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Marco M. G. Michelini | 7 Maggio 2024

Linea biografica

Ultimogenito di Francesco Maria Parino, un modesto commerciante di stoffe, e di Angiola Maria Caspani, Giuseppe nacque a Bosisio, il 23 maggio 1729. all’inizio si formò culturalmente presso i sacerdoti del suo paese natale, poi – all’età di nove anni – fu condotto a Milano presso una prozia e iscritto alle scuole di S. Alessandro (dette anche Arcimbolde), tenute dai barnabiti. Nel 1753, dopo aver pubblicato un volumetto di versi (Alcune poesie di Ripano Eupilino), il giovane poeta poté essere accolto nell’Accademia dei Trasformati, che si radunava in casa del conte Giuseppe Maria Imbonati, e nel 1754 – senza vocazione alcuna – venne ordinato sacerdote: ciò gli permise di entrare in possesso dell’eredità della prozia. Tuttavia, quelle risorse economiche ereditate dall’anziana parente, si rivelarono alquanto modeste e non sufficienti a consentirgli una vita dignitosa. Entrò così al servizio, come precettore del figlio Gian Galeazzo, del duca Gabrio Serbelloni[1], al cui servizio resterà per otto anni, dal 1754 fino al 1762.

In casa Serbelloni, e frequentando altre case di nobili, il Parini ebbe modo di osservare la vita della nobiltà in tutti i suoi aspetti e poté così assorbire e rielaborare alcune nuove idee che arrivavano dalla Francia e  che influenzarono i suoi scritti di questo periodo. Godette, in particolar modo, della protezione della padrona di casa, la duchessa Maria Vittoria, nata Ottoboni Boncompagni, donna coltivata e di gusti raffinati in fatto di arte e letteratura, che leggeva che leggeva Rousseau e Buffon[2], e che sosteneva con ardore le riforme in campo scolastico e  il dovere morale di allargare le cure anche a coloro che per pregiudizio avevano mali considerati effetto di colpa.

Nell’ottobre del 1762, a causa di un diverbio con la duchessa, Parini fu costretto a lasciare la casa dei Serbelloni, ritrovandosi per alcuni mesi in gravi ristrettezze economiche, finché il conte Imbonati[3] non lo assunse come precettore del proprio figliolo. Contemporaneamente pubblicò in maniera anonima Il Mattino (prima parte del poemetto Il Giorno), al quale nel 1765 seguì (sempre anonimo) Il Mezzogiorno. I due componimenti furono accolti molto positivamente dalla critica e richiamarono l’attenzione sul Parini che nel 1766 venne chiamato dal ministro du Tillot[4] a ricoprire la cattedra di eloquenza presso l’Università di Parma, cattedra che egli rifiutò nella speranza di poterne ottenere una a Milano. Nel 1768 la fama acquisita gli procurò la protezione del governo asburgico, che era rappresentato in Lombardia dal conte Carlo Giuseppe di Firmian[5], il quale, intuendo le sue potenzialità poetiche, lo nominò nel 1768 poeta ufficiale del Regio Ducale Teatro e lo incaricò di adattare per la scena lirica la tragedia Alceste di Ranieri de’ Calzabigi[6]. Nello stesso anno il conte gli affidò la direzione della «Gazzetta di Milano», organo ufficiale del governo austriaco, e nel 1769 la cattedra di eloquenza e belle arti presso le Scuole Palatine, cattedra che conservò fino al 1773, anche quando quelle scuole si trasformarono nel Regio Ginnasio di Brera.

Tra il 1770 e il 1771, Parini scrisse due opere teatrali (Amorosa incostanza, Iside salvata), l’opera pastorale Ascanio in Alba e tradusse dal francese la tragedia di Racine Mithridate, che chiamò Mitridate re del Ponto[7]. Nel 1774 entrò a far parte di una commissione istituita dal governo asburgico per proporre un piano di riforma delle scuole inferiori e dei libri di testo. Si occupò anche di altri incarichi affidatigli dal governo austriaco, come la stesura – in collaborazione con Cesare Beccaria – del piano e delle leggi di un’Accademia di agricoltura e manifatture (la futura Società patriottica, per la quale egli poi si occupò, tra l’altro, anche del conio del sigillo, della patente, del regolamento per i soci corrispondenti).

Nel 1777 Parini entrò a far parte della romana Accademia dell’Arcadia, con il nome di Darisbo Elidonio, proseguendo intanto nella composizione delle odi, ventidue delle quali saranno poi pubblicate nel 1791 con il titolo Odi dell’abate Parini già divolgate. Sempre nel 1791 ottenne la nomina a Soprintendente delle Scuole pubbliche di Brera, il che gli portò anche un aumento dello stipendio (che raggiunse le 4000 lire annue) ed una più comoda abitazione nel palazzo di Brera.

Tra il 1793 e il 1796, ospite dell’allievo ed amico marchese Febo D’Adda[8], scrisse altre odi e quando i francesi occuparono Milano, seppure con riluttanza, Parini entrò a far parte della Municipalità per tre mesi, rappresentando, insieme a Pietro Verri, la tendenza più moderata. Ben presto, però, vedendo le proprie speranze tradite e deluse, egli smise di partecipare alle assemblee della Municipalità e poco dopo venne destituito dalla carica, ottenendo di ritornare alle sue occupazioni di insegnante.

Nel 1799, a pochi mesi di distanza dall’entrata degli austro-russi a Milano, Parini si spense nella propria abitazione di Palazzo Brera. Venne sepolto a Milano nel cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, e la cerimonia funebre, come da sue esplicite disposizioni testamentarie, fu particolarmente semplice e austera.

 

Orientamenti generali

Come si evince dalla sua biografia, Parini appartiene a quella generazione di intellettuali che ebbero la comune ventura prima di aprirsi, fra la seconda metà degli anni cinquanta e il principio dei sessanta, in diverso modo e misura alle ragioni e agli allora specialmente intensi, dell’illuminismo contemporaneo, quindi di fornire variamente un loro contributo all’esperienza delle riforme vissuta nella prospettiva dell’assolutismo illuminato (questo soprattutto intorno al 1770), infine di far prova, all’altezza degli anni ottanta, della complessa crisi di tale riformismo, come pratica e come ideologia, in un momento ch’è anche di crisi acuta, più in genere, della cultura illuministica, presa fra viscerali stanchezze ed estreme tensioni in senso palingenetico e libertario; e di affrontare, i superstiti, in genere con moderazione dignitosa e disincantata, le vicende successive all’Ottantanove. S’intende come ognuno di costoro, nel vivere questo insieme di comuni esperienze, questa avventura generazionale, portasse il peso della propria origine, della condizione di classe, del luogo di attività, della formazione acquisita.

Per necessità contingenti, però, ovvero la mancanza di un sacerdote in un pulpito durante la Quaresima, venne avviato alla predicazione, compito che svolse con grande entusiasmo. Si recò, così, nel 1637 a Piacenza, e poi negli anni seguenti a Mantova, Modena, Parma, Bologna. Per la sua notorietà di oratore sacro, ormai grandissima, fu invitato anche a Ferrara, Firenze, Lucca, Genova, Torino, Roma, Napoli, Palermo, Malta. Nel 1643, a Pistoia, fece la professione solenne i quattro voti religiosi e due anni più tardi esordì nel mondo letterario con la pubblicazione dell’Uomo di lettere difeso ed emendato.

