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Marco M. G. Michelini | 10 Marzo 2024

Linea biografica

Carlo Osvaldo Goldoni nacque a Venezia nel 1707 da Giulio, di origine modenese per parte paterna, e da Margherita Salvioni.

«Si devono allo stesso Goldoni molti dettagli sui suoi primi anni di vita, secondo il racconto dei Mémoires, che, tuttavia, come ha rilevato la critica più recente, va considerato solo parzialmente attendibile, non solo per quanto condivide di finzionale con qualunque autobiografia, ma anche perché risponde in modo chiaro a un preciso disegno di ideologia intellettuale e culturale.

Mémoires de Goldoni pour servir à l’histoire de sa vie et de son théâtre: così, infatti, il Goldoni intitolò la ricostruzione autobiografica che scrisse durante gli anni del lungo soggiorno francese e pubblicò a Parigi nel 1787. Ormai vecchio e lontano dall’Italia da molti anni, riprendeva e rielaborava i frammenti narrativi sulla propria vita sparsi tra le Prefazioni ai diciassette tomi dell’edizione Pasquali delle sue Opere (Venezia 1761-78) e gli spunti autobiografici disseminati in varie commedie o, a volte, nelle singole prefazioni a esse (che hanno il titolo L’autore a chi legge). Dal confronto delle varianti e dal riscontro di queste con gli accertamenti documentari, quando è stato possibile, è risultata confermata la volontà goldoniana di subordinare ogni ricordo e ogni omissione intenzionale al disegno del quadro autobiografico che, esattamente come recita il titolo, è funzionale alla illustrazione e alla valorizzazione del suo intervento riformatore sul teatro»[1].

Resta comunque il fatto che i dati che si traggono dai tardi Mémoires hanno comunque un’importanza non secondaria, poiché consentono se non di spiegare deterministicamente, certo di intendere le radici lontane di alcuni aspetti di grande rilievo dell’esperienza umana e intellettuale di Goldoni: come, negli anni della maturità, la singolare naturalezza delle sue relazioni (nonostante la relativa umiltà della professione) con diversi esponenti della grande aristocrazia non solo veneziana; e soprattutto la visione delle cose che sembra ispirarne l’opera in particolare intorno al 1750, l’idea – nutrita di un illuminismo specialmente aperto alle prove politico‑civili dell’Inghilterra e dell’Olanda – di un’armonica collaborazione fra nobiltà non retriva e borghesia, con un forte credito accordato alle componenti mercantili di quest’ultima, come condizione di un “progresso” equilibrato della società e dello stato.

Curioso è il ricordo del vecchio scrittore riguardo alla sua nascita. «Mia madre» si legge nei Mémoires « mi mise al mondo quasi senza patire […]; non mi annunciai affatto con degli strilli, vedendo il giorno per la prima volta; questa dolcezza pareva, sin d’allora, manifestare il mio carattere pacifico, che poi non si è mai smentito ». Una  reminiscenza questa che, per quanto non dica ovviamente nulla di attendibile sulla verità cronistica di quella nascita, la dice invece assai lunga, e questo ci preme, sulla coscienza che Goldoni poté maturare di quella che fu realmente una felice condizione della sua natura profonda. Appunto quel «caractère pacifique», di cui si legge del resto più volte nei Mémoires, e che non si dovrà intendere (come ha di fatto inteso tutta una tradizione alquanto miope) nel senso di un’imbelle e bonaria indulgenza per gli uomini e gli eventi, ma come innata capacità di realizzare uno stacco fra livello di esistenza come percezione e reazione all’insignificante e livello di esistenza come intelligenza radicale del mondo.

Di qui l’impressione, in chi per esempio legga i Mémoires, di una vita vissuta quasi scivolando sulle cose, e cose anche di cui magari s’intuisce il piacere o la noia (gli amori, le polemiche con gli avversari, il gran viaggiare, le incombenze professionali ecc.). E, per converso, la qualità di un’opera in cui, come avviene per un certo tipo di genialità creatrice che ha avuto talvolta il nome di classica, la conoscenza e la restituzione poetica della realtà, per quanto non meramente riflessive alla maniera di uno specchio ma colme di vigore critico e di cultura, appaiono incredibilmente indenni dall’intrusione dell’insignificante privato, dell’autobiografismo più o meno effusivo o declamatorio. Di qui, ancora, la tensione alla forma teatrale in quanto garante del massimo di oggettività, e di qui, infine, la scarsa simpatia e i fraintendimenti che furono riservati a Goldoni dalla cultura romantica.

