IL CRITICO COME ARTISTA
Con alcune considerazioni sopra l’importanza del discutere tutto
traduzione italiana
di
MARCO M. G. MICHELINI
DIALOGO. Parte II
Personaggi: Gli stessi
Scena: La stessa
***
ERNEST. Gli ortolani erano squisiti, e lo Chambertin perfetto. Ed ora, torniamo al punto in questione.
GILBERT. Ah! Non facciamolo. La conversazione dovrebbe toccare tutto, ma dovrebbe concentrarsi su niente. Parliamo dell’Indignazione morale, la sua causa e la sua cura, che è un tema sul quale penso di scrivere; oppure della Sopravvivenza di Tersite, com’è presentata dai giornali umoristici inglesi; o di qualsiasi argomento possa venir fuori.
ERNEST. No; voglio discutere del critico e della critica. Tu mi hai detto che la critica più alta si occupa dell’arte, non in quanto espressiva, ma puramente come impressione, e che di conseguenza è sia creativa che indipendente, anzi, che è di per se stessa un’arte, avendo con l’opera creativa lo stesso rapporto che questa ha con il mondo visibile della forma e del colore, o con il mondo invisibile della passione e del pensiero. Ebbene, adesso dimmi, il critico non sarà talvolta un vero interprete?
GILBERT. Sì; il critico sarà un interprete, se vorrà esserlo. Egli può passare dalla sua impressione sintetica dell’opera d’arte presa nel suo insieme, ad un’analisi o esposizione dell’opera stessa, e in questa sfera inferiore, come io la ritengo, vi sono molte cose deliziose che si possono dire e fare. Oltretutto il suo obiettivo non sarà sempre quello di spiegare l’opera d’arte. Egli può cercare piuttosto di addentrarsi nel mistero dell’opera d’arte, di suscitare attorno ad essa, e attorno al suo creatore, quella bruma di religioso stupore, che è cara agli dèi come ai fedeli. La gente comune è «terribilmente a suo agio a Sion». Propone di passeggiare a braccetto con i poeti, e dice in modo disinvolto e ignorante, «perché dovremmo leggere ciò che si scrive su Shakespeare e Milton? Possiamo leggere i drammi e i poemi. Tanto basta». Ma apprezzare Milton è, come il defunto rettore di Lincoln osservò una volta, il premio di una cultura completa. E colui che desidera comprendere Shakespeare veramente deve comprendere i rapporti che egli ebbe con il Rinascimento e la Riforma, l’epoca di Elisabetta e l’epoca di Giacomo; deve avere familiarità con la storia della lotta per la preminenza tra le vecchie forme classiche e il nuovo spirito romantico, tra la scuola di Sidney[1], di Daniel[2], e di Johnson[3], e la scuola di Marlowe[4] e del più grande figlio di Marlowe[5]; deve conoscere i materiali che ebbe a disposizione Shakespeare, e il metodo con cui li usò, e le condizioni delle rappresentazioni teatrali nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, i loro limiti e le loro occasioni di libertà, e la critica letteraria ai tempi di Shakespeare, i suoi scopi, i modi e i canoni; deve studiare la lingua inglese nella sua evoluzione, nel blank verse o nel verso sciolto nei suoi vari sviluppi; deve studiare il dramma greco, e la connessione tra l’arte del creatore di Agamennone e l’arte del creatore di Macbeth; in una parola, deve essere in grado di collegare la Londra elisabettiana all’Atene di Pericle, e di apprendere la vera posizione di Shakespeare nella storia del dramma europeo e del dramma mondiale. Il critico sarà certamente un interprete, ma non tratterà l’arte come una Sfinge che propone enigmi, il cui facile segreto può essere indovinato e rivelato da uno con i piedi feriti e che non conosce il proprio nome. Piuttosto, egli guarderà all’arte come ad una dea il cui mistero è suo compito intensificare, e la cui maestà è suo privilegio rendere più meravigliosa agli occhi degli uomini.
E qui, Ernest, avviene questa cosa singolare. Il critico sarà veramente un interprete, ma non lo sarà nel senso di uno che ripete semplicemente in un’altra forma un messaggio che gli è stato posto fra le labbra affinché lo dica. Poiché, appunto come solo dal contatto con l’arte di paesi stranieri, l’arte di un paese acquista quella vita individuale e separata che noi chiamiamo nazionalità, così, per una curiosa inversione, è solo con l’intensificazione della propria personalità il criticò può interpretare la personalità e l’opera degli altri, e più la sua personalità entra con forza nell’interpretazione, più reale diviene tale interpretazione, più soddisfacente, più convincente, più vera.
ERNEST. Avrei detto che la personalità fosse un elemento di disturbo.
GILBERT. No; è un elemento di rivelazione. Se vuoi comprendere gli altri, devi intensificare il tuo individualismo.
ERNEST. E qual è allora il risultato?
GILBERT. Te lo dirò, e forse posso dirtelo con un esempio concreto. A me pare che, mentre il critico letterario occupa senza dubbio il primo posto, avendo il campo più vasto, e una visione più larga, e un materiale più nobile, ognuna delle arti ha un critico, per così dire, a lei assegnato. L’attore è un critico del dramma. Egli mostra l’opera del poeta in condizioni nuove e attraverso un metodo suo personale. Egli prende la parola scritta e l’azione, ed il gesto e la voce divengono i mezzi della rivelazione. Il cantante, o il suonatore di liuto e viola, è il critico della musica. L’incisore di un quadro toglie alla pittura i suoi bei colori, ma ci mostra, con l’uso di un nuovo materiale, la sua vera qualità cromatica, i suoi toni e valori, e i rapporti delle sue masse, e così ne è, a suo modo, un critico, perché il critico è colui che ci mostra un’opera d’arte in una forma diversa da quella dell’opera stessa, e l’impiego di un nuovo materiale è un elemento sia critico che creativo. Anche la scultura, ha il suo critico, che può essere sia l’intagliatore di una gemma, come ai tempi dei greci, o un pittore come Mantegna, che cercò di riprodurre su tela la bellezza della linea plastica e la sinfonica dignità del bassorilievo processionale. E nel caso di tutti questi critici d’arte creativi è evidente che la personalità è un elemento assolutamente essenziale per qualsiasi vera interpretazione. Quando Rubinstein ci suona la Sonata appassionata di Beethoven, egli non ci offre soltanto Beethoven, ma anche se stesso, e così ci offre Beethoven in assoluto – Beethoven reinterpretato da una ricca natura artistica, e per noi reso vivido e meraviglioso da una nuova e intensa personalità. Quando un grande attore recita Shakespeare noi abbiamo la stessa esperienza. La sua individualità diviene una parte vitale dell’interpretazione. La gente talvolta dice che gli attori ci danno i loro Amleto e non quello di Shakespeare; e questo errore – perché è un errore – viene, mi spiace dirlo, ripetuto da quello scrittore incantevole e pieno di grazia che ha ultimamente abbandonato il tumulto della letteratura per la pace della House of Commons, cioè l’autore di Obiter dicta[6]. Di fatto, non esiste un Amleto di Shakespeare. Se Amleto possiede qualcosa della precisione di un’opera d’Arte, possiede anche tutta l’oscurità che appartiene alla vita. Vi sono tanti Amleto quante sono le malinconie.
ERNEST. Tanti Amleto quante sono le malinconie?
GILBERT. Sì: e come l’arte scaturisce dalla personalità, così solo a una personalità essa può essere rivelata, e dall’incontro delle due nasce la critica interpretativa.
ERNEST. Il critico, allora, considerato come interprete, non dà meno di quel che riceve, e presta tanto quanto prende a prestito?
GILBERT. Egli ci mostrerà sempre l’opera d’arte in un qualche nuovo rapporto con la nostra epoca. Ci ricorderà sempre che le grandi opere d’arte sono cose vive – che sono, in realtà, le sole cose vive. Ed egli, di fatto, sentirà questo a tal punto che, ne sono certo, man mano che la civiltà progredisce e noi diventiamo più altamente organizzati, gli spiriti eletti di ogni epoca, gli spiriti colti e critici, perderanno sempre più interesse verso la vita attuale, e cercheranno di ricavare le loro impressioni quasi interamente da ciò che l’arte ha toccato. Perché la vita è tremendamente carente nella forma. Le sue catastrofi avvengono in modo sbagliato e alle persone sbagliate. V’è un errore grottesco nelle sue commedie, e le sue tragedie sembrano culminare nella farsa. Si rimane sempre feriti quando ci avviciniamo alla vita. Le cose durano troppo, o troppo poco.
ERNEST. Povera vita! Povera vita umana! Non sei nemmeno toccato dalle lacrime che il poeta romano ci dice far parte della sua essenza?
GILBERT. Ne sono stato toccato troppo presto, temo. Poiché quando ci si gira indietro a guardare la vita che era così vivida nella sua intensità emotiva, e piena di momenti tanto fervidi di estasi o di gioia, tutto pare sogno e illusione. Quali sono le cose irreali, se non le passioni che un tempo ci arsero come fuoco? Quali sono le cose incredibili, se non quelle in cui credemmo fedelmente? Quali sono le cose improbabili? Quelle che noi stessi facemmo. No, Ernest; la vita ci inganna con ombre, come un burattinaio. Noi le chiediamo il piacere. Essa ce lo dona in cambio di amarezze e disinganni. Ci imbattiamo in qualche nobile dolore che riteniamo conferirà ai nostri giorni la purpurea dignità della tragedia, ma ecco che questo dolore si allontana da noi e cose meno nobili ne prendono il posto, e in una grigia aurora piena di vento, o in qualche odorosa serata di silenzio e d’argento, noi ci ritroviamo a contemplare con ottusa meraviglia, o con sordo cuore di pietra, la treccia di capelli d’oro che una volta abbiamo così sfrenatamente adorata e così follemente baciata.
ERNEST. La vita allora è un fallimento?
GILBERT. Dal punto di vista artistico, di sicuro. E la cosa principale che rende la vita un fallimento da questo punto di vista artistico è quella che le dà la sua sordida sicurezza, il fatto che non si possa mai ripetere esattamente la stessa emozione. Com’è diverso nel mondo dell’arte! Alle tue spalle, su uno scaffale della libreria, c’è la Divina Commedia, e io so che, se la apro in un certo punto, sarò colmo di un odio feroce per qualcuno che non mi ha mai fatto alcun torto, o mosso da un grande amore per qualcuno che non vedrò mai. Non esiste stato d’animo o passione che l’arte non possa darci, e chi di noi ha scoperto il suo segreto può stabilire in anticipo quali saranno le nostre esperienze. Possiamo scegliere il giorno e selezionare l’ora. Possiamo dire a noi stessi, «Domani, all’alba, cammineremo con il grave Virgilio attraverso la valle dell’ombra di morte», ed ecco! L’alba ci trova nella selva oscura, e il Mantovano ci è accanto. Varchiamo la porta con l’iscrizione fatale alla speranza, e con pietà o con gioia ammiriamo l’orrore di un altro mondo. Passano gli ipocriti, con i loro volti dipinti e le loro cappe di piombo dorato. Fuori dai venti incessanti che li sospingono, i lussuriosi ci guardano, e noi osserviamo l’eretico mentre strazia la sua carne, e il goloso sferzato dalla pioggia. Spezziamo i rami secchi dell’albero nel bosco delle Arpie, e ogni ramoscello fosco e velenoso spruzza rosso sangue davanti a noi, e urla forte con amare grida. Da un corno di fuoco Ulisse ci parla, e quando dal suo sepolcro di fiamme si leva il grande Ghibellino, l’orgoglio che trionfa sul tormento di quel letto diventa nostro per un momento. Volano per l’aria fosca e purpurea coloro che macchiarono il mondo con la bellezza del loro peccato, e nella fossa del morbo nauseante, affetto da idropisia e con il corpo gonfio tanto da assumere la sembianza di un liuto mostruoso, giace Adamo da Brescia, il coniatore di moneta falsa. Egli ci prega di ascoltare la sua miseria; noi ci fermiamo, e con labbra secche e aperte egli ci narra come giorno e notte sogni i ruscelli d’acqua chiara che nei freschi e rugiadosi canali scendono per i verdi colli del Casentino. Sinone, il falso greco di Troia, lo deride. Lui gli percuote il volto, e si azzuffano. Siamo affascinati dalla loro vergogna; e indugiamo, finché Virgilio non ci biasima e ci conduce a quella città turrita di giganti dove il grande Nembrotte suona il suo corno. Terribili cose ci attendono, e noi andiamo loro incontro nelle vesti di Dante e con il cuore di Dante. Traversiamo le paludi dello Stige, e Argenti nuota verso la nostra barca tra le onde melmose. Ci chiama, e noi lo respingiamo. Quando udiamo la voce del suo tormento ne siamo lieti, e Virgilio ci loda per l’amarezza del nostro sdegno. Camminiamo sul gelido cristallo del Cocito, nel quale i traditori s’ergono come pagliuzze nel vetro. Il nostro piede urta contro la testa di Bocca. Egli non vorrà dirci il suo nome, e noi strappiamo i capelli a manciate dal cranio urlante. Alberigo ci supplica di rompere il ghiaccio sul suo viso affinché possa piangere un poco. Noi promettiamo di farlo, e quando lui ha terminato il suo doloroso racconto gli neghiamo la nostra promessa, e ci separiamo da lui; ed è in fondo cortesia tale crudeltà, perché chi è più vile di colui che ha misericordia per coloro che Dio ha condannato? Nelle fauci di Lucifero scorgiamo l’uomo che vendette Cristo, e sempre nelle fauci di Lucifero gli uomini che trafissero a morte Cesare. Tremiamo, e usciamo a riveder le stelle.