Ora nel caso di Parini converrà subito rilevare la specificità della nascita non aristocratica e, di conseguenza, l’educazione scolastica non certo di prim’ordine e su linee didattiche attardate; la successiva condizione di sacerdote, comune, inevitabilmente, a tanti intellettuali del tempo di origine plebea, e con i limiti, si vuol dire, di una linea di vita non scelta liberalmente; la posizione, infine, a lungo marginale e subalterna nell’ambito dell’intelligenza milanese collaborante con il dispotismo austriaco. Ma anche, il felice, organico per molti aspetti radicarsi del suo illuminismo, di certo suo atteggiamento di fondo all’altezza degli anni sessanta, come il discorso in difesa dell’agricoltura e più in genere dei valori della «vita rustica» contro il mercantilismo, il lusso e la dazione della nobiltà urbana, come il combattivo proporre le ragioni della natura e dell’uguaglianza, il radicarsi dunque di queste scelte insieme ideologiche e politiche, nelle difficoltà, nelle esigenze, nelle tensioni della classe da cui era uscito; e forse, si può ancora pensare, quella sua umanità vitalmente fervida e al tempo stesso misurata, che tanto piacque e parve nuova in assoluto al De Sanctis, quella qualità di «natura sana e forte» che volle rilevare Manzoni e, aggiungiamo, l’equilibrata percezione e fruizione dei beni primari dell’esistenza, che Parini certo poteva in qualche misura derivare da un’assimilazione non superficiale dell’illuminismo in quanto prospettiva etica, ma sicuramente non sarebbe facile ritrovare in altri intellettuali del tempo di estrazione aristocratica, in genere percorsi, oggi diremmo nevroticamente, da ossessioni, fissazioni, fobìe, da una diffusa incapacità di aderire alle cose, e soprattutto alle cose, alla effettualità della storia in atto.

Di qui, allora, forse anche la notevole “tenuta” politica di Parini, il suo sostanziale tener fede alla dimensione e ai doveri di “buon cittadino”, pur fra incertezze e arretramenti sul piano sentimentale e ideologico, anche in tempi e circostanze molto difficili, probabilmente nell’intuizione, se non sempre nella chiara consapevolezza, che le cose appunto stessero muovendo, al di là di tali difficoltà e di quel molto di doloroso e magari di sconvolgente che – ovviamente – si manifesta e sussiste nei grandi processi storici, nella direzione giusta o – quanto meno – in una direzione conforme a certe esigenze di fondo della sua cultura e della sua classe.

I circa novanta componimenti che apparivano a Milano nel 1752 sotto il titolo di Alcune rime di Ripano Eupilino mostrano assai chiaramente i limiti, dei quali abbiamo già detto, riguardanti la formazione iniziale dell’autore: un bellettrismo vistoso e un po’ petulante, un universo di bella letteratura chiuso in sé e compiaciuto di sé, secondo la miglior tradizione cartacea fra Rinascimento e Arcadia, che Parini conosce benissimo. E però anche, come rovescio di questa medaglia, emergevano dal volumetto una strepitosa competenza tecnica, una precisa volontà di ricupero dei modelli, antichi e moderni, di più alto prestigio stilistico, e il talento, che non verrà meno sino alle ultime cose, della poesia come fare, come elaborazione e costruzione incessanti.

Molto probabilmente fu il senso di tutto questo, e forse anche il piglio del libro, complessivamente giovanile, franco e non tartufesco, a indurre i Trasformati ad accoglierne l’autore nella loro accademia, che annoverava gruppo di intellettuali in prevalenza quarantenni (a parte l’Imbonati, nato nel 1688, e alcuni acquisti più giovani, come Verri, Beccaria, e appunto Parini), nobili e borghesi frammisti, culturalmente accomunati da un atteggiamento di cauta apertura nei confronti dell’Illuminismo e, sul piano specifico della pratica letteraria, dall’interesse per una poesia tendenzialmente legata ai problemi della società contemporanea e alla realtà concreta, anche minuta dell’esistenza, sino al limite di un’insistita, polemica attenzione all’uso poetico del dialetto. Alcuni di questi intellettuali – come Tanzi e soprattutto Passeroni e Baretti – si faranno di lì a non molto un nome più che locale.

Quanto a Parini, si può ritenere che la partecipazione all’Accademia dei Trasformati fosse per lui un’esperienza importante. Per un verso essa contribuiva infatti ad acclimatarlo, per così dire, dopo gli studi alle Arcimbolde e dopo l’ordinazione sacerdotale, a interessi e letture più portati sul presente, sui problemi, gli orientamenti, i conflitti del mondo contemporaneo, predisponendolo a quella varia, intensa immersione nella cultura dell’illuminismo che costituisce, negli anni seguenti, un dato di fondo della sua vicenda  intellettuale, e sarà non solo consentita ma sollecitata e stimolata dalla frequentazione di casa Serbelloni, l’ambiente più sofisticato e più audace, per interessi di cultura, nella Milano del tempo. Per altro, il contatto con i Trasformati, unendosi alle letture cui si è accennato e insieme, si può immaginare, a una pratica del mondo più ampia e più ricca, faceva maturare nel giovane Parini la tensione a una poesia non più intesa come mero esercizio d’arte, come raffinata, gradevole ma pur sempre oziosa rimeria, perseguita invece nella prospettiva di un sottile confronto con la prassi e di una sua possibile utilità.

Ed effettivamente in quegli anni Parini si impegna attivamente in questa ricerca di un discorso poetico, e più in genere di una letteratura coinvolti, ma in modo non subalterno, non ancillare, nei conflitti, nelle lacerazioni, nelle attese del tempo. Per l’intelligenza progressiva sono anni – questi – assai difficili e inquieti. La guerra dei Sette Anni, scoppiata violentissima nel 1756, e abbastanza esplicita nelle sue motivazioni tutt’altro che ideali, fa cadere brutalmente la diffusa ipotesi di un indefinito progresso nella pace e nella ragione che si era fatta strada nei decenni precedenti, specie fra la pace di Utrecht e l’inizio della guerra di Successione austriaca. In particolare, ben più che non fosse avvenuto durante il conflitto che si era concluso con Aquisgrana, risultano evidenti ora le prevalenti ragioni di competitività economica che spingono le potenze ad affrontarsi in Europa, in Asia, in America. E da più parti si fa sempre più insistito il discorso antimercantilistico, la messa in questione del commercio e dei suoi eccessi, implicanti a loro volta l’esigenza, variamente definita, di un ritorno alla terra, all’agricoltura, ai valori rigeneranti della povertà, della frugalità, della semplicità agresti e di un rapporto più diretto e profondo con la natura. Sono temi che non è difficile individuare, diversamente organizzati e orientati, negli scritti, ad esempio, di Rousseau e di Quesnay[9], e sono anche, in sostanza, i temi su cui viene strutturandosi l’ideologia del Parigi philosophe all’altezza dei tardi anni cinquanta e sessanta.

