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Marco M. G. Michelini | 13 Ottobre 2024

IL CRITICO COME ARTISTA

Con alcune considerazioni sopra l’importanza del non fare niente

 

traduzione italiana

di

MARCO M. G. MICHELINI

 

 

 

DIALOGO. Parte I

Personaggi: GILBERT ed ERNEST

Scena: La biblioteca di una casa a Piccadilly, che sovrasta il Green Park.

***

GILBERT (al pianoforte). Ernest, mio caro, di cosa stai ridendo?

ERNEST (alzando gli occhi). Di una bellissima storia in cui mi sono or ora imbattuto in questo volume di memorie che ho trovato sul tuo tavolo.

GILBERT. Che libro è? Ah! Vedo. Non l’ho ancora letto. È un buon libro?

ERNEST. Ecco, mentre suonavi, ho scorso le pagine con un certo divertimento, sebbene di solito, io non ami i testi moderni di memorie. Generalmente sono scritti da persone che o hanno perso del tutto la propria memoria, oppure non hanno mai combinato nulla che sia degno d’essere ricordato; il che, senza dubbio, è la spiegazione effettiva della loro popolarità, dato che il pubblico inglese si sente sempre perfettamente a suo agio quando a parlargli è una persona mediocre.

GILBERT. Sì, il pubblico è meravigliosamente tollerante. Perdona tutto tranne il genio. Ma debbo confessare che le memorie mi piacciono tutte. Mi piacciono per la loro forma, quanto per il loro argomento. In letteratura il puro egotismo è gradevolissimo. È quel che ci affascina nelle lettere di persone tanto diverse quali Cicerone e Balzac, Flaubert e Berlioz, Byron e Madame de Sévigné. Ogni volta che ci imbattiamo in esso, il che, alquanto stranamente, è piuttosto raro, non possiamo fare a meno di accoglierlo con favore e difficilmente lo dimentichiamo. L’umanità amerà Rousseau per sempre poiché ha confessato i suoi peccati non a un prete, ma al mondo; e le ninfe sdraiate che il Cellini cesellò in bronzo per il castello del re Francesco, ed il verde e aureo Perseo che nella Loggia aperta di Firenze mostra alla luna il morto terrore che un tempo cangiava la vita in pietra, non le hanno donato più piacere di quella autobiografia in cui il supremo mascalzone del Rinascimento rievoca la vicenda del suo splendore e della sua vergogna. Le opinioni, il carattere, le imprese dell’uomo, hanno davvero ben poca importanza. Egli potrebbe essere uno scettico come il gentile Sieur de Montaigne, o un santo come il severo figlio di Monica, ma quando ci rivela i suoi segreti più nascosti può sempre incantare le nostre orecchie all’ascolto e le nostre labbra al silenzio. La forma di pensiero che il cardinale Newman rappresentava – ammesso che si possa definire forma di pensiero un tentativo che cerca di risolvere i problemi intellettuali attraverso la negazione della preminenza dell’intelletto – non credo possa sopravvivere. Ma il mondo non si stancherà mai nel contemplare quell’anima inquieta nel suo procedere dalle tenebre verso le tenebre. La solitaria chiesa di Littlemore, dove “il respiro mattutino è umido, e i fedeli sono pochi”, le sarà sempre cara, e tutte le volte che gli uomini vedranno la gialla bocca di leone fiorire sul muro del Trinity penseranno a quel grazioso studente che scorse nel sicuro ritorno del fiore una profezia del suo perenne restare con la Madre Benigna dei suoi giorni – una profezia che la Fede, nel suo volto saggio o folle, non permise che si realizzasse. Sì; l’autobiografia è irresistibile. Il povero, sciocco, presuntuoso Segretario Pepys s’è insinuato, a forza di chiacchiere, nella cerchia degli Immortali, e , ben sapendo che l’indiscrezione è la parte migliore del valore, si affaccenda in mezzo a loro indossando quella “rozza veste purpurea con bottoni d’oro e galloni di pizzo“, che ama tanto descrivere, e blaterando, perfettamente a suo agio, con suo e nostro infinito diletto, della sottoveste azzurra d’India che aveva acquistato per sua moglie, delle “gustose frattaglie di porco”, e della “squisita fricassea francese di vitello”’ che egli amava mangiare, della sua partita a bocce con Will Joyce, e del suo “ronzare appresso alle bellezze”, e del suo declamare l’Amleto la domenica, e del suo suonare la viola nei giorni feriali, o di altre cose corrotte e triviali. Persino nella vita di oggi l’egotismo non manca di fascino. Quando la gente ci parla degli altri è di solito monotona. Ma quando ci parla di sé è quasi sempre interessante, e se si potesse chiuderle la bocca – quando diventa noiosa – con la stessa facilità con cui si può chiudere un libro che ci ha stancato, sarebbe assolutamente perfetta.

ERNEST. C’è parecchia virtù in quel se, come direbbe Touchstone. Ma tu lanci davvero l’dea che ogni uomo diventi il Boswell di séstesso? Che ne sarebbe in quel caso dei nostri industriosi compilatori di Vite e Memorie?

GILBERT. Cosa ne è stato? Sono i parassiti della nostra epoca, né più né meno. Oggigiorno ogni grande uomo ha i suoi discepoli, ed è sempre Giuda che ne scrive la biografia.

ERNEST. Amico mio caro!

GILBERT. Temo sia vero. Una volta canonizzavamo i nostri eroi. La prassi moderna consiste nel volgarizzarli. Le edizioni economiche dei grandi libri possono essere piacevoli, ma le edizioni economiche dei grandi uomini sono del tutto detestabili.

ERNEST. Posso chiederti, Gilbert, a chi alludi?

GILBERT. Oh! A tutti i nostri litterateurs di second’ordine. Siamo invasi da una genia di persone che, nel momento in cui un poeta o un pittore se ne va, gli piomba in casa con le pompe funebri e dimentica che il suo solo dovere è quello di restare muto. Ma non parliamo di quella gentaglia. Sono semplicemente i ladri dei cadaveri della letteratura. A uno va la polvere, all’altro vanno le ceneri, e l’anima va oltre la loro portata. E ora, lascia che ti suoni Chopin, o Dvorák? Vuoi che ti suoni una fantasia di Dvorák? Scrive brani appassionati, con coloriture singolari.

ERNEST. No; in questo momento non ho voglia di musica. È troppo indefinita. Oltretutto, ieri sera, ho portato a cena la baronessa Bernstein, e, per quanto sia assolutamente incantevole sotto ogni altro aspetto, ha insistito a voler discutere di musica come davvero se fosse composta in tedesco. Ora, a qualunque cosa somigli la musica, sono lieto di affermare che non assomiglia per niente al tedesco. Ci sono forme di patriottismo che si rivelano davvero parecchio degradanti. No; non suonare più, Gilbert. Girati e parla con me. Parlami finché il giorno dalle bianche corna non giunga nella stanza. C’è qualcosa di meraviglioso nella tua voce.

GILBERT (alzandosi dal pianoforte). Questa notte non sono dell’umore adatto per parlare. No, davvero non lo sono! Che gesto orribile, da parte tua, sorridere! Dove sono le sigarette? Grazie. Come sono deliziosi questi narcisi! Sembrano fatti d’ambra e di gelido avorio. Sembrano opere Greche del periodo migliore. Qual’era la storia che ti ha fatto ridere nelle confessioni dell’accademico affranto? Raccontamela. Dopo aver suonato Chopin, mi sento come se avessi pianto su peccati che non ho mai commesso, e mi fossi amareggiato per tragedie che non erano mie. La musica mi sembra sempre produrre questo effetto. Dà origine ad un passato del quale eri all’oscuro, e ti pervade con un senso di afflizioni che erano ignote alle tue lacrime. Posso immaginare un uomo che abbia trascorso una vita del tutto banale, e che udendo casualmente un insolito motivo musicale, scopra improvvisamente che la sua anima, senza che lui ne abbia avuto coscienza, ha attraversato terribili esperienze e conosciuto gioie paurose, o folli amori romantici, o grandi rinunce. E adesso, Ernest, raccontami questa storia. Ho bisogno d’essere divertito.

ERNEST. Oh! Non so dire se la storia abbia una qualche importanza. Ma ho pensato che fosse davvero una mirabile immagine dell’autentico valore della critica d’Arte corrente. Sembra che una volta una signora abbia chiesto molto seriamente all’accademico affranto, come tu lo chiami, se il suo famoso quadro intitolato Giornata di primavera al Whiteley, o Attendendo l’ultimo omnibus, o qualcosa del genere, era stato interamente dipinto a mano.

GILBERT. E lo era?

ERNEST. Sei proprio incorreggibile. Ma, seriamente parlando, a cosa serve la critica d’Arte? Perché l’artista non può essere lasciato solo a creare un nuovo mondo se lo desidera, o, in caso contrario, a offuscare il mondo che già conosciamo e del quale, mi immagino, tutti quanti noi ci stancheremmo se l’Arte, con il suo bello spirito d’elezione e delicato istinto di selezione, non ce lo purificasse, per così dire, e gli fornisse una perfezione momentanea? Mi sembra che l’immaginazione diffonda, o dovrebbe diffondere, una solitudine attorno, e che operi meglio nel silenzio e nell’isolamento. Perché l’artista dovrebbe essere seccato dal clamore stridulo della critica? Perché coloro che non sono in grado di creare si dovrebbero incaricare di stimare il valore dell’opera creativa? Che cosa ne possono sapere? Se l’opera di un uomo è facile da capire, una spiegazione è superflua…

GILBERT. E se l’opera sua è incomprensibile, una spiegazione è maligna.

ERNEST. Non ho detto questo.