Nella terra del Purgatorio l’aria è più aperta, e la montagna sacra si leva nella pura luce del giorno. C’è pace per noi, e c’è un poco di pace anche per coloro che vi risiedono per una stagione, anche se, pallida del veleno della Maremma, Madonna Pia ci passa davanti, e se c’è Ismene, con il dolore della terra ancora posato su di lei. Un’anima dopo l’altra ci fa condividere qualche pentimento o qualche gioia. Colui al quale il lutto della sua vedova insegnò a bere il dolce assenzio del dolore, ci racconta di Nella che prega nel suo letto solitario, e apprendiamo dalla bocca di Buonconte come un’unica lacrima possa salvare un peccatore morente dal demonio. Sordello, quel nobile e sdegnoso lombardo, ci adocchia da lontano come un leone sdraiato. Quando impara che Virgilio è un cittadino di Mantova, gli butta le braccia al collo, e quando comprende che egli è il cantore di Roma cade ai suoi piedi. Nella valle in cui l’erba e i fiori sono più belli dello smeraldo appena tagliato e del legno indiano, più brillanti dello scarlatto e dell’argento, stanno cantando quelli che nel mondo furono re; ma le labbra di Rodolfo d’Asburgo non si muovono alla musica degli altri, e Filippo di Francia si batte il petto e Enrico d’Inghilterra siede in disparte. Noi continuiamo ad andare avanti, salendo la meravigliosa scala, e le stelle si fanno più grandi del solito, e il canto dei re si attenua, e infine raggiungiamo i sette alberi d’oro e il giardino del Paradiso Terrestre. In un carro tirato da un grifone appare una la cui fronte è cinta d’ulivo, velata di bianco, ammantata di verde, e vestita di una tunica dal colore fuoco vivo. La fiamma antica si ridesta in noi. Il nostro sangue scorre più veloce nelle vene con terribili pulsazioni. La riconosciamo. È Beatrice, la donna che abbiamo adorato. Si scioglie il ghiaccio congelato attorno al nostro cuore. Lacrime sfrenate di dolore erompono dai nostri occhi, e noi chiniamo il capo a terra, perché sappiamo d’aver peccato. Quando abbiamo fatto penitenza, e ci siamo purificati, e avendo bevuto alla fonte del Lete e bagnati alla fonte di Eunoè, la signora della nostra anima ci eleva al Paradiso Celeste. Da quella perla eterna, la luna, il volto di Piccarda Donati si china verso di noi. Ci turba per un momento la sua bellezza, e quando, come una cosa che cade nell’acqua, lei si allontana, continuiamo a fissarla con occhi assorti. Il dolce pianeta di Venere è pieno di amanti. È lì anche Cunizza, la sorella di Ezzelino, la donna del cuore di Sordello, e c’è Folco, l’appassionato cantore di Provenza, che addolorato per Azalais abbandonò il mondo, e c’è la prostituta di Canaan la cui anima fu la prima redenta da Cristo. Gioacchino da Fiore è ritto nel sole, e, nel sole, l’Aquinate racconta la storia di San Francesco e Bonaventura la storia di San Domenico. Attraverso gli ardenti rubini di Marte, Cacciaguida si avvicina. Egli ci narra del dardo scoccato da l’arco dell’esilio, e di come sappia di sale lo pane altrui, e di come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. In Saturno le anime non cantano, e persino colei che ci guida non osa sorridere. Su una scala d’oro le fiamme salgono e discendono. Da ultimo, noi vediamo l’ostentazione della Rosa Mistica. Beatrice fissa i suoi occhi sul volto di Dio per non distoglierli più. La visione beatifica ci è concessa; conosciamo l’Amore che muove il Sole e l’altre stelle.
Sì, possiamo far regredire la terra di seicento anni e diventare tutt’uno con il grande Fiorentino, inginocchiarci con lui allo stesso altare, e condividerne l’estasi e l’indignazione. E se ci stanchiamo di un tempo antico, e desideriamo comprendere la nostra epoca in tutta la sua stanchezza e il suo peccato, non vi sono libri che possono farci vivere più in un’ora sola, che non la vita in un ventennio di vergogna? Vicino alla tua mano c’è un piccolo volume, rilegato in pelle color verde Nilo, che è stato cosparso di nenuferi dorati e levigato di duro avorio. È il libro che Gautier amava, è il capolavoro di Baudelaire. Aprilo a quel madrigale triste che inizia
Que m’importe que tu sois sage?
Sois belle! et sois triste![7]
E ti ritroverai ad adorare il dolore come non hai mai adorato la gioia. Passa alla poesia sull’uomo che tormenta se stesso[8], lascia che la sua musica sottile penetri nel tuo cervello e colori i tuoi pensieri, e diverrai per un momento ciò che fu colui che la scrisse; anzi, non solo per un momento, ma per molte aride notti di luna e per molti giorni sterili senza sole una disperazione, che non è la tua, risiederà dentro di te, e l’infelicità di un altro roderà il tuo cuore. Leggi tutto il libro, lascia che narri anche uno solo dei suoi segreti alla tua anima, e la tua anima si farà avida di sapere di più, e si ciberà di miele avvelenato, e cercherà di pentirsi di strani crimini di cui è senza colpa, e di espiare terribili piaceri che non ha mai conosciuto. E poi, quando sarai stanco di questi fiori del male, torna ai fiori che crescono nel giardino di Perdita[9], e nei loro calici bagnati di rugiada rinfresca la tua fronte febbricitante, e fa che la loro leggiadria guarisca e ristori la tua anima; o ridesta dalla sua tomba dimenticata il dolce siriano, Meleagro[10], e ordina all’amante di Eliodoro di eseguire per te della musica, poiché anch’egli ha dei fiori nei suoi canti, rossi bocci di melograno e iris che profumano di mirra, asfodeli inanellati e giacinti azzurro cupo, e maggiorana e occhi di bue intrecciati. Gli era caro il profumo del campo di fave la sera, e caro l’odoroso spiganardo che cresce sui colli siriani, e il fresco timo verde, ornamento della coppa del vino. I piedi del suo amore mentre passeggiava nel giardino erano come gigli sui gigli. Più soffici dei petali di papavero soporifero erano le sue labbra, più soffici delle violette e altrettanto profumate. Il croco simile a fiamma spuntava dall’erba per guardarla. Per lei il narciso leggero raccoglieva la pioggia fresca; e per lei gli anemoni dimenticavano i venti siciliani che con loro amoreggiavano. E né il croco, né l’anemone, né il narciso erano belli come lei.
È una cosa strana, questa trasmissione di emozioni. Siamo affetti dalle stesse malattie dei poeti, e il cantore ci presta il suo dolore. Labbra morte hanno per noi il loro messaggio, e cuori diventati polvere possono comunicare la loro gioia. Corriamo a baciare la bocca insanguinata di Fantine[11], e seguiamo Manon Lescaut[12] per tutto il mondo. Nostra è la pazzia d’amore della donna di Tiro[13], e nostro pure è il terrore di Oreste[14]. Non v’è passione che non possiamo provare, non v’è piacere che non ci appaghi, e noi possiamo scegliere il tempo della nostra iniziazione ed anche il tempo della nostra libertà. La Vita! La Vita! Non andiamo alla vita per il nostro appagamento o per la nostra esperienza. È una cosa limitata dalle circostanze, incoerente nella sua espressione, e senza quella bella corrispondenza di forma e spirito, che è la sola cosa che possa soddisfare un temperamento artistico e critico. Ci fa pagare un conto troppo alto per le sue merci, e noi acquistiamo il più vile dei suoi segreti ad un prezzo che è mostruoso e infinito.
ERNEST. Dobbiamo allora rivolgerci all’Arte per tutto?
GILBERT. Per tutto. Perché l’Arte non ci fa alcun male. Le lacrime che versiamo a teatro sono un tipo di emozioni squisitamente sterili che è compito dell’Arte risvegliare. Piangiamo, ma non siamo feriti. Ci addoloriamo, ma il dolore non è amaro. Nella vita reale dell’uomo il dolore, come dice Spinoza in qualche punto, è un cammino verso una perfezione minore. Ma il dolore di cui l’Arte ci colma, se posso ancora una volta citare il grande critico d’Arte dei greci, ci purifica e ci inizia. È attraverso l’Arte, e solo attraverso l’Arte, che noi possiamo raggiungere la nostra perfezione; attraverso l’Arte, e solo attraverso l’Arte, possiamo difenderci dai sordidi pericoli dell’esistenza vera. Questo risulta non soltanto dal fatto che nessuna cosa che l’uomo possa immaginare è degno dell’azione, e che si può immaginare qualunque cosa, ma dalla legge sottile che dice che le forze emotive, come le forze della sfera fisica, sono limitate in estensione ed energia. Si può sentire fino a un certo punto, e non più. E quale importanza può avere con che piacere la vita si provi a tentare, o con quale dolore cerchi di storpiare e sporcare l’anima, se nello spettacolo della vita di chi che non è mai esistito si è trovato il vero segreto della gioia, e si sono piante le proprie lacrime sulla morte di chi, come Cordelia e la figliola di Brabanzio, non potrà mai morire?
ERNEST. Fermati un istante. Mi sembra che in tutte le cose che hai detto ci sia qualcosa di decisamente immorale.
GILBERT. Tutta l’Arte è immorale.
ERNEST. Tutta l’Arte?
GILBERT. Sì. Giacché l’emozione per l’emozione è la finalità dell’Arte, e l’emozione per l’azione è la finalità della vita, e di quella organizzazione pratica della vita che noi chiamiamo società. La società, che è il principio e il fondamento della morale, esiste unicamente per la concentrazione dell’energia umana, e per garantire la sua propria continuità e sana stabilità richiede, e senza dubbio ha ragione a richiedere, che ciascuno dei suoi cittadini contribuisca con una qualche forma di lavoro produttivo al benessere comune, e fatichi e lavori affinché il lavoro quotidiano sia compiuto. La società spesso perdona il delinquente; non perdona mai il sognatore. Le belle sterili emozioni che l’Arte accende in noi sono odiose ai suoi occhi, e la gente è così completamente dominata dalla tirannide di questo terrificante ideale sociale che sempre si presenta impudentemente ai vernissages e in altri posti aperti al pubblico a dirti con alta voce stentorea, “Che cosa fai?” invece di “Che cosa pensi?”, che è la sola domanda che qualunque essere civile possa permettersi di rivolgere ad un altro. Sono animate da buone intenzioni, senza dubbio, queste oneste e ridenti persone. Forse è per questo motivo che sono così eccessivamente noiose. Ma qualcuno dovrebbe insegnare loro che mentre nell’opinione della società la contemplazione è il peccato più grande di cui un cittadino possa essere colpevole, nell’opinione della più alta cultura essa è l’occupazione peculiare dell’uomo.
ERNEST. La contemplazione?
GILBERT. La contemplazione. Ti dissi prima che era più difficile parlare di una cosa che farla. Lasciami dire adesso che non fare niente del tutto è la cosa più difficile del mondo, la più difficile e la più intellettuale. Per Platone, con la sua passione per la saggezza, questa era la forma più nobile d’energia. Anche per Aristotele, con la sua passione per la conoscenza, questa era ugualmente la forma più nobile d’energia. Era a questo che la passione per la santità conduceva il santo e il mistico dell’era medievale.
ERNEST. Allora, noi esistiamo per non far niente?