Mentre in alcuni intellettuali, come Pietro Verri, il senso, che fu probabilmente di tutti, del peso centrale acquisito dall’economia e dalla politica finisce allora per implicare un rifiuto radicale e senza ritorni della poesia, nel Parini di questo periodo si ha invece un tentativo, assai interessante, cui già si è accennato, insieme di conciliazione e di integrazione. Ciò postulava anzitutto una riconsiderazione sgombra, spregiudicata, «filosofica» appunto della poesia, come specifico ed effettivo spazio umano, ed è quanto egli compie, secondo prospettive assai aggiornate, nel suo Discorso sopra la poesia.

Conciliazione e integrazione venivano trovate sostanzialmente nei termini enunciati nella famosa strofa conclusiva dell’ode La salubrità dell’aria (1759): Va per negletta via / ognor l’util cercando / la calda fantasia, / che sol felice è quando / l’utile unir può al vanto / di lusinghevol canto. Una formula elaborata tenendo d’occhio specialmente l’esperienza dei classici latini, e che potrebbe assumersi come la codificazione più brillante di un criterio fatto proprio nel Settecento non certo solo da Parini, e di fatto non più dimesso anche in anni più recenti, in genere da qualunque autore si sia impegnato su temi politicocivili: da Monti a Foscolo a Manzoni a Leopardi, giù giù sino a Carducci, Pascoli, D’Annunzio ecc.: segno, a seconda di come lo si voglia intendere, di un costante insopprimibile gusto, oggi diremmo presenzialistico, che caratterizzerebbe la nostra tradizione letteraria, per altri aspetti tanto chiusa e libresca, ovvero di un limite non meno costante di gran parte dei letterati italiani, incapaci di scegliere radicalmente, quando pure le cose lo richiederebbero, fra immersione nella prassi politico‑civile ed esercizio dell’arte.

Con la pubblicazione del Mattino e successivamente del Mezzogiorno, i due poemetti, che costituiscono l’unica parte de Il giorno apparsa vivente l’autore, Parini ottenne, come s’è avuto modo di dire, un successo largo e immediato e che richiamò su di lui il concreto interesse delle autorità austriache. L’intellettuale ormai quarantenne – che sullo scorcio degli anni sessanta accettava le offerte di collaborazione del potere imperiale – era, si può pensare, insieme preoccupato e attratto dall’idea di costringere la propria condizione di libero scrittore entro un quadro operativo che se da una parte risultava imposto dall’alto, indiscutibile e cogente, pure poteva da un’altra consentirgli infine di contribuire in modo fattivo, concreto, quotidiano a quel miglioramento, a quel “progresso” della società per cui si era pronunciato nei versi e nei libri degli anni precedenti. È un atteggiamento complesso che investe molti altri uomini di cultura che vivono allora la medesima esperienza: basti pensare ancora a Pietro Verri o a Cesare Beccaria, nominato anche lui, nel novembre del 1768, professore, ma di economia politica, alle Scuole palatine. Si aggiunga che tale rapporto di collaborazione con un potere ritenuto buono e correttamente orientato, e più in genere l’onesta condizione funzionariale valevano a sottrarre lo scrittore, di per sé tutt’altro che agiato, ai rischi sia di un esercizio diremo così professionistico e mercantile della letteratura, sia di quelle esperienze di tipo cortigiano, descritte in termini del tutto negativi nell’ode La caduta.

Certo il non breve arco degli anni settanta e ottanta costituisce per gli intellettuali che si erano venuti a trovare nella posizione di Parini qualcosa come un banco di prova sempre più arduo. Coinvolti nelle angustie della crisi indubbia e crescente, un po’ ovunque, della politica delle riforme, e stretti da una parte fra chi mostra di aver scelto felicemente la via dell’astensione e della rinuncia e dall’altra fra quanti, specie più giovani (come Vittorio Alfieri intorno al 1780), scelgono di muoversi nella prospettiva di un rifiuto netto, radicale del dispotismo e di ogni compromissione con quest’ultimo, essi finiscono per vivere la loro situazione con difficoltà sempre maggiori, fanno sempre più fatica a riconoscersi nel ruolo che hanno assunto, e un atteggiamento abbastanza comune è allora quello di rivolgere un’attenzione nuova a se stessi, di stabilire o ristabilire le distanze fra la società circostante e l’io, e questo osservare, contemplare, auscultare.

Appunto un contegno introspettivo del genere appare proprio del Parini di questi anni, che poi ci mette di suo, quasi a neutralizzarne le potenziali esasperazioni in senso egotistico e solipsistico (che si troveranno nell’ultimo Alfieri), la ricerca, la controllatissima sperimentazione di una moralità tutta giocata – anche nel sottile ricupero di certa saggezza greco‑latina, che costituisce un aspetto fra i più notevoli del classicismo pariniano – su prospettive di equilibrio, di fermezza, di senso dei limiti, di moderazione serena. È questo, in sostanza, il “raggiunto equilibrio morale” di cui ancora si legge nella critica più recente, che si traduce nell’invenzione neoclassicamente configurata, nel fermo nitore delle ultime odi e della redazione più tarda de Il giorno.

Viene intanto definitivamente fissandosi in questi anni l’immagine pariniana di gran letterato, di «celebre e colto scrittore», come avrebbe poi scritto Alfieri, che appunto lo visitava, nell’estate del 1783, per «indagare, con la massima docilità, e con sincerissima voglia d’imparare, dove consistesse principalmente il difetto del suo stile in tragedia». E questo rilevarsi di una dimensione eminentemente artistico-letteraria dello scrittore lombardo, che finiva idealmente per connettersi al bellettrismo delle prime poesie, sorvolando sull’esperienza degli anni sessanta, di maggior coinvolgimento in direzione politico‑civile, si può ritenere all’origine di certa successiva tradizione critica, che sarebbe culminata in Croce, concorde nel considerare Parini (secondo la nota formula di Leopardi) «piuttosto letterato di finissimo gusto che poeta».

Non era però esattamente questa, di artista squisito e di buon nome, l’ultima immagine che Parini avrebbe lasciato di se stesso. Entrati i francesi in Milano, il Termometro politico della Lombardia così scriveva: «Il popolo milanese sentiva da gran tempo il peso del despotismo austriaco. Per quanto si compatisse coll’indole naturale dell’uno, si fremeva, ancorché sommessamente, contro la sordida venalità dell’altro. I lumi che precedono sempre l’aurora della libertà e della pace facevano desiderarla ed amarla. La massa di questi lumi era ben cresciuta per opera di Beccaria, Longhi, Verri, Parini […]. Si aspettava l’occasione di adoperarla e di goderne i vantaggi». All’investitura della giovane intelligenza democratica, vividamente attestata da questo passo, e che certo teneva conto soprattutto del fervido impegno progressivo di Parini all’altezza degli ormai mitici anni sessanta, l’anziano scrittore rispondeva con una partecipazione, una persuasione straordinariamente energica, testimoniata dai numerosi incarichi subito assunti, e poi, con l’inquinarsi della situazione politica e la graduale emarginazione, dal modo assai teso, dal “dolore”, per usare un termine foscoliano, non misurato e non contenuto con cui avrebbe finito per guardare alla realtà contemporanea.