«Nel 1712», scrive ancora il Goldoni nell’autobiografia, «mio nonno morì […]. Ecco il momento di un cambiamento tremendo nella nostra famiglia, che cadde tutt’a un tratto dalla più felice agiatezza alla mediocrità più spiacevole ». Il nonno del Goldoni, Carlo Alessandro, svolgeva la professione di notaio e amava organizzare nella sua villa rappresentazioni di commedie e melodrammi, che furono la ragione non ultima della rovina sua e della famiglia. Si può affermare dunque che il giovane Carlo si fosse accostato al teatro fin dall’infanzia e che dal nonno (ma anche dal padre) avesse ereditato il gusto dello spettacolo – assai vivo nell’ambiente veneziano – l’umore gaio e socievole e la facilità di spendere.

A seguito dei dissesti finanziari e di serie difficoltà economiche, il padre dovette lasciare Venezia per Roma, dove studiò medicina, senza probabilmente ottenere la qualifica di medico ma soltanto quella di farmacista. Successivamente, con tutta la famiglia, si trasferì a Perugia, dove esercitò appunto la professione di farmacista. Carlo, dunque, ebbe modo di formarsi dapprima nella città umbra, venendo seguito inizialmente da un precettore per poi frequentare un collegio gesuitico, e infine a Rimini (dove nel frattempo i genitori s’erano trasferiti), studiando prima in un istituto gestito dai domenicani e poi presso un insegnante domenicano privato. Di questo periodo è noto l’episodio della fuga da Rimini a Chioggia al seguito di una compagnia di comici.

Nel 1721, con la madre, tornò a Venezia entrando, come praticante, nello studio legale dello zio Giampaolo Indric, dove rimase fino al 1723, quando fu ammesso al collegio Ghislieri di Pavia con una borsa di studio; ma prima della fine del terzo anno venne espulso a causa di una composizione satirica ispirata ad alcune fanciulle della borghesia locale.

Tornato a Chioggia, fu assunto (1728) nella cancelleria criminale della città come vicecoadiutore. Nel 1729 si trasferì a Feltre per svolgere l’attività di coadiutore della Cancelleria criminale. In questo periodo soggiornò presso Villa Bonsembiante a Colvago di Santa Giustina, dove, in forma ancora dilettantesca, scrisse per il carnevale del 1730 due intermezzi comici – Il buon padre (poi intitolato Il buon vecchio), che andrà perduto, e La cantatrice (in seguito pubblicata con il titolo La pelarina) – con cui debuttò al Teatro de la Sena di Feltre.

Nel 1731, dopo la morte del padre, dovendosi prendere carico della famiglia, riprese gli studi di legge, laureandosi in diritto all’Università di Padova, e divenne, l’anno successivo, “avvocato veneziano”. Da quel momento intraprese impieghi e attività di varia natura: sul principio magistrato in sottordine; segretario, fra il 1733 e il 1734, del Residente della Serenissima a Milano, incarico per nulla redditizio ma piacevole e leggero; console a Venezia, fra il 1739 e il 1743, della Repubblica di Genova; infine avvocato a Pisa fra il 1745 e il 1748. Tuttavia, nonostante tali impegni – e comunque negli intervalli fra l’uno e l’altro – Goldoni andava contemporaneamente svolgendo una varia attività di autore di teatro. Nel 1734, infatti, aveva incontrato a Verona Giuseppe Imer[2], capocomico della compagnia che lavorava presso il teatro San Samuele di Venezia di proprietà del senatore Grimani[3], che possedeva anche il teatro S. Giovanni Grisostomo, adibito esclusivamente alle rappresentazioni dell’opera in musica. L’Imer lo convinse a fare ritorno a Venezia, come poeta della compagnia, dove venne rappresentato con grande successo il Belisario, una tragicommedia che Goldoni aveva iniziato a scrivere a Milano. A questa seguirono altre tragicommedie, tragedie, intermezzi, drammi eroicomici, comici e seri per musica.

Avendo seguito la compagnia Imer a Genova, conobbe Nicoletta Connio, figlia di un notaio del Banco di S. Giorgio, che nel 1736 sposò, portandola subito dopo con sé a Venezia, dove continuò a scrivere drammi e intermezzi per il S. Samuele e libretti seri adattati per il S. Giovanni Grisostomo; di quest’ultimo divenne direttore e mantenne l’incarico per i cinque anni successivi. Nel 1738 fu rappresentata al San Samuele la sua prima vera commedia, il Momolo cortesan, con la sola parte del protagonista interamente scritta, cui seguirono nel 1740 un’altra commedia, Momolo sulla Brenta (ossia Il prodigo) e l’anno dopo, meno felice artisticamente, Il mercante fallito (ossia La bancarotta).