GILBERT. Ah! Però avresti dovuto dirlo. Oggidì ci restano così pochi misteri che non possiamo permetterci di di perderne neppure uno solo. I membri della Browning Society, come i teologi del Broad Church Partey, o gli autori della Serie di Grandi Scrittori di Mr. Walter Scott, mi pare che trascorrano il loro tempo cercando di spiegare invano la loro divinità. Si era sperato che Browning fosse un mistico, ma essi hanno cercato di dimostrare che aveva semplicemente difficoltà ad esprimersi. Là dove si era immaginato che avesse qualcosa da nascondere, costoro hanno dimostrato che aveva soltanto poco da rivelare. Ma io parlo solo dei suoi lavori incoerenti. Se lo si considera nella sua totalità, l’uomo fu grande. Non fece parte della schiera degli Olimpi, ed ebbe tutte le incompletezze del Titano. Non osservava, e solo di rado fu in grado di cantare. La sua opera è sciupata da lotte, violenza e sforzo, ed egli non passò dall’emozione alla forma, ma dal pensiero al caos. Tuttavia, fu grande. È stato definito un pensatore, e fu per certo un uomo che pensava sempre, e sempre ad alta voce; ma non era il pensiero che lo incantava, bensì i processi attraverso i quali il pensiero si muove. Egli amava la macchina, non ciò che la macchina fa. Il metodo con cui il folle giunge alla sua follia gli era tanto gradito quanto la basilare saggezza del sapiente. In verità, lo affascinava a tal punto il sottile meccanismo della mente che ebbe in spregio il linguaggio, o lo considerò uno strumento incompleto dell’espressione. La rima, quell’eco squisita che nel cavo colle delle Muse crea la sua propria voce e le risponde; la rima, che nelle mani del vero artista diviene non semplicemente un elemento materiale della bellezza metrica, ma un elemento spirituale del pensiero e della passione, destando un nuovo stato d’animo, magari, o favorendo una nuova successione di idee, o dischiudendo mediante la pura dolcezza e la suggestione del suono una qualche aurea porta alla quale l’Immaginazione stessa aveva bussato invano; la rima, che può tramutare la parola umana umana in discorso divino; la rima, l’unica corda che abbiamo aggiunto alla lira greca, nelle mani di Robert Browning divenne una cosa grottesca, deforme, che talvolta lo spinse a mascherarsi, in poesia, come un attore gigione e, troppo spesso, a cavalcare Pegaso con la lingua fra i denti. In certi momenti egli ci ferisce con una musica mostruosa. Anzi, se per raggiungere la sua musica deve rompere le corde del suo liuto, lui le rompe, e loro scattano su con strepito discorde, e nessuna cicala ateniese, che crea la sua melodia da tremule ali, si posa sul corno eburneo per rendere il movimento perfetto, o l’intervallo meno aspro. Eppure, egli fu grande: e benché trasformasse il linguaggio in ignobile argilla, lo ricavò da uomini e donne viventi. Egli è la creatura più shakespeariana dai tempi di Shakespeare in poi. Se Shakespeare seppe cantare con migliaia di labbra, Browning sapeva balbettare con migliaia di bocche. Anche adesso, mentre parlo, e parlo non contro di lui ma a suo favore, la processione dei suoi personaggi attraversa la stanza. Lì avanza furtivo Fra Lippo Lippi con le sue guance ancora ardenti del caldo bacio di una giovane donna. Lì campeggia il temibile Saul, con i magnifici zaffiri maschi scintillanti sul turbante. Mildred Tresham è lì, e il monaco Spagnolo, terreo d’odio, e Blougram, e Ben Ezra, e il vescovo di Santa Prassede. La progenie di Setebo borbotta in disparte, e Sebald, ascoltando Pippa che passa, guarda il viso ispido di Ottima, e ha orrore di lei e del suo proprio peccato, e di se stesso. Pallido come il bianco raso del suo farsetto, il re melanconico osserva con occhi sognanti ed infidi il troppo leale Strafford che viene condotto al patibolo, e Andrea trema udendo il fischio del cugino nel giardino, e supplica la sua donna perfetta di scendere. Sì, Browning fu grande. E in che modo sarà ricordato? Come poeta? Ah, non come poeta! Egli sarà ricordato come narratore, come il più grande narratore che, probabilmente, abbiamo mai avuto. Il suo senso della situazione drammatica fu impareggiabile, e, se non riuscì a risolvere i propri problemi, fu perlomeno capace di proporne, e che potrebbe fare di più un artista? Considerato come un creatore di personaggi, egli è inferiore solo a colui che inventò Amleto. Se fosse stato eloquente, avrebbe potuto sedergli accanto. Il solo uomo che può toccargli l’orlo del vestito è Gorge Meredith. Meredith è un Browning in prosa, come lo è Browning, del resto. Usò la poesia come un mezzo per scrivere in prosa.

ERNEST. C’è qualcosa in quello che dici, ma non  tutto. In molti punti tu sei ingiusto.

GILBERT. È difficile non essere ingiusti verso ciò che si ama. Ma torniamo al punto in questione. Cos’è ciò che hai detto?

ERNEST. Semplicemente questo: che nei giorni migliori dell’Arte non c’erano critici d’Arte.

GILBERT. Mi pare d’averla già sentita questa osservazione, Ernest. Possiede tutta la vitalità dell’errore e tutto il tedio di un vecchio amico.

ERNEST. È vero. Sì: non occorre che tu scrolli il capo in quel modo petulante. È proprio vero. Nei giorni migliori dell’Arte non c’erano critici d’Arte. Lo scultore sbozzava dal blocco di marmo il grande Hermes dalla bianche membra che vi dormiva dentro. I lucidatori e i doratori di immagini davano lustro e struttura alla statua, e il mondo, nel vederla, la venerava muto. Egli versava il bronzo incandescente nello stampo fatto di sabbia, e il fiume di rosso metallo si raffreddava in nobili curve e prendeva l’impronta del corpo di un dio. Con smalto o gemme luminose donava vista agli occhi senza vista. I boccoli simili ai giacinti s’increspavano sotto il suo bulino. E quando, in qualche oscuro tempio affrescato, o in qualche soleggiato portico a colonne, il figlio di Leto si ergeva sul suo piedistallo, coloro che passavano, ἁβρ̃ως βαίνοντες δία λαμπροτάτου αιθέρος[1], divenivano consci di un nuovo influsso che era sceso sulle loro vite, e sognanti, o con una sensazione di gioia singolare e vivificante, andavano nelle loro case o al lavoro quotidiano, o vagavano, forse, fuori dalle porte della città verso quel prato abitato da ninfe, dove il giovane Fedro bagnava i propri piedi, e lì, distesi sull’erba soffice, sotto gli alti platani che sussurrano nel vento e i fioriti agnus castus, cominciavano a meditare sul miracolo della bellezza, e si facevano silenziosi con insolita soggezione. In quei giorni l’artista era libero. Dalla valle del fiume egli prendeva l’argilla fine fra le dita, e con un piccolo strumento di legno o d’osso, la modellava in forme così squisite che la gente le donava ai morti come loro trastulli, e noi li ritroviamo ancora oggi nei sepolcri polverosi sul colle dorato presso Tanagra, con l’oro pallido e il rosso evanescente che indugia ancora su capelli e labbra e vestiti. Su una parete intonacata di fresco, macchiata di minio brillante o mischiato a latte e zafferano, egli dipingeva una che percorreva con piedi stanchi i purpurei, bianco‑stellati campi di asfodeli, una «nelle cui palpebre stava tutta la guerra di Troia», Polissena, la figlia di Priamo; o raffigurava Odisseo, saggio e astuto, legato con strette corde all’albero maestro, per poter ascoltare senza danno il canto delle Sirene, o errante lungo le pallide rive dell’Acheronte, dove gli spiriti dei pesci guizzavano sul fondo sassoso; o mostrava il Persiano in pantaloni e mitria mentre fuggiva davanti ai greci a Maratona, o le galee che cozzavano con i loro rostri d’ottone nella piccola baia di Salamina. Disegnava con una punta d’argento o col carbone su pergamena o su cedro preparato. Su avorio e terracotta di colore rosa dipingeva con la cera, rendendo la cera fluida con il succo delle olive, e fissandola con ferri caldi. Tavole e marmo e tela di lino divenivano meravigliosi sotto il tocco del suo pennello; e la vita vedendo la sua propria immagine stava immobile, e non osava parlare. Tutta la vita, davvero, gli apparteneva, dai mercanti seduti sulla piazza del mercato, al pastore coperto da un mantello che giaceva sul colle; dalla ninfa nascosta fra i lauri e dal fauno che suonava il flauto a mezzogiorno, al re che, nella lunga lettiga dalle cortine verdi, gli schiavi portavano sulle spalle lucide d’olio, facendogli vento con flabelli di penne di pavone. Uomini e donne, con gioia o dolore sui loro volti, passavano davanti a lui. Egli li guardava e il loro segreto diventava suo. Tramite la forma e il colore egli ricreava un mondo.

