui raccolto e utilizzato in funzione di questo nuovo e potente nucleo tragico, nel quale il poeta riesce a condensare il succo più profondo ed intimo delle sue intuizioni sulla tragicità della condizione umana. E accanto a tutto questo si pone un linguaggio assai più ricco di sfumature e di gradazioni liriche sottili, un verso insieme duro e sublime, mai melodioso ma mai sciattamente parlato, che sa legare sinteticamente tutte le diverse spinte tragiche che si fronteggiano, che sa rompere il ritmo e “giocare” con le pause e con i silenzi, che crea quel fortissimo afflato di cupore che aleggia su tutta l’opera.
La Vita
Alfieri scrisse la prima redazione della Vita, abbastanza rapidamente, fra l’aprile e il maggio del 1790, all’età, precoce nel caso di un’autobiografia, di quarantun anni. Non si sentiva però affatto, fisicamente, vicino a morire, anzi l’idea era di riprendere in mano il testo quando si fosse trovato «presso agli anni sessanta». Il manoscritto veniva però già dissuggellato nel 1798, e da allora Alfieri avrebbe ricominciato a lavorarci su, emendandolo e portandolo sino al maggio del 1803, allorché decideva di por fine all’opera. Secondo questa stesura definitiva, la Vita appariva, postuma, tre anni dopo, presso l’editore fiorentino Piatti, ma con falsa data di Londra 1804.
Un tale libro, che al suo apparire destò vasta e profonda impressione nella cultura non solo italiana e che da molti è stato considerato come l’effettivo capolavoro di Alfieri, si può probabilmente intendere nella sua complessa verità solo quando si tenga conto del particolare momento in cui fu pensato e inizialmente scritto. Gli anni ottanta, si è già notato più volte nelle pagine che precedono, avevano rappresentato per lo scrittore piemontese una stagione di crisi protratta e strisciante: discorrendo delle lettere, dei versi lirici, del dialogo in memoria dell’amico Gori, delle tragedie, se ne sono variamente indicati le ragioni e i modi. Nell’estate del 1789 tuttavia i primi sviluppi della Rivoluzione e in particolare, in luglio, il fatto della Bastiglia sembrano scuotere d’improvviso Alfieri dal suo pessimismo, dalla sfiducia nel presente. I concitatissimi versi dell’ode Parigi sbastigliato, composta a caldo fra il 17 e il 21 luglio, parlano molto chiaro sul senso di questa reazione. Nello «spettacol sublime » del popolo che fieramente dava l’assalto al carcere parigino, il deluso intellettuale che per i posteri proprio allora stava stampando i suoi scritti libertari credeva di veder realizzarsi, imprevedibilmente, prodigiosamente, quella condizione di vitalità energica, di naturalità ritrovata nel suo potenziale liberatorio, che a lungo egli aveva vagheggiato nel mondo antico e restituito in tante tragedie. Questa impressione (o valutazione appassionata dei fatti) era però di breve durata e, come si legge in una delle ultime pagine della Vita secondo la prima redazione, i successivi concreti sviluppi del processo politico in corso finivano per confermare Alfieri, e questa volta in modo irreversibile, nell’idea di un’assoluta impraticabilità e nequizia dei tempi presenti. Definitivamente egli entrava nella «cruda stagione dei disinganni».
Al rifiuto radicale delle cose, del mondo, della storia, che Alfieri viene allora compiendo con strepitosa risolutezza, corrisponde nello scrittore un investimento non meno deciso e definitiva dell’io. Quell’io nei cui confronti già si erano registrate vistose oscillazioni nella lirica degli anni precedenti, ma che ora diviene oggetto di una complessa operazione di recupero, attraverso la memoria, e di un recupero che finiva per toccare quelle, diremo così, potenzialità personali (la tensione alla vita, l’energismo erompente e a suo modo selvaggio, la voglia di libertà ecc.), che la realtà contemporanea avrebbe compresso in modo irrimediabile. Nasceva così, si può pensare, la prima idea della Vita, che non a caso molto lucidamente l’autore dice dettata dall’«amore di sé stesso» (una formula da prendersi, appunto, in senso non ovvio), e che si veniva configurando, specie nella redazione del 1790, essenzialmente nei termini della costruzione, o meglio ricostruzione di un io fissato, contemplato, celebrato entro le coordinate di un tempo di adolescenza‑giovinezza straordinariamente vitale, appassionato, e in situazione di continuo conflitto con le cose esterne, e in particolare con una società che inclina a limitare, disperdere, annullare le tensioni comunque buone, benefiche della natura.