Successivamente, divenuto – come già s’è detto – console della Repubblica Genovese, si allontanò per un paio d’anni dal teatro e rimanendo ingolfato in molte noie e molte spese, senza averne compenso alcuno. Tornò così al teatro, scrivendo dapprima per il canevale del 1743 un’opera giocosa per musica intitolata La contessina e la sua prima vera commedia, interamente scritta in tutte le parti: La donna di garbo. La commedia, però, non fu recitata ed il Galdoni, deluso, amareggiato ed oppresso dai debiti, fu costretto a lasciare Venezia. Intraprese con la moglie un casuale girovagare che lo portò dapprima a Genova (per rimediare un poco di denaro dai parenti), poi a Bologna, Psaro, Rimini e Pisa. Nella città toscana trovò una calorosa accoglienza – venne fatto pastore d’Arcadia nella Colonia Alfea con il nome di Polisseno Fegejo – che lo indusse a rivestire la toga e ad aprire sull’Arno uno studio di Avvocato.

Nel 1747, Girolamo Medebach[4] convinse il Nostro a sottoscrivere un contratto come scrittore per la propria compagnia. Così, tornato a Venezia, l’attività di commediografo divenne per Goldoni definitiva ed unica. Nel 1748 venne rappresentata con grande successo La vedova scaltra, e l’anno seguente nuovi applausi salutarono la rappresentazione de La putta onorata, prima commedia goldoniana di costume popolare, in dialetto.

Sono probabilmente questi gli anni più intensi e forse più felici della vita di Goldoni. Sempre del 1750 è il famoso exploit delle sedici commedie promesse e composte per la nuova stagione teatrale (fra cui: Il teatro comico, La bottega del caffè, Il bugiardo, La Pamela nubile, I pettegolezzi delle donne). Nel 1753 lo scrittore lascia il teatro di Sant’Angelo del Medebach per il teatro di San Luca di proprietà di Antonio Vendramin[5], impegnandosi a scrivere otto commedie ogni anno in cambio di 50 ducati al mese. Medebach assunse allora l’abate Pietro Chiari, un uomo di lettere bresciano di poco più giovane di Goldoni, noto allora specialmente come autore e traduttore di romanzi, e da questo momento si fece più viva la contesa drammaturgica fra i due scrittori (e verbale, libellistica, giornalistica fra i due partiti che li sostenevano), divisi non tanto da ragioni ideologiche – meno moderato l’illuminismo di Chiari – quanto da un diverso modo di concepire la commedia: piuttosto rivolto Chiari a un tipo di rappresentazione non realistica ma affidata ad invenzioni pittoresche ed estrose, nelle quali cercava di far passare un discorso filosofico particolarmente esplicito e radicale. Sullo stimolo di questa contesa, Goldoni, dopo la memorabile Locandiera recitata nel 1753, cerca in vario modo di rinnovarsi: sono di questi anni commedie in dialetto veneziano e in versi come Le donne de casa soa, Le massère, Il campiello, tragicommedie di intonazione chiariana come La sposa persiana, Ircana in Julfa, La peruviana, La bella selvaggia, drammi giocosi per musica di straordinario successo come Il filosofo di campagna. E nel 1756 ottiene dal duca di Parma la “patente” di poeta con pensione annua di 3000 lire locali.

Tuttavia intorno al 1757 un indubbio radicalizzarsi delle posizioni di Goldoni e l’acuirsi della valenza polemica del suo teatro, poi con l’aggravante del clamoroso riconoscimento che gli giunge nel 1760 addirittura da Voltaire, e d’altro canto l’irrigidirsi della politica, culturale e non, dello stato veneto (un cui risultato, sia pure indiretto, sono gli attacchi che il nobile decaduto e reazionario Carlo Gozzi incominciò a muovere, congiuntamente, a Chiari e a Goldoni, che finirono difatti per riavvicinarsi), tutto questo rende a poco a poco sempre più difficile, almeno a Venezia, il lavoro e la stessa permanenza del nostro scrittore. Il quale cercava allora relazioni e protezioni in ambienti progressivi non veneziani, e accettava nel 1758 un invito da Roma, dove sarebbe rimasto alcuni mesi, per occuparsi del teatro di Tordinona. Infine nell’aprile del 1762 partiva per Parigi, su invito della Comédie Italienne.