A lui appartenevano anche tutte le arti sottili. Egli teneva la gemma contro il disco rotante, e l’ametista diveniva il giaciglio purpureo di Adone, e attraverso la sardonica venata Artemide correva con i suoi segugi. Battendo l’oro lo trasformava in rose, e le legava insieme per farne collana o braccialetto. Batteva l’oro in ghirlande per l’elmo del conquistatore, o in foglie di palme per l’abito tirio, o in maschere funebri per i reali. Sul retro dello specchio argenteo cesellava Teti portata dalle sue Nereidi, o Fedra malata d’amore con la sua balia, o Persefone, stanca dei ricordi, mentre sistemava papaveri nei suoi capelli. Il vasaio sedeva nella sua capanna, e, come un fiore, dalla ruota silenziosa sbocciava il vaso tra le sue mani. Egli decorava la base, lo stelo e le anse con motivi delicati di foglie d’ulivo, o di acanto, o di onde curve e crestate. Poi dipingeva in nero o in rosso giovinetti in lotta o in corsa: cavalieri in intera armatura, con strani scudi araldici e curiose visiere, sporgenti da carri a forma di conchiglia su cavalli impennati: gli dèi seduti al banchetto o nell’atto di compiere prodigi: gli eroi nella loro vittoria o nel loro dolore. Talvolta egli incideva in linee sottili color vermiglio su uno sfondo bianco il languido sposo e la sua sposa, con Eros che aleggiava attorno a loro – un Eros come uno degli angeli di Donatello, una piccola cosa ridente dalle ali azzurre o dorate. Sul lato curvo scriveva il nome del suo amico. ΚΑΛΟΣ ΑΛΚΙΒΙΑΔΕΣ[2]o ΚΑΛΟΣ ΧΑΡΜΙΔΕΣ[3] ci narra la storia dei suoi giorni. Ancora, sull’orlo dell’ampia coppa piatta dipingeva il cerco che pascola, o il leone che riposa, come gli dettava la sua fantasia. Dalla piccola bottiglia di profumo Afrodite rideva alla sua toletta, e, con le ignude Menadi al suo seguito, Dioniso danzava intorno all’orciuolo del vino con i piedi nudi e sporchi di mosto, mentre, come un satiro, il vecchio Sileno si contorceva sulle pelli gonfie, o agitava quella magica lancia sormontata da una pigna intagliata, e inghirlandata con edera scura. E nessuno veniva a infastidire l’artista intento al suo lavoro. Nessuna irresponsabile chiacchiera lo distraeva. Non si curava delle opinioni. Presso l’Ilisso, dice Arnold da qualche parte, non c’era alcun Higginbotham. Presso l’Ilisso, mio caro Gilbert, non esistevano sciocchi congressi d’Arte a portare il provincialismo alle province e a insegnare alla mediocrità in che modo esprimersi. Presso l’Ilisso, non c’erano noiose riviste sull’Arte, in cui i pedanti ciarlano di ciò che non capiscono. Sulle sponde e fra i canneti di quel piccolo torrente nessun ridicolo giornalismo si pavoneggiava usurpando lo scranno del giudice invece di difendersi sul banco degli accusati. I Greci non avevano critici d’Arte.

GILBERT. Ernest, sei davvero piacevole, ma le tue teorie sono terribilmente errate. Temo che tu sia rimasto ad ascoltare la conversazione di qualcuno più vecchio di te, e questa è sempre una cosa pericolosa da fare: se le concederai di degenerare in abitudine la troverai completamente fatale a qualsiasi sviluppo intellettuale. Per quanto poi riguarda il giornalismo moderno, non spetta a me difenderlo. Esso giustifica la sua propria esistenza con il grande principio darwiniano della sopravvivenza del più volgare. Io mi occupo solamente di letteratura.

ERNEST. Ma qual è la differenza tra letteratura e giornalismo?

GILBERT. Oh! Il giornalismo è illeggibile e la letteratura non viene letta. Questo è quanto. Ma riguardo alla tua affermazione che i greci non avevano critici d’Arte, ti assicuro che è totalmente assurda. Sarebbe molto più appropriato dire che i greci furono un popolo di critici d’Arte.

ERNEST. Veramente?

GILBERT. Sì, un popolo di critici d’Arte. Ma non vorrei distruggere il quadretto delizioso e fantastico che tu hai tratteggiato della relazione tra l’artista ellenico e lo spirito intellettuale della sua epoca. Fornire un’accurata descrizione di ciò che non è mai capitato non è soltanto l’occupazione propria dello storico, ma il privilegio inalienabile di ogni uomo di talento e di cultura. E ancor meno desidero parlare dottamente. La conversazione erudita o è l’affettazione dell’ignorante, o la professione dello scioperato mentale. E riguardo a quella che viene chiamata conversazione morale, altro non è che lo stolto sistema con il quale l’ancor più stolto filantropo tenta debolmente di disarmare il giusto rancore delle classi criminali. No: lascia che ti suoni un folle pezzo scarlatto di Dvorak. Le pallide figure sugli arazzi ci stanno sorridendo, e le pesanti palpebre del mio bronzeo Narciso stanno cadendo dal sonno. Non restiamo a discutere con solennità. Sono fin troppo conscio del fatto che siamo nati in un’epoca nella quale solo le banalità vengono trattate seriamente, e io vivo nel terrore di non essere frainteso. Non declassarmi fino al livello di colui che ti offre utili informazioni. L’istruzione è una cosa ammirevole, ma è bene rammentare ogni tanto che non si po’ insegnare alcunché che meriti d’essere appreso. Attraverso le tende scostate della finestra vedo la luna come un disco d’argento ritagliato. Come api d’oro le stelle le sciamano attorno. Il cielo è un duro zaffiro concavo. Usciamo fuori, nella notte. Il pensiero è meraviglioso, ma più meravigliosa è l’avventura. Chissà che non possiamo incontrare il principe Florizel di Boemia, e udire la bella cubana dirci che lei non è ciò che sembra?

ERNEST. Sei orribilmente cocciuto. Insisto perché tu discuta questo argomento con me. Hai detto che i greci furono un popolo di critici d’Arte. Quale critica d’Arte ci hanno lasciato?

GILBERT. Mio caro Ernest, anche se neppure un singolo frammento di critica d’Arte ci fosse pervenuto dai tempi ellenici o ellenistici, non sarebbe meno vero che i greci siano stati un popolo di critici d’Arte, e che essi abbiano inventato la critica d’Arte così come hanno inventato la critica di ogni altra cosa. Poiché, dopo tutto, qual è il nostro principale debito nei riguardi dei greci? Semplicemente lo spirito critico. E, questo spirito, che essi esercitarono su questioni di religione e scienza, di etica e metafisica, di politica e di educazione, lo esercitarono anche su questioni artistiche, e, in verità, anche sulle due arti supreme e più alte ci hanno lasciato il più perfetto sistema di critica che il mondo abbia mai veduto.

ERNEST. Ma quali sono le due arti supreme e più alte?

GILBERT. La Vita e la Letteratura, la vita e la perfetta espressione della vita. I principi della prima, così come sono stati teorizzati dai greci, in un’epoca come la nostra, così rovinata da falsi ideali, noi possiamo non comprenderli. I principi della seconda, così come sono stati teorizzati dai greci, in molti casi sono tanto sottili che a malapena riusciamo a capirli. Riconoscendo che l’Arte più perfetta è quella che rispecchia in modo più completo l’uomo in tutta la sua infinita varietà, essi elaborarono la critica del linguaggio, considerato alla stregua di semplice materiale di quell’Arte, fino a un punto che noi, con il nostro sistema accentuativo d’enfasi razionale o emozionale, possiamo raramente o per nulla raggiungere; ad esempio, studiando scientificamente i movimenti metrici di una prosa come un moderno musicista studia l’armonia e il contrappunto, e, non c’è bisogno dirlo, con un istinto estetico assai più acuto. In questo avevano ragione, come avevano ragione in ogni cosa. A seguito dell’introduzione della stampa, e del fatale sviluppo dell’abitudine alla lettura tra le classi medie e inferiori in questo paese, v’è stata nella letteratura una propensione a sollecitare sempre più la vista, e sempre meno l’udito, il quale, dal punto di vista dell’Arte pura, è in realtà il senso che essa dovrebbe cercare di soddisfare, e ai cui canoni di piacere dovrebbe sempre conformarsi. Persino l’opera di Mr. Pater, che è, nel complesso, il più perfetto maestro della prosa inglese attualmente in attività fra noi, è spesso assai più simile a una tessera di mosaico che a un passaggio musicale, e pare, qua e là, difettare della genuina vita ritmica delle parole e della bella libertà e ricchezza di effetto che tale vita ritmica produce. Noi, difatti, abbiamo reso la scrittura un modo definito di composizione, e l’abbiamo trattata come una forma di disegno elaborato. I greci, d’altro canto, consideravano lo scrivere semplicemente come un metodo per fare cronaca. Il loro metodo di comparazione era sempre la parola parlata nelle sue relazioni musicali e metriche. La voce era il mezzo e l’orecchio il critico. Talvolta ho pensato che la storia della cecità di Omero fosse in realtà un mito artistico, creato nei giorni della critica, e volto a ricordarci non solo che il grande poeta è sempre un veggente, che vede meno con gli occhi del corpo di quanto faccia con gli occhi dell’anima, ma che è anche un vero cantore, che compone i suoi canti dalla musica, ripetendo più volte a se stesso ogni verso, finché non abbia colto il segreto della sua melodia, intonando nel buio parole che hanno ali di luce. Certamente, sia o non sia così, fu alla sua cecità, come un’occasione, se non come una causa, che il grande poeta dell’Inghilterra dovette molto del maestoso movimento e del sonoro splendore dei suoi versi più tardi. Quando Milton non fu più in grado di scrivere iniziò a cantare. Chi vorrebbe equiparare i ritmi di Comus ai ritmi del Samson Agonistes, o del Paradiso perduto o Riconquistato? Quando Milton perse la vista compose, come ognuno dovrebbe comporre, con la voce soltanto, e così il flauto o la zampogna dei primi tempi diventarono quel potente organo dalle molte canne, la cui musica ricca e risonante possiede tutta la maestosità del verso omerico, sebbene non cerchi di averne la rapidità, ed è l’unica imperitura eredità della letteratura inglese, e incede maestosamente attraverso tutte le epoche, poiché è al di sopra di esse, e con noi rimane sempre, essendo immortale nella sua forma. Sì: lo scrivere ha danneggiato molto gli scrittori. Noi dobbiamo tornare alla voce. Questo deve essere il nostro banco di prova, e forse allora saremo in grado di apprezzare qualcuna delle sottigliezze della critica d’Arte greca.

Ora com’è ora, non ne siamo in grado. Talvolta, quando ho scritto un brano di prosa che sono stato abbastanza modesto da considerare del tutto scevro di difetti, mi piomba nella mente il terribile pensiero di essermi reso reo dell’immorale effeminatezza di usare movimenti trocaici e tribrachici, un misfatto per il quale un dotto critico dell’epoca d’Augusto censura con più che giusta severità il brillante, anche se talvolta paradossale, Egesia. Rabbrividisco quando ci penso, e mi domando se l’ammirevole effetto etico della prosa di quell’affascinante scrittore, che una volta in un impeto di sfrenata generosità verso la parte incolta della nostra comunità proclamò la dottrina mostruosa che la condotta sia i tre quarti della vita, non sarà un giorno interamente annientato dalla scoperta che i peoni erano stati messi con criterio sbagliato.