GILBERT. Per non fare niente esistono gli eletti. L’azione è limitata e relativa. Illimitata e assoluta è la visione di chi siede a suo agio e contempla, di chi cammina in solitudine e sogna. Ma noi che siamo nati alla fine di quest’epoca meravigliosa, siamo a un tempo troppo colti e troppo critici, troppo intellettualmente sottili e troppo curiosi di squisiti piaceri, per accettare qualsiasi speculazione sulla vita in cambio della vita stessa. Per noi la città divina è senza colore, e la fruitio Dei non ha senso. La Metafisica non soddisfa i nostri temperamenti, e l’estasi religiosa è sorpassata. Il mondo attraverso il quale il filosofo accademico diviene «lo spettatore di tutti i tempi e di tutte le esistenze» non è realmente un mondo ideale, ma semplicemente un mondo di idee astratte. Quando vi entriamo, moriamo di fame in mezzo alla fredda matematica del pensiero. Le corti della città di Dio ora non ci sono aperte. Le sue porte sono sorvegliate dall’’Ignoranza, e per oltrepassarle noi dobbiamo rinunciare a tutto quello ch’ è più divino nella nostra natura. È bastato che credessero i nostri padri. Essi hanno esaurito la capacità di fede della specie. Il loro retaggio per noi è lo scetticismo che essi temevano. Se essi lo avessero posto nelle parole, non avrebbe potuto vivere in noi come pensiero. No, Ernest, no. Non possiamo ritornare al santo. V’è da imparare molto di più dal peccatore. Non possiamo tornare al filosofo, e il mistico ci conducono fuori strada. Chi, come Mr. Pater si chiede in qualche punto, scambierebbe la curva di una sola foglia di rosa per quell’informe intangibile Essere che Platone pone così in alto? Cos’è per noi l’illuminazione di Filone[15], l’Abisso di Eckhart[16], la Visione di Böhme[17], lo stesso mostruoso Cielo che fu rivelato agli occhi senza vista di Swedenborg[18]? Tali cose hanno meno valore della gialla tromba di un solo asfodelo dei campi, assai meno della più misera tra le arti visibili, poiché, esattamente come la natura è materia che penetra nello spirito, così l’arte è spirito che esprime se stessa sotto le condizioni della materia, e in tal modo, pure nella più bassa delle sue manifestazioni, essa parla sia ai sensi che all’anima. Per un temperamento estetico il vago è sempre ripugnante. I greci furono una nazione di artisti, poiché fu loro risparmiato il sentimento dell’infinito. Come Aristotele, come Goethe dopo che ebbe letto Kant, noi desideriamo il concreto, e unicamente il concreto può soddisfarci.
ERNEST. Dunque, che cosa proponi?
GILBERT. Mi pare che con lo sviluppo dello spirito critico saremo in grado di realizzare, non solo la nostra vita, ma la vita collettiva della razza, e renderci in tal modo assolutamente moderni, nel significato autentico della parola modernità. Poiché colui per il quale il presente è la sola cosa che sia presente, non sa niente dell’epoca in cui vive. Per comprendere il diciannovesimo secolo, dobbiamo capire ogni secolo che ha contribuito a produrlo. Per conoscere qualcosa di se stessi, bisogna conoscere tutto degli altri. Non deve esserci stato d’animo per cui non si possa provare simpatia, né morta ragione di vita che non si possa far rivivere. È impossibile questo? Credo di no. Svelandoci il meccanismo assoluto di ogni azione, e svincolandoci in tal modo dal fardello volontario e ingombrante della responsabilità morale, il principio scientifico dell’Ereditarietà è divenuto, per così dire, il garante della vita contemplativa. Ci ha dimostrato che noi non siamo mai meno liberi di quanto ci proviamo ad agire. Ci ha intrappolato con le reti del cacciatore, e ha scritto sul muro la profezia del nostro destino. Possiamo non guardarla, perché è in noi. Possiamo non vederla, se non in uno specchio che riflette l’anima. È la Nemesi senza la sua maschera. È l’ultimo dei Fati, e il più terribile. È l’unico tra gli dèi di cui conosciamo il vero nome.
E pure, mentre nella sfera della vita pratica e esteriore ha tolto all’energia la sua libertà e all’attività la sua scelta, nella sfera soggettiva, dove l’anima impera, viene a noi quest’ombra terribile, con molti doni tra le mani, doni di singolari temperamenti e sottili suscettibilità, doni di ardori selvaggi e freddi umori di indifferenza, doni complessi e multiformi di pensieri che sono in contrasto tra loro, e passioni che si combattono a vicenda. E così, non è la nostra vita che noi viviamo, ma la vita dei morti, e l’anima che risiede dentro di noi non è una singola entità spirituale, che ci rende personali e individuali, creata per il nostro servizio, e che penetra in noi per la nostra gioia. È qualcosa che ha abitato in luoghi spaventosi, e negli antichi sepolcri ha fatto la sua dimora. È affetta da molti malanni, e ha reminiscenze di curiosi peccati. È più saggia di noi, e la sua saggezza è amara. Ci riempie di impossibili desideri, e ci fa rincorrere ciò che sappiamo di non poter raggiungere. Una cosa, comunque, Ernest, può fare per noi. Ci può condurre lontano da ambienti la cui bellezza ci è oscurata dalla nebbia della consuetudine, o la cui ignobile bruttezza e le cui sordide esigenze stanno guastando la perfezione del nostro sviluppo. Può aiutarci ad abbandonare l’epoca nella quale siamo nati, e passare in altre epoche, e a non trovarci esiliati dalla loro atmosfera. Può insegnarci a sfuggire alla nostra esperienza, e a comprendere le esperienze di coloro che sono più grandi di noi. Il dolore di Leopardi che impreca contro la Vita diviene il nostro dolore. Teocrito soffia nella sua zampogna, e noi ridiamo con le labbra della ninfa e del pastore. Nella pelle di lupo di Pierre Vidal[19] noi scappiamo davanti ai cani, e nell’armatura di Lancillotto noi cavalchiamo dal pergolato della Regina. Abbiamo mormorato il segreto del nostro amore sotto il saio di Abelardo[20], e negli abiti sporchi di Villon[21] abbiamo fatto della nostra vergogna una canzone. Possiamo vedere l’alba attraverso gli occhi di Shelley[22], e quando girovaghiamo con Endimione[23] la Luna si innamora della nostra giovinezza. Nostra è l’angoscia di Ati[24], e nostre le impotenti furie e i nobili dolori del Danese. Credi che sia l’immaginazione a darci la capacità di vivere queste innumerevoli vite? Sì: è l’immaginazione; e l’immaginazione è il risultato dell’ereditarietà. È semplicemente esperienza concentrata della razza.
ERNEST. Ma dov’è in questo la funzione dello spirito critico?
GILBERT. La cultura che questa trasmissione delle esperienze della razza rende possibile, può esser resa perfetta solo dallo spirito critico, e in realtà si può dire che sia tutt’uno con esso. Perché chi è il vero critico se non colui che porta dentro di sé i sogni, le idee, e i sentimenti di miriadi di generazioni, e al quale nessuna forma di pensiero è sconosciuta, nessun impulso emotivo oscuro? E chi è il vero uomo di cultura, se non colui che con la bella erudizione e scrupolosi rifiuti ha reso cosciente e intelligente l’istinto, e può discernere l’opera che ha distinzione dall’opera che non la possiede, e così mediante il contatto e il paragone si fa padrone dei segreti di stile e di scuola, e ne comprende i significati, e ascolta le loro voci, e sviluppa quello spirito di curiosità disinteressata che è la vera radice, come il vero fiore, della vita intellettuale, e così giunge alla chiarezza intellettuale, e, avendo imparato «il meglio che si sa e si pensa nel mondo», vive – non è fantasioso dir ciò – con coloro che sono gli Immortali?
Sì, Ernest: la vita contemplativa, la vita che ha per suo scopo non il fare ma l’essere, e non l’essere soltanto, ma il divenire – che è quello che lo spirito critico può darci. Gli dei vivono così: o meditando sulla propria perfezione, come ci dice Aristotele, o, come suppose Epicuro, osservando con lo sguardo distaccato dello spettatore la tragicommedia del mondo che essi hanno creato. Anche noi potremmo vivere come loro ed essere, con appropriate emozioni, testimoni delle varie scene che offrono l’uomo e la natura. Noi ci potremmo rendere spirituali staccandoci dall’azione e divenire perfetti ripudiando l’energia. Spesso m’è parso che Browning avvertisse qualcosa di questo. Shakespeare getta Amleto nella vita attiva, e gli fa compiere la sua missione con fatica. Browning avrebbe potuto darci un Amleto che compisse la sua missione col pensiero. L’episodio e l’evento per lui erano irreali o privi di senso. Egli fece dell’anima la protagonista della tragedia della vita, e considerò l’azione come l’unico elemento non drammatico di un dramma. Per noi, comunque, il ΒΙΟΣ ΘΕΩΡΗΤΙΚΟΣ[25] è il vero ideale. Dall’alta torre del Pensiero noi possiamo affacciarci a guardare il mondo. Calmo, concentrato su se stesso, e completo, il critico estetico contempla la vita, e nessun dardo scoccato a caso può penetrare tra le maglie della sua corazza. Per lo meno egli è salvo. Ha scoperto come si vive.
È immorale un tale modo di vita? Sì: tutte le arti sono immorali, eccetto quelle forme più basse di arte sensuale o didattica che cercano di spingere ad azioni di male o di bene. Poiché ogni genere d’azione appartiene alla sfera dell’etica. Lo scopo dell’arte è semplicemente quello di creare uno stato d’animo. Non è pratico un tal modo di vita? Ah! non è così facile non essere pratico come immagina l’ignorante filisteo. Se fosse così sarebbe un bene per l’Inghilterra. Non v’è paese al mondo altrettanto bisognoso di persone non pratiche quanto il nostro. Da noi il Pensiero è degradato dalla sua costante associazione con la pratica. Chi di quelli che si agitano nella tensione e nel tumulto dell’esistenza reale, chiassoso politico, o litigioso riformatore sociale, o povero prete di corte vedute, accecato dalle sofferenze di quella parte insignificante della comunità in mezzo alla quale gli è toccato in sorte di vivere, può seriamente pretendere di poter formulare un giudizio intellettuale disinteressato sopra una cosa qualsiasi? Ogni professione comporta un pregiudizio. La necessità di una carriera costringe tutti a prendere un partito. Viviamo nell’epoca del lavoro eccessivo e della minore istruzione; l’epoca in cui la gente è così laboriosa da diventare del tutto stupida. E, benché possa suonare aspro, non posso fare a meno di dire che gente del genere merita la sua sorte. Il modo più sicuro per non sapere nulla della vita è sforzarsi di rendersi utili.
ERNEST. Un’avvincente dottrina, Gilbert.
GILBERT. Non ne sono sicuro, ma almeno ha il minor merito d’essere vera. Che il desiderio di far del bene agli altri produca un fitto gruppo di moralisti è il minore dei mali di cui egli è la causa. Il moralista è un soggetto di studio psicologico assai interessante, e benché di tutte le pose quella morale sia la più ributtante, pure averne una è comunque qualcosa. È il riconoscimento formale dell’importanza di trattare la vita da un punto di vista logico e preciso. Che la Simpatia Umanitaria combatta contro la natura, assicurando la sopravvivenza del fallimento, può far disprezzare all’uomo di scienza le sue facili virtù. L’economista politico può protestare contro di lei poiché mette l’imprudente sullo stesso piano del prudente, togliendo in tal modo alla vita il più forte, perché più sordido, incentivo alla laboriosità. Ma, agli occhi del pensatore, il vero danno che fa la simpatia emozionale è che essa limita la conoscenza, e ci intralcia in tal modo nella risoluzione di qualunque problema sociale. Al momento noi stiamo tentando di rimandare la crisi incombente, o la rivoluzione incombente, come la chiamano i miei amici fabianisti[26], con sussidi ed elemosine. Ebbene, quando la rivoluzione o la crisi giungerà, saremo indifesi, perché non sapremo niente. E così, Ernest, non facciamoci ingannare. L’Inghilterra non sarà mai civilizzata finché non avrà aggiunto l’Utopia ai suoi domini. Potrebbe dare in cambio più d’una delle sue colonie per una terra così bella. Abbiamo bisogno di un popolo non pratico, che veda al di là del momento, e pensi al di là del giorno presente. Quelli che si provano a condurre il popolo possono farlo soltanto seguendo la folla. È attraverso la voce di uno che grida nel deserto che si devono preparare le vie degli dèi.
Ma forse tu pensi che nel guardare per la pura gioia di guardare, e nel contemplare per amore della contemplazione, possa esservi qualcosa di egotistico. Se lo pensi, non dirlo. Ci vuole un’epoca interamente egoista, come la nostra, per deificare il sacrificio di sé. Ci vuole un’epoca interamente ingorda, come quella in cui viviamo, per porre al di sopra delle belle virtù intellettuali, quelle virtù fatue ed emotive, che sono un immediato e pratico beneficio per se stessi. Non raggiungono il loro scopo neppure questi filantropi e sentimentalisti del giorno d’oggi, che cianciano sempre del dovere verso il prossimo. Perché lo sviluppo della razza dipende dallo sviluppo dell’individuo, e là dove la cultura personale ha cessato d’essere l’ideale, il livello intellettuale viene abbassato istantaneamente, e, spesso, perduto del tutto. Se incontri a pranzo un uomo che ha trascorso la propria vita a istruire se stesso – una rarità al giorno d’oggi, ne convengo, ma che fortuitamente si può ancora incontrare – ti alzerai da tavola più ricco, e con la consapevolezza che un ideale più alto ha per un momento toccato e santificato i tuoi giorni. Ma, oh!, mio caro Ernest, sedere accanto a un uomo che ha trascorso la propria vita tentando di istruire gli altri! Che atroce esperienza! Com’è orrenda quell’ignoranza che è l’inevitabile effetto della fatale abitudine di impartire opinioni! Come si mostra limitata nel suo ambito la mente di tale creatura! Come ci annoia, e come deve annoiare se stesso, con le sue infinite ripetizioni e ripugnanti reiterazioni! Com’è insufficiente in ogni fattore di crescita intellettuale! In che circolo vizioso si muove sempre!