Intorno al 1760, in questo periodo così difficile, Goldoni riusciva però ancora a scrivere alcune fra le commedie più notevoli del suo teatro, dalla trilogia della Villeggiatura a La donna forte, Gl’innamorati, L’impresario delle Smirne, La guerra, I rusteghi, La donna di maneggio, La casa nova, Sior Todero brontolon, Le baruffe chiozzotte, L’osteria della posta. E in Una delle ultime sere di carnovale siglava, insolitamente per quanto si è detto più sopra, la malinconia del viaggio che lo attendeva.

A Parigi il Goldoni era stato chiamato non per dirigere ma per sostenere con nuove produzioni la Comédie Italienne, che stava andando incontro ad un rapido decadimento.  Il suo compenso annuo era di seimila lire. Goldoni, però, incontrò non poche difficoltà con gli attori, che non volevano imparare le parti scritte delle commedie e – allo stesso tempo – non sapevano recitare quelle a braccio. Senza contare che il pubblico pretendeva ancora e ad ogni costo dalla Comédie Italienne il gioco grottesco e buffonesco delle maschere. «I miei cari compatrioti» scrive Goldoni nei Mémoires «non facevano che rappresentare commedie ormai logore, commedie all’improvviso di un genere pessimo, quel genere che io avevo riformato in Italia. Ci penserò io, mi dicevo, ci penserò io a dare caratteri, sentimento, progressione, condotta, stile». Ma la rappresentazione de L’amore paterno (1763) – commedia interamente scritta in tutte le parti, ma senza abolire le maschere – fu accolta dal pubblico senza entusiasmo, tanto che il Goldoni, nelle repliche, fu costretto ad unirvi lo scenario Arlequin cru mort.

«Questa è la linea sulla quale si andrà collocando tutta la sua produzione francese: fornire al pubblico e ai Comédiens Italiens quello che chiedevano e che apprezzavano, rinunciando del tutto ai propositi riformatori. Ecco dunque gli scenari Arlequin valet de deux maîtres, Arlequin héritier ridicule, La famille en discorde, L’éventail, Les deux frères rivaux, Les amours d’Arlequin et de Camille, La jalousie d’Arlequin, L’inquiétude de Camille (1763); Camille aubergiste (tratto dalla Locandiera), Arlequin, dupe vengée, Le portrait d’Arlequin, Le rendez-vous nocturne, L’inimitié d’Arlequin et de Scapin, Les métamorphoses d’Arlequin, L’amitié d’Arlequin et de Scapin, Arlequin complaisant, Arlequin philosophe, Les vingt deux infortunes d’Arlequin (1764); Arlequin et Camille esclaves en Barbarie, Arlequin joueur (1765); La bague magique (1770); Les cinq âges d’Arlequin (1771); Arlequin charbonnier (1779). Da alcuni di questi canovacci il Goldoni trasse delle commedie da rappresentarsi al teatro S. Luca, a Venezia. Si tratta della trilogia Gli amori di Zelinda e Lindoro, La gelosia di Lindoro, Le inquietudini di Zelinda, e inoltre Gli amanti timidi o sia L’imbroglio de’ due ritratti, Il ventaglio, Chi la fa l’aspetti o sia I chiassetti del carneval (1764-65), La burla retrocessa nel contraccambio (1775), che si collocano nel solco del rapporto con Venezia lasciato in qualche modo sempre aperto, già all’indomani della partenza con la commedia Il matrimonio per concorso, rappresentata al S. Luca (1763)»[6].

Nel 1765, era stato chiamato alla corte di Versailles come insegnante di lingua italiana delle principesse Adelaide e Luisa, figlie di Luigi XV[7] e vi restò per circa quattro anni, ottenendo una modesta pensione di tremila e seicento lire francesi. Ritornò al teatro nel 1771 con la commedia scritta in francese Le bourru bienfaisant (Il burbero benefico), che rappresentata alla Comédie Française ottenne uno straordinario successo di critica e di pubblico. Ciò lo spinse a ritentare l’esperienza con L’avare fastueux, che fu presentato a corte cinque anni dopo, ma questa volta con un risultato tanto negativo da indurlo a ritirare del tutto la commedia. Dal 1775 al 1780 insegnò nuovamente l’italiano a Versailles, facendo vita di corte. Nel 1784 iniziò a scrivere la sua autobiografia che portò a stampa nel 1787, all’età di ottant’anni.

La rivoluzione irruppe improvvisamente nel mondo in cui era vissuto sconvolgendolo, ed il Goldoni – malato e cieco da un occhio – si trovò in povertà, poiché nel giugno del 1792 l’Assemblea legislativa gli soppresse la pensione. Avanzò allora una supplica per riaverla e gli venne restituita, ma la lettera di comunicazione giunse il giorno successivo alla sua morte, avvenuta a Parigi il 6 febbraio del 1793.