ERNEST. Ah! Adesso sei irriverente.

GILBERT. E chi non sarebbe irriverente allorché gli si dice con serietà che i greci non avevano critici d’Arte? Posso comprendere che si dica che il genio costruttivo dei greci si smarrì nella critica, ma non che la razza alla quale dobbiamo lo spirito critico non abbia fatto critica. Non mi chiederai di farti una carrellata della critica d’Arte greca da Platone a Plotino. La notte è troppo adorabile per questo, e la luna, se ci udisse, metterebbe più ceneri sul suo viso di quante ve ne siano già. Ma pensa soltanto a un’unica piccola opera perfetta di critica estetica, alla Poetica di Aristotele. Non è perfetta nella forma, perché è scritta male, poiché forse consiste di appunti buttati giù per una lezione d’Arte, o di frammenti isolati destinati a un trattato più ampio, ma per carattere e dissertazione è assolutamente perfetta. L’effetto etico dell’Arte, la sua importanza per la cultura, e la su funzione nella formazione del carattere, sono stati precisati una volta per sempre da Platone; ma qui abbiamo l’Arte trattata non dal punto di vista della morale, ma da quello puramente estetico. Platone, ovviamente, aveva trattato argomenti artistici in modo rigoroso, quali l’importanza dell’unità in un’opera d’Arte, la necessità del rapporto tra il tono e l’armonia, l’importanza estetica delle apparenze, il rapporto delle arti visive con il mondo esterno, e il legame tra la finzione e il fatto. Egli per primo suscitò forse nell’animo umano quel desiderio, che non abbiamo ancora soddisfatto, di conoscere la connessione tra Bellezza e Verità, e il posto della Bellezza nell’ordine morale e intellettuale del Cosmo. I problemi di idealismo e realismo, come egli li enuncia, possono parere a molti alquanto poveri di risultati nella sfera metafisica dell’essere astratto dove egli li colloca, ma trasferiscili nella sfera dell’Arte, e troverai che sono ancora vitali e pieni di significato. E potrebbe essere per questo che, come critico della Bellezza, Platone è destinato a vivere, e cambiando il nome alla sfera della sua speculazione scopriremo una nuova filosofia. Ma Aristotele, come Goethe, tratta dell’Arte principalmente nelle sue manifestazioni concrete, prendendo la Tragedia, ad esempio, e investigando il materiale che essa usa, cioè la lingua, il suo soggetto, cioè la vita, il metodo con cui opera, cioè l’azione, le condizioni sotto le quali rivela se stessa, cioè quelle della presentazione teatrale, la sua struttura logica, cioè la trama, e il suo fine estetico, cioè il senso della bellezza compreso tramite le passioni della pietà e del timore reverenziale. Quella purificazione e spiritualizzazione della natura che egli chiama κάθαρσις[4] è, come Goethe comprese, essenzialmente estetica e non morale, come immaginò Lessing. Occupandosi prima di tutto dell’impressione che l’opera d’Arte produce, Aristotele si mette ad analizzare quell’impressione, a investigarne la fonte, a vedere come essa s’è prodotta. Come un fisiologo ed uno psicologo, egli sa che la salute di una funzione risiede nell’energia. Avere la capacità di provare una passione e non realizzarla significa rendersi incompleti e limitati. Lo spettacolo mimico della vita che offre la Tragedia purifica il petto di molta “pericolosa materia”, e, presentando alti e virtuosi oggetti per l’esercizio delle emozioni, essa depura e spiritualizza l’uomo; anzi, non soltanto lo spiritualizza, ma lo inizia anche ai nobili sentimenti dei quali altrimenti egli avrebbe potuto non sapere nulla, avendo la parola κάθαρσις, talvolta mi è parso, una allusione ben precisa al rito dell’iniziazione, per quanto questo non sia, come occasionalmente sono tentato di immaginare, il suo genuino e solo significato in tale contesto. Questo è naturalmente un semplice abbozzo del libro. Ma tu vedi quale perfetto frammento di critica estetica esso sia. Chi, infatti, se non un greco, avrebbe potuto analizzare così bene l’Arte? Dopo averlo letto, non ci si meraviglia più che Alessandria si sia dedicata tanto ampiamente alla critica d’Arte, né di trovare i temperamenti artistici dell’epoca che esaminano ogni questione di stile e di maniera, discutendo le grandi scuole accademiche di pittura, ad esempio, come la scuola di Sicione, che cercò di conservare le dignitose tradizioni dell’antica maniera, o le scuole realistiche e impressionistiche, miravano alla riproduzione della vita effettiva, o gli elementi ideali nell’arte del ritratto, o il pregio artistico della forma epica in un’epoca così moderna come la loro, o i soggetti più confacenti per l’artista. In verità, temo che anche gli intelletti non artistici di quei tempi si impicciassero anche di faccende della letteratura e dell’Arte, dato che le accuse di plagio erano infinite, e tali accuse provengono o dalle labbra sottili e sbiadite dell’impotenza, o dalle bocche grottesche di coloro che, non possedendo alcunché di proprio, immaginano di poter ottenere una fama di benessere gridando a squarciagola d’essere stati rapinati. E ti assicuro, mio caro Ernest, che i greci pontificavano di pittori esattamente come si fa oggigiorno, e avevano i loro vernissages privati, e le loro mostre a uno scellino, e le corporazioni delle arti e dei Mestieri, e movimenti preraffaelliti, e movimenti contro il realismo, e tenevano conferenze sull’Arte, e scrivevano saggi sull’Arte, e producevano i loro storici d’Arte, i loro archeologi, e tutto il resto. Anzi, persino gli impresari teatrali delle compagnie viaggianti si portavano appresso i loro critici drammatici quando andavano in tournée, e li compensavano molto profumatamente affinché scrivessero recensioni d’elogio. Di fatto, tutto quanto c’è di moderno nella nostra vita noi lo dobbiamo ai greci. Tutto quanto c’è di anacronistico è dovuto al medievalismo. Sono i greci che ci hanno dato tutto il sistema della critica d’Arte, e quanto fosse fine il loro istinto critico lo si può vedere dal fatto che il materiale che criticarono con cura maggiore fu, come ho già detto, il linguaggio. Poiché il materiale che impiega il pittore o lo scultore è povero se paragonato a quello delle parole. Le parole non possiedono solo una musica dolce come quella della viola e del liuto, un colore ricco e vivido come quelli che ci rendono amabile la tela del Veneziano o dello Spagnolo, e una forma plastica non meno sicura e certa di quella che si rivela nel marmo o nel bronzo, ma a loro appartengono pure pensiero e passione e spiritualità, anzi, per meglio dire, appartengono unicamente a loro. Se i greci non avessero criticato altro che il linguaggio, sarebbero stati ugualmente i grandi critici d’Arte del mondo. Conoscere i principi dell’Arte più alta significa conoscere i principi di tutte le arti.

Ma vedo che la luna si sta nascondendo dietro una nube color zolfo. Dietro una fulva criniera di cumuli brilla come un occhio di leone. Ha timore che ti voglia parlare di Luciano e di Longino, di Quintiliano e di Dionisio, di Plinio e di Fronto e di Pausania, di tutti coloro che nel mondo antico scrissero o tennero lezioni su argomenti d’Arte. Ma non deve aver timore. Io sono stanco della mia spedizione nel fosco, sordo abisso dei fatti. Nulla mi rimane ormai se non il divino μoνόχρoνoς ἡδoνή[5] di un’altra sigaretta. Le sigarette almeno hanno il fascino di lasciarti insoddisfatto.

ERNEST. Prendi una delle mie. Sono piuttosto buone. Me le faccio arrivare direttamente dal Cairo. La sola utilità dei nostri attachés è che riforniscono i loro amici di tabacco eccellente. E dal momento che la luna s’è nascosta, parliamo ancora un poco. Sono assolutamente pronto a riconoscere di avere errato torto in ciò che ho detto sui greci. Essi furono, come tu hai ben precisato, un popolo di critici d’Arte. Lo riconosco e mi dolgo un poco per loro. Poiché la facoltà creativa è più alta di quella critica. Non c’è davvero alcun paragone tra l’una e l’altra.

GILBERT. L’antitesi tra di loro è totalmente arbitraria. Senza la facoltà critica, non v’è alcuna creazione artistica degna di questo nome. Tu poco fa hai parlato di quel raffinato spirito di scelta e di quel delicato istinto di selezione con cui l’artista coglie per noi la vita, conferendole una momentanea perfezione. Ebbene, quello spirito di scelta, quel sottile tatto di omissione, altro non è se non la facoltà critica in uno dei suoi umori più caratteristici, e nessuno sprovvisto di questa facoltà critica può creare nulla nell’Arte. La definizione di Arnold della letteratura come una critica della vita non fu assai felice nella forma, ma mostrò con quanta tenacia egli riconoscesse l’importanza dell’elemento critico in ogni opera creativa.

ERNEST. Avrei detto che i grandi artisti lavorino inconsciamente, che siano “più saggi di quanto non sappiano”, come mi credo che Emerson faccia notare da qualche parte.

GILBERT. Non è per niente così, Ernest. Ogni bella opera creativa è cosciente e deliberata. Nessun poeta canta perché deve cantare. Per lo meno, nessun grande poeta. Un grande poeta canta perché decide di cantare. È così oggi e così è sempre stato. Talvolta noi siamo propensi a ritenere che le voci che risuonarono all’alba della poesia fossero più semplici, più fresche e più naturali delle nostre, e che il mondo che i primi poeti contemplarono, e che attraversarono, avesse una sorta di qualità poetica intrinseca, e che quasi senza variazioni potesse trasformarsi in canto. Oggi una spessa coltre di neve giace sull’Olimpo, e le sue pareti erte e scoscese sono brulle e aride, ma un tempo, ci immaginiamo, i candidi piedi delle Muse spazzavano al mattino la rugiada dagli anemoni, e la sera giungeva Apollo a cantare ai pastori nella valle. Ma con questo noi non facciamo altro che prestare ad altre epoche ciò che desideriamo, o supponiamo di desiderare, per la nostra. Il nostro senso storico è in errore. Ogni secolo che produce poesia è, pertanto, un secolo artificiale, e l’opera che ci sembra essere il più naturale e semplice prodotto del suo tempo è sempre il risultato dello sforzo più consapevole. Credimi, Ernest, non esiste Arte bella senza autoconsapevolezza, e l’autoconsapevolezza e lo spirito critico sono una cosa sola.

