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Marco M. G. Michelini | 28 Gennaio 2024

Linea biografica

Pietro Giannone nacque il 7 maggio 1676 a Ischitella (Foggia), da Scipione, speziale, e Lucrezia Micaglia. Nel 1694, dopo aver studiato filosofia sotto la guida di un francescano del luogo, lasciò il paese natale per intraprendere gli studi di giurisprudenza a Napoli, grazie anche al soccorso finanziario di uno zio. Qui il Giannone realizzava una complessa maturazione intellettuale, in quello stesso ambiente, attento – in modo vario e spregiudicato – alla cultura europea.

Particolarmente importante in quel periodo fu l’amicizia con Domenico Aulisio (Napoli, 1639 – Napoli, 1717), professore a Napoli di diritto civile, «profondo in tutte le scienze» – come scriverà più tardi nella sua autobiografia – «ed ornato non men di latina che di greca erudizione, e, soprattutto, a fondo inteso non pur delle leggi, ma dell’istoria romana, senza la quale non poteano perfettamente capirsi ed intendersi», il quale gli indicò un metodo e la bibliografia essenziale, mentre il poeta Filippo De Angelis[1] lo iniziò al giansenismo e allo studio delle lettere.

L’Ausilio, inoltre, lo introdusse alla lettura di alcune fondamentali opere giuridiche e storiche, e lo sensibilizzò su temi, piuttosto filosofici, che avrebbero poi trovato sviluppo, molto più tardi, nel Triregno.

Nel 1698 conseguì la laurea nella città partenopea e – come egli stesso scrisse – scelse di avviarsi per «la strada de’ tribunali», sino a raggiungere, negli anni seguenti, una modesta notorietà di avvocato e una certa agiatezza. Sono, questi, anche gli anni più sereni della sua vita, trascorsi, oltre gli impegni di lavoro, in appartata solitudine, accanto alla compagna Elisabetta Angela Castelli e ai due figli. In questo periodo ebbe un peso importante nella vita di Giannone un altro notevole personaggio della cultura napoletana primo-settecentesca, Gaetano Argento[2], l’avvocato presso cui egli aveva cominciato a far pratica. Di lui Giannone ricorderà nella Vita la cultura singolare, e soprattutto la biblioteca, ricca di «libri eruditissimi di ogni genere». E non è certo un caso che in un ambiente così favorevole, per tanti aspetti, già intorno al 1702 egli incominci a pensare a quella che sarebbe poi divenuta la sua opera più nota, la Istoria civile del Regno di Napoli, che uscirà ben vent’anni più tardi, fra il 1721 e il 1723.

La pubblicazione dell’Istoria, per via del suo contenuto, causò al Giannone numerosi problemi con le autorità ecclesiastiche. Così, mentre la curia arcivescovile si preparava a scomunicare l’opera (e ciò metteva a rischio la stessa vita del Giannone), il viceré austriaco, che pure aveva concesso la licenza necessaria alla pubblicazione, in una riunione del Consiglio del Collaterale ordinò la sospensione della vendita dell’Istoria. A questo punto Giannone, spinto anche dagli amici, decise, dopo alcune esitazioni, di lasciare Napoli e riparare a Vienna presso la corte asburgica, dove ottenne protezione e sovvenzioni dall’Imperatore, il che gli permise di proseguire indisturbato i suoi studi filosofici e storici.

Giannone rimase nella capitale asburgica fino al 1734, sino al passaggio cioè del Regno di Napoli sotto Carlo di Borbone[3] e il conseguente rinvio da Vienna dei sudditi del Regno. Nonostante i buoni uffici dell’arcivescovo di Napoli per poté tuttavia tornare nella città partenopea, per l’impedimento opposto dalle autorità napoletane nel timore di intralci nelle trattative che si svolgevano allora con la Santa Sede per il riconoscimento del nuovo Regno. Pertanto fu costretto a trasferirsi a Venezia dove, apprezzatissimo dall’ambiente culturale della città, rifiutò sia la cattedra alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Padova, sia un posto di consulente giuridico presso la Serenissima. Nel 1735, però, il governo della Repubblica lo espulse, dopo averlo sottoposto a stretti controlli spionistici, per questioni inerenti alle sue idee sul diritto marittimo, nonostante la sua autodifesa con il trattato Lettera intorno al dominio del Mare Adriatico.