Il teatro del Goldoni e la riforma della commedia

In una prospettiva d’insieme, conviene qui ancora notare come lo scrittore veneziano, borghese di nascita e nutrito della grande cultura borghese del suo tempo, e operante in una città intellettualmente assai viva e soprattutto aperta, per tradizione, agli apporti, agli stimoli dell’Europa più avanzata, e infine in anni, quelli intorno alla metà del secolo, decisivi nella storia dell’illuminismo, giungesse, almeno nella parte più significativa del suo lavoro, a tradurre le ragioni della cultura progressiva contemporanea (le proprie ragioni, dunque) in una scrittura scenica, in un teatro sempre più caratterizzato, dalle prime esperienze sino a quelle definitive e più alte attorno al 1760, come tensione al vero, come esplorazione e ritrascrizione della realtà. E non, s’intende, una realtà indefinita e astorica, ma quella ben definita realtà storica, sociale, economica, che si trovava presa in quegli anni (e forse piuttosto altrove che non nel più fermo mondo veneziano) in un processo di trasformazione sempre più rapido e complesso.

Per necessità contingenti, però, ovvero la mancanza di un sacerdote in un pulpito durante la Quaresima, venne avviato alla predicazione, compito che svolse con grande entusiasmo. Si recò, così, nel 1637 a Piacenza, e poi negli anni seguenti a Mantova, Modena, Parma, Bologna. Per la sua notorietà di oratore sacro, ormai grandissima, fu invitato anche a Ferrara, Firenze, Lucca, Genova, Torino, Roma, Napoli, Palermo, Malta. Nel 1643, a Pistoia, fece la professione solenne i quattro voti religiosi e due anni più tardi esordì nel mondo letterario con la pubblicazione dell’Uomo di lettere difeso ed emendato.

Di qui la straordinaria significatività dei temi di fondo, delle massime emergenze del teatro goldoniano: la nobiltà «in precipizio», chiusa senza rimedio, come quella poi della Notte pariniana, in un universo agghiacciante di manie, insensatezze, vaniloqui; una borghesia che dovrebbe affermarsi e assumere funzioni di leadership, ma non ci riesce, s’imbroglia, si disperde, e il savio Pantalone delle prime commedie diviene il «rustego» ridicolo delle ultime; un popolo minuto, una « plebe » che a poco a poco affiora, prende coscienza delle cose, giudica e propone (Le baruffe chiozzotte) una sua autonoma dimensione morale.

Per questa sua capacità di veder a fondo nella realtà del proprio tempo, Goldoni ci appare oggi fra i testimoni più illuminanti della crisi storica di cui fu partecipe. Tale capacità spiega però anche assai bene da un lato l’asprezza delle reazioni suscitate dal suo teatro in avversari, come il ricordato Carlo Gozzi e tanti altri, che ben al di là del dissenso letterario dovettero riconoscere e temere in lui l’artista che non esitava a parlare il linguaggio della verità più inquietante, e per di più in uno spazio, quello scenico, così eminentemente aperto al dialogo, alla comunicazione, alla diffusione insomma delle idee. E spiega all’opposto l’ammirazione e l’appoggio degli intellettuali più avanzati, primo fra tutti Pietro Verri, che nel 1764 pubblicava sul Caffè un notevole elogio dello scrittore veneziano (un elogio assai indicativo, fra l’altro, della rapidità con cui quest’ultimo giungeva a trasformarsi in un vero e proprio mito presso certi gruppi di ispirazione più radicale). Spiega infine, il realismo di Goldoni, anche il non meno rapido diffondersi della sua opera nei diversi paesi d’Europa, nella misura in cui la realtà che ne veniva riconosciuta e restituita non era solo veneziana o padana, ma più generalmente europea.

Si può aggiungere che sul piano specifico della nostra cultura e in sede propriamente drammaturgica la lezione di Goldoni non andava naturalmente dispersa, nonostante l’affollarsi, negli ultimi decenni del secolo, di apporti e modelli di varia natura e origine, in specie francesi e inglesi. Con risultati particolarmente interessanti la si trova assimilata e rinnovata da alcuni scrittori notevoli ma oggi quasi dimenticati, come il bolognese Francesco Albergati Capacelli. I quali però tendevano anche o ad inasprire in direzione didattico‑polemica ovvero a diluire o disperdere in un’osservazione più superficiale ed episodica, che anticipa certo bozzettismo dell’Ottocento, quella che era stata l’indicazione profonda e, converrà ripetere, più autenticamente illuministica dell’esperienza goldoniana, l’indicazione di un teatro capace di vedere la verità delle cose e del mondo, e di parteciparla, e tutto questo era inscindibilmente legato alla “missione” che il Goldoni si era prefisso e che si era impegnato ad attuare, cioè quella di “riformare” la commedia italiana.