Straordinariamente, si diceva, ma anche esemplarmente. Se infatti è probabile da un lato che questa complessa operazione insinuasse le sue radici in profondo nello psichismo di Alfieri (come ricerca, magari inconsapevole, di un luogo residuo di consistenza personale di fronte alle erosioni del processo storico; o, si può anche pensare, come risultante e segno di un contegno di definitivo disinvestimento della realtà); non si può d’altro canto neppure escludere che in tale celebrazione di un proprio mito personale lo scrittore finisse per dar voce, a suo modo, e si vorrebbe qui dire un’ultima voce, celebrativa appunto ed elegiaca, a quel nucleo di valori di cui si era nutrito – con lui – il radicalismo illuministico nel periodo prerivoluzionario.
In tale prospettiva si concorda allora col Portinari[32], il quale osserva che «la Vita è un tipo modernissimo di autobiografìa, dove non contano tanto gli accadimenti e la cronaca – già nelle intenzioni dell’autore – quanto invece il tessuto ideologico che ne risulta o quanto meno la figura ideale – fatta di idee cioè – che l’autore presenta per sé»; e avvicinandola per questo riguardo alla Vita di Giambattista Vico, aggiunge che l’autobiografìa di Alfieri «sarebbe davvero un testo quasi inutile nella dimensione del memoriale o del documento storico, della storia di un tempo, lontanissimo com’è dal gusto e dal piacere narrativo, curioso e movimentato, dei Mémoires goldoniani, pullulanti di personaggi e di episodi […] o dallo spento polemismo delle Memorie inutili di Carlo Gozzi, per citare due autori di teatro suoi contemporanei ».
La stesura definitiva del maggio 1803, che corrisponde al testo della Vita quale fu stampato poco dopo e che, sino all’edizione critica apparsa nel 1951, è stato ed è mediamente tuttora il solo testo della Vita presente alla nostra tradizione, non si limitava ad apportare, rispetto alla redazione del 1790, una semplice integrazione di ordine cronologico. Sulle pagine scritte durante la Rivoluzione Alfieri interveniva, dopo il 1798, sia con complessi ritocchi di natura propriamente stilistica, attenuando la linea di «naturalezza e trivialità» cui all’inizio aveva scelto di attenersi, sia con modifiche di ben maggiore portata, intese verisimilmente a dare al futuro lettore un’immagine di sé un po’ diversa da quella che si sarebbe potuto ricavare dal testo del 1790. Così, nel punto in cui si ricordano le letture compiute a vent’anni, il «mi lasciò profondissima impressione», riferito a L’esprit di Helvétius, faceva luogo a un «mi fece anche una profonda, ma sgradevole impressione»; ovvero spariva, nell’ultima redazione, la paginetta in cui, nel maggio del 1790, Alfieri aveva cercato di chiarire il proprio interesse per i fatti della Bastiglia.
Le ultime opere
Attorno al 1790 inizia l’ultimo periodo alfieriano, ma è fin dal 1788 che ricorrono gli indizi di un progetto di commedie da scrivere. Esso però prenderà vita soltanto nel 1800 con un primo abbozzo degli schemi e dei personaggi che verranno scritte in prosa nel 1801 e verseggiate nel 1802. Il lavoro di correzione e di ricopiatura impegno l’Alfieri fino a pochi giorni prima della morte e restò incompiuto il terzo atto de La Finestrina. Come si può ben vedere quest’ultimo periodo dell’esistenza alfieriana fu caratterizzato da un’attività piuttosto intensa, confacente alla capacità di lavoro inesauribile che lo scrittore aveva sempre dimostrato. Ma a parte l’esito della Vita, in cui si corona, per così dire, un personaggio d’eccezione, non si può certo sostenere che, da un punto di vista squisitamente artistico, si tratti di un periodo felice.