E qui – appunto – soccorrono le memorabili testimonianze di Pietro Verri («Parini, il fermo ed energico Parini, talvolta piange. Io non piango, ma fremo e lo amo») e di Ugo Foscolo, che del vecchio poeta scriverà in più luoghi, ma che fisserà l’atteggiamento di cui stiamo parlando soprattutto in una pagina famosa dell’Ortis: «Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch’io m’abbia mai conosciuto; e d’altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria, e fremeva per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite ecc.». Da questa pagina e più in genere dal contegno di questi ultimi anni, che a sua volta ricuperava, certo consapevolmente, le tensioni politico‑civili che erano emerse massimamente fra La vita rustica (Me non nato a percotere / le dure illustri porte / nudo accorrà, ma libero, / il regno de la morte) e il primo Giorno, si sarebbe stabilita quell’altra immagine pariniana che è possibile trovare nella nostra tradizione: l’immagine di fierezza incorrotta, di alta passione civile, che avrebbe inquietato a lungo la coscienza non solo di Foscolo, ma di tanto successivo radicalismo borghese.

 

Le Rime di Ripano Eupilino e il noviziato pariniano

«La prima formazione del Parini poeta si svolge in una zona ancora arcadica, ma con una più forte ripresa dei modelli rinascimentali e dei classici latini e greci e con una più originale carica realistica e morale che parzialmente si rivela entro condizioni di esercizio stilistico preparatorio, di assaggio di diverse forme di linguaggio poetico e di generi poetici (poesie pastorali, satire bernesche ecc.), nella raccolta giovanile del ‘52, Le Rime di Ripano Eupilino (pseudonimo e anagramma del Parini nato nei pressi del lago di Pusiano, classicamente Eupili)»[10].

Il “picciol libretto” (così lo chiama l’autore nella premessa ai lettori) è sottilmente indicativo di una poesia intesa come fare, cioè come manipolazione di materiali verbali, poiché ci mostra l’intensa sperimentazione in molteplici direzioni di una personalità poetica non interessata ad esplicitarsi liricamente, ma piuttosto ad effondersi – secondo una visione ed una pratica propria dell’Arcadia, ad un attivo esercizio d’arte, alla febbrile esecuzione, e spesso riesecuzione di temi, linguaggi, strutture, in genere attinti dalla ricca tradizione classica e rinascimentale.

Le Rime di Ripano sono sicuramente quelle di una principiante, ma sono anche il fondamentale banco di prova in direzione di quel linguaggio che il Parini verrà a poco a poco maturando colmo di evidenza sensibile, tutto rinvii e implicazioni intellettuali. «Del resto fra le rime giovanili e le opere maggiori, e in parte contemporanee a queste ultime, sta una ricca produzione di Poesie minori, in cui quell’esercizio tecnico e metrico si continua e s’affina, accogliendo in maggior misura le esperienze dell’Arcadia, anche frugoniana e metastasiana, e al tempo stesso cimentando il linguaggio tradizionale alla prova dei nuovi argomenti morali e satirici e di una più personale sensibilità: capitoli o sermoni in terza rima (La maschera, La decadenza delle belle lettere, Il teatro), che per certi aspetti si riannodano alla maniera del Menzini e degli altri satirici del Seicento, ma in cui penetra già una tecnica descrittiva più fine e mordente e una violenza di atteggiamenti sarcastici, che parrà dura e troppo restia al freno dell’arte, ma è ad ogni modo tutt’altro che generica; epistole e idilli in endecasillabi sciolti, in cui s’addestra e si perfeziona lo stilista, nel metro stesso del Giorno, e si fa la mano alla descrizione colorita e viva, e pur classicamente raffinata e contenuta, di bellezze femminili e di quadretti campestri; anacreontiche, madrigali, scherzi (Il parafoco, La ventola, ecc.), dove s’affaccia un Parini Galante e malizioso, scettico e delicatamente arguto, con leggerezza di toni e una grazia piccante di figurazioni e di riflessioni, tutta settecentesca e filtrata in ritmi e cadenze di musicalità metastasiana; Canzonette, tra cui notevoli Il brindisi, che s’aggira in un’analoga sfera di elegante galanteria e garbato scetticismo, e soprattutto Le nozze, dove la rappresentazione delle caste gioie matrimoniali, pur nell’ambito di una grazia tutta musicale e stilizzata, si fa trepida e commossa e si vela di rimpianto e di nostalgia, sì da poter essere accostata per il tono al tardo bellissimo frammento di un’altra ode nuziale (Chi noi già per l’undecimo), dove è ritratto il distacco della sposa dalla casa paterna, con una castità e intimità di accenti umanissima e soffusa di malinconia; e poi odi e sonetti, molti sonetti, d’occasione, per feste religiose ed eventi politici, per nuovi sposi, per monache, d’amicizia e di cortesia, dove, pur nella farragine delle troppe cose inutili, è possibile talora spigolare note e spunti di poesia e quasi sempre ammirar la perizia squisita e crescente con gli anni del letterato»[11].

In tutto questo va anche considerato che la frequentazione con l’Accademia dei Trasformati e le nuove letture dei testi fondamentali dell’Illuminismo pongono il Parini in una nuova prospettiva di letterato e di poeta, collegando i suoi approfondimenti sullo stile ed il linguaggio alle più profonde ragioni della sua nuova fede morale e civile. Per cui nasce – accanto ai componimenti poetici recitati in Accademia che esaltano l’avversione per le guerre o il fanatismo religioso – il Dialogo sopra la nobiltà (1757), che rappresenta la prima organizzazione della sua polemica contro la classe nobiliare, che viene smascherata nella sua stessa origine di sopruso, di violenza, di appropriazione indebita di beni e privilegi, concedendo un solo merito a quei nobili che sappiano usare la loro ricchezza e la loro potenza per il pubblico bene.

Nel Discorso sopra la poesia (1761), conversazione probabilmente tenuta ai Trasformati, sostiene, con pagine vivaci ed accorte, l’esigenza di trovare alla poesia, e più in generale all’arte tutta, una sorta di spazio immune non solo dall’irresponsabile oziosità versificatoria, ma anche dalle ragioni più immediate dell’utile e della prassi; una poesia, insomma, che sia educatrice e capace – dilettando ed eccitando – di spingere gli animi ad azioni virtuose e benefiche. «E dunque la poesia cui aspira il Parini non sarà una frigida lezione in versi non ispirati, ma una vera nuovapoesia ispirata, calda di sentimenti e di sensazioni vive, dotata di musicalitàe tanto più perciò capace di intervenire con forza nella situazione civile e storica promovendo e diffondendo idee e azioni utili al bene di tutti, al progresso della società. Così il vecchio precetto oraziano («omne tulit punctum / qui miscuit utile dulci») è ripreso in una specie di alta tradizione del più vero classicismo, ma effettivamente rinnovato dal nuovo impegno illuministico, dalla pregnanza e tensione di nuovi riferimenti ideologici, estetici e civili, che arricchiscono il programma riformatore della stessa poesia.