ERNEST. Comprendo ciò che vuoi dire, è c’è molto di vero. Ma ammetterai sicuramente che i grandi poemi del mondo primitivo, i poemi primigeni, anonimi e collettivi, erano il risultato dell’immaginazione delle razze, più che di quella degli individui.

GILBERT. Non quando divennero poesia. Non quando ricevettero una bella forma. Poiché non c’è Arte dove non c’è stile, né stile dove non c’è unità, e l’unità appartiene all’individuo. Senza dubbio Omero ebbe a disposizione vecchie ballate e storie, così come Shakespeare ebbe cronache e drammi e novelle su cui poté operare, ma furono solo il suo materiale grezzo. Egli le prese, e le foggiò in canto. Divennero sue, poiché le aveva rese belle. Divennero costruzioni in musica,

E quindi non costruite affatto,

E perciò costruite per sempre.

Più si studia la vita e la letteratura, più si sente che dietro ogni cosa meravigliosa si cela l’individuo, e che non è il momento che fa l’uomo, ma l’uomo che crea l’epoca. Certamente, sono incline a ritenere che ogni mito e leggenda che ci sembri nascere dalla meraviglia, o dal terrore, o dall’immaginazione tribale o popolare, fosse all’origine l’invenzione di una singola mente. Il numero curiosamente limitato dei miti mi sembra suggerire questa conclusione. Ma non dobbiamo addentrarci in questioni di mitologia comparata. Atteniamoci alla critica. E ciò che voglio sottolineare è questo. Un’età che non possiede critica o è un’età in cui l’Arte è immobile, ieratica, e confinata alla riproduzione di tipi formali, o un’età che non possiede Arte del tutto. Vi sono state epoche critiche che non sono state creative, nel più comune senso della parola, epoche in cui lo spirito dell’uomo ha cercato di mettere ordine tra i tesori del suo scrigno, di separare l’oro dall’argento, e l’argento dal piombo, per contare le gemme, e dare nomi alle perle. Ma non c’è mai stata un’epoca creativa che non sia stata anche critica. Poiché è la facoltà critica che inventa nuove forme. La tendenza della creazione è quella di ripetere se stessa. È all’istinto critico che noi dobbiamo ogni nuova scuola che sorge, ogni nuova forma che l’Arte si ritrova pronta tra le mani. Non esiste in realtà una singola forma che l’Arte usi oggigiorno, la quale non ci provenga dallo spirito critico di Alessandria, dove queste forme furono stereotipate o inventate o rese perfette. Dico Alessandria, non solo perché fu lì che lo spirito greco divenne più autocosciente, e difatti ultimamente si estinse nello scetticismo e nella teologia, ma perché fu grazie a questa città, e non ad Atene, che Roma si rivolse per i suoi modelli, e fu per mezzo della sopravvivenza, così come accadde, della lingua latina che la cultura riuscì in ogni modo a sopravvivere. Quando, nel Rinascimento, la letteratura greca spuntò all’orizzonte sull’Europa, trovò un suolo in qualche modo preparato per il suo avvento. Ma, per rimuovere i dettagli della storia, che sono sempre tediosi e di solito poco accurati, diciamo in modo generico che le forme dell’Arte sono dovute allo spirito critico dei greci. Ad esso noi dobbiamo l’epica, la lirica, tutto il teatro in ciascuno dei suoi sviluppi, incluso il burlesque, l’idillio, il romanzo romantico, il romanzo d’avventure, il saggio, il dialogo, l’orazione, la conferenza, per la quale forse non dovremmo perdonarli, e l’epigramma, in tutto l’ampio significato di quella parola. Infatti, gli dobbiamo tutto, fuorché il sonetto, per il quale, tuttavia, si possono rintracciare alcuni curiosi paralleli di movimento di pensiero nell’Antologia, il giornalismo americano, al quale nessun parallelo può essere trovato altrove, e la ballata in finto dialetto scozzese, che, come uno dei nostri più industriosi scrittori ha recentemente proposto, dovrebbe essere messa a fondamento di un lavoro finale e unanime da parte dei nostri poeti di seconda categoria per divenire davvero romantici. Ogni nuova scuola, a quanto sembra, protesta contro la critica, ma è alla facoltà critica nell’uomo che deve la sua origine. Il mero istinto creativo non innova, ma riproduce.

ERNEST. Hai parlato della critica come di una parte essenziale dello spirito creativo, e io ora accetto totalmente la tua teoria. Ma che dire della critica al di fuori della creazione? Io ho la sciocca abitudine di leggere i periodici, e mi sembra che la gran parte della critica moderna sia del tutto senza valore.

GILBERT. Questo vale anche per molta della produzione creativa moderna. La mediocrità che pesa altra mediocrità sulla bilancia, e l’incompetenza che plaude a sua sorella – è lo spettacolo che l’attività artistica dell’Inghilterra ci offre di tanto in tanto. Eppure, mi accorgo di essere un poco ingiusto su questa questione. Di regola, i critici – parlo naturalmente della classe superiore, di coloro che nei fatti scrivono per i giornali da sei pence – sono assai più colti delle persone la cui opera sono chiamati a recensire. Il che, senza dubbio, rispetterebbe le aspettative, poiché la critica richiede infinitamente più cultura di quanta ne richeda la creazione.

ERNEST. Sul serio?

GILBERT. Certo. Chiunque può scrivere un romanzo in tre volumi. Richiede solamente un’ignoranza totale sia della vita che della letteratura. La difficoltà che, immagino, deve provare il recensore è quella di mantenersi ad un livello qualsiasi. Là dove non c’è stile, avere un punto di riferimento deve essere impossibile. I poveri recensori sono apparentemente ridotti a essere i gazzettieri della pretura letteraria, i cronisti dei crimini degli abituali delinquenti dell’arte. Talvolta li si rimprovera di non leggere per intero le opere che sono chiamati a criticare. Sì, non le leggono. O almeno non dovrebbero leggerle per intero. Se così facessero, diverrebbero dei misantropi impenitenti, o, se posso prendere in prestito una frase da una delle graziose diplomate di Newnham, donnantropi impenitenti per il resto della vita. E non è necessario. Per conoscere l’annata e la qualità di un vino non occorre bere l’intera botte. Deve essere facilissimo dire in mezz’ora se un libro vale qualcosa o se non vale niente. Dieci minuti bastano e avanzano, se uno ha l’istinto della forma. Chi vuole sorbirsi un volume noioso? Lo si assaggia, ed è sufficiente – più che sufficiente, mi pare. Capisco che vi siano molti onesti lavoratori nella pittura, come nella letteratura, che contestano del tutto la critica. Hanno perfettamente ragione. La loro opera non ha alcun rapporto intellettuale con la loro epoca. Non ci reca alcun nuovo elemento di piacere. Non ci suggerisce alcun nuovo progresso di pensiero, di passione, di bellezza. Non se ne dovrebbe parlare affatto. Si dovrebbe lasciarla all’oblio che merita.

ERNEST. Ma, mio caro amico – scusami se ti interrompo – mi sembra che dalla tua passione per la critica tu ti lasci spingere un po’ troppo lontano. Perché, dopo tutto, perfino tu dovrai convenire che è più difficile fare una cosa che parlarne.

GILBERT. Più difficile fare una cosa che parlarne? Niente affatto. Questo alto non è che un grossolano errore della massa. È molto, molto più difficile parlare di una cosa che farla. Nella sfera della vita reale questo è, naturalmente, ovvio. Chiunque può fare la storia. Solo un grande uomo può scriverla. Non c’è modo di azione, né forma di emozione, che noi non abbiamo in comune con gli animali inferiori. È solo grazie al linguaggio che ci eleviamo sopra di loro, o l’uno sull’altro – grazie al linguaggio, che è il padre e non il figlio del pensiero. L’azione, difatti, è sempre facile, e quando ci si presenta nella sua forma più esasperata, perché più continua, che a parere mio è quella della vera industriosità, diventa semplicemente il rifugio per coloro che non hanno proprio nulla da fare. No, Ernest, non parlare di azione. È un elemento cieco che dipende dagli influssi esterni, ed è mosso da un impulso della cui natura non è consapevole. È una cosa incompleta nella sua essenza, essendo limitata dal caso, e ignara della propria direzione, che è sempre mutevole nel suo scopo. Il suo fondamento è la mancanza di immaginazione. È l’ultimo rifugio di coloro che non sanno sognare.

ERNEST. Gilbert, tu tratti il mondo come se fosse una sfera di cristallo. Lo tieni nella mano, e lo capovolgi compiacere ad una tua ostinata fantasticheria. Non fai altro che riscrivere la storia.

GILBERT. Il nostro unico dovere verso la storia è quello di riscriverla. Il che, per lo spirito critico, non è il dovere minore a lui riservato. Quando avremo pienamente scopert le leggi scientifiche che governano la Vita, ci accorgeremo che l’unica persona che ha più illusioni del sognatore è l’uomo d’azione. Egli, davvero, non conosce né l’origine di ciò che fa né i suoi risultati. Nel campo in cui pensava di aver seminato spine, noi abbiamo fatto la nostra vendemmia, e il fico che piantò per il nostro piacere è sterile come il cardo selvatico, e più amaro. È solo perché l’Umanità non ha mai saputo dove stesse andando, che è riuscita a trovare la sua strada.

ERNEST. Dunque tu pensi che nella sfera dell’azione uno scopo consapevole sia una delusione?