«La critica recente, nell’intento di reagire ai giudizi antiquati e scolastici che facevan consistere in questa missione tutto il significato e il valore dell’opera goldoniana, si è gettata al partito opposto, di trattare cioè quel sogno di riforma come tutt’al più un mito polemico di continuo contraddetto nella pratica effettiva dell’arte e localizzato per giunta negli anni della giovinezza. Ora è certo che, in quanto è opera di poesia, la commedia del Goldoni trascende quel proposito di riforma, che è fatto puramente letterario, ma è altrettanto certo che non l’esclude, anzi lo riassorbe in sé. E in virtù di questo proposito l’attività poetica del veneziano prende posto nel quadro della cultura del suo tempo, e cioè si determina storicamente e si propone come modello ai posteri. Senza i rapporti, che sono ad un tempo di reazione e di simpatia, con la commedia dell’arte non si spiega d’altronde il sorgere e il progressivo affinarsi della sua poesia, che fa tutt’uno poi con la progressiva affermazione di un ideale di decoro teatrale, che venga incontro alle tenaci aspirazioni della poetica contemporanea. S’è già detto che il Goldoni non fu proprio quell’uomo incolto e scarsamente radicato nella tradizione letteraria, che a molti piacque d’immaginarsi: non fu ignaro dei problemi che il teatro presentava in quegli anni; venne via via accrescendo le sue cognizioni in questo campo, e le fece oggetto di un travaglio riflessivo che, per essere implicito, non era meno reale e importante; e aderì, in parte per indole e in parte consapevolmente, alle tendenze della cultura e del gusto settecenteschi. La forma stessa per molti rispetti anticlassica e quasi antiletteraria della sua opera, quell’attenzione rivolta alle cose più che non alle parole, deve considerarsi solo fino ad un certo punto come un difetto di disciplina stilistica; essa risponde invero ai desideri di una corrente fortissima della poetica contemporanea. Non per nulla al Goldoni toccarono i consensi e l’ammirazione degli innovatori e dei rivoluzionari in letteratura, come Pietro Verri, e poi in Francia dei Voltaire e dei Diderot, e il disprezzo iroso dei conservatori e dei puristi, da Carlo Gozzi al Baretti. La riforma goldoniana s’inserisce naturalmente nella storia dei tentativi fatti all’inizio del secolo XVIII per ricondurre la commedia a un tono decoroso e ragionevole, liberandola dagli artifici e dalle grossolanità del teatro popolare; in questo senso essa continua le esperienze del Martello e del Maffei, del Gigli, del Fagiuoli e del Nelli; senonché è senza paragone più spontanea e meno accademica, in quanto non nasce da un proposito più o meno cerebrale, sì da un contatto diretto e immediato con la vita del teatro, con le esigenze degli attori e del pubblico, con il mondo singolare e quasi irreale delle ribalte. Questo significa da una parte il procedere della riforma lento e per gradi, senza violenze e forzature arbitrarie, dai primi adattamenti e rimaneggiamenti di vecchi scenari al Momolo cortesan, in cui soltanto la parte del protagonista era fissata per iscritto, fino alla Donna di garbo, che fu la prima commedia interamente scritta. Questo giustifica soprattutto lo specialissimo e complesso atteggiamento del Goldoni nei riguardi della commedia dell’arte, in cui iul disgusto dei lazzi triviali, degli intrecci imbrogliati e stravaganti, degli schemi convenzionali non esclude l’ammirazione per l’arte dell’attore, per il gioco rapido e vivacissimo del dialogo, per la naturalezza e la comicità delle trovate, per tutto ciò che costituiva insomma l’interesse vero e potente di quelle rappresentazioni e la ragione della loro persistente fortuna, e che oggi ci sfugge o che tutt’al più si lascia indovinare tra le righe degli aridi canovacci e repertori giunti fino a noi. La riforma del Goldoni, ben lungi dall’atteggiarsi a fredda e sterile reazione, prende pertanto forma di rinnovamento, e in certo senso di continuazione, della commedia dell’arte, che, mentre la libera dagli elementi più volgari di tono e di gusto popolaresco, ne serba intatte e ne realizza per la prima volta sul piano letterario le ricche qualità fantastiche, il movimento e la pienezza dell’azione, il susseguirsi rapido e avvincente delle situazioni sceniche. Questa contrastata deviazione dalla commedia dell’arte aiuta a meglio intendere i limiti del cosiddetto realismo goldoniano, quel che di fantastico, d’irreale e di musicale, rimane anche nelle sue opere più mature»[8].