Tutte le prime odi ben confermano la fedeltà persuasa del nuovo poeta in quel programma e nella sua attuazione, anzitutto rivelata dai temi di quei componimenti, singolarmente rinnovati anche quando hanno un’apparente vicinanza con temi arcadici: il caso della Vita rustica, che tanto si diversifica da simili temi idillici e pastorali arcadici per il diversissimo senso dell’elogio commosso del “villan sollecito” (che, con le nuove conoscenze di coltivazione della terra, renderà più fecondi i suoi campi contribuendo alla prosperità comune e che così diventa degno di immortalità poetica) e per la stessa esaltazione autobiografica del poeta, povero perché non servile o adulatore dei potenti, e lieto di tale sua condizione adatta ad una nuova e libera poesia. Ma tanto più esplicitamente nuovi sono temi come quelli della già citata Salubrità dell’aria che esalta la salubre aria della campagna di fronte a quella di Milano inquinata dai miasmi delle paludi improduttive che la circondano e dalle “vaganti latrine” con cui ancora si procedeva allo sgombero degli escrementi umani e chiede così nuovi provvedimenti igienici per una vita più sana e decorosa dei cittadini. Con spregiudicato ardire il nuovo poeta illuminista non teme la prosaicità di un simile tema che egli insieme evidenzia nel suo realismo sensoriale e nobilita con la concisione classica del lessico e dell’aggettivazione perspicua, con la misura efficace ed elegante delle strofe e del ritmo. O saranno il tema dell’Impostura, che illuministicamente associa agli impostori del tempo i falsi profeti di civiltà fondate sulla superstizione e sull’inganno, il tema della Musica, che condanna l’uso delle “voci bianche” ottenute con l’evirazione di fanciulli destinati a cantare in vesti femminili, il tema dell’Innesto del vaiuolo, che loda l’inventore e l’introduttore in Italia del vaccino antivaioloso, il tema del Bisogno, che esalta il giudice che applica i nuovi principi del metodo preventivo, il tema dell’Educazione (scritta per il suo allievo Carlo Imbonati) che sviluppa più ampiamente l’ideale educativo pariniano alla luce della sua persuasa fiducia nella unione sapiente di natura e ragione, nel rifiuto di ogni coercizione e di ogni vecchio pregiudizio.

Così queste Odi (e poi altre come La magistratura o La laurea) sono altrettante realizzazioni della poesia “utile e dolce”, della poesia collaboratrice attiva delle riforme che devono portare ad una civiltà sana, pacifica, attiva, sobria e felice nel bene inseparabile dei singoli e della collettività, nel suo lavoro fecondo e nelle sue feste serene, nella sua lieta fruizione di beni duraturi e non viziosi. E coerentemente sono altrettante battaglie poetiche contro ogni deformazione del saldo vincolo di Natura e Ragione, di Piacere e Virtù, contro ogni resistenza di pregiudizi e di interessi egoistici e di casta. Né, come dicevo, si tratta di rozze composizioni propagandistiche, ché il Parini assiduamente vi cerca una nobilitazione poetica con il suo classicismo perspicuo ed elegante, teso a rendere evidenti, efficaci e concise le rappresentazioni dei suoi temi illuministici e civili.

E tuttavia (con diversi esiti di migliore resa poetica, come può essere soprattutto quella dell’Educazione) in questa posizione vi erano delle effettive difficoltà di realizzazione poetica, degli effettivi rischi di caduta in certa durezza più prosastica o in certa discorsività meno sensibilizzata fantasticamente, un generale limite di prevalenza dell’efficacia educativa sulla bellezza poetica cui pure tanto il Parini teneva. Sicché in mezzo allo sviluppo di questa direzione più esplicitamente e aggressivamente illuministica nelle Odi del primo periodo, il Parini venne volgendosi ad una poesia più complessa, in cui l’impegno rinnovatore e riformatore potesse calarsi ed esprimersi in una rappresentazione e descrizione ironico-satirica, con un impasto più vario e poetico di toni e di gradazioni fra esaltazione di nuove virtù, sdegno, ironia e sorriso sul mondo satiricamente rappresentato, incontro di forza e di morbidezza, di eleganza evidente e di sfumature preziose e raffinate»[12].

Il Giorno

Il Mattino, iniziato probabilmente poco dopo il 1760, è primo dei poemetti di cui si sarebbe composto Il Giorno e che appariva (come s’è detto) a Milano nel 1763. Scritto nel momento di più viva tensione dell’autore a una poesia coinvolta nel dibattito politico‑civile, questo testo di poco più di mille versi, che già però si poneva come avvio di un lavoro ben più ampio, si connetteva naturalmente alle prospettive ideologiche che Parini aveva fatto proprie sullo scorcio degli anni cinquanta (egualitarismo di fondo, richiamo ai valori salvifici della natura, rilievo accordato al mondo dei campi come luogo di attività produttiva e insieme di purezza e semplicità di costumi ecc.), istituendosi secondo un discorso acremente polemico nei confronti non tanto della nobiltà in genere, quanto di certa nobiltà cittadina che per le sue abitudini di vita – come l’assoluto disprezzo dei non nobili, l’inattività, la pratica esasperata della raffinatezza e del lusso, il fatuo libertinismo – da un lato si offriva come un concentrato di disvalori, un emblema di negatività, e da un altro appariva il dato se non da rimuovere, almeno da emendare, e in ogni caso da smascherare impietosamente in vista di un assetto sociale meno squilibrato e meno ingiusto. Oggetto dunque del discorso satirico (e qui satirico va inteso alla maniera di Giovenale[13], e cioè che «indignatio facit versus») era questo particolare tipo di aristocratico, che Parini aveva certo potuto frequentare e conoscere durante la sua pratica ormai lunga del mondo nobiliare, ripreso nei momenti più significativi di una routine raccolta nel microcosmo, strutturalmente assai funzionale, di un solo giorno (da cui poi il titolo). E il taglio prescelto era quello di un rovesciamento in direzione fra ironica e parodistica del poemetto di tipo didattico, molto comune nella tradizione letteraria classico‑rinascimentale, il poemetto cioè in cui l’autore esalta qualcosa, in genere un’attività (si pensi al lavoro dei campi e all’allevamento del bestiame, come nelle Georgiche di Virgilio) impartendo insegnamenti su di essa.

Avendo ottenuto Il Mattino un successo notevole, Parini (come già detto) fece seguire nel 1765 Il Mezzogiorno, altro poemetto 1300 versi circa, che s’integravano strettamente ai precedenti. «Ne risultano scene settecentesche di suprema eleganza, macchiette e caricature sorridenti e satiriche, descrizioni minute e impeccabili di oggetti o di azioni colte e rese nel loro vivo e mobile dispiegarsi, aperture ariose e realistiche sulla campagna fertile e sul mondo popolare laborioso e schietto. Ma certo il culmine della poesia pariniana, quale si esprime specie nei due primi poemetti, viene raggiunta quando dal loro tessuto vario, dalla generale tensione poetica così sfaccettata nelle sue rappresentazioni ironiche, satiriche, parodistiche, polemiche, descrittive, si alzano alcuni episodi esemplari che esprimono più direttamente l’animo indignato e offeso del poeta illuministico, pur facendolo, con tanto maggior risonanza, esplodere al sommo di una rappresentazione morbida ed elegante, dall’interno di un episodio inizialmente costruito con tutte le risorse della sua elegante ironia e della sua rappresentazione preziosa e satirica del mondo nobiliare»[14].