GILBERT. È peggio di una delusione. Se vivessimo a lungo abbastanza per vedere gli effetti delle nostre azioni potrebbe darsi che colui che viene chiamato buono fosse tormentato da un acre rimorso, e colui che il mondo chiama cattivo fosse scosso da una nobile gioia. Ogni piccola cosa che facciamo passa nella grande macchina della Vita che può ridurre in polvere le nostre virtù e renderle prive di valore, o trasformare i nostri peccati negli elementi di una nuova civiltà, più meravigliosa e più splendida di qualsiasi altra l’abbia preceduta. Ma gli uomini sono gli schiavi delle parole. Tuonano contro il Materialismo, come lo chiamano, dimenticando non v’è stato mai alcun progresso materiale che non abbia spiritualizzato il mondo, e che vi sono stati pochi o nulli risvegli spirituali che non abbiano sprecato le facoltà del mondo in sterili speranze, in aspirazioni senza frutto, in credenze vane o capziose. Quello che viene definito Peccato è un elemento essenziale del progresso. Senza di esso il mondo stagnerebbe, o invecchierebbe, o diverrebbe incolore. Per mezzo della sua curiosità il Peccato accresce l’esperienza della razza. Grazie alla sua intensa asserzione di individualismo, ci salva dalla monotonia del tipo. Ripudiando le nozioni correnti sulla moralità, si fa tutt’uno con l’etica più alta. E riguardo alle virtù! Cosa sono le virtù? La Natura, ci dice M. Renan, s’occupa poco della castità, e può darsi che le Lucrezie della vita moderna debbano il loro candore alla vergogna della Maddalena, e non alla propria purezza. La carità, come sono stati costretti ad ammettere perfino coloro della cui religione essa fa formalmente parte, crea una infinità di mali. La mera esistenza della coscienza, quella facoltà di cui la gente oggi ciarla tanto, e della quale è tanto orgogliosa in modo così ignorane, è un segno del nostro imperfetto sviluppo. Deve immergersi nell’istinto prima che diventiamo buoni. L’autonegazione è unicamente un metodo con cui l’uomo arresta il proprio progresso, e il sacrificio di sé una sopravvivenza della mutilazione del selvaggio, una parte di quell’antica venerazione del dolore che rappresenta un fattore così terribile nella storia del mondo, e che ancora oggi fa giornalmente le sue vittime, e possiede i suoi altari sulla terra. Le virtù! Chi sa cosa siano le virtù? Né tu. Né io. Nessuno. È un bene per la nostra vanità che si uccida il criminale, poiché se lo lasciassimo vivere egli potrebbe mostrarci ciò che abbiamo guadagnato con il suo delitto. Andare al martirio è un bene per la pace del santo. In tal modo  gli viene risparmiatala l’orribile vista della sua messe.

ERNEST. Gilbert, questa è una nota troppo stridente. Torniamo ai più aggraziati campi della letteratura. Che cosa hai detto? Che è più difficile parlare di una cosa che farla?

GILBERT (dopo una pausa). Sì: credo d’essermi azzardato ad esporre questa semplice verità. Adesso ti renderai conto che ho ragione, vero? Quando l’uomo agisce è una marionetta. Quando descrive è un poeta. Tutto il segreto sta in questo. Era assai facile sulle pianure sabbiose della ventosa Ilio scoccare il dardo intaccato con l’arco dipinto, o scagliare contro lo scudo di cuoio e ottone splendente la lunga lancia dall’impugnatura di frassino. Fu facile per la regina adultera stendere i tappeti di Tiro per il suo signore, e poi, mentre questi giaceva nel bagno di marmo, gettare sul suo capo la rete purpurea, e chiamare il suo amante dalle morbide guance e trafiggere attraverso le maglie il cuore che avrebbe dovuto spezzarsi in Aulide. Persino per Antigone, con la Morte che l’attendeva alle nozze, fu facile attraversare a mezzogiorno l’aria malsana, e scalare il colle, e cospargere di terra pietosa il misero corpo nudo che non aveva sepoltura. Ma che dire di quelli che scrissero di queste cose? Quelli che diedero ad esse realtà e vita per sempre? Non sono più grandi degli uomini e delle donne che hanno cantato? «Ettore quel dolce cavaliere è morto», e Luciano ci narra come nel buio del regno dei morti Menippo vide il teschio imbiancato di Elena, e si meravigliò che per un favore così sinistro fossero state equipaggiate tutte quelle navi rostrate, uccisi tutti quegli uomini armati di bell’aspetto, e di tante turrite città fosse fatta polvere. Eppure, ogni giorno, nelle sembianze di un cigno, la figlia di Leda esce fuori sui bastioni e guarda in basso il flusso del combattimento. I vecchi rimangono stupiti della sua bellezza, e lei si erge al fianco del re. Nella sua camera di avorio decorato giace il suo spasimante. Egli lucida la sua fine armatura, e pettina il pennacchio scarlatto. Con scudiero e paggio, suo marito passa di tenda in tenda. Lei può vedere i suoi capelli lucenti, e ode, o s’immagina di udire, quella chiara e fredda voce. Nella corte sottostante, il figlio di Priamo si allaccia la sua corazza di ottone. Le candide braccia di Andromaca sono attorno al suo collo. Egli posa a terra il suo elmo, per timore di spaventare il figlioletto. Dietro i drappi ricamati del suo padiglione siede Achille, in vestimenti profumati, mentre in armatura d’oro e d’argento l’amico del cuore si prepare per scendere in battaglia. Da uno scrigno singolarmente intagliato, che sua madre Teti gli aveva portato sulla nave, il Signore dei Mirmidoni estrae quel mistico calice che labbra d’uomo avevano giammai toccato, e lo pulisce con zolfo, e con acqua di sorgente lo rinfresca, ed essendosi lavate le mani, riempie di nero vino il suo cavo brunito, e versa a terra lo spesso sangue d’uva in onore di Colui che a Dodona gli scalzi profeti adoravano, e Lo prega, e non sa di pregare invano, e che per mano di due cavalieri di Troia, il figlio di Pantoo, Euforbio, i cui ricci erano intrecciati con l’oro, e il Priamide cuor di leone, Patroclo, compagno dei compagni, deve affrontare la sua sorte. Sono fantasmi? Eroi di nebbie e montagne? Ombre di un canto? No: sono veri. Azione! Cos’è l’azione? L’azione muore nel momento della sua energia. È una vile concessione ai fatti. Il mondo è creato dal cantore per il sognatore.

ERNEST. Mentre parli mi sembra vero.

GILBERT. È proprio vero. Sulle rovine della cittadella di Troia giace il ramarro come un oggetto di bronzo verde. Il gufo ha fatto il nido nel palazzo di Priamo. Sulla pianura desolata s’aggirano pastori con le loro mandrie di pecore e capre, e dove, sul mare oleoso, vinoso, oἶνοψ μόντος, come Omero lo chiama, con le prue di rame e striate di vermiglio, vennero le grandi galee dei Danai nelle loro splendenti mezzelune, il solitario pescatore di tonni siede nella sua piccola barca e viglia i sugheri galleggianti della sua rete. E pure, ogni mattina le porte della città sono spalancate, e a piedi, o su cocchi trainati da cavalli, i guerrieri escono per combattere, e dileggiano i loro nemici da dietro le maschere di ferro. Per tutto il giorno infuria la battaglia, e quando giunge la notte le torce brillano accanto alle loro tende, e la fiaccola arde nella sala. Coloro che vivono nel marmo o nella tela dipinta, non conoscono della vita che un singolo istante squisito, eterno davvero nella sua bellezza, ma limitato a un’unica nota di passione o a un unico stato di quiete. Coloro cui il poeta dona la vita hanno una miriade di emozioni di gioia e di terrore, di coraggio e disperazione, di piacere e di sofferenza. Le stagioni si susseguono in manifestazioni liete o meste, e gli anni sfilano accanto a loro con piedi alati o di piombo. Hanno la loro giovinezza e la loro maturità, sono fanciulli, e divengono vecchi. È sempre l’alba per Sant’Elena, come Veronese la vide alla finestra. Attraverso l’aria immobile del mattino gli angeli le portano il simbolo del dolore di Dio. Le fresche brezze mattutine sollevano i boccoli d’oro dalla sua fronte. Su quella piccola collina presso la città di Firenze, dove giacciono gli amanti di Giorgione, è sempre il solstizio di mezzogiorno, di un mezzogiorno reso così languido dal sole estivo che la gracile fanciulla nuda a malapena può immergere nella vasca marmorea la sfera rotonda di cristallo limpido, e le lunghe dita del suonatore di liuto indugiano inoperose sulle corde. È sempre il tramonto per le ninfe danzanti che Corot liberò tra i pioppi d’argento di Francia. Si muovono in un eterno crepuscolo, quelle fragili figure diafane, i cui bianchi tremuli piedi sembrano non toccare l’erba rugiadosa dove camminano. Ma coloro che incedono nell’epopea, nel dramma, o nel romanzo, vedono crescere e svanire nel travaglio dei mesi le giovani lune, e osservano la notte dalla sera fino alla stella del mattino, e dall’aurora al crepuscolo possono osservare il cammino del giorno con tutto il suo oro e la sua ombra. Per loro, come per noi, i fiori sbocciano e appassiscono, e la Terra, quella Dea dalle Verdi Trecce, come la chiama Coleridge, muta la propria veste per il loro piacere. La statua è immobile in un unico momento di perfezione. L’immagine dipinta sulla tela non possiede elementi spirituali di mutamento o di crescita. Se nulla sanno della morte è perché poco sanno della vita, giacché i segreti della vita e della morte appartengono a quelli, e soltanto a quelli,  che sentono la sequenza del tempo, e che posseggono non solo il presente ma il futuro, e che possono sollevarsi o precipitare da un passato di gloria o di vergogna. Il movimento, problema delle arti visive, può essere realizzato unicamente dalla letteratura. È la letteratura che ci mostra il corpo nella sua agilità e l’anima nei suoi turbamenti.

ERNEST. Sì; adesso comprendo ciò che vuoi dire. Di sicuro, però, più in alto tu poni l’artista creativo, più in basso devi mettere il critico.

GILBERT. E perché?