Prima delle commedie, comunque, fra il 1795 e il 1797 l’Alfieri compose anche diciassette Satire che esprimono un’indignatio congeniale allo scrittore, tanto più nei panni del moralista che osserva i mali della fine del secolo scossa da quel teatro di sangue che fu la Rivoluzione francese. A questo epilogo della cultura dei Lumi Alfieri guarda da una prospettiva scopertamente “antifrancese” che colpisce in primo luogo la lezione dei philosophes e soprattutto di Voltaire, giudicato senza appello come l’artefice della corruzione del pensiero sfociata nella Rivoluzione. L’ostilità contro i nobili di corte (I re e I grandi, dove lo scrittore distingue tra nobili cortigiani e nobili autentici, mettendo in caricatura solamente i primi), l’intolleranza della borghesia e della plebe (nella terza e quarta satira, intitolate La plebe e La sesquiplebe, cioè la borghesia degli arricchiti, dei parvenus), la condanna dei falsi miti dell’Illuminismo, sono gli umori solitari che – accompagnandosi al pessimismo e alla visione reazionaria, divenuti qui flagranti – attraversano l’aggressività verbale della maggior parte delle Satire. E in controluce agisce prepotentemente, non solo nella tonalità e nelle cadenze dello stile, la lezione di Dante, severo nel denunciare i mali dell’età sua e libero nell’esprimerli.
Non è così il Misogallo, «un’operuccia, nata a pezzi, ed a caso», come scrisse lo stesso Alfieri, «un mostruoso aggregato d’intarsiature diverse», di epigrammi che il Foscolo giudicò scritti «piuttosto con dispettosa stizza che con vivace acutezza». L’opera si compone di cinque prose polemicissime, piene di sarcasmo e di odio (non solo nei confronti dei nuovi governanti francesi ma nei confronti di tutto quel popolo), e poi di un’ode, di 46 sonetti e 63 epigrammi. La Rivoluzione e il popolo francese subiscono qui la più acrimoniosa e iperbolica delle condanne. Dei francesi scrive che sono «ventitré milioni di pidocchi», sono «fantaccini dianzi incipriati», adesso «fetenti insanguinati». Messo davanti alla violenza rivoluzionaria, Alfieri si scopre legittimista e reazionario. Nel trattato Della tirannide, aveva scritto che la rivoluzione non si fa senza violenza. Ma questa era una verità imparata sui libri. Quella che lo scrittore vede a Parigi dopo la rivoluzione, quando ha ormai più di quarant’anni, è la pratica, non la teoria, ed è una pratica che gronda sangue. Alfieri vede i massacri, le decapitazioni, le cacce all’uomo per le vie della città. E quando rocambolescamente riesce a fuggire da Parigi e a tornare in Italia, si risparmia di vedere il peggio: il Terrore del 1793, l’esecuzione del re, la repressione della resistenza anti-repubblicana nella regione della Vandea. Il tiranno che Alfieri ha sempre combattuto ha cambiato faccia: ora sono coloro che, con il pretesto di abbattere la tirannide del re, hanno instaurato un regime di governo infinitamente più ingiusto e barbaro. «Ma quel che più importa per noi Italiani nel Misogallo è che, per polarizzazione, l’odio alla Francia riaccende nell’A. l’amore all’Italia; e l’antitesi sentimentale (che si manifesta perfino in alcuni sonetti esaltanti la dolcezza della lingua italiana e vituperanti le nasali cacofonie francesi) dà luogo a un’antitesi storico-politica, per cui assurge al principio che l’Italia non potrà esser grande che distaccandosi dalla Francia e volgendosi contro questa naturale nemica della sua grandezza; e nell’ultimo sonetto accarezza l’immagine di un’Italia risorta, armata d’armi proprie, in campo contro la nemica, riconoscente a lui come a suo vate»[33].
Per parte loro le commedie, da momento della progettazione al momento operativo, nascono durante un passaggio a tempi più quieti, in un’Europa quasi pacificata e che sembra avviarsi e che sembra avviarsi verso un assetto politico più stabile. Diremo subito che quattro di esse costituiscono una sorta di tetralogia politica: L’uno, condanna l’assolutismo monarchico; I pochi, condanna l’oligarchia; I troppi, condanna la democrazia; mentre Tre veleni rimesta, avrai l’antidoto (o più semplicemente L’antidoto), propone – attraverso un’allegoria dalla sviluppo abbastanza artificioso – il ritorno all’ideale di una monarchia costituzionale.