In una lettera al suo “editore”[15], del settembre del 1766, Parini si diceva in grado di preparare, per la primavera dell’anno seguente, un terzo e conclusivo poemetto, La Sera, che si sarebbe dovuto stampare con i primi due. Il progetto però non ebbe esito, e occorre giungere agli anni ottanta prima di ritrovare testimonianze sul tema. Sinché nell’ottobre del 1791, in una lettera a Bodoni[16], Parini informa di esser vicino ad «avere in pronto due poemetti, per seguito e per termine di quelli altri antichi due». E precisa: «I due primi uscirebbero corretti, variati in qualche parte ed accresciuti. Così tutti e quattro verrebbero ad essere nuovi e ridotti in un solo poema, che avrebbe per titolo Il Giorno». Ciò significa che alla data di questa lettera Parini aveva concluso la revisione del Mattino e del Mezzogiorno (che ora si sarebbe dovuto intitolare, con vocabolo classicheggiante, Il Meriggio) e stava lavorando alle sezioni che avrebbero dovuto costituire non più una Sera, ma Il Vespro e La Notte.

Le testimonianze relative agli ultimi anni sono alquanto divergenti: secondo alcuni Parini, ancora nel 1798, avrebbe ritenuto di poter finire Vespro e Notte per l’estate dell’anno seguente; secondo altri, invece, il poeta avrebbe allora «cominciato a riguardare qual pretta viltà, niente men turpe che insaevire in mortuum, l’acconsentir, dopo tanto procrastinare, all’edizione di uno scritto ove si pungono di sarcasmo quelli singolarmente, che nel gran corpo sociale formavano una classe distinta, di cui i politici cangiamenti sopraggiunti allora nel proprio paese facean veder manifesta la totale decadenza». Resta comunque il fatto che il libro non usciva. Rimanevano però diversi manoscritti, su cui gli editori avrebbero potuto stabilire la redazione del Mattino e del Meriggio successiva alle edizioni del 1763-1765, inoltre il testo del Vespro e della Notte, con quello di numerosi frammenti relativi a quest’ultima. Il tutto costituisce quel che si suole definire il “secondo” Giorno, e si tende oggi da molti a considerare, nonostante il carattere in fieri dell’opera nel suo insieme, come cosa per più aspetti distinta dal cosiddetto “primo” Giorno, dai poemetti cioè pubblicati nei primi anni sessanta.

Non è semplice, naturalmente, render conto in breve dei modi e delle motivazioni di questo complesso itinerario pariniano. Intanto la prima impressione, che può avere chi tenti una lettura comparata del primo e del “secondo” Giorno, è non di un sostanziale mutamento delle prospettive di fondo, bensì soprattutto di un tendere, fra la prima redazione e i successivi ritocchi e sviluppi, a scelte di stile orientate nel senso di una radicale riduzione o eliminazione di parole straniere, di termini ripetuti, di forme troppo concentrate o pregne di tensione semantica.

«Nell’evoluzione della sua storia e della storia del tempo il Parini poté aver l’impressione di aver già fortemente collaborato con i suoi due primi poemetti del Giorno ad una riforma della classe nobiliare, sicché la sua volontà satirica sembra più spesso alleggerita e più dominata da uno sguardo superiore e pacato cui corrispondeva quella maggiore ricerca di armonia e di distensione che nasceva anche dalla nuova adesione al gusto neoclassico e che si riflette nelle correzioni apportate dal poeta nei primi due stessi poemetti.

Crescono nei due nuovi poemetti del Giorno un’eleganza e un gusto più disteso e armonico che smussa – pur non eliminandone il riferimento ai suoi valori di umanità e di nobiltà spirituale – le punte più accese e i colori più densi della sua satira. E questa, specie nella Notte, si apre più sicuramente a vaste scene d’insieme, a quadri ironici e attediati di gruppi di nobili ottusi e frivoli, di individui spettrali e ridicoli, assorti nei loro stupidi scherzi e nella loro frivola socievolezza, mentre il disegno di alcune scenette (come quella dell’attacco isterico di una damina o quella dell’incontro di due “fervide amiche” che sotto l’accelerarsi rabbioso del movimento dei loro ventagli si accendono di reciproca ira pur nell’aggraziata misura del loro costume di ipocrita convenienza) si fa più sottile e poi pacatamente ironico e sorridente, perdendo in parte la densità più colorita ed elastica delle prime due parti del Giorno e acquistando una più ariosa e compiaciuta eleganza»[17].

Accanto a questo – e in questo, naturalmente – si avverte poi un ridursi del contegno di tesa indignazione, che prevale nel “primo” Giorno, e l’affermarsi appunto di un atteggiamento costituito insieme di più distaccata, composta irrisione e di un gusto più insistito del particolare, dell’osservazione dal vero fedelmente e minutamente sviluppata.

Se tali impressioni hanno una loro consistenza, che cosa si poneva a monte di questi diversi orientamenti compositivi? Per gran parte, si può pensare, un dato di ordine socioeconomico (come s’è visto pensava il Binni), cioè il sempre più rapido e complesso processo di trasformazione, o di crisi se si preferisce, in cui si trova coinvolto, specie dagli anni settanta in avanti, il mondo nobiliare, con fortissime accelerazioni durante l’ultimo decennio del secolo. Di qui forse anche quella sensazione, nell’autore, di «incrudelire su un cadavere», col conseguente ridursi dell’aggressività iniziale, ma soprattutto la capacità sempre minore di penetrare criticamente, di comprendere, e infine di fissare una realtà così mobile e perturbata. La quale tendeva allora a poco a poco, da oggetto che era stata e insieme da propulsore della indignatio del “primo” Giorno, a farsi, per certi suoi aspetti magari anche marginali, occasione di una pratica di poesia più allentata, più elegante, dove agiatamente poteva esplicarsi – pur sempre nei termini di un discorso satirico e senza smentire certi presupposti ideologici di fondo – quel nuovo gusto dell’io su cui si è già più volte richiamata l’attenzione per il Parini di questi anni. Tutto ciò postulava a sua volta molto naturalmente una sostanziale ricezione dei criteri di base del neoclassicismo romano‑winckelmanniano, come tensione a una gestualità, a un fare artistico aperto a prospettive di grandezza, di nobiltà, di semplicità, di quiete, insomma a una rielaborazione distaccata e serena dei materiali anche più torbidi e più urtanti. Qui, in questo fare abbastanza fine a se stesso in quanto gratificante per l’io che lo esercita, il senso del pullulare di testi frammentari che caratterizza la stesura della Notte, il senso cioè di un organismo compositivo assolutamente aperto, su cui, è evidente, non poté averla vinta nessuna esigenza di conclusione, di edizione, di libro finalmente stampato.