ERNEST. Perché il meglio che egli può darci sarà solo l’eco di una musica fiorente, una torbida ombra di una forma nitidamente delineata. Può darsi, sì, che la Vita sia un caos, come tu hai detto; che i suoi martirî siano vili e ignobili i suoi eroismi; e che funzione della letteratura sia di creare, dalla materia grezza della reale esistenza, un nuovo mondo che sarà più meraviglioso, più duraturo e più vero del mondo a cui guardano gli occhi comuni, e attraverso il quale le nature ordinarie cercano di concretizzare la propria perfezione. Ma di certo, se questo nuovo mondo è stato fatto dallo spirito e dal tocco di un grande artista, sarà una cosa talmente completa e perfetta che per il critico nulla resterà da fare. Ora lo comprendo perfettamente, e davvero lo riconosco con estrema prontezza, che è assai più difficile parlare di una cosa che farla. Ma ho l’impressione che questa massima sana e sensata, che è davvero estremamente allettante, e che dovrebbe essere adottata come motto da ogni accademia di letteratura in tutto il mondo, si applica solamente ai rapporti che esistono tra Arte e Vita, e non ad alcun rapporto che  vi possa essere tra Arte e Critica.

GILBERT. Ma, senza alcun dubbio, la critica è in se stessa un’arte. E proprio come la creazione artistica implica l’operato della facoltà critica, tanto che senza di essa non si può neppure dire che esista, per cui la critica è creativa nel più alto senso della parola. La critica è, infatti, sia creativa che indipendente.

ERNEST. Indipendente?

GILBERT. Indipendente, sì. Non si deve affatto giudicare la critica con un basso criterio di imitazione o di somiglianza, proprio come l’opera del poeta o dello scultore. Il critico è nello stesso rapporto verso l’opera d’arte che egli critica, così come lo è l’artista con il mondo visibile della forma e del colore, o con l’invisibile mondo della passione e del pensiero. Per la perfezione della sua arte non necessita nemmeno dei materiali più raffinati. Ogni cosa serve al suo scopo. E proprio come dagli amori sordidi e sentimentali della stolta moglie di un piccolo dottore di campagna nello squallido villaggio di Yonville-l’Abbaye, vicino a Rouen, Gustave Flaubert seppe creare un classico, e a fare un capolavoro di stile, così, da soggetti di scarsa o nessuna importanza, come i quadri esposti alla Royal Academy quest’anno, o in qualsiasi altro anno, i poemi di Mr. Lewis Morris, i romanzi di M. Ohnet, o i drammi di Mr. Henry Arthur Jones, il vero critico può, se così gli aggrada, dirigere o sciupare la sua facoltà di contemplazione, produrre un’opera che sarà impeccabile per bellezza e ricca d’acume intellettuale. Perché no? L’ottusità è sempre una tentazione irresistibile per l’ingegno arguto, e la stupidità è la perenne Bestia Trionfans che chiama fuori la saggezza dalla sua grotta. Per un artista così creativo qual è il critico, che significato può avere la materia del soggetto? Né più e né meno di quanto possa averne per il romanziere e per il pittore. Come loro, egli può trovare i suoi motivi ovunque. La trattazione è la prova decisiva. Non c’è niente che non abbia in sé una suggestione o una sfida.

ERNEST. Ma la critica è davvero un’arte creativa?

GILBERT. Perché non dovrebbe esserlo? Opera con dei materiali, e li mette in una forma ch’è allo stesso tempo nuova e gradevole. Che si può dire di più della poesia? In realtà, mi piacerebbe definire la critica una creazione entro la creazione. Perché appunto come i grandi artisti, da Omero a Eschilo, fino a Shakespeare e Keats, non fecero ricorso direttamente alla vita per i loro soggetti, ma li cercarono nel mito, nella leggenda, e nella fiaba antica, così il critico tratta con materiali che altri hanno, per così dire, purificato per lui, e ai quali sono stati già dati la forma e il colore dell’immaginazione. Anzi, di più, io direi che la critica più alta, essendo la forma più pura di una impressione personale, è a modo suo più creativa della creazione, dal momento che ha minore rapporto con qualsiasi norma esterna a sé, ed è, di fatto, la sua propria ragione di esistere, e, come avrebbero detto i greci, in sé e di per sé un fine. Indubbiamente, essa non è mai ostacolata dai ceppi della verosimiglianza. Nessuna ignobile considerazione di probabilità, quella vile concessione alle noiose ripetizioni della vita domestica o pubblica, la può toccarla. Ci si può appellare dalla finzione al fatto. Ma dall’anima non c’è mai appello.

ERNEST. Dall’anima?

GILBERT. Sì, dall’anima. Ecco cos’è in realtà la critica più alta: è la testimonianza di un’anima. È più affascinante della storia, poiché si occupa semplicemente di se stessi. È più piacevole della filosofia, poiché il suo soggetto è concreto e non astratto, reale e non vago. È la sola forma civile di autobiografia, dato che tratta non gli eventi, ma i pensieri di una vita; non gli accidenti fisici di fatto o contingenti della vita, ma gli umori spirituali e le passioni immaginative dell’ intelletto. Mi diverte sempre la sciocca vanità di quei narratori e artisti del nostro tempo, che sembrano pensare che la principale funzione del critico sia quella di cianciare sulle loro opere di second’ordine. Il meglio che si può dire della maggior parte dell’arte creativa moderna è che essa è un poco meno volgare della realtà, e perciò il critico, con il suo squisito senso di distinzione e il suo sicuro istinto di delicata raffinatezza, preferirà guardare nello specchio argenteo o attraverso il velo tessuto, e distoglierà il suo sguardo dal caos e dal clamore della reale esistenza, benché lo specchio possa essere ossidato e lacero il velo.  Il suo unico intento è di fare la cronaca delle proprie impressioni. È per lui che sono dipinti i quadri, scritti i libri, e scolpiti i marmi in una forma.

ERNEST. Mi pare d’aver udito un’altra teoria sulla Critica.

GILBERT. Sì; è stato detto da uno, la cui graziosa memoria noi tutti riveriamo, e la musica della cui zampogna un tempo attrasse Proserpina dai suoi campi siciliani, e che fece muovere da quei bianchi piedi, e non invano, le primule di Cumnor, che il fine più appropriato della Critica è vedere l’oggetto come esso è realmente in sé. Ma questo è un errore gravissimo, e non tiene conto alcuno della più perfetta forma della critica, che nella sua essenza è puramente soggettiva, e cerca di rivelare il proprio segreto e non il segreto di un altro. Perché la critica più alta tratta dell’arte non in quanto espressione, ma puramente in quanto impressione.

ERNEST. Ma è davvero così?

GILBERT. Naturalmente. A chi interessa se le considerazioni di Mr. Ruskin su Turner sono fondate o no? Che importa? Quella sua prosa potente e maestosa, così fervida e così infuocata nella sua nobile eloquenza, così ricca nella sua elaborata musica sinfonica, così sicura e certa, quando è al meglio, nella scelta acuta di parola ed epiteto, è un’opera d’arte non meno grande di uno qualsiasi di quei meravigliosi tramonti che scolorano o imputridiscono sulle loro tele corrotte nella England’s Gallery; anzi, più grande, si arriva talvolta a pensare, non soltanto perché la sua uguale bellezza dura di più, ma per la varietà più piena della sua attrattiva, un’anima che parla a un’altra anima in quelle lunghe e cadenzate frasi, non solo attraverso la forma e colore, anche se attraverso queste, nei fatti, compiutamente e senza perdita, ma con espressione intellettuale ed emotiva, con elevata passione e con più elevato pensiero, con intuizione immaginifica, e con anelito poetico; più grande, penso sempre, poiché la letteratura è l’arte più grande. E ancora, a chi importa se Mr. Pater ha posto nel ritratto di Monna Lisa qualcosa che Leonardo non ha mai sognato? Il pittore ha potuto essere solo lo schiavo di un sorriso arcaico, come qualcuno ha immaginato, ma ogni volta che passo nelle fresche gallerie del Palazzo del Louvre, e sosto davanti a quella strana figura «seduta sul sedile di marmo in quel circolo di rocce fantastiche, come in una fievole luce sottomarina», io mormoro tra me e me, «Ella è più antica delle rocce tra le quali è seduta; come il vampiro, fu più volte morta, e apprese i segreti della tomba; e s’è immersa in mari profondi, e ne serba attorno a sé la loro luce morente; e commerciò strani tessuti con i trafficanti d’oriente; e, come Leda, fu la madre di Elena di Troia, e, come Sant’Anna, la madre di Maria; e tutto questo per lei non è stato per lei se non il suono delle lire e dei flauti, e vive solo nella delicatezza con la quale ha foggiato i mutevoli lineamenti, e ha tinto le palpebre e le mani». E dico al mio amico: «La presenza che così stranamente sorse accanto alle acque è espressione di ciò che nel corso di mille anni l’uomo è giunto a desiderare»; ed egli mi risponde, «Suo è il capo su cui tutti “i termini del mondo si sono scontrati”, e le palpebre sono un poco stanche».