Circa sessanta drammi per musica, una trentina di componimenti di vario tipo (intermezzi, cantate, oratori, ecc.) e oltre centotrenta fra commedie e tragicommedie costituiscono l’apporto davvero imponente di Goldoni al teatro del suo tempo: in particolare italiano ma anche, per il gran numero di traduzioni e imitazioni, più generalmente europeo. Di un corpus così ricco e così peculiarmente legato alla civiltà mediosettecentesca, mutate dopo l’Ottantanove le condizioni di società e di cultura solo però le commedie, anzi una piccola parte di esse, entravano, o meglio riuscivano ad infiltrarsi, nella tradizione otto e novecentesca, ed è a queste commedie che di fatto si pensa oggi quando si parla di teatro goldoniano.

Naturalmente, dato l’elevato numero dei testi e il non breve arco di tempo in cui furono composti (oltre trent’anni), risulta tutt’altro che semplice fornirne un quadro d’insieme, per quanto sintetico. Si potrà comunque ricordare come vi siano per questo riguardo almeno due differenti prospettive, una prima che definiremo per così dire “tradizionale”, e una seconda che si è andata definendo nella seconda metà del secolo XX.

La prima, sostanzialmente, consiste nel riconoscere nel teatro comico di Goldoni una ben precisa linea evolutiva, con un momento iniziale rappresentato dai diversi tentativi di superamento del teatro dell’arte e più in genere di riforma (onde il Momolo cortesan rappresentato nel 1738, in parte scritto e in parte a soggetto), un momento successivo, che abbraccia all’incirca gli anni che precedono e di poco seguono il 1750, in cui le commedie del nostro scrittore si sarebbero venute definendo secondo le due fondamentali categorie “di ambiente” e “di carattere”; quindi un culmine, fra il 1753, anno della Locandiera, e il 1762, quando Goldoni avrebbe dato le sue cose più alte, gli altri capolavori (Gl’innamorati, La casa nova, Sior Todero brontolon, I rusteghi, Le baruffe chiozzotte); e un periodo conclusivo, contraddistinto da un graduale inaridirsi del talento creativo dello scrittore ormai anziano ed emigrato a Parigi.

L’altra prospettiva, che sicuramente appare più ricca di risultati e ancora più di possibili sviluppi, in genere, muove piuttosto dall’esigenza di comprendere in profondo la complessa storicità dell’esperienza goldoniana. Di qui, fra l’altro, la nuova attenzione accordata, come si è detto, alla Prefazione del 1750, in cui lo scrittore, giunto a un momento importante della propria ricerca, spiegava ai lettori delle sue commedie quale rapporto egli avesse sin lì intrattenuto con il teatro, cioè con la pratica e le convenzioni drammaturgiche, e col mondo, cioè con la varia realtà contemporanea, e soprattutto quale relazione fra mondo e teatro si fosse venuta istituendo nel suo lavoro. Il quale risulta allora, sino attorno al 1750, come una felice esperienza di riconoscimento e di ritrascrizione scenica della società contemporanea, veneziana specialmente ma non solo, che il borghese Goldoni esplora con un atteggiamento di impietosa attenzione nei confronti non del mondo nobiliare in genere, ma delle sue componenti più degenerate e parassitarie (il gentiluomo squattrinato, bizzarro, dedito ad attività inconsistenti o talvolta criminose, appassionato del futile, ridicolmente arrogante, è figura pressoché costante in questo teatro), mentre affida al personaggio del mercante, perlopiù Pantalone, il ruolo di portatore dei valori, appunto borghesi, dell’onoratezza personale e familiare, del decoro, della ragionevolezza, dell’operosità fiduciosa e costruttiva. Partecipe allora dell’illuminismo moderato e anglicizzante di certe élites dell’aristocrazia veneziana, è appunto all’Inghilterra, come all’Olanda, che lo scrittore sembra guardare come ad un mondo insieme concreto e ideale, dove (come lascia intendere  Il filosofo inglese, del 1752) riuscirebbe possibile la fattiva collaborazione di un ceto borghese colto e consapevole dei propri valori e di una nobiltà illuminata, intelligente, attiva, non chiusa nei suoi privilegi.