 

Le Odi neoclassiche

Le Odi, come s’è visto, rimasero inedite o sparsamente apparse su giornali, fogli volanti, volumi miscellanei, e uscirono riunite per la prima volta solo nel 1791, in un’edizione curata, sembra col consenso del poeta, da un suo ex-scolaro, col titolo Odi dell’abbate Giuseppe Panni già divolgate. Non sembra pertanto che questi componimenti, che pure rappresentano una parte cospicua dell’attività poetica del Parini, possano costituire un’opera unitaria. Tale però dovette sembrare all’autore degli ultimi anni e ai suoi sodali, non tanto per i temi, i contenuti, ma piuttosto per il fatto di essersi costituiti, questi testi, come una diversa volontà di canto rispetto al restante della varia esperienza poetica dell’autore, come «odi» appunto, e cioè composizioni caratterizzate da un complesso integrarsi di effusione dell’io e parola pubblica (in senso celebrativo, deprecativo ecc.) e insieme da un risoluto impegno di ricupero, in direzione strutturale linguistica ecc., di certi fondamentali modelli individuati nella civiltà letteraria greco‑latina. E in anni, come sono quelli dell’ultimo Settecento, di così intenso fervore in direzione dell’antico, di varia edizione, traduzione, imitazione di autori classici, è assai probabile che le odi pariniane, fra l’altro sempre più segnate da un taglio e da uno spirito neoclassici, dovessero apparire per questo riguardo come testimonianza di un’esperienza esemplare, un monumentum da sottrarsi, forse più dello stesso Giorno, all’effimero dei manoscritti e delle pubblicazioni occasionali.

D’altro canto, una lettura un po’ attenta delle Odi (fra la prima e l’ultima dei quali si apre fra l’altro uno spazio di circa quarant’anni) è sufficiente a porre in luce la specificità dei singoli testi, e l’opportunità di intenderli tenendo conto dei diversi tempi e motivazioni cui ognuno di essi si connette. Noteremo allora, senza insistere in inutili dettagli, come prevalga nelle prime odi – e lo suggeriscono i titoli stessi – un’esigenza assai viva di partecipazione, di compromissione nel dibattito politico‑civile contemporaneo, e di contributo, per questa via, al progresso della società e dei “lumi”. La scelta di temi attuali, del tutto inediti nella tradizione poetica italiana, il condensarsi, nel discorso poetico, di elementi ragionativi e sentimentali, infine l’impegno, sensisticamente motivato, di toccare, colpire, coinvolgere insomma il lettore, inducono Parini alla elaborazione di un linguaggio insolito e complesso, fitto di immagini e colmo di spessore semantico, nutrito, funzionalmente, di apporti latini.

Verso la fine degli anni settanta, dopo un’interruzione non breve, Parini riprende a scrivere odi. Esemplare di questa ripresa è Il brindisi (cfr. più oltre), composto nel 1778. In questi componimenti si percepisce chiara (La caduta, Il pericolo, Il dono, Il messaggio ecc.) una più risentita attenzione alle ragioni e alla situazione dell’io. Se, come si tende oggi a fare da parte di alcuni studiosi del Settecento, si considera la poesia del tempo nella prospettiva di un graduale emergere dei valori della sincerità e dell’eliminazione di ogni maschera, non c’è dubbio che si possa indicare in Parini, come diversamente in Alfieri, il protagonista italiano di questo fenomeno di valenza europea. Naturalmente nelle odi di cui stiamo ora parlando il discorso politico‑civile non viene respinto, ma inclina a sfumarsi entro una prospettiva piuttosto etica, e sempre più insistita si fa la celebrazione (specialmente ne La caduta e ne La gratitudine) di un’umanità stoicamente equilibrata, «di un didascalismo in cui i termini dell’“utile” e del “dolce” sembrano piuttosto cambiarsi in quelli del “vero”, del “buono” e del “bello”, e la figura del poeta illuministico ed educatore sembra prospettarsi in forme di più equilibrata e superiore saggezza, in relazione alla persuasione pariniana di una relativa avvenuta conquista di condizioni più civili e umane nella società milanese, di una iniziale vittoria del moto riformatore, di una avvenuta riforma di molti di quegli stessi nobili educati da lui. Ed è così che il Parini può accogliere nel proprio gusto le sollecitazioni del neoclassicismo teorico e figurativo (in un’epoca in cui egli a Brera frequenta pittori, scultori, architetti neoclassici) nella tensione ad una bellezza nobile e calma, ad una tranquilla e serena nobiltà spirituale ed estetica, a una semplicità solenne e lineare e a quell’ideale di “bontà e bellezza”, con cui il poeta intimamente consonava in una maturata visione di affetti eletti e pacati, confortata appunto dalle nuove istanze neoclassiche a cui (si ricordi) egli si ispirò in certi progetti (intorno all’80) da lui scritti per teloni di teatri o per decorazioni di palazzi.

Sempre centralmente ispirato da un ideale civile e dalla figura del “buon cittadino” dignitoso e non servile né orgoglioso, quale si realizza nella severa e alta ode autobiografica La caduta (tutta fondata sul sentimento coerente della propria dignità personale e del proprio servizio al bene della collettività), e sempre fedele al suo persuaso illuminismo riformatore, gradualistico, moderato, timoroso di riforme troppo brusche e avventate (come può ben dimostrare l’ode La tempesta, dell’86, che esprime chiari dissensi di fronte alle precipitose riforme di Giuseppe II), il Parini più tardo si muove verso un tipo di poesia più serena e armonica, più affermativa dei valori di alta moralità, di alta convivenza civile che non direttamente polemica e satirica, anche se, quando occorre, essa non mancherà di reagire con ferma forza ad ogni accenno di deviazione dall’ideale della bontà fraterna e umanitaria: si pensi all’ode A Silvia o del vestire alla ghigliottina del ‘95, che severamente dimostra le cause e il progresso della corruzione delle donne romane nel periodo imperiale e teme un simile processo nel germe apparentemente innocuo della moda femminile di un nastro rosso alla gola, allusivo al taglio sanguinoso della ghigliottina francese.

La poesia delle odi più tarde (già dalla Laurea del ‘77, su su fino alle grandi odi finali, Il messaggio del ‘93, A Silvia, già ricordata, Alla Musa del ‘95-96) è ben lungi dunque da una direzione di decadenza e di isterilimento umano, civile e poetico, e anzi in essa vengono crescendo insieme una specie di alta saggezza umana, una persuasa affermazione e celebrazione dei valori vitali e ideali di una civiltà matura ed eletta, una capacità stilistica e poetica più ariosa e profonda, una musica più intimamente suggestiva che richiedeva (secondo quanto il Parini diceva nell’ode La recita dei versi) una speciale condizione etico‑estetica per essere esercitata e gustata:

 

Orecchio ama placato
la Musa e mente arguta e cor gentile.

 

Una condizione che perciò rifiutava gli eccessi sentimentali, la tetra malinconia della poesia preromantica, quale scendeva in Italia dai paesi del Nord, come il Parini chiaramente afferma nell’ode La gratitudine, che invece esortava i giovani a quei “limpidi di Grecia rivi”, a quei modelli di classica saggezza e di perfezione formale che egli sempre più ammirava nella sua adesione al neoclassicismo.