ERNEST. Parli con uno strano fervore, Gilbert. Hai avuto recentemente questa orribile esperienza, come tu la definisci?
GILBERT. Pochi di noi riescono ad evitarla. Si dice che il maestro di scuola non esiste più. Magari fosse così. Ma il tipo di cui, dopo tutto, egli è solo uno, e di certo il meno importante, dei rappresentanti, mi sembra realmente dominare le nostre vite; e appunto come il filantropo è il male della sfera etica, così il male della sfera intellettuale è l’uomo che è talmente occupato ad istruire gli altri, da non aver mai avuto tempo per istruire se stesso. No, Ernest, la cultura personale è il vero ideale dell’uomo. Goethe se ne accorse, e il debito immediato che abbiamo verso Goethe è maggiore del debito che abbiamo verso qualunque altro uomo sin dai tempi dei greci. I greci se ne accorsero, e ci hanno lasciato, come loro eredità al pensiero moderno, la concezione della vita contemplativa, così come il metodo critico attraverso il quale soltanto quella vita può davvero realizzarsi. Fu la sola cosa che fece grande il Rinascimento, e ci ha dato l’Umanesimo. È l’unica cosa che potrebbe fare grande anche la nostra epoca; poiché la vera debolezza dell’Inghilterra non si trova negli armamenti imperfetti o nelle coste non fortificate, né nella povertà che striscia nei vicoli senza sole, e nell’ubriachezza che schiamazza in schifosi cortili, ma semplicemente nel fatto che i suoi ideali sono emotivi non intellettuali.
Non nego che l’ideale intellettuale sia difficile da raggiungere, ancor meno che sia, e che forse sarà per anni a venire, impopolare presso le masse. È così facile per la gente provare simpatia per la sofferenza. È così difficile, invece, provare simpatia per il pensiero. Infatti, la gente comune comprende talmente poco che cosa sia in realtà il pensiero, da aver l’aria di credere che, quando viene detto che una teoria è pericolosa, ne sia stata pronunciata la sua condanna, laddove sono solo quelle teorie ad avere un qualsiasi pregio intellettuale. Un’idea che non sia pericolosa non è degna d’essere definita un’idea.
ERNEST. Gilbert, tu mi sbalordisci. Mi hai detto che tutta l’arte, nella sua essenza, è immorale. Vuoi dirmi ora che tutto il pensiero è, nella sua essenza, pericoloso?
GILBERT. Sì, nella sfera pratica è così. La sicurezza della società sta nell’abitudine e nell’istinto inconsapevole, e la base della stabilità della società, in quanto organismo sano, è l’assenza totale di qualunque tipo di intelligenza fra i suoi membri. La grande maggioranza delle persone che si rende pienamente conto di questo, si schiera ovviamente dalla parte di quello splendido sistema che la eleva alla dignità di macchine, e infierisce così spietatamente contro l’intrusione della facoltà intellettuale in qualsiasi problema che riguardi la vita, che si è tentati di definire l’uomo come un animale razionale che perde sempre la calma quando è chiamato ad agire in accordo con i dettami della ragione. Ma lasciamo da parte la sfera pratica e non diciamo più nulla dei malvagi filantropi che, davvero, sarà meglio lasciare alla pietà del saggio dagli occhi a mandorla del Fiume Giallo, Chuang Tsû il sapiente, il quale ha dimostrato come tali benintenzionati e fastidiosi ficcanaso abbiano distrutto la virtù semplice e spontanea che v’è nell’uomo. E poi costoro sono un argomento noioso, ed io sono ansioso di tornare alla sfera in cui la critica è libera.
ERNEST. La sfera dell’intelletto?
GILBERT. Sì. Rammenti che ho parlato del critico che è, a modo suo, creativo come l’artista, la cui opera, di fatto, può aver valore soltanto relativamente al fatto che offre al critico uno spunto per una nuova vena di pensiero e sentimento ch’egli può realizzare con eguale, o forse maggiore, distinzione di forma, e, attraverso l’uso di un nuovo mezzo di espressione, rendere bella in modo diverso e più perfetta. Ebbene, tu sembravi un po’ scettico su questa teoria. Ma ti ho forse giudicato male?
ERNEST. Non sono propriamente scettico in proposito, ma debbo ammettere d’avere la netta impressione che una tale opera del critico, come tu la descrivi – e tale opera bisogna ammettere senza dubbio che sia creativa – sia, necessariamente, puramente soggettiva, laddove le più grandi opere sono sempre oggettive, oggettive e impersonali.
GILBERT. La differenza tra opera oggettiva e soggettiva è solo una questione di forma esteriore. È accidentale, non essenziale. Ogni creazione artistica è assolutamente soggettiva. Lo stesso paesaggio ammirato da Corot, come egli stesso disse, non era che uno stato d’animo del suo spirito; e quelle grandi figure del teatro greco o inglese che ci sembrano possedere una loro autentica esistenza, indipendente dai poeti che le hanno modellate e foggiate, sono, in ultima analisi, semplicemente i poeti stessi, non come essi pensavano di essere, ma come pensavano di non essere; e grazie a quel pensiero avvenne in modo singolare, sia pure per un solo istante, che lo fossero realmente. Poiché noi non possiamo uscire da noi stessi, né nella creazione può esservi ciò che non esisteva nel creatore. Anzi, direi che più una creazione appare oggettiva, più in realtà essa è soggettiva. Può darsi che Shakespeare abbia incontrato Rosencrantz e Guildenstern nelle bianche strade di Londra, o visto i servitori delle casate rivali mordersi il pollice l’un l’altro sulla pubblica piazza; ma Amleto sorse dalla sua anima, e Romeo dalla sua passione. Erano elementi della sua natura a cui egli diede una forma visibile, impulsi che si agitavano così fortemente in lui da costringerlo, per così dire, a tollerare che ponessero in atto la loro energia, non sul piano inferiore della vita reale, dove sarebbero stati ostacolati e costretti e così resi imperfetti, ma sul piano immaginario dell’arte in cui l’Amore può trovare davvero nella Morte il suo pieno compimento, dove si può trafiggere lo spione dietro l’arazzo, e lottare in un fresco sepolcro, e far bere a un re colpevole il suo tramato danno, e vedere lo spettro del proprio padre, sotto i raggi della luna, avanzare da spalto a spalto, tra la nebbia, in armatura tutta d’acciaio. L’azione essendo limitata avrebbe lasciato Shakespeare insoddisfatto e inespresso; e proprio come fu in grado di compiere tutto dal momento che non fece nulla, è perché egli non ci parla mai di se stesso nei suoi drammi che i suoi drammi ce lo rivelano in modo assoluto, e ci mostrano la sua vera natura e il suo temperamento assai più completamente di quanto facciano quegli stessi strani e squisiti sonetti, nei quali egli svela ad occhi di cristallo il segreto recesso del suo cuore. Sì la forma oggettiva è la più soggettiva in quanto a sostanza. L’uomo è meno se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità.
ERNEST. Il critico, dunque, essendo limitato alla forma soggettiva, sarà necessariamente meno abile ad esprimere se stesso in modo pieno rispetto all’artista, che ha sempre a disposizione le forme che sono impersonali e obiettive.
GILBERT. Non necessariamente, e di certo niente affatto, se si rende conto che ogni forma di critica è, nel suo più alto sviluppo, semplicemente un capriccio, e che noi non siamo mai più fedeli a noi stessi di quando siamo incoerenti. Il critico estetico, coerente solo col principio della bellezza in tutte le cose, ricercherà sempre nuove impressioni, carpendo alle varie scuole il segreto del loro fascino, genuflettendosi, forse, davanti ad altari stranieri, o sorridendo, se così gli piace, a nuovi strani dei. Quello che gli altri chiamano il nostro passato ha, senza dubbio, una grande importanza per loro, ma non ha assolutamente nulla a che fare con te. L’uomo che guarda il propiro passato è un uomo che merita di non avere un futuro a cui guardare. Quando s’è trovata un’espressione per uno stato d’animo, non se ne vuole più sapere. Tu ridi; ma credimi, è così. Ieri era il Realismo che affascinava. Se ne ricavava quel nouveau frisson[27] che esso aveva lo scopo di produrre. Lo si analizzava, lo si spiegava, e finiva con l’annoiare. Al tramonto venne il Luministe[28] in pittura, e il Symboliste[29] in poesia, e lo spirito del medievalismo, spirito che non appartiene al tempo ma al temperamento, si destò improvvisamente nella Russia ferita, e ci commosse per un istante con il fascino della sofferenza. Oggi è il momento del Romanzo, e già le foglie tremolano nella valle, e sulle purpuree vette dei colli la bellezza cammina con agili piedi dorati. Le vecchie maniere della creazione temporeggiano, naturalmente. Gli artisti si autoriproducono o si riproducono a vicenda, con stucchevole reiterazione. Ma la critica avanza sempre, e il critico è in perenne sviluppo.
Né, ancora, il critico è realmente limitato alla forma d’espressione soggettiva. Il metodo del dramma è suo, così come il metodo dell’epos. Può adoperare la forma del dialogo, come fece colui[30] che fece conversare Milton con Marvel sulla natura della commedia e della tragedia, e fece dibattere Sidney e Lord Brooke sulle lettere sotto le roveri di Penshurst; o adottare la narrazione, come piace fare a Mr. Pater, ciascuno dei cui Imaginary Portraits – non è questo il titolo del libro? – ci presenta, sotto la fantasiosa veste della finzione, un brano di critica raffinato e squisito, uno sul pittore Watteau, un altro sulla filosofia di Spinoza, un terzo sugli elementi pagani del primo Rinascimento, e l’ultimo, che sotto certi aspetti è il più suggestivo, sulla fonte di quell’Aufklärung, quell’illuminismo che albeggiò in Germania durante il secolo scorso, e verso il quale tutta la nostra cultura ha un debito così grande. Il dialogo, chiaramente, quella meravigliosa forma letteraria che, da Platone a Luciano, e da Luciano a Giordano Bruno, e da Bruno a quel gran vecchio pagano[31] del quale Carlyle tanto si dilettò, i critici creativi del mondo hanno sempre utilizzata, non potrà mai perdere per il pensatore il suo fascino come modo di espressione. Per mezzo suo egli può sia rivelare che celare se stesso, e dare forma a ogni fantasticheria, e realtà a ogni umore. Per mezzo suo egli può presentare l’oggetto da ogni punto di vista, e mostrarcelo a tutto tondo, come lo scultore ci mostra le cose, ottenendo in tal modo tutta la ricchezza e la realtà di effetto che derivano da quelle digressioni che sono suggerite improvvisamente dall’idea centrale durante il suo progredire, e veramente illuminano l’idea con più compiutezza, o da quei felici ripensamenti che danno una completezza maggiore allo schema centrale, e pure trasmettono qualcosa del delicato fascino del caso.
ERNEST. Per mezzo suo egli può anche inventare un antagonista immaginario, e convertirlo quando gli fa comodo con qualche assurdo argomento sofistico.
GILBERT. Ah! è talmente facile convertire gli altri. Ma è così difficile convertire se stessi. Per arrivare a ciò che veramente si crede, si deve parlare per bocche diverse dalla propria. Per conoscere la verità bisogna immaginare miriadi di falsità. Perché che cos’è la Verità? In materia di religione, è semplicemente l’opinione che è sopravvissuta. In materia di scienza, è l’ultima sensazione. In materia d’arte è l’ultimo stato d’animo. E ora vedi, Ernest, che il critico ha a sua disposizione non meno forme oggettive d’espressione di quante ne ha l’artista. Ruskin mise la sua critica in prosa Immaginifica, ed è superbo nelle sue modificazioni e contraddizioni; e Browning mise la sua in versi sciolti, e costrinse i pittori e i poeti ad affidarci il loro segreto; e M. Renan usa il dialogo, e Mr. Pater la narrativa, e Rossetti tradusse nella musica dei sonetti i colori di Giorgione e il disegno di Ingres, e pure il proprio disegno e il proprio colore, percependo, con l’istinto di uno che aveva molti modi di espressione, che l’arte definitiva è la letteratura, e il mezzo più raffinato e più pieno è quello delle parole.
ERNEST. Beh, ora che hai dimostrato che il critico ha a sua disposizione tutte le forme oggettive, vorrei che mi dicessi quali sono le qualità che dovrebbero caratterizzare il vero critico.
GILBERT. Tu quali diresti?
ERNEST. Beh, io direi che un critico dovrebbe essere soprattutto giusto.