Giannone iniziò a girovagare per l’Italia: fu a Ferrara, a Modena (dove Muratori volle incontrarlo di nascosto), a Milano e a Torino, approdando infine in Svizzera, a Ginevra, dove compose un altro lavoro dal forte sapore anticlericale Il Triregno. Del regno terreno, Del regno celeste, Del regno papale (pubblicato postumo solo nel 1895) che gli costò nuovamente la persecuzione delle alte sfere ecclesiastiche culminata con la sua cattura (1736) in un villaggio della Savoia, ove fu attirato con un tranello.

La prigionia, iniziata nella fortezza di Miolans, proseguì dal settembre del 1737 a Torino, dove Giannone finì per stendere una ritrattazione che non gli valse tuttavia la libertà. Nel giugno del 1738 egli fu quindi trasferito nel castello di Ceva, poi nel settembre del 1744 di nuovo nella cittadella di Torino, dove morì il 17 marzo 1748.

Durante gli anni di prigionia, tranne il periodo iniziale, Giannone non smise mai di scrivere. Per gran parte al periodo di Miolans risale la Vita di Pietro Giannone scritta da lui medesimo, mentre a Ceva egli lavorò a testi in prevalenza storiografici, come i Discorsi sopra gli annali di Tito Livio, l’Apologia de’ teologi scolastici, l’Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno, e a quella sorta di zibaldone che è L’ape ingegnosa overo raccolta di varie osservazioni sopra le opere di natura e dell’arte. Tutti questi lavori, come il Triregno, sarebbero restati a lungo manoscritti.

L’Istoria civile del Regno di Napoli

Il lungo periodo di elaborazione (come s’è detto circa vent’anni) non è forse da ritenersi estraneo al carattere complesso e non facile a determinarsi dell’opera, carattere da cui sarebbe poi derivato il netto disporsi della critica su due opposti fronti, a seconda del rilievo accordato alla diretta ispirazione politica ovvero al valore soprattutto storiografico dell’Istoria civile. In realtà, come sembra suggerire l’autore stesso nell’autobiografia, si può ricercare il nucleo originario del libro nell’esigenza, già richiamata, e che Giannone derivava specialmente dall’Aulisio, di realizzare la conoscenza del diritto non in astratto, ma attraverso una conoscenza preliminare della situazione storica in cui leggi ed istituzioni fossero venute determinandosi. Esigenza che l’Aulisio naturalmente non limitava alla storia romana, ma riferiva anche «a’ tempi bassi e meno a noi remoti», lamentando anzi la scarsezza di studi in questa direzione, per essere «lo studio e conoscenza di questi tempi […] a noi la più utile, anzi necessaria, poiché ha maggior rapporto a’ nostri ultimi tempi ed alla presente costituzione di Europa ed a’ nuovi domini in essa stabiliti, dopo la decadenza del romano Imperio».

Questa esigenza storiografica finiva poi, per una scelta di Giannone in cui intervenivano, accanto alla sua stessa contemporanea pratica legale, la vicinanza di uomini come, ancora, l’Aulisio e l’Argento, e soprattutto la presenza in Napoli di una rigorosa tradizione anticuriale, per connotarsi secondo una prospettiva accentuatamente giurisdizionalistica. Così si poteva dunque delineare, per questo riguardo, l’Istoria civile: come indagine (nel contesto e sulla base di una accurata ricostruzione del complesso correlarsi, nell’ambito del Regno dalla tarda età romana sino ai tempi più recenti, di società ed istituzioni) intorno ai «confini che tramezzano tra l’imperio e il sacerdozio»; e ciò non solo, o meglio non tanto per disinteressata ricerca del vero, ma per offrire allo Stato un valido appoggio nella lotta contro le invadenze della Curia romana.

Sono, questi, anni in cui, nel Regno di Napoli come in quello di Sardegna, i sovrani non rifiutano la collaborazione fattiva degli uomini di cultura; e in tale prospettiva la stesura dell’Istoria civile era in certo modo la risposta a un implicito appello. Di qui, nell’opera, quel suo apparire – come è stato scritto – tesa all’azione o anche quel mordente, quella esasperazione aggressiva nella difesa dei diritti dello Stato, che non può ritrovarsi nella tranquilla polemica erudita di Muratori; a ciò connessa, anche, la fiducia, affermata nelle ultime pagine, nella nuova cultura che si viene determinando e nei tempi “nuovi” che sembrano annunciarsi; e la considerazione attenta dell’atteggiamento volta a volta assunto dal potere politico nei confronti del mondo intellettuale. Di qui, accanto all’impegno di Roma nel cercar di confutare il lavoro di Giannone, la grande fortuna in sede europea dell’Istoria civile (uno dei non molti libri italiani letti nell’Europa del Settecento), che si diffonde sia nell’originale che nelle successive traduzioni in inglese, francese e tedesco.