E così quel quadro diviene per noi più meraviglioso di quanto non lo sia in realtà, e ci rivela un segreto del quale, in verità, nulla conosce, e la musica della prosa mistica è dolce alle nostre orecchie come quella del flautista che prestò alle labbra de La Gioconda quelle curve sottili e velenose. Tu mi chiedi che cosa Leonardo avrebbe risposto se qualcuno gli avesse detto di questo quadro che «tutti i pensieri e l’esperienza del mondo vi hanno inciso e lasciato dentro ciò che ebbero in potere per raffinare e rendere espressiva la forma esteriore, l’animalismo della Grecia, la lussuria di Roma, la rêverie del Medioevo con la sua spirituale ambizione e i suoi amori immaginifici, il ritorno del mondo pagano, i peccati dei Borgia»? Egli probabilmente avrebbe risposto che non aveva pensato a nulla di tutto ciò, ma che si era semplicemente occupato di certe disposizioni di linee e di masse, e di nuove e curiose armonie cromatiche di azzurro e di verde. Ed è proprio per questo motivo che la critica che io ho citato è critica della più alta qualità. Essa tratta l’opera d’arte semplicemente come un punto di partenza per una nuova creazione. Non si dà confini – supponiamo così almeno per ora – nello scoprire la reale intenzione dell’artista e nell’accettarla come definitiva. E in questo ha ragione, poiché il significato di ogni bella cosa creata è, almeno, tanto nell’anima di chi la contempla, quanto lo fu nell’anima di chi la creò. Anzi, è piuttosto lo spettatore che dona alla cosa bella la miriade dei suoi significati, e ce la rende meravigliosa, e la pone in una nuova relazione con l’epoca, così che essa diventa una vitale porzione delle nostre vite, e un simbolo di ciò per cui preghiamo, o forse di ciò che, avendo pregato per ottenerlo, temiamo di poter ricevere. Più studio, Ernest, più vedo con chiarezza che la bellezza delle arti visibili è, come la bellezza della musica, in primo luogo di impressione, e che può essere guastata, ed è spesso proprio così, da qualunque eccesso di intenzione intellettuale da parte dell’artista. Poiché quando l’opera è terminata essa possiede, diciamo, una sua propria vita indipendente, e può lasciare un messaggio ben lontano da quello che fu messo nelle sue labbra per dirlo. Talvolta, quando ascolto l’ouverture del Tannhäuser, mi sembra davvero di vedere quel cavaliere leggiadro che incede con delicatezza sull’erba cosparsa di fiori, e di udire la voce di Venere che lo chiama dal colle cavernoso. Ma altre volte mi parla di mille cose differenti, di me stesso, forse, o della mia vita, o delle vite di altri che si è amati e ci si è stancati d’amare, o delle passioni che l’uomo ha conosciuto, o non ha conosciuto, e così ha cercato. Stasera può colmarti con quell’ΕΡΩΣ ΤΩΝ ΑΔΥΝΑΤΩΝ[6], quell’Amour de l’Impossible, che precipita come una vera pazzia su molti convinti di vivere al sicuro e fuori da ogni pericolo, così che si ammalano immediatamente per il veleno di un desiderio illimitato, e, nell’infinito perseguire quello che non possono ottenere, si indeboliscono e vengono meno o barcollano. Domani, come la musica di cui parlano Aristotele e Platone, la nobile musica dorica dei greci, può esercitare l’attività del medico, e darci un analgesico contro il dolore, e guarire lo spirito ferito, e «portare l’anima in armonia con tutte le cose buone». E ciò che è vero per la musica è vero per tutte le arti. La Bellezza ha tanti significati quanti umori ha l’uomo. La bellezza è il simbolo dei simboli. La bellezza rivela tutto perché non esprime nulla. Quando ci mostra se stessa, ci mostra il mondo intero dai colori del fuoco.

ERNEST. Ma è veramente la critica quello di cui tu hai parlato?

GILBERT. È la critica somma, perché non critica solo la singola opera d’arte, ma la stessa Bellezza, ed empie di stupore una forma che l’artista può avere lasciato vuota, o non aver compreso, o non compreso completamente.

ERNEST. La critica più alta, allora, è più creativa della creazione, e lo scopo principale del critico è di vedere l’oggetto come realmente non è sé; sarebbe questa la tua teoria?

GILBERT. Sì, questa è la mia teoria. Per il critico l’opera d’arte è semplicemente un suggerimento per una sua nuova opera, che non necessita obbligatoriamente di avere alcuna somiglianza ovvia con la cosa che critica. L’unica caratteristica di una bella forma è che vi si può mettere in essa qualunque cosa si voglia, e vedervi qualunque cosa si scelga di vedere; e la Bellezza, che dona alla creazione il suo elemento universale ed estetico, fa del critico un creatore a sua volta, e sussurra mille cose differenti che non erano presenti nella mente di colui che scolpì la statua o dipinse la tavola o incise la gemma.

Talvolta è stato detto, da chi non comprende affatto la natura della critica più alta né il fascino dell’arte più alta, che i quadri di cui il critico ama soprattutto scrivere sono quelli che appartengono all’aneddotica della pittura, e che rappresentano scene prese dalla letteratura o dalla storia. Ma non è vero. In realtà, quadri del genere sono troppo intelligibili. Come genere, appartengono alle illustrazioni, e seppur considerate da questo punto di vista sono un fallimento, poiché non stimolano l’immaginazione, ma le pongono dei limiti definiti. Poiché il regno del pittore è, come ho accennato prima, molto diverso da quello del poeta. A quest’ultimo appartiene la Vita nella sua piena e assoluta interezza; non solo la bellezza che gli uomini contemplano, ma anche la bellezza che gli uomini ascoltano; non solo la grazia momentanea della forma o la gioia passeggera del colore, ma tutta la sfera dei sentimenti, il ciclo perfetto del pensiero. Il pittore è così limitato che può mostrarci il mistero dell’anima soltanto attraverso la maschera del corpo; soltanto attraverso immagini convenzionali può trattare le idee; soltanto attraverso i suoi equivalenti fisici può occuparsi della psicologia. E come inadeguatamente allora egli fa queste cose, quando ci chiede di accettare il turbante lacero del Moro in luogo della nobile collera di Otello, o un vecchio rimbambito in una tempesta in luogo della selvaggia follia di Lear! Eppure sembra che niente possa fermarlo. La maggioranza dei nostri vecchi pittori inglesi spendono la loro vita malvagia e inutile cacciando di frodo nei possessi dei poeti, sciupando i loro motivi con un trattamento sgraziato, e sforzandosi di rendere, con la forma visibile o il colore, la meraviglia di ciò che è invisibile, lo splendore di ciò che non si vede. I loro quadri sono, per naturale conseguenza, insopportabilmente tediosi. Hanno degradato le arti invisibili in arti ovvie, e l’ovvio è appunto l’unica cosa che non merita di essere guardata. Io non dico che il poeta e il pittore non possono trattare lo stesso soggetto. Lo hanno sempre fatto e lo faranno sempre. Ma mentre il poeta può essere pittorico o meno, secondo quanto gli aggrada, il pittore deve essere sempre pittorico. Poiché il pittore è condizionato, non da quello che vede in natura, ma da quello che si può vedere sulla tela.

E così, mio caro Ernest, quadri del genere non affascinano certamente il critico. Egli li tralascerà a favore di opere che lo faranno meditare, sognare e fantasticare, a favore di opere che posseggano la sottile qualità della suggestione, e sembrino dire che anche da loro c’è una evasione in mondi più vasti. S’è detto talvolta che la tragedia della vita di un artista è che non può realizzare il suo ideale. Ma la vera tragedia che perseguita molti artisti è che loro realizzano il proprio ideale in modo troppo assoluto. Perché, quando l’ideale è realizzato, gli vengono sottratti il suo stupore e il suo mistero, e diviene semplicemente un nuovo punto di partenza per un nuovo ideale che è diverso da sé. Questa è la ragione per cui la musica è il tipo perfetto di arte. La musica non può mai rivelare il suo ultimo segreto. Questa è anche la spiegazione del valore delle limitazioni in arte. Lo scultore rinuncia volentieri al colore imitativo, e il pittore alle reali dimensioni della forma, poiché grazie a tali rinunce essi possono evitare una presentazione troppo definita del Reale, che sarebbe mera imitazione, una realizzazione troppo precisa dell’Ideale, che sarebbe troppo puramente intellettuale. È attraverso la sua stessa incompletezza che l’arte diviene completa nella bellezza, e così si rivolge, non alla facoltà del riconoscimento né alla facoltà della ragione, ma al solo senso estetico che, accettando sia la ragione e il riconoscimento come gradi di apprendimento, li subordina entrambi a una pura sintetica impressione dell’opera d’arte come un tutto e, prendendo qualunque elemento emotivo alieno che l’opera possa avere, si avvale della loro stessa complessità come mezzo con cui un’unità più ricca può essere aggiunta alla stessa impressione finale. Allora, comprendi com’è che il critico estetico rigetti questi modi ovvi dell’arte che hanno un solo messaggio da lasciare, e avendolo lasciato divengono muti e sterili, per cercare piuttosto quei modi che suggeriscono la rêverie e l’umore, e che con la loro bellezza fantastica rendono tutte le interpretazioni vere, e nessuna definitiva. Qualche rassomiglianza, indubbiamente, l’opera creativa del critico l’avrà con l’opera che l’ha stimolata alla creazione, ma sarà una rassomiglianza nell’ambito della sua esistenza, non tra la Natura e lo specchio che ci immaginiamo il pittore ritrattista o paesaggista le porga, bensì tra la natura e l’opera dell’artista decorativo. Proprio come nei tappeti senza fiori di Persia, tulipani e rose sbocciano veramente e sono belli a vedersi, anche se non sono riprodotti in forme o linee visibili; proprio come la perla e la porpora della conchiglia sono simboleggiate nella chiesa di San Marco a Venezia; proprio come la volta della meravigliosa cappella a Ravenna è resa magnifica dall’oro, dal verde e dallo zaffiro della coda del pavone, sebbene gli uccelli di Giunone non l’attraversino i volo; così il critico riproduce l’opera che esamina in un modo che non è mai imitativo, e il cui fascino in parte può davvero consistere nel ripudio della rassomiglianza, e ci mostra in tal modo non solo il significato ma anche il mistero della Bellezza, e, trasformando ogni arte in letteratura, risolve una volta per sempre il problema dell’unità dell’arte.

Ma vedo che è ora di cena. Dopo aver discusso lo Chambertin e qualche ortolano, passeremo alla questione del critico considerato come interprete.

ERNEST. Ah! Allora tu riconosci che il critico possa permettersi talvolta di vedere l’oggetto com’è realmente in sé.

GILBERT. Non ne sono del tutto sicuro. Forse potrò ammetterlo dopo cena. C’è un sottile influsso nella cena.

***NOTE AL TESTO***

[1] Incedendo con delicatezza nell’aria lucente.

[2] Nobile Alcibiade.

[3] Nobile Carmide.

[4] Catarsi.

[5] Piacere indivisibile.

[6] Amore dell’impossibile.

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