GILBERT. Ah! Non certo giusto. Un critico non può essere giusto nel comune senso del termine. È solo su cose che non interessano che si può dare veramente un’opinione senza pregiudizi, che è indubbiamente la ragione per cui un’opinione senza pregiudizi è sempre assolutamente priva di valore. L’uomo che vede entrambi i lati di un problema, è un uomo che non vede assolutamente nulla. L’Arte è una passione, e, in materia d’Arte, il Pensiero è inevitabilmente colorato dall’emozione, ed è quindi fluido piuttosto che fisso, e poiché dipende da stati fini d’animo e squisiti momenti, non può essere ridotto entro la rigidità di una formula scientifica o di un dogma teologico. È all’anima che parla l’arte, e l’anima può divenire prigioniera della mente come del corpo. Non si dovrebbero, naturalmente, avere pregiudizi; ma, come ha osservato un grande francese cento anni orsono, avere preferenze in tali argomenti è un fatto personale, e quando si hanno delle preferenze si cessa di essere giusti. È solo il banditore d’aste che può ugualmente e imparzialmente ammirare tutte le scuole d’Arte. No; l’essere giusto non è una delle qualità del vero critico. Non è neppure una condizione della critica. Ogni forma d’arte con la quale noi veniamo a contatto ci domina per il momento ad esclusione di ogni altra forma. Dobbiamo arrenderci completamente all’opera in questione, qualunque essa sia, se vogliamo afferrarne il segreto. Per il momento, non dobbiamo pensare a null’altro, non possiamo davvero pensare a null’altro.
ERNEST. Il vero critico dovrà essere razionale, ad ogni modo, o no?
GILBERT. Razionale? Vi sono due modi di odiare l’Arte, Ernest. Uno è di odiarla. L’altro di amarla in modo razionale. Perché l’Arte, come vide Platone, e non senza rammarico, crea nell’ascoltatore e nello spettatore una forma di divina mania. Non scaturisce dall’ispirazione, ma rende ispirati gli altri. La ragione non è la facoltà alla quale si rivolge. Se si ama veramente l’Arte, la si deve amare al di sopra di ogni altra cosa al mondo, e contro tale amore, la ragione, se le si desse ascolto, protesterebbe violentemente. Non v’ nulla di sano attorno al culto della bellezza. È cosa troppo splendida per essere sana. Coloro della cui vita essa forma la nota dominante parranno sempre al mondo dei puri visionari.
ERNEST. Beh, almeno, il critico dovrà essere sincero.
GILBERT. Un poco di sincerità è una cosa pericolosa, e molta è assolutamente fatale. Il vero critico sarà, sì, sempre sincero nella sua devozione al principio della bellezza, ma cercherà la bellezza in ogni età e in ogni scuola, e non accetterà mai di essere limitato da alcuna consuetudine stabilita di pensiero, o da alcun modo stereotipato di considerare le cose. Egli esprimerà se stesso in molte forme, e in mille modi differenti, e sarà sempre curioso di nuove sensazioni e punti di vista originali. Mediante un mutamento costante, e solo mediante un mutamento costante, egli troverà la propria vera unità. Non consentirà d’essere schiavo delle proprie opinioni. Poiché cos’è la mente, se non il moto nella sfera intellettuale? L’essenza del pensiero, come l’essenza della vita, è lo sviluppo. Non devi farti intimorire dalle parole, Ernest. Ciò che la gente chiama insincerità è semplicemente un metodo col quale possiamo moltiplicare la nostra personalità.
ERNEST. Temo di non esser stato felice nei miei suggerimenti.
GILBERT. Delle tre qualità da te citate, due, sincerità e giustizia, erano, se non propriamente morali, almeno nei limiti della moralità, e la prima condizione della critica è che il critico sappia riconoscere che la sfera dell’Arte e la sfera dell’Etica sono assolutamente distinte e separate. Quando vengono confuse, il Caos è tornato. Esse vengono troppo spesso confuse oggi in Inghilterra, e per quanto i nostri moderni puritani non abbiano la capacità di distruggere una cosa bella, pure, per effetto della loro straordinaria pruriginosità, possono quasi per un momento corrompere la bellezza. È principalmente, mi spiace dirlo, mediante il giornalismo che tale gente trova la sua espressione. Mi spiace perché si può dire molto in favore del giornalismo moderno. Dandoci le opinioni degli incolti, ci tiene in contatto con l’ignoranza della comunità. Facendo meticolosamente la cronaca degli avvenimenti ordinari della vita contemporanea, ci mostra quale minima importanza abbiano realmente tali avvenimenti. Discutendo invariabilmente del superfluo, ci fa capire quali cose siano essenziali per la cultura, e quali no. Ma non dovrebbe concedere al povero Tartufo di scrivere articoli sull’arte moderna. Ciò facendo, si rende ridicolo. Eppure gli articoli di Tartufo e le note di Chadband di buono fanno almeno questo. Servono a mostrare quanto estremamente limitata sia l’area sulla quale l’etica, e le considerazioni etiche, possono pretendere di esercitare la loro influenza. La scienza esula dalla portata della morale, poiché i suoi occhi sono fissi su verità eterne. L’arte esula dalla portata della morale, poiché i suoi occhi sono fissi su cose belle, immortali e in continuo mutamento. Alla morale appartengono le sfere più basse e meno intellettuali. Comunque, passino pure questi puritani vocianti; hanno il loro lato comico. Chi può trattenersi dal ridere quando un giornalista qualunque propone seriamente di limitare i soggetti a disposizione dell’artista? Qualche limite potrebbe essere imposto, e spero presto, a ragione ad alcuni dei nostri giornali e relativi redattori. Poiché costoro ci offrono i nudi, sordidi, disgustosi fatti della vita. Essi registrano, con degradante avidità, i peccati di second’ordine, e con la coscienziosità dell’illetterato ci danno i dettagli accurati e prosaici delle gesta di persone del tutto prive di alcun interesse. Ma l’artista, che accetta i fatti della vita, e tuttavia li trasforma in figure di bellezza, e li rende tramiti di pietà o di stupore, e ne mostra il loro elemento cromatico, e la loro meraviglia e anche il loro autentico significato etico, e con essi edifica un mondo più reale della realtà stessa, e di alta e più nobile rilevanza – chi gli porrà dei limiti? Non gli apostoli di quel nuovo giornalismo che altro non è se non la vecchia volgarità «scritta a lettere cubitali». Non gli apostoli di quel nuovo puritanesimo, che altro non è se non la lagna dell’ipocrita, ed è scritto e parlato male. La sola ipotesi è ridicola. Lasciamo questa gente maligna, e procediamo alla discussione delle qualifiche artistiche necessarie al vero critico.
ERNEST. E quali sono? Dimmelo tu.
GILBERT. Il requisito primario per un critico è il temperamento – un temperamento squisitamente sensibile alla bellezza, e alle varie impressioni che la bellezza ci offre. Sotto quali condizioni, e per quali mezzi, questo temperamento si generi nella razza o nell’individuo, per il momento non lo discuteremo. È sufficiente osservare che esiste, e che in noi c’è un senso della bellezza, separato dagli altri sensi e superiore a loro, distinto dalla ragione e di significato più nobile, distinto dall’anima dall’anima e di pari valore – un senso che spinge alcuni a creare, e altri, gli spiriti più raffinati, come io li considero, unicamente a contemplare. Ma per essere purificato e reso perfetto, questo senso richiede una qualche forma di contorno squisito. Senza questo o langue, o s’offusca. Rammenti quel bel passo nel quale Platone descrive come un giovane greco dovrebbe essere educato, e con quale insistenza egli sottolinei l’importanza dell’ambiente circostante, dicendoci come il fanciullo debba essere allevato in mezzo a bei panorami e bei suoni, così che la bellezza delle cose materiali possa preparare la sua anima alla fruizione della bellezza che è spirituale? Insensibilmente, e senza che ne sappia il perché, egli dovrà sviluppare quell’amore autentico per la bellezza che, come Platone non si stanca mai di rammentarci, è il vero scopo dell’educazione. Gradatamente e lentamente si deve far nascere in lui un temperamento tale che lo conduca in modo naturale e semplice a scegliere il bene in preferenza al male, e, rifiutando ciò che è volgare e discorde, a seguire con fine gusto istintivo tutto ciò che possiede grazia, fascino e avvenenza. Alfine, a tempo debito, tale gusto diverrà critico e autocosciente, ma dapprima esisterà puramente come istinto coltivato, e «colui che ha ricevuto questa vera cultura dell’uomo interiore percepirà con una visione chiara e sicura le omissioni e le imperfezioni nell’arte o nella natura, e con un gusto che non può fallare, mentre intesse lodi, e trova il suo piacere in ciò che è bene, e lo riceve nella sua anima, e così diviene buono e nobile, egli biasimerà giustamente e odierà il male, sin dai giorni della sua giovinezza, ancora prima di poterne sapere il perché», e così, quando, più tardi, lo spirito critico e autocosciente si svilupperà in lui, egli «lo riconoscerà e lo saluterà come un amico che la sua educazione gli ha reso da lungo tempo familiare». Non occorre ch’io dica, Ernest, quanto noi in Inghilterra siamo rimasti lontani da questo ideale, e posso immaginare il sorriso che illuminerebbe il glabro volto del filisteo se ci si arrischiasse a suggerirgli che lo scopo autentico dell’educazione è l’amore della bellezza, e che i metodi con cui l’educazione dovrebbe operare sono lo sviluppo del temperamento, la cultura del gusto, e la creazione dello spirito critico.
Pure, anche per noi, è rimasta qualche bellezza di ambiente, e l’ottusità di tutori e professori importa assai poco quando si può indugiare nei grigi chiostri del Magdalen, e ascoltare qualche voce flautata che canta nella cappella di Waynfleete, o starsene distesi sul prato verde, tra le strane fritillarie a macchie di serpente, e guardare il mezzogiorno ardente che ferisce, rendendone l’oro ancora più splendido, le banderuole dorate della torre, o girovagare su per lo scalone del Christ Church sotto i ventagli ombrosi dei soffitti a volta, o passare attraverso il portone scolpito dell’edifico di Laud nel College di St. John[32]. E non è solo a Oxford, o a Cambridge, che il senso della bellezza può essere formato, educato e perfezionato. In tutta l’Inghilterra v’è un Rinascimento delle arti decorative. La bruttezza ha fatto il suo tempo. Perfino nelle dimore dei ricchi c’è gusto, e le case di coloro che non sono ricchi, sono divenute graziose, accoglienti e gradevoli da viverci. Calibano[33], il povero chiassoso Calibano, crede che quando ha terminato di fare smorfie a una cosa, la cosa cessa di esistere. Ma se lui non se ne beffa più, è perché s’è imbattuto in beffe più rapide e acute delle sue, e per un momento s’è ritrovato con amarezza in quel silenzio che dovrebbe sigillare per sempre le sue labbra rozze e deformi. Quel che s’è fatto finora, è stato fatto principalmente per sgomberare la strada. È sempre più difficile distruggere di quanto non lo sia creare, e quando ciò che si deve distruggere è la volgarità e la stupidità, il compito della distruzione richiede non solo coraggio ma anche disprezzo. Comunque, a me sembra che sia stato fatto, in una certa misura. Ci siamo disfatti di ciò che era brutto. Adesso dobbiamo costruire ciò che è bello. E per quanto la missione del movimento estetico sia quella di allettare la gente alla contemplazione, non di condurla alla creazione, tuttavia, dato che l’istinto creativo è forte nel celtico, ed è il celtico che guida in arte, non c’è motivo per cui negli anni futuri questo singolare rinascimento non debba divenire, a suo modo, quasi altrettanto splendido di quanto lo fu quella rinascita dell’arte che molti secoli or sono si destò nelle città d’Italia.