Il periodo viennese e la stesura del Triregno

Come ancora una volta sappiamo dall’autobiografia, anche gli anni del periodo viennese sono per Giannone, ormai cinquantenne, anni di fervida esperienza intellettuale, nell’ambiente cosmopolita di corte, che la recente guerra di successione spagnola aveva aperto in particolare alle influenze e agli stimoli, specialmente vivi, della cultura inglese, e con la possibilità di frequentare biblioteche certo ben più ricche di quelle napoletane, e fornite di testi, non di rado manoscritti, di estrema modernità.

Volendo effettuare un confronto con l’attività di Giambattista Vico, si può notare come proprio in questo periodo vengano divaricandosi definitivamente le esperienze di cultura dei due grandi intellettuali meridionali, che pure si erano nutriti, in gioventù, delle medesime letture e dei medesimi dibattiti: nel senso che mentre Vico compie un distacco sempre più risoluto dalla cultura del proprio tempo e si addentra in una ricerca tanto geniale e colma di stimoli per i lettori futuri quanto legata per tanti aspetti alla cultura del Seicento, Giannone punta invece in modo deciso sull’aggiornamento, sulla sintonia col presente, sino alla stesura di un libro, come il Triregno, così liberamente aperto, per molti riguardi, alle tensioni e suggestioni della cultura contemporanea.

Del resto, parte scritti minori e occasionali, per lo più in difesa dell’Istoria civile, il periodo di residenza nella capitale asburgica, specie attorno e dopo il 1730, è occupato per gran parte dalla meditazione prima e poi dalla composizione appunto del Triregno (opera che si diffonderà per vie sotterranee, e sarà pubblicata solo nel 1895). Questo nuovo impegno di Giannone trovava le sue radici in una sua progressiva sfiducia nella capacità di rinnovamento dell’Impero, e più in generale in una visione sempre più cupa della realtà storico‑politica circostante – avvertita come «perpetue confusioni e disordini», «tenebroso caos» – e, in assoluto, della stessa condizione umana. Allora, si legge nella Vita, «cominciai ad applicarmi a studi che fosser drizzati unicamente alla cognizione di me stesso e della condizione umana, della quale io era vestito, e ripigliare i miei tralasciati studi di filosofia, e col soccorso dell’istoria d’investigare più da presso la fabbrica di questo mondo e degli antichi suoi abitatori: dell’uomo, della sua condizione e fine ecc.».

Si sarà notato, da queste parole, come la ricerca giannoniana, nonostante la grande diversità delle motivazioni ideologiche, degli strumenti e dei risultati, non fosse poi troppo lontana, in certe ragioni di fondo, da quella che Vico contemporaneamente veniva compiendo, e di cui Giannone aveva potuto vedere, senza apprezzarlo, il testo del 1725. E sarà utile rilevare la convergenza, non per aprire un discorso di fonti e di rapporti, ma perché emergano le tensioni profonde, la ricerca, non di rado eroica a livello personale, di una diversa conoscenza delle cose e del mondo, di nuove prospettive di esistenza individuale e storica, presenti, all’altezza degli anni trenta, in un mondo intellettuale che pure non respingeva le quiete e aggraziate invenzioni di un Metastasio.

Ma quali furono, in concreto, gli esiti di questo studio che veniva articolandosi a più livelli, antropologico, filosofico, teologico e storico? Nella prima sezione, Del regno terreno, la definizione di un momento storico precristiano, quello della religione ebraica, momento storico che è tuttavia anche un modo d’essere, uno “stato”, ed esattamente lo “stato di natura”, in cui tutti i popoli sarebbero stati «concordi» circa il «fine e concetto dell’uomo, che in questo primo stato di natura non fosse stato altro che di regno terreno e di felicità mondane». Nella seconda sezione, Del regno celeste, Giannone indagava invece sulla «nuova epoca» storicamente iniziata con l’incarnazione del Verbo, e altresì definita come «stato di grazia». Come si trova sottolineato nella Vita, egli giungeva a questo ulteriore nucleo di «verità» attraverso una libera rilettura dei testi sacri, «seriamente riflettendo sopra il libro degli Evangeli e gli Atti di San Luca, e spezialmente l’Epistole di San Paolo, che avea sempre nelle mani»; di qui, la persuasione che «la resurrezione della carne dovea precedere alla vita eterna» e che il messaggio evangelico fosse consistito in qualcosa di estremamente, scandalosamente semplice, nel senso, come si legge nella prima parte del Regno celeste, che «non si richiedevano tanti riti, non tante cerimonie esterne e precetti, non circoncisione di carne, ma di spirito, non riti e cerimonie esterne, non sacrifici cruenti di sangue, né olocausti di vittime; ma adorazioni interne all’unico e vero Iddio e dilezione e carità al prossimo».