Diverse circostanze intervengono però, durante gli anni cinquanta, a modificare questa linea di ricerca drammaturgica. Mentre la classe borghese‑mercantile veneziana si rivela incapace di assolvere quella funzione di punta che Goldoni le aveva ottimisticamente attribuito, la grande aristocrazia, che ha in mano il governo dello stato, imprime a quest’ultimo una linea più decisamente conservatrice. Di qui fra l’altro l’aggravarsi delle difficoltà di censura, mentre un esponente di quei nobili in decadenza, Carlo Gozzi, dà inizio a una sorta di accanito contrattacco nei confronti del teatro goldoniano. In corrispondenza di tali circostanze, vien meno allora il credito accordato dallo scrittore alla figura del mercante, che diviene anzi a poco a poco oggetto a sua volta di un’indagine non meno penetrante di quella rivolta al mondo dei nobili, ovvero sparisce del tutto, come in un testo assai interessante e poco noto del 1760, La donna di maneggio, in cui alla follia di un gruppetto di aristocratici si contrappone, senza più mediazioni, una realtà popolare, cioè i servi, in potenziale rivolta. Ed è più in genere una linea drammaturgica nuova che si viene allora definendo, contraddistinta da una piena, assoluta tensione alla verità del mondo rappresentato. Ad un diverso livello, non mancano di questo periodo testi di ispirazione più sottilmente privata, come L’apatista del 1758, dove si delinea una prospettiva di moralità elegantemente distaccata, oraziana. E ancora ad un altro livello, in quel tipo di commedia in versi di taglio più mosso e avventuroso che sono le tragicommedie di questi anni, Goldoni recepiva e sperimentava scenicamente, avvicinandosi al Chiari, certi motivi più radicali dell’illuminismo contemporaneo.

A orientamenti ideologici del genere si può certo anche riferire una delle ultime commedie composte prima di partire per la Francia, Le baruffe chiozzotte, che se concludeva una ricerca, sul mondo popolare al suo livello più umile, avviata almeno sin da La putta onorata e La buona moglie, tale ricerca però in certo modo assolutizzava. Così, divenuta oggetto pieno e autonomo di rappresentazione, la realtà confusa e vitale dei pescatori di Chioggia consentiva forse a Goldoni di superare l’impasse di un realismo che nella resa ormai ripetitiva e un poco ossessiva del mondo mercantile e aristocratico rischiava di avvitarsi su se stesso, al limite: di esaurirsi. In effetti l’atto solo che s’intitola L’osteria della posta, scritto nel 1762, poco prima di partire, testimonia della ricerca, allora, di nuove esperienze drammaturgiche, una ricerca che il soggiorno parigino avrebbe però in sostanza finito per disperdere.

***NOTE AL TESTO***

[1] Strappini Lucia, GOLDONI Carlo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 51, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2001.

[2] Giuseppe Imer (Genova, 1700 – Venezia, 1758), apprima attore nel ruolo di primo amoroso, divenne presto capocomico del teatro veneziano di San Samuele. Conobbe a Verona Carlo Goldoni, il quale si occupò di scrivere per lui diverse opere teatrali (tragicommedie, intermezzi, melodrammi) tra il 1734 ed il 1743. Ebbe il grande merito di introdurre negli spettacoli gli intermezzi musicali.

[3] I Grimani furono una nobile famiglia che diede tr dogi alla Serenissima.

[4] Agostino Raimondo Girolamo Medebach, detto anche Gerolamo e Metembach (Roma, 1706 – 1790), di famiglia tedesca, iniziò a recitare in compagnie di guitti. Nel 1739 entrò nella compagnia di attori-mimi di Gasparo Raffi, di cui l’anno dopo sposò la figlia diciassettenne Teodora. Fondò poi una propria compagnia di cui facevano parte la moglie, nonché la sorella e la cognata di Gasparo. Infine divenne copocomico ed impresario della compagnia del Teatro S. Angelo di Venezia.

[5] I Vendramin furono una famiglia del patriziato veneziano.

[6] Strappini Lucia, GOLDONI Carlo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 51, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2001.

[7] Luigi XV di Borbone (versailles 1710-1774), Re di Francia dal 1715 fino alla morte, era figlio dterzogenito di Luigi, duca di Borgogna e di Maria Adelaide di Savoia. Ereditò il trono a soli cinque anni da Luigi XIV, suo bisnonno. Durante la sua minorità, la reggenza fu affidata dapprima a Filippo d’Orleans e successivamente al cardinale Fleury che di fatto governò il regno fino alla morte (1743). Con la morte del cardinale, Luigi decise di amministrare in prima persona gli affari del suo regno, ma non riuscì a essere un efficiente e sicuro amministratore per il Paese e trascinò la Francia in guerre infauste o inconcludenti.

[8] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 457-459.


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