Certamente, per coltivare il temperamento, noi dobbiamo rivolgerci alle arti decorative: alle arti che ci toccano, non alle arti che ci insegnano. I quadri moderni sono, indubbiamente, piacevoli da guardare. Almeno alcuni. Ma è assolutamente impossibile viverci insieme; sono troppo intelligenti, troppo affermativi, troppo intellettuali. Il loro significato è troppo ovvio e il loro metodo è definito troppo chiaramente. Ciò che hanno da dire si esaurisce in brevissimo tempo, e quindi divengono noiosi come i nostri parenti. Io amo profondamente l’opera di molti dei pittori impressionisti di Parigi e di Londra. Delicatezza ed eleganza non hanno ancora abbandonato la scuola. Alcune loro composizioni e armonie servono a ricordarci l’inarrivabile bellezza dell’immortale Symphonie en blanc majeur di Gautier, quel capolavoro perfetto di colore e musica che può aver suggerito il tipo così come i titoli di molti dei loro quadri migliori. Per una classe che accoglie l’incompetente con ardente simpatia, e che confonde il bizzarro con il bello, e la volgarità con la verità, sono estremamente raffinati. Sanno fare incisioni che hanno lo splendore degli epigrammi, pastelli che sono ricchi di fascino come i paradossi, e quanto ai ritratti, qualunque cosa possa dire contro di loro la gente mediocre, nessuno può negare che essi posseggono quell’unico e meraviglioso incanto che appartiene alle opere di pura invenzione. Ma neppure gli impressionisti, per scrupolosi e industriosi che siano, possono bastare. A me piacciono. La loro nota fondamentale di bianco, con le sue variazioni in lilla, ha segnato un’era nel colore. Sebbene il momento non faccia l’uomo, il momento fa certamente l’impressionista, e che cosa non si può dire in favore del momento in arte, e del «monumento del momento», come Rossetti lo definì? Sono anche suggestivi. Se non hanno aperto gli occhi ai ciechi, hanno dato almeno un grande incoraggiamento ai miopi, e mentre i loro capiscuola possono avere tutta l’inesperienza della vecchiaia, i loro giovani sono fin troppo saggi per esser mai sensibili. Eppure insistono a trattare la pittura come fosse un modo di autobiografia inventato ad uso degli illetterati, e sulle loro ruvide e granulose tele stanno sempre a blaterare con noi delle loro inutili personalità e delle loro superflue opinioni, rovinando con un’enfasi volgare ed eccessiva quel bel disprezzo della natura che è la loro cosa migliore, e l’unica modesta. Ci si stanca, alla fine, dell’opera di individui la cui individualità è sempre pacchiana, e in genere poco interessante.C’è assai più da dire a favore di quella scuola più recente a Parigi, gli Archaïcistes, come si autodefiniscono, i quali, rifiutandosi di lasciare l’artista alla completa mercé del tempo, non trovano l’ideale dell’arte nei puri effetti atmosferici, ma cercano piuttosto la bellezza immaginativa del disegno e la piacevolezza del bel colore, e ripudiando il noioso realismo di chi dipinge soltanto ciò che vede, si provano a vedere qualcosa che meriti d’essere visto, e di vederlo non solo con la vista vera e fisica, ma con quella più nobile dell’anima che è tanto più ampia nella capacità spirituale, quanto è più splendida nel proposito artistico. Essi, in ogni caso, lavorano sotto quelle condizioni decorative che ciascuna arte richiede per la propria perfezione, e possiedono sufficiente istinto estetico per dolersi di quei limiti sordidi e stupidi della assoluta modernità della forma che hanno stati la rovina di moltissimi fra gli impressionisti. Tuttavia, l’Arte che è francamente decorativa è l’Arte con la quale si deve vivere. È, di tutte le nostre Arti visive, l’unica Arte che crea in noi sia uno stato d’animo che un temperamento. Il colore puro, non guastato dal significato, e non avvinto a una forma definitiva, può parlare all’anima in mille modi diversi. L’armonia che risiede nelle squisite proporzioni delle linee e delle masse si rispecchia nella mente. Le ripetizioni del motivo ci riposano. Le meraviglie del disegno eccitano l’immaginazione. Nella semplice grazia dei materiali impiegati vi sono elementi latenti di cultura. E questo non è tutto. Con il suo ripudio deliberato della natura come ideale di bellezza, come pure del metodo imitativo del pittore ordinario, l’Arte decorativa non solo prepara l’animo ad accogliere la vera opera immaginativa, ma sviluppa in esso quel senso della forma che è fondamento della perfezione creativa non meno che critica. Perché il vero artista è colui che procede, non dal sentimento alla forma, ma dalla forma al pensiero e alla passione. Egli non concepisce dapprima un’idea e poi dice a se stesso, “Metterò la mia idea in un metro complesso di quattordici versi,” ma, rendendosi conto della bellezza dello schema del sonetto, concepisce determinati modi musicali e metodi per la rima, e la pura forma suggerisce ciò che deve riempirla e renderla intellettualmente ed emotivamente completa. Di tanto in tanto il mondo contesta qualche seducente poeta artistico, poiché, per usare la sua frase ritrita e sciocca, egli «non ha nulla da dire». Ma se avesse qualcosa dire, probabilmente lo direbbe, e il risultato sarebbe noioso. È proprio perché non ha nessun nuovo messaggio, che può creare un’opera bella. Egli trae la sua ispirazione dalla forma, e unicamente dalla forma, come dovrebbe fare un artista. Una vera passione lo rovinerebbe. Qualunque cosa accada realmente è uno spreco per l’arte. Tutta la cattiva poesia ha origine da un sentimento genuino. Essere naturali è essere ovvi, ed essere ovvi è essere inartistici.
ERNEST. Mi chiedo se credi veramente a quello che dici?
GILBERT. Perché te lo chiedi? Non è solo nell’arte che il corpo è l’anima. In ogni sfera della vita la Forma è l’inizio delle cose. I gesti ritmici e armoniosi della danza diffondono, dice Platone, sia ritmo che armonia nella mente. Le forme sono il cibo della fede, gridò Newman in uno di quei grandi momenti di sincerità che ci fanno ammirare e conoscere l’uomo. Aveva ragione, anche se probabilmente non sapesse fino a che punto terribile aveva ragione. I Credo sono creduti, non perché sono razionali, ma perché sono ripetuti. Sì: la forma è tutto. È il segreto della vita. Trova espressione per un dolore, ed esso ti diventerà caro. Trova espressione per una gioia, e ne farai più intensa l’estasi. Desideri amare? Usa la Litania dell’Amore, e le parole creeranno il desiderio da cui il mondo s’immagina che sgorghino. Hai una pena che ti rode il cuore? Sprofonda nel linguaggio della dolore, impara a pronunciarlo dal principe Amleto e dalla regina Costanza[34], e scoprirai che la semplice espressione è un modo di consolazione, e che la forma, che è la nascita della passione, è anche la morte del dolore. E così, per tornare alla sfera dell’arte, è la forma che crea non solo il temperamento critico, ma anche l’istinto estetico, quell’istinto infallibile che ti rivela tutte le cose sotto le loro condizioni di bellezza. Inizia con il culto della forma, e non c’è segreto nell’arte che non ti sarà rivelato, e tieni a mente che nella critica, come nella creazione, il temperamento è tutto, e che le scuole d’Arte vanno storicamente raggruppate non secondo l’epoca della loro produzione, ma secondo i temperamenti ai quali si rivolgono.
ERNEST. La tua teoria dell’educazione è piacevolissima. Ma quale influenza eserciterà il tuo critico, allevato in questo ambiente squisito? Credi davvero che ci siano mai artisti che possano essere influenzati dalla critica?
GILBERT. L’influsso del critico consisterà nel semplice fatto della sua esistenza. Incarnerà il tipo perfetto. In lui la cultura del secolo si vedrà realizzata. Non devi chiedergli di avere alcuno scopo diverso se non la propria perfezione. Ciò che l’intelletto richiede, com’è stato ben detto, è semplicemente di sentirsi vivo. Il critico può, in verità, desiderare di esercitare un certo influsso; ma, in tal caso, non si occuperà dell’individuo, ma dell’epoca, che cercherà di destare alla coscienza, e di rendere responsabile, creando in essa nuovi desideri e appetiti, e prestandole la sua più ampia visione e i suoi più nobili sentimenti. L’arte attuale lo occuperà meno dell’arte futura, assai meno dell’arte passata, e quanto a questa o a quella persona che al momento fatica, che importanza ha la gente industriosa? Fanno del loro meglio, senza dubbio, e di conseguenza ricaviamo da loro il peggio. È sempre con le migliori intenzioni che vengono fatte le opere peggiori. E inoltre, mio caro Ernest, quando un uomo giunge a quarant’anni, o diventa membro della Royal Academy, o diviene socio dell’Athenaeum Club, oppure ottiene fama come romanziere popolare, i cui libri vanno a ruba nelle stazioni ferroviarie suburbane; ci si può divertire a smascherarlo, ma non ci si può prendere il piacere di riformarlo. E questa è, oso dire, una gran fortuna per lui; perché io non dubito che la riforma è un processo assai più doloroso della punizione, anzi, in effetti è la punizione nella sua forma più grave e morale – e questo spiega il nostro completo fallimento in quanto comunità nel correggere quell’interessante fenomeno che viene definito il criminale abituale.
ERNEST. Ma non può essere che il poeta sia il miglior giudice della poesia, e il pittore della pittura? Ogni arte deve rivolgersi in primis all’artista che lavora in essa. Il suo giudizio sarà sicuramente il più valido, non pensi?
GILBERT. Ogni arte si rivolge semplicemente al temperamento artistico. L’arte non si indirizza allo specialista. Essa si dichiara universale e una in tutte le sue manifestazioni. Infatti, lungi dall’essere vero che l’artista è il miglior giudice dell’arte, un artista veramente grande non può mai giudicare l’opera degli altri in assoluto, e, anzi, riesce appena a giudicare la propria. Quella stessa concentrata visione che rende un uomo un artista, limita, con la sua pura intensità la sua sottile facoltà di giudizio. L’energia della creazione lo spinge ciecamente verso la propria meta. Le ruote della sua carrozza sollevano la polvere come una nube attorno a lui. Gli dèi si nascondono l’uno all’altro. Possono riconoscere i loro fedeli. È tutto.
ERNEST. Tu dici che un grande artista non è in condizione di riconoscere la bellezza di un’opera diversa dalla sua?
GILBERT. Ciò gli è impossibile. Wordsworth in Endymion vide nulla più che un grazioso brano di paganesimo, e Shelley, con il suo disprezzo per la realtà, fu sordo al messaggio di Wordsworth, venendo respinto dalla sua forma, e Byron, quella grande, appassionata, incompleta creatura umana, non fu in grado di apprezzare né il poeta della nube né il poeta del lago, e lo stupore di Keats gli fu celato. Il realismo di Euripide per Sofocle era odioso. Quella pioggia di calde lacrime non avevano musica per lui. Milton, con il suo senso del grande stile, non poté comprendere il metodo di Shakespeare, più di quanto Sir Joshua[35] potesse comprendere il metodo di Gainsborough[36]. I cattivi artisti ammirano sempre a vicenda le loro opere. Con questo atteggiamento essi asseriscono d’essere di larghe vedute e scevri da pregiudizi. Ma un vero grande artista non può concepire che la vita venga mostrata, o la bellezza modellata, in condizioni diverse da quelle che egli stesso ha prescelto. La creazione impiega per intero la sua facoltà critica all’interno della sua propria sfera. Non può servirsene entro la sfera che ad altri appartiene. È proprio perché un uomo non sa fare una cosa che lo rende il giudice più appropriato.
ERNEST. Sul serio è questo che vuoi dire?
GILBERT. Sì, perché la creazione limita la visione, mentre la contemplazione la allarga.
ERNEST. Ma che ne dici della tecnica? Non è forse vero che ogni arte ha la sua tecnica particolare?
GILBERT. Certamente: ogni arte ha la sua grammatica e i suoi materiali. Non c’è alcun mistero nell’una e negli altri, e gli incompetenti possono sempre essere migliorati. Ma, mentre le regole su cui l’arte si basa possono essere fisse e certe, per trovare la loro vera realizzazione debbono essere trasfigurate dall’immaginazione in una bellezza tale da sembrare, ognuna di esse, un’eccezione. La tecnica è in realtà la personalità. Questo è il motivo per cui l’artista non può insegnarla, e l’allievo non può apprenderla, mentre il critico estetico può comprenderla. Per il grande poeta, esiste un solo metodo musicale – il suo. Per il grande pittore, esiste un solo modo di dipingere – quello che lui stesso impiega. Il critico estetico, e solo il critico estetico, può apprezzare tutte le forme e tutti i modi. È a lui che l’arte si rivolge.
ERNEST. Bene, penso di averti fatto tutte le mie domande. Ed ora debbo ammettere…
GILBERT. Ah! Non dire che mi dai ragione. Quando qualcuno mi dà ragione, io ho sempre la sensazione di avere torto.
ERNEST. In questo caso di certo non ti dirò se condivido o meno le tue opinioni. Ma vorrei farti un’altra domanda. Tu mi hai spiegato che la critica è un’arte creativa. Ma che futuro ha?