Ne la finestrina, l’Alfieri esprime la convinzione che anche gli uomini più grandi hanno sentimenti meschini. «La conclusione si è che non bisogna troppo indagare sulle riposte intenzioni degli uomini, e contentarsi di stimare chi effettivamente ha operato il bene. È un malinconico adattamento a quel che di fatto è la vita, dal punto di vista di una morale pratica, rassegnata a rimaner lontana dal puro ideale; ma non vuol essere un’amara affermazione misantropica e pessimistica»[34]. Il divorzio, infine, ci propone la storia di una ragazza che rifiuta di sposare il suo giovane pretendente per un anziano signore che le assicura una vita agiata, e satireggia principalmente l’usanza dei cavalieri serventi, diritto della sposa ufficialmente riconosciuto nei contratti matrimoniali; il titolo della commedia sta quindi a significare che simili matrimoni non possono essere duraturi. Nella Vita l’Alfieri di tale commedia scrisse: «nell’andamento moderno di tutte le commedie che si vanno facendo, e delle quali se ne può far a dozzine imbrattando il pennello nello sterco che si ha giornalmente sotto gli occhi».
***NOTE AL TESTO***
[1] Fu battezzato col nome dell’avo materno Vittorio Amedeo.
[2] Alain-René Lesage o Le Sage (Sarzeau, 1668 – Boulogne-sur-Mer, 1747), romanziere e commediografo francese, nei romanzi Le Diable boiteux (Il diavolo zoppo, 1707) e Histoire de Gil Blas de Santillane (Storia di Gil Blas di Santillana, 1715-1735) dipinse con vivace realismo la società del tempo. Tra le commedie vanno ricordate Crispin rival de son maître (Crispino rivale del suo padrone) del 1707 e Turcaret del 1708.
[3] Antoine François Prévost, più noto con il nome di abbé Prévost (Hesdin, 1697 – Chantilly, 1763), scrittore, storico e traduttore francese, scrisse oltre cento libri di erudizione e di narrativa. Nel VII tomo delle Mémoires et aventures d’un homme de qualité (Memorie ed avventure di un uomo di nobile condizione, 1728-1731) contiene l’Histoire du chevalier des Grieux et de Manon Lescaut (Storia del cavalier des Grieux e di Manon Lescaut), forse basata su una sua avventura personale e che il Parlamento di Parigi condannerà alle fiamme, che è un vero capolavoro della narrativa psicologica e sentimentale, tanto che ispirò Massenet e Puccini.
[4] Michel Eyquem de Montaigne (Bordeaux, 1533 – Saint-Michel-de-Montaigne, 1592), filosofo, scrittore e politico francese, noto anche come aforista, è tra i filosofi più celebri del Rinascimento francese; la sua produzione è caratterizzata dalla fusione di aneddoti casuali e della propria autobiografia con riflessioni intellettuali.
[5] Francesco Gori Gandellini (Siena, 1738 – Siena, 1784), appassionato collezionista di stampe, fu autore delle ampie e informate Notizie istoriche degl’intagliatori in rame, pubblicate postume in tre volumi a Siena nel 1771, per interessamento dei figli.
[6] Luisa di Stolberg-Gedern (Mons, 1752 – Firenze, 1824), intellettuale di origine tedesca attiva nei salotti romani, fiorentini e parigini, era la figlia maggiore del principe Gustavo Adolfo di Stolberg-Gedern e di sua moglie, la principessa Elisabetta di Hornes, figlia di Massimiliano Emanuele, principe di Hornes.
[7] Filippo Mazzei (Poggio a Caiano, 1730 – Pisa, 1816), medico, filosofo e saggista italiano, partecipò attivamente alla guerra d’indipendenza americana come agente mediatore all’acquisto di armi per la Virginia, ed è ritenuto dagli storici uno dei padri della Dichiarazione d’Indipendenza americana.
[8] André Marie de Chénier (Costantinopoli, 1762 – Parigi, 1794), poeta francese, esponente del neoclassicismo e del preromanticismo, nel cosiddetto “ellenismo francese”, politicamente monarchico costituzionalista e membro del Club dei Foglianti, venne giustiziato a 31 anni sulla ghigliottina durante la Rivoluzione francese. È considerato l’unico poeta di vera grandezza del Settecento francese.