Nella terza sezione del Triregno, cioè quella Del regno papale, Giannone «svolge le sue posizioni precedenti in un deciso e veemente attacco frontale alla Chiesa cattolica, accusata di aver tradito il regno celeste, […] edificando – durante la decadenza dell’impero romano – un nuovo regno terreno, con cui i papi, al di là del loro stesso stato temporale, avevano teso ad assicurarsi un potere mondano su tutti i principi e tutti i popoli della terra, servendosi della presunta origine divina dei libri sacri, che lo storiografo demolisce con il suo spirito critico razionalistico e con prove e argomentazioni che investono tutto il campo dei dogmi religiosi fino all’affermazione della materialità dell’anima. Né a tale ricostruzione polemica e storica dell’origine nefasta del potere terreno dei papi manca l’accento dell’uomo attivo che invita i sovrani a “scuotersi il giogo che, per dappocaggine de’ loro maggiori e per l’ignoranza e superstizione de’ popoli, si videro posto su le loro cervici”»[4].

Molto sottile, e decisamente datata nell’ambito del naturalismo tardorinascimentale e seicentesco è la struttura teoretica che consentiva a Giannone di far convivere elementi diversi e di per sé contrastanti nel suo discorso; ma era assai notevole, al di là di essa, soprattutto l’impegno di ripensare, secondo una linea che sarebbe stata più volte percorsa nel secondo Settecento dalla cultura progressiva più sensibile a sollecitazioni anche in senso lato religiose (non a caso una diffusione clandestina del Triregno è stata accertata in ambienti giansenistici), di riprendere dunque l’esperienza cristiana in termini di autenticità, libertà e «carità al prossimo», al fine di ritrovare, di contro alle strutture che sull’originario messaggio di Cristo si sarebbero affermate, quella che a Giannone sempre più dovette apparire come la potenzialità specifica dell’uomo, forse non mai realizzata, certo al presente ben lontana dall’esserlo.

***NOTE AL TESTO***

[1] Filippo de Angelis nacque a Lecce nella seconda metà del XVII secolo. Fu poeta arcade noto con il nome di Licandro Buraichiano. La sua opera maggiore, le Rime, è divisa in due parti e comprende liriche amorose e di elogio, tra le quali spicca una corona di venti sonetti di chiara matrice petrarchesca.

[2] Gaetano Argento (Cosenza, 1661 – Napoli, 1730), giurista e magistrato, divenne avvocato di Ferdinando Mendoza y Alarcón e successivamente fiscale della Regia Camera della Sommaria nel Regno di Napoli. Dal 1707 fu consigliere del Sacro Regio Consiglio e dal 1708 reggente del Consiglio collaterale, fino ad essere elevato presidente del Regio Consiglio nel 1714. Scrisse il De re beneficiaria (1709) e varie Consulte.

[3] Carlo Sebastiano di Borbone (Madrid, 1716 – Madrid, 1788) era figlio di Filippo V di spagna e della sua seconda moglie Elisabetta Farnese. Grazie alla politica spregiudicata della madre divenne dapprima  duca di Parma e Piacenza con il nome di Carlo I dal 1731 al 1735, poi Re delle Due Sicilie (cioè l’unione tra il Regno di Sicilia e il Regno di Napoli) dal 1735 al 1759. Nel 1759, dopo la morte di Ferdinado VI, venne incoronato re di Spagna col nome di Carlo III. Allo scopo di modernizzare il paese, fu promotore di una politica riformista che gli valse la fama di monarca illuminato. In politica estera raccolse tuttavia diversi insuccessi a causa dell’alleanza con la Francia, che lo portò a contrapporsi con sorti alterne alla potenza marittima della Gran Bretagna.

[4] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 315‑316.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SETTECENTO»

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