GILBERT. È alla critica che appartiene il futuro. I soggetti a disposizione della creazione diventano ogni giorno più limitati in estensione e varietà. La Provvidenza e Mr. Besant[37] hanno esaurito l’ovvio. Se la creazione deve avere una qualche durata, essa può farlo solamente a condizione di diventare molto più critica di quanto non lo sia adesso. Le vecchie strade e le vie polverose sono state troppo spesso attraversate. Il loro fascino è stato consumato da piedi che si trascinano con fatica nel cammino, e hanno perso quell’elemento di novità o di sorpresa che è tanto essenziale per il romanzo. Chi oggi avesse in mente di commuoverci con la narrativa deve darci uno sfondo del tutto nuovo, o rivelarci l’anima dell’uomo nelle sue più intime attività. Il primo che per noi sta svolgendo questo compito è attualmente Mr. Rudyard Kipling. Scorrendo le pagine del suo Plain Tales from the Hills, si ha la sensazione di stare seduti sotto una palma a leggere la vita rischiarata da lampi superbi di volgarità. Gli accesi colori dei bazaars abbagliano gli occhi. Gli anglo-indiani logori e insignificanti sono in una squisita contraddittorietà con ciò che li circonda. La stessa mancanza di stile nel narratore offre un bizzarro realismo giornalistico a ciò che egli ci narra. Dal punto di vista della letteratura Mr. Kipling è un genio che non pronuncia le aspirate[38]. Dal punto di vista della vita, egli è un reporter che conosce la volgarità meglio di chiunque altro l’abbia conosciuta. Dickens ne conosceva gli abiti e la commedia. Mr. Kipling ne conosce l’essenza e la serietà. Egli è la nostra prima autorità in materia di mediocrità, e ha visto cose meravigliose dal buco della serratura, e i suoi sfondi sono autentiche opere d’arte. Per ciò che riguarda la seconda condizione, abbiamo avuto Browning, e Meredith è con noi. Ma c’è ancora tanto da fare nel campo dell’introspezione. La gente talvolta dice che la narrativa sta divenendo troppo morbosa. Per quel che riguarda la psicologia, non è mai stata abbastanza morbosa. Noi abbiamo appena sfiorato la superficie dell’anima, ecco tutto. In una sola cellula eburnea del cervello vi sono racchiuse cose più meravigliose e più terribili di quanto abbiano mai sognato, anche quelli che, come l’autore di Le Rouge et le Noir[39], hanno tentato di frugare l’anima nei suoi più segreti recessi, e di far confessare alla vita i suoi peccati più cari. Pure, c’è un limite perfino al numero degli ambienti mai esplorati, ed è possibile che un ulteriore sviluppo dell’abitudine all’introspezione possa riuscire fatale alla facoltà creativa, cui cerca di fornire materiale nuovo. Per quanto mi riguarda, io sono incline a pensare che la creazione è condannata. Scaturisce da un impulso troppo primitivo, troppo naturale. Comunque vada, è certo che i soggetti a disposizione della creazione stanno diminuendo sempre, mentre quelli della critica aumentano di giorno in giorno. Ci sono sempre atteggiamenti nuovi per lo spirito e nuovi punti di vista. Il dovere di imporre una forma sul caos non viene meno mentre il mondo progredisce. Non vi fu mai un tempo in cui la Critica fosse più necessaria di oggi. È solo per mezzo suo che l’Umanità può prender coscienza del punto a cui è arrivata.
Qualche ora fa, Ernest, mi hai chiesto l’utilità della critica. Tanto valeva che mi chiedessi l’utilità del pensiero. È la critica, come Arnold evidenzia, che crea l’atmosfera intellettuale dell’epoca. È la critica, come spero io stesso di evidenziare un giorno, che fa della mente uno strumento raffinato. Noi, nel nostro sistema educativo, abbiamo gravato la memoria con un fardello di fatti sconnessi, e con fatica abbiamo tentato di impartire la nostra conoscenza laboriosamente acquisita. Insegniamo alla gente a ricordare, non le insegniamo mai a crescere. Non ci è mai venuto in mente di tentare di sviluppare nella mente una qualità più sottile di apprensione e discernimento. I greci lo fecero, e quando veniamo in contatto con l’intelletto critico greco, non possiamo fare a meno di accorgerci che, mentre i nostri soggetti sono sotto ogni aspetto più numerosi e più vari dei loro, il loro è il solo metodo con cui questi soggetti possono essere interpretati. L’Inghilterra ha fatto una cosa: ha inventato e istituito l’Opinione Pubblica, che è il tentativo di organizzare l’ignoranza della comunità e di elevarla alla dignità di una forza fisica. Ma la Sapienza le è sempre stata nascosta. Considerata come strumento di pensiero, la mente inglese è rozza e non sviluppata. La sola cosa che possa purificarla è la crescita dell’istinto critico.
È la critica, ancora, che, con la concentrazione, rende possibile la cultura. Prende la massa ingombrante del lavoro creativo, e la distilla in un’essenza più raffinata. Chi, desiderando conservare un senso di forma, potrebbe aprirsi un varco attraverso la moltitudine mostruosa di libri che il mondo ha prodotto, libri in cui il pensiero balbetta o l’ignoranza starnazza? Il filo che deve guidarci nel faticoso labirinto è nelle mani della critica. Anzi, di più, laddove non c’è alcuna memoria, e la storia sia andata perduta o non sia mai stata scritta, la critica può ricreare per noi il passato derivandolo dal più piccolo frammento di linguaggio o di arte, con la stessa certezza con cui l’uomo di scienza da un piccolo frammento osseo, o dalla semplice impronta di un piede sopra un sasso, può ricreare per noi il dragone alato o la lucertola titanica che un tempo fecero tremare la terra sotto il loro passo, può evocare Behemot[40] dal suo antro, e far nuotare una volta ancora Leviatano[41] nel mare atterrito. La storia preistorica appartiene al critico filologico e archeologico. A lui sono rivelate le origini delle cose. I depositi coscienti di un’era sono quasi sempre fuorvianti. Soltanto attraverso la critica filologica noi sappiamo di più sui secoli di cui non è stato conservato alcun documento, che non sui secoli che ci hanno lasciato le loro pergamene. Può fare per noi quello che né la fisica né la metafisica possono fare. Può darci la scienza esatta della mente nel processo del suo divenire. Può fare per noi quello che la storia non è in grado di fare. Può dirci cosa pensasse l’uomo prima di imparare a scrivere. Tu mi hai chiesto dell’influenza della critica. Credo di aver già risposto al quesito; ma c’è anche altro da dire. È la critica che ci rende cosmopoliti. La scuola di Manchester cercò di far comprendere agli uomini la fratellanza dell’umanità, mostrando i vantaggi commerciali della pace. Tentò di degradare il mondo meraviglioso a una comune piazza del mercato per chi compera e per chi vende. Si rivolse agli istinti più bassi, e fallì. Le guerre si susseguirono, e il credo del negoziante non impedì a Francia e Germania di scontrarsi in un conflitto sanguinoso. Vi sono altri ai giorni nostri che cercano di appellarsi a semplici simpatie emotive, o ai dogmi inconsistenti di qualche vago sistema di etica astratta. Hanno le loro Società per la Pace, tanto care ai buonisti, e le loro proposte per un Arbitrato Internazionale per il disarmo, così popolari tra quelli che non hanno mai letto la storia. Ma la semplice simpatia emotiva non serve. È troppo variabile, e troppo strettamente congiunta alle passioni; e un comitato di arbitri che, per il benessere generale della razza, siano privati del potere di mettere in atto le proprie decisioni, non sarà di grande utilità. C’è soltanto una cosa peggiore dell’Ingiustizia, ed è la Giustizia senza una spada in pugno. Quando il Diritto non è Potere, è Male.
No: le emozioni non ci renderanno cosmopoliti, più di quanto possa farlo la bramosia del guadagno. È solo attraverso la cultura dell’abitudine alla critica intellettuale che potremo elevarci al di sopra dei pregiudizi sulla razza. Goethe – non fraintendere ciò che dico – fu un tedesco tra i tedeschi. Amò il suo paese – nessuno lo amò più di lui. Il suo popolo gli fu caro; e lui lo guidò. Eppure, quando l’artiglio ferrato di Napoleone calpestò i vigneti e i campi di grano, le sue labbra tacquero. «Come si possono scrivere canti di odio senza odiare?» disse a Eckermann[42], «e come potrei io, per cui solo la cultura e la barbarie hanno importanza, odiare una nazione che è tra le più colte della terra, e alla quale io debbo tanta parte della mia cultura?» Questa nota, che Goethe per primo fece risuonare nel mondo moderno, diventerà, credo, il punto di partenza per il cosmopolitismo del futuro. La critica annienterà i pregiudizi sulla razza, insistendo sull’unità della mente umana nella varietà delle sue forme. Se siamo tentati di muovere guerra a un’altra nazione, dobbiamo ricordare che stiamo cercando di distruggere un elemento della nostra stessa cultura, e forse il suo più importante elemento. Finché la guerra sarà considerata malvagia, conserverà sempre il suo fascino. Quando sarà considerata volgare, cesserà d’essere popolare. Naturalmente, il cambiamento sarà lento, e la gente non se ne accorgerà. Non dirà «Non vogliamo muovere guerra alla Francia perché la sua prosa è perfetta», ma poiché la prosa della Francia è perfetta, non odierà il paese. La critica intellettuale unirà l’Europa con legami assai più stretti di quanti possa stringere il negoziante o il buonista. Ci darà la pace che scatusisce dalla comprensione.
E questo non è tutto. È la Critica che, non riconoscendo alcuna posizione come irrevocabile, e rifiutando di incatenarsi al gergo superficiale di qualsiasi setta o scuola, crea quel sereno temperamento filosofico che ama la verità per amore della verità, e non l’ama di meno perché la sa irraggiungibile. Quanto poco ne abbiamo in Inghilterra di questo temperamento, e quanto ne abbiamo bisogno! La mente inglese è sempre stata in collera. L’intelletto della razza si spreca nelle sordide e stupide dispute dei politici di seconda categoria, o dei teologi di terza. È toccato ad un uomo di scienza mostrarci il supremo esempio di quella «dolce ragionevolezza» di cui Arnold parlò così saggiamente, e, ahimè!, con risultati tanto scarsi. L’autore de L’origine della specie aveva, comunque, il temperamento filosofico. Se si contemplano i pulpiti ordinari e le mediocri tribune d’Inghilterra, non resta che provare il disprezzo di Giuliano, o l’indifferenza di Montaigne. Siamo dominati dal fanatico, il cui vizio peggiore è la sincerità. Qualunque cosa si avvicini al libero gioco della mente è praticamente ignota tra noi. La gente si scaglia contro il peccatore, eppure non è il peccatore, ma lo stupido, che è la nostra vergogna. Non esiste alcun peccato eccetto la stupidità.
ERNEST. Ah! Quanto sei antinomiano!
GILBERT. Il critico artistico, come il mistico, è sempre un antinomiano. Essere buoni, secondo il volgare modello di bontà, è ovviamente facilissimo. Richiede soltanto una certa quantità di sordido terrore, una certa mancanza di immaginazione, e una certa bassa passione per la rispettabilità borghese. L’Estetica è più alta dell’etica. Appartiene a una sfera più spirituale. Discernere la bellezza di una cosa e il punto più elevato cui possiamo giungere. Persino il senso del colore è più importante, nello sviluppo dell’individuo, che il senso del giusto e dell’ingiusto. L’Estetica, infatti, rispetto all’Etica, è nella sfera della civilizzazione cosciente ciò che è, nel mondo esterno, la selezione sessuale rispetto a quella naturale. L’Etica, come la selezione naturale, rende possibile l’esistenza. L’Estetica, come la selezione sessuale, rende la vita bella e meravigliosa, la colma di nuove forme, e le dà progresso, varietà e cambiamento. E quando raggiungiamo la vera cultura che è il nostro obiettivo, otteniamo quella perfezione che i santi hanno sognato, la perfezione di coloro per i quali il peccato è impossibile, non perché compiano le rinunce dell’asceta, ma perché possono fare tutto ciò che desiderano senza danno per l’anima, e non possono desiderare di nuocere all’anima, essendo l’anima un’entità così divina da poter trasformare in elementi di un’esperienza più ricca, di una sensibilità più raffinata, o di un nuovo modo di pensare, atti o passioni che sarebbero ordinarie presso la gente comune, o ignobili presso gli incolti, o vili presso gli infami. Tutto questo è pericoloso? Sì; è pericoloso – tutte le idee, come ti ho detto, sono pericolose. Ma la notte è stanca, è la luce della lampada agonizza. Un’altra cosa ancora non posso fare a meno di dirti. Hai parlato contro la critica come fosse una cosa sterile. Il diciannovesimo secolo rappresenta una svolta decisiva nella storia, semplicemente per l’opera di due uomini, Darwin e Renan, l’uno il critico del Libro della Natura, l’altro il critico dei libri di Dio. Non riconoscere questo vuol dire perdere il significato di una delle ere più importanti nel progresso del mondo. La creazione è sempre indietro rispetto all’epoca. È la critica che ci guida. Lo Spirito Critico e lo Spirito del Mondo sono una cosa sola.
ERNEST. E colui che è in possesso di questo spirito, o che ne è posseduto, non farà niente, suppongo?
GILBERT. Come la Persefone di cui Landor ci narra, la dolce pensosa Persefone ai cui candidi piedi fioriscono l’asfodelo e l’amaranto, egli si siederà contento «in quella profonda, immobile quiete che i mortali compatiscono, e che gli dèi godono». Guarderà fuori il mondo e conoscerà il suo segreto. A contatto con le cose divine diventerà divino. La sua sarà la vita perfetta, e la sua soltanto.
ERNEST. Mi hai detto molte cose strane questa notte, Gilbert. Mi hai detto che è più difficile parlare di una cosa che farla, e che non fare niente del tutto è la cosa più difficile al mondo; mi hai detto che tutta l’arte è immorale, e tutti i pensieri sono pericolosi; che la critica è più creativa della creazione, e che la critica più alta è quella che rivela nell’opera d’arte ciò che l’artista non vi ha messo; che è proprio perché un uomo non sa fare una cosa, egli ne è il giudice più adatto; e che il vero critico è ingiusto, insincero e irrazionale. Amico mio, tu sei un sognatore.