Ma, se il neoclassicismo poteva (specie nelle arti figurative) portare a forme troppo frigide e accademiche e a un calco ripetitorio e velleitario delle antiche forme della bellezza greca, lo speciale neoclassicismo pariniano – sempre alimentato da una sensibilità alacre e viva e da una spiritualità saggia e pacata, ma mai fredda e irrigidita, e dalla persuasa forza di ideali illuministici mai rifiutati – poteva ben tradursi in una poesia luminosa e nitida, capace di realizzare anche una superiore forma di gentile galanteria, di soave culto e affetto per immagini di femminile bellezza. Come avviene nelle odi Il pericolo o Il dono e più altamente nel capolavoro del Messaggio del 1793 che riassorbe un elemento di amorosa galanteria (esercitata dal Parini in molti minori componimenti più scherzosi e sorridenti che sono pur degni di viva attenzione) in una più alta rappresentazione della propria vocazione al “grato della beltà spettacolo”, del proprio senile e ironizzato vagheggiamento amoroso per l’“inclita Nice” (la contessa Maria di Castelbarco), delle belle forme di questa, evocate in un’immagine delicata e tenera, e, infine – con una suprema grazia fra tenue malinconia e sorriso pacato –, della prefigurazione della propria prossima morte e del rinnovato rapporto fra la giovane donna e le ceneri del poeta ancora scosse al suo passaggio da una misteriosa commozione amorosa.

Ma più centralmente l’ultima poesia pariniana troverà la sua suprema espressione nell’ode Alla Musa, alta sintesi degli ideali pariniani nella loro più tarda configurazione, e rivelazione concreta della estrema finezza e della impalpabile leggerezza di una fantasia pura e limpida, tradotta in un ritmo delicato e saldo, in una musicalità lirica, lenta e pausata, in immagini luminose e trasparenti.

In quell’ode il Parini riprende le direzioni più profonde della sua autobiografia, della sua vita spesa per la poesia e per l’educazione di una civiltà eletta e umana, della sua stessa concezione della poesia che “cerca il vero e il bello ama innocente” e a cui non inutilmente si è dedicato il suo allievo aristocratico, Febo D’Adda, che associa ad essa i suoi teneri doveri di giovane sposo ed è ormai così lontano dal figurino ridicolo e ripugnante del “giovin signore” del Giorno»[18].

 

***NOTE AL TESTO ***

[1] Gabrio Serbelloni, III duca di San Gabrio e Conte di Castiglione (Milano, 28 novembre 1693 – Milano, 26 novembre 1774), era figlio di Giovanni e della nobildonna Maria Giulia Trotti Bentivoglio. Intraprese la carriera amministrativa nel ducato di Milano sotto la sovranità spagnola, divenendo membro del consiglio dei 60 decurioni e maestro di campo della milizia urbana della città di Milano. Nel 1710, tramite dispaccio concesso dall’imperatore Carlo VI a Barcellona, ottenne il titolo di Grande di Spagna e la trasmissibilità del medesimo ai suoi eredi maschi primogeniti.

[2] Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (Montbard, 7 settembre 1707 – Parigi, 16 aprile 1788), esponente del movimento scientifico legato all’Illuminismo, viene accreditato come uno dei primi naturalisti che riconobbero la successione ecologica, cioè il processo attraverso il quale le specie occupano un ambiente fisico e ne determinano le modificazioni. Le sue teorie avrebbero influito sulle generazioni successive di naturalisti, in particolare sugli evoluzionisti Jean-Baptiste Lamarck e Charles Darwin.

[3] Giuseppe Maria Imbonati (Milano, 4 luglio 1688 – Milano, 2 luglio 1768), letterato e mecenate, fece rinascere nel proprio palazzo la cinquecentesca Accademia dei Trasformati, della quale fecero parte alcuni dei più vivaci spiriti del tempo.

[4] Léon Guillaume du Tillot (Bayonne, 22 maggio 1711 – Parigi, 13 dicembre 1774), politico francese e ministro dell’economia pubblica e degli affari esteri del Ducato di Parma e Piacenza, divenne poi primo ministro nel 1759. Grazie al suo impegno nacquero l’Accademia di Belle Arti di Parma, il Museo d’antichità e la Stamperia reale e fu potenziata l’Università di Parma. Fece redigere il catasto della città e rinnovare il Giardino Ducale secondo il modello di Versailles.

[5] Karl Joseph von Firmian (Mezzocorona, 15 agosto 1716 – Milano, 20 luglio 1782), figlio di Franz Alphons e nipote dell’arcivescovo Leopoldo Antonio Eleuterio Firmian, ricevette la propria educazione presso l’abbazia di Ettal in Alta Baviera, quindi a Innsbruck, a Salisburgo e all’Università di Leida, e successivamente con soggiorni in Francia e in Italia. Maria Teresa d’Austria nel 1753 lo volle ambasciatore a Napoli, destinandolo dal 1758 alla Lombardia come ministro plenipotenziario, dove fu promotore e fervido sostenitore delle scienze e delle arti.

[6] Ranieri Simone Francesco Maria de’ Calzabigi (Livorno, 23 dicembre 1714 – Napoli, luglio 1795), poeta e librettista, studiò a Livorno e a Pisa. Nel 1743 prestò servizio in un ministero a Napoli, dove iniziò a dedicarsi all’attività librettistica. Successivamente fu a Parigi e poi (1761) a Vienna per rivestire la carica di consigliere alla Camera dei Conti dei Paesi Bassi e più tardi quella di consigliere di S.M.I.R. Apostolica. Grazie all’intermediazione del conte Giacomo Durazzo, direttore del teatro di corte viennese, poté conoscere Christoph Willibald Gluck, per il quale scrisse tre libretti d’opera, Orfeo ed Euridice (1762), Alceste (1767) e Paride ed Elena (1770). Successivamente, a seguito di uno scandalo, dovette abbandonare Vienna e si stabilì a Pisa (1774), poi a Napoli (1780), dove scrisse i suoi due ultimi libretti, Elfrida (1792) ed Elvira (1794), entrambi musicati da Giovanni Paisiello.

[7] Entrambe queste opere saranno in seguito musicate da Mozart.

[8] Febo III d’Adda, VI marchese di Pandino (1771-1836), consigliere di stato, fu vicepresidente del governo austriaco a Milano dopo la Restaurazione.

[9] François Quesnay (Méré, 1694 – Versailles, 1774), economista, medico e naturalista francese, fu il maggior rappresentante della fisiocrazia, la dottrina secondo la quale l’agricoltura è il solo settore che consente un aumento reale della ricchezza e quindi la Francia, grazie all’ampia disponibilità di terreni coltivabili, avrebbe dovuto privilegiare l’agricoltura piuttosto che le attività manifatturiere.

[10] Binni Walter, Soria della letteratura italiana – II. Dal Settecento al Novecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 84.

[11] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 476-477.

[12] Binni Walter, Soria della letteratura italiana – II. Dal Settecento al Novecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 85-87.

[13] Decimo Giunio Giovenale (Aquino, circa 55 d.C. – Roma, dopo il 127), poeta e retore romano, fu autore di sedici satire in cinque libri, nelle quali denunciò con crudo realismo i vizi della società romana.

[14] Binni Walter, Soria della letteratura italiana – II. Dal Settecento al Novecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 89.

[15] Il libraio Colombani.

[16] Giovanni Battista Bodoni (Saluzzo, 1740 – Parma, 1813), incisore, tipografo e stampatore italiano, è ancora oggi noto per i caratteri tipografici da lui creati: i Bodoni.

[17] Binni Walter, Soria della letteratura italiana – II. Dal Settecento al Novecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 91.

[18] Binni Walter, Soria della letteratura italiana – II. Dal Settecento al Novecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 91-93.


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