[9] Infatti era stato emanato un ordine d’arresto per la principessa, in quanto nobile e straniera, ma non per Alfieri; anticipando la partenza da Parigi il 12 e forzando i posti di blocco, Alfieri e la compagna si salvarono dai gendarmi venuti per eseguire il mandato, che saccheggiarono la loro abitazione. In questo modo sfuggirono probabilmente ai massacri di settembre e al regime del Terrore era stato emanato un ordine d’arresto per la contessa, in quanto nobile e straniera, ma non per Alfieri; anticipando la partenza da Parigi il 12 e forzando i posti di blocco, Alfieri e la compagna si salvarono dai gendarmi venuti per eseguire il mandato, che saccheggiarono la loro abitazione e sequestrarono tutti i loro beni compresi libri, manoscritti, mobili, effetti personali e la maggioranza del denaro, investito in titoli di stato della corona e svalutato dall’assegnato. In questo modo, però, sfuggirono probabilmente ai massacri di settembre e al regime del Terrore.
[10] François-Xavier Fabre (Montpellier, 1766 – Montpellier, 1837), pittore e collezionista d’arte francese, è famoso per essere stato il ritrattista dei poeti Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo e dello scultore Antonio Canova.
[11] Alfieri Vittorio, Del Principe e delle lettere, Libro II, cap. VII; in Scritti politici e morali, I, ed. P. Cazzani, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, pag. 170.
[12] Binni Walter, Alfieri (scritti 1938-1963), in Opere Complete Di Walter Binni, 8, Il Ponte Editore, 2017, pag. 33.
[13] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 499.
[14] Binni Walter, Alfieri (scritti 1938-1963), in Opere Complete Di Walter Binni, 8, Il Ponte Editore, 2017, pag. 33-34.
[15] Binni Walter, Alfieri (scritti 1938-1963), in Opere Complete Di Walter Binni, 8, Il Ponte Editore, 2017, pag. 53-54.
[16] Binni Walter, Alfieri (Scritti 1969-1994), in Opere Complete Di Walter Binni, 9, Il Ponte Editore, 2017, pag. 34
[17] Teresa Regoli Mocenni (Siena 1757 – 1802), fu l’animatrice di un salotto frequentato da alcune figure di spicco della rinascita culturale senese degli anni di Pietro Leopoldo e da quanti soggiornavano a Siena.
[18] Binni Walter, ibidem, pag. 36.
[19] Maggini Francesco, Introduzione, in Vittorio Alfieri, Rime, Casa d’Alfieri, Asti, 1954, p. XII.
[20] Calosso Umberto, L’anarchia di Vittorio Alfieri, Laterza, Bari 1924, pag. 49.
[21] Donadoni Eugenio, Scritti e discorsi letterari, Sansoni, Firenze 1921, pag. 157-163.
[22] Gobetti Piero, La filosofia politica di Vittorio Alfieri, Gobetti, Torino, 1923
[23] Binni Walter, ibidem, pag.87.
[24] Fubini Mario, Vittorio Alfieri e la crisi dell’illuminismo, ora in Ritratto dell’Alfieri e altri studi alfieriani, La Nuova Italia, Firenze, 1963, pag. 40.
[25] Donadoni Eugenio, ibidem, pag. 161.
[26] Binni Walter, Soria della letteratura italiana – II. Dal Settecento al Novecento, in Opere Complete Di Walter Binni, 20, Il Ponte Editore, 2017, pag. 104‑105.
[27] Ranieri Simone Francesco Maria de’ Calzabigi (Livorno, 1714 – Napoli, 1795), letterato toscano che si era specialmente affermato durante gli anni sessanta per i suoi tentativi di riforma del melodramma postmetastasiano e che poteva allora ritenersi, nella cultura italiana, uno fra i maggiori esperti di cose teatrali.
[28] Fubini Mario, ALFIERI, Vittorio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 2, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1960.
[29] Binni Walter, ibidem, pag. 107.
[30] Binni Walter, ibidem, pag. 109.
[31] Sapegno Natalino, ibidem, pag. 514‑515.
[32] Portinari Folco, «Per forza di struttura» dopo una lettura della Vita di Vittorio Alfieri, in Sigma, 1968, n. 17, pag. 3‑38.
[33] Porena Manfredi, ALFIERI, Vittorio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1929.
[34] Porena Manfredi, ibidem.
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