GILBERT. Sì: sono un sognatore. Perché il sognatore è colui che può solo trovare la sua strada al chiaro di luna, e la sua punizione è che egli scorge l’alba prima del resto del mondo.
ERNEST. La sua punizione?
GILBERT. E il suo premio. Ma, guarda, è già l’alba. Scosta le tende e spalanca la finestra. Com’è fresca l’aria del mattino! Piccadilly si stende ai nostri piedi come un lungo nastro d’argento. Una lieve bruma purpurea è sospesa sul Parco, e purpuree sono le ombre delle case bianche. È troppo tardi per dormire. Andiamo al Covent Garden a guardare le rose. Vieni! Sono stanco di pensare.
***NOTE AL TESTO***
[1] Philip Sidney (Penshurst, 1554 – Zutphen, 1586), poeta, militare e cortigiano britannico, fu una delle figure più importanti dell’età elisabettiana, famoso, tra le altre cose, per aver scritto la raccolta di sonetti e canzoni Astrophil e Stella.
[2] Samuel Daniel (Taunton, 1562 – Beckington, 1619), poeta inglese, scrisse una storia d’Inghilterra, The Complaint of Rosamond, il suo primo lavoro poetico (1592), il poema storico in ottava rima First Four Books of the Civil Wars (1595) e i Poetical Essays (1599).
[3] Ben Johnson (Londra, 1572 – Londra, 1637), drammaturgo e poeta inglese, con la sua abilità artistica esercitò un’influenza duratura sulla poesia inglese e sulla commedia teatrale. Egli è conosciuto per le sue opere satiriche – Every Man in His Humor (1598), Volpone, o The Fox (c. 1606), The Alchemist (1610) e Bartholomew Fair (1614) – e per la sua poesia lirica ed epigrammatica. Viene considerato il secondo drammaturgo inglese più importante, dopo William Shakespeare, durante il regno di Giacomo I.
[4] Christopher Marlowe (Canterbury, 1564 – Londra, 1593), drammaturgo, poeta e traduttore inglese, oltre che per la sua dissolutezza viene ricordato per aver scritto Doctor Faustus (1590), che ispirò Goethe.
[5] Cioè Shakespeare.
[6] Robert Bulwer-Lytton, I conte di Lytton (Londra, 1831 – Parigi, 1891), politico britannico, Viceré dell’India (dal 1876 al 1880) e ambasciatore della Gran Bretagna in Francia (dal 1887 al 1891), fu anche poeta col nome d’arte di Owen Meredith.
[7] Che m’importa che tu sia saggia?/ Sii bella e sii triste! – Charles Baudelaire, Madrigal triste, XC, Fleurs du mal.
[8] Charles Baudelaire, L’Héautontimorouménos, CV, Fleurs du mal.
[9] La figlia del re di Sicilia in TheWinter’s Tale di Shakespeare.
[10] Meleagro di Gadara (Gadara, 130 a.C. – 60 a.C. circa) filosofo, scrittore e poeta greco antico, è noto soprattutto come autore di epigrammi erotici, eleganti e leggiadri, che cantano alcuni etere come Eliodora e Zenofila, altri l’amore verso fanciulli e uomini. Fu anche l’autore di una antologia di epigrammi, La Corona, con componimenti propri e di altri autori contemporanei, che è la più antica che si conosca.
[11] Eroina dei Misérables di Victor Hugo (Besançon, 1802 – Parigi, 1885).
[12] Eroina dell’omonimo romanzo di Antoine François Prévost (Hesdin, 1697 – Chantilly, 1763).
[13] Didone, cantata da Virgilio.
[14] Cantato da Eschilo.
[15] Filone di Alessandria, noto anche come Filone giudeo (Alessandria d’Egitto, 20 a.C. ca – 45 d.C. ca), filosofo ebreo antico naturalizzato romano, la cui originalità consiste nell’aver interpretato la Bibbia secondo la filosofia platonica, sebbene siano presenti anche elementi tratti dallo stoicismo, dall’epicureismo e da altre correnti filosofiche ellenistiche. Egli vede nella teoria del demiurgo (esposta da Platone nel suo Timeo), il Dio creatore ebraico. Il platonismo lo influenza anche per quanto concerne la dottrina dell’esistenza di Dio: Dio è ineffabile e il linguaggio non è uno strumento sufficiente per esprimerne l’essenza.
[16] Meister Eckhart, pseudonimo di Eckhart von Hochheim (Hochheim, 1260 ca – Colonia o Avignone, 1327/1328), religioso domenicano tedesco, è stato uno dei più importanti teologi, filosofi e mistici renani del Medioevo cristiano e ha segnato profondamente la storia del pensiero tedesco. Con la bolla In Agro Dominico (1329), papa Giovanni XXII condannò gran parte dei suoi scritti come eretici secondo la Chiesa cattolica, benché la sua figura abbia continuato a influenzare la chiesa tedesca e la filosofia.
[17] Jacob Böhme (Alt Seidenberg, 1575 – Görlitz, 1624), filosofo, teologo e mistico luterano, fu uno dei principali esponenti del misticismo cristiano moderno. La sua prima opera, Aurora consurgens, è un libro di misticismo panteistico, in cui le idee speculative più ardite si incontrano con l’ortodossia più sincera.
[18] Emanuel Swedenborg, (Stoccolma, 1688 – Londra, 1772), filosofo, mistico, teologo, medium e chiaroveggente svedese, è considerato tra i precursori dello spiritismo. Le nozioni teologiche che Swedenborg espose furono molto distanti dalla Chiesa ufficiale e lo condussero a una vera e propria condanna da parte della Chiesa Luterana di Svezia. Nell’opera Arcana Cœlestia, scritta tra il 1746 e il 1747, ed anche in altri suoi scritti, egli narra le sue visioni ed i suoi colloqui con angeli e demoni.
[19] Peire Vidal, nato nella seconda metà del XII secolo e morto non oltre il 1205/1206, è stato uno dei più celebri trovatori provenzali, identificabile molto probabilmente con Peire Pelissier. Di origini borghesi trascorse una vita avventurosa e inquieta. Viaggiò molto e si recò in Ungheria, in Terra santa, a Cipro, a Genova, a Pisa, a Malta e in Spagna. I 44 testi poetici a noi pervenuti sono ricchi di riferimenti autobiografici e storici; essi riprendono lo stile e i temi tradizionali ma con un’ironia assai originale e con un nuovo intento parodistico.
[20] Pietro Abelardo (Le Pallet, 1079 – Chalon-sur-Saône, 1142), filosofo, teologo e insegnante franco, fu un precursore della scolastica, ma per alcune idee fu considerato eretico dalla Chiesa cattolica nel Concilio Lateranense II del 1139. Resta comunque soprattutto noto per la sua storia d’amore con Eloisa, nata dalla scandalosa unione di Hersint di Champagne, Signora di Montsoreau (fondatrice dell’Abbazia di Fontevraud), con il siniscalco di Francia Gilberto di Ghirlanda.
[21] François Villon (Parigi, 1431 – ??, dopo il 1463), poeta francese, ma anche ladro e vagabondo, a seguito di una rissa fu condannato all’impiccagione come recidivo. In quell’occasione scrisse la Ballade des Pendus (Ballata degli impiccati), che è una delle sue opere migliori.
[22] Percy Bysshe Shelley (Horsham, 1792 – Viareggio, 1822), poeta britannico e uno dei più celebri lirici romantici, scrisse opere da antologia quali Ozymandias, l’Ode al vento occidentale (Ode to the West Wind), A un’allodola (To a Skylark) e La maschera dell’anarchia (The Masque of Anarchy), ma quelli che vengono considerati i suoi capolavori furono i poemi narrativi visionari come il Prometeo liberato (Prometheus Unbound) e l’Adone (Adonais). La vita anticonformista e l’idealismo assoluto di Shelley ne fecero una figura nota e oggetto di denigrazione per tutta la sua esistenza.
[23] Personaggio della mitologia greca, del quale si narra che Selene (la dea della luna) fosse perdutamente innamorata di lui, e che, mentre lo contemplava addormentato, pregasse Zeus di mantenerlo etrnamente in quello stato. Licinnio di Chio racconta invece una storia differente, in cui fu Hypnos, il dio del sonno, a rimanere affascinato oltre ogni dire dalla sublime bellezza del giovane uomo: gli donò così la facoltà di “dormire ad occhi aperti”, così da permettere al dio di poter ammirare a pieno il suo volto.
[24] Personaggio della mitologia classica che, ne Le Metamorfosi di Ovidio, appare come un giovane semidio indiano, figlio di Limnee, una naiade del Gange che l’avrebbe generato nelle acque del fiume dopo l’accoppiamento con un mortale sconosciuto, di nobile lignaggio.
[25] Vita contemplativa.
[26] Il fabianesimo (detto anche fabianismo) è un movimento politico e sociale britannico di ispirazione socialdemocratica. Il movimento fa capo alla Fabian Society, un’associazione istituita a Londra nel 1884 con lo scopo di elevare le classi lavoratrici per renderle idonee ad assumere il controllo dei mezzi di produzione.
[27] Nuova emozione.
[28] Luminista. Con il termine generale di luminismo la critica artistica intende in primo luogo designare un indirizzo pittorico che punta a creare particolari effetti luminosi mediante l’acceso contrasto fra ombra e luce, con un uso incidente e violento di quest’ultima in un contesto di intonazione scura.Con luminismo si indica altresì una forma di impressionismo o di neo-impressionismo pittorico che assegna primaria importanza alla luce e ai suoi effetti. In quest’accezione il termine fu usato anzitutto per definire lo stile del pittore belga Émile Claus e degli artisti che ne seguirono le orme.
[29] Simbolista. Il simbolismo è un movimento culturale sviluppatosi in Francia negli ultimi due decenni del XIX secolo che si manifestò nella letteratura, nelle arti figurative e di riflesso nella musica. Sebbene manifestazioni di arte simbolista si siano avute anche prima, convenzionalmente si fa coincidere la data di nascita del Simbolismo con la pubblicazione, nel 1886, del Manifesto del Simbolismo del poeta Jean Moréas.
[30] Walter Savage Landor (Warwick, 1775 – Firenze, 1864) è stato uno scrittore e critico inglese, del quale la parte più duratura delle opere in prosa è costituita dalla Imaginary Conversations (Conversazioni immaginarie), ispirate dai Dialoghi dei morti di Luciano di Samosata, nonché dalle opere di Fontenelle e di Fénelon.
[31] Johann Wolfgang von Goethe.
[32] Sono luoghi e bellezze degli antichi Collegi annessi alle Università di Oxford e di Cambridge: il Magdalen College, fondato da William of Waynfleete, vescovo di Winchester nel 1457; il Christ Church College, fondato nel 1524 dal Cardinale Wolsey; il St. John’s College, fondato nel 1511 da Lady Margaret, madre di Arrigo VII.
[33] Caliban, lo schiavo selvaggio e deforme, figliuolo della strega Sycorax, ne La tempesta di Shakespeare.
[34] Costanza è madre di Arturo, nipote del Re Giovanni, nell’omonima tragedia di Shakespeare.
[35] Sir Joshua Reynolds (Plympton, 1723 – Londra, 1792), 1723-1792, pittore inglese formatosi alla scuola dei pittori italiani e di Rembrandt, fu grandissimo nel ritratto.
[36] Thomas Gainsborough (Sudbury, 1727 – Londra, 1788), pittore inglese, attivo soprattutto come ritrattista e paesaggista, fu grande ammiratore di Van Dyck, ma piuttosto scolaro di Velasquez.
[37] Walter Besant (Portsmouth, 1836 – Londra, 1901), scrittore poliedricofu fu attivo in diversi ambiti. Oltre all’attività giornalistica scrisse saggi critico-letterari, saggi storici, biografie, traduzioni e drammi teatrali. Nel 1884 fu membro fondatore e presidente fino al 1892 della Society of Authors (Società degli Autori). Ottenne comunque i suoi maggiori successi come romanziere.
[38] Come ho già rilevato a proposito della Decadenza della menzogna, in Inghilterra non pronunciare le aspirate, o pronunciarle a sproposito, è una scorrettezza dialettale che denuncia bassi natali o una scarsa istruzione.
[39] Stendhal, pseudonimo di Marie-Henri Beyle (Grenoble, 1783 – Parigi, 1842).
[40] Behemoth è una creatura leggendaria biblica, menzionata in Giobbe 40, 15-24.
[41] Leviatano è una sorta di serpente marino, noto sia nella teologia che nella mitologia e che viene citato in diversi libri della Bibbia ebraica.
[42] Johann-Peter Eckermann (Winsen, 1792 – Weimar, 1854), poeta e critico letterario tedesco, è noto prevalentemente la sua opera Conversazioni con Goethe, vero e proprio riferimento per gli studi sul poeta.
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