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Marco M. G. Michelini | 10 Gennaio 2024

Linea biografica

L’immagine di genialità scontrosa, pochissimo accattivante, impervia, che accompagna di solito l’autore della Scienza Nuova, si deve in parte alla tradizione critica idealistica, che si impegna variamente a riproporre la figura di Giambattista Vico come quella di un uomo isolato, solitario, anticipatore di successive esperienze di pensiero, e in parte anche a certi effettivi suggerimenti della sua autobiografia. in questa prospettiva, non può allora non risultare veramente emblematica, la «solitudine, che ben nove anni durò», appunto ricordata e sottolineata nelle pagine autobiografiche, che il giovane intellettuale, poco più che ventenne, avrebbe vissuto, svolgendo funzioni di precettore, «in un castello del Cilento di bellissimo sito e di perfettissima aria». Piuttosto normale, persino ovvia, appare intanto in realtà, se la si consideri al di fuori degli schemi cui ora si accennava, la vicenda umana di Vico, perfettamente inserita nei limiti di un certo mondo intellettuale, tra universitario e accademico, fra tardo Seicento e primo Settecento.

Giambattista Vico nacque a Napoli nel 1668 da una famiglia di modesta ma non misera estrazione sociale – il padre, Antonio Vico, era un piccolo libraio di origine contadina, mentre la madre, Candida Masulla, era figlia di un lavorante di carrozze. Vico fu un bambino molto vivace, ma, a causa di una caduta verificatasi forse nel 1675, si procurò una frattura al cranio che gli impedì di frequentare la scuola per tre anni e che, pur non alterando le sue capacità mentali, quantunque «il cerusico ne fe’ tal presagio: che egli o ne morrebbe o arebbe sopravvissuto stolido», contribuì a sviluppare «una natura malinconica ed acre». Ammesso agli studi di grammatica presso il Collegio Massimo dei Gesuiti di Napoli, li abbandonò intorno al 1680 per dedicarsi al privato approfondimento dei testi di Pietro Ispano[1] e Paolo Veneto[2], i quali, tuttavia, rivelandosi superiori alle sue capacità, provocarono l’allontanamento dall’attività intellettuale per un anno e mezzo.

Ripresa la via degli studi, si recò nuovamente dai gesuiti, ma, rimasto ancora una volta insoddisfatto, si appartò nuovamente a vita privata per affrontare la metafisica di Francisco Suárez[3]. Successivamente, per secondare il desiderio paterno, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Napoli, senza tuttavia seguirne i corsi, e si cimentò, come di consueto, in privati studi di diritto civile e canonico. Conseguita la laurea in utroque iure, si appassionò subito ai problemi filosofici che il diritto pone, segno «di tutto lo studio che aveva egli da porre all’indagamento de’ princìpi del diritto universale».

Dal 1689-1690, denominato periodo dell’«autoperfezionamento», svolse (come s’è già accennato) attività di precettore dei figli del marchese Domenico Rocca presso il castello di Vatolla nel Cilento e colà, usufruendo della grande biblioteca padronale, ebbe modo di studiare Platone e il platonismo italiano, appassionandosi al problema della grazia in Sant’Agostino. Approfondì anche gli studi aristotelici e scotisti, nonostante la dichiarata avversione per Aristotele e la Scolastica, scoprendo al contempo Tacito (che diverrà, insieme a Platone, Bacone e Grozio, uno dei quattro maestri cui s’ispirerà il suo pensiero maturo) e la sua «mente metafisica incomparabile [con cui] contempla l’uomo qual è».  Intraprese anche i primi contatti con l’ambiente e la pratica di quelle che saranno poi entusiasticamente chiamate, nella Vita, le «luminose accademie». Qui appunto Vico incomincia a impegnarsi in un esercizio non irrilevante, e in seguito non più abbandonato, della poesia (non inutile ricordare questo aspetto, fra i meno noti, di colui che sarà poi iscritto all’Arcadia, dal 1710, col nome di Laufilo Terio), ed è notevole che come accademico, degli Uniti di Napoli, egli pubblichi, nel 1693, la sua prima cosa a stampa, la canzone Affetti di un disperato, che gli varrà un prezioso elogio di Antonio Magliabechi (Firenze, 1633 – Firenze, 1714), il celebre erudito e bibliofilo fiorentino, e con questo già una qualche fama più che municipale.

A trent’anni, nel 1698, Vico ottenne poi nell’Università di Napoli la cattedra di rettorica, «di rendita non più che di cento scudi annui» (un «posto meschino ma stabile», come ha osservato Croce, che egli cercherà nel 1723 di sostituire con la cattedra, ben più redditizia, «di leggi», ma senza successo), e inizia così un lunghissimo periodo di vita assolutamente priva di eventi esterni o anche solo di viaggi, tutta presa fra la routine dell’insegnamento pubblico e privato, le difficoltà di una famiglia sempre più numerosa (aveva sposato nel 1699 la figlia di uno scrivano fiscale, ed ebbero ben otto figli) e il graduale stabilirsi di una notorietà non solo italiana, specie dopo la pubblicazione, nel 1709, del De nostri temporis studiorum ratione, che passò allora con interesse fra le mani dei letterati più in vista.

Colpito probabilmente dalla malattia di Alzheimer, all’epoca non ancora descritta scientificamente, negli ultimi anni non riconosceva più i figli e fu costretto a letto. Morì a Napoli nel gennaio del 1744 e, accompagnato dai colleghi dell’Università, fu sepolto nella chiesa dei padri dell’oratorio detta dei Gerolamini in Via dei Tribunali.

 

L’esperienza intellettuale del Vico

 

La vasta esperienza intellettuale dello scrittore napoletano, che si estende fino all’ideazione delle sue opere più importanti, può essere facilmente inserita nel contesto di una certa cultura filosofico-letteraria dell’epoca. Questa esperienza include la sua poesia, che riflette le tendenze di un’arcadia orientata verso il sublime e il solenne. In particolare, l’approccio lucreziano che caratterizza gli Affetti di un disperato permette di collocare facilmente il giovane Vico al centro del dibattito culturale napoletano della fine del Seicento, un dibattito che coinvolge il gassendismo, il recupero del pensiero rinascimentale, le prospettive galileiano-baconiane e il razionalismo di matrice cartesiana.

Tuttavia, è solo nel secondo decennio del secolo che Giambattista Vico inizia una riflessione complessa che lo trasforma da un semplice letterato alla moda in un pensatore, anche se non propriamente solitario e isolato, ma certamente e straordinariamente acuto e unico; pertanto egli ha esercitato un’influenza profonda sulla cultura delle generazioni future, fino al Novecento, sia che sia stato compreso nella sua complessità o frainteso in vari modi.

E come le letture del Vico intorno ai trent’anni sono pressappoco quelle compiute negli stessi anni da quegli intellettuali italiani della sua generazione meglio attenti, pur con gli inevitabili ritardi, alle offerte del pensiero europeo (come Giannone, Muratori, Conti), così non sorprende quindi che le sue prime opere significative, i sei discorsi inaugurali tenuti all’inizio dell’anno accademico tra il 1699 e il 1706, e il De nostri temporis studiorum ratione, rispecchino le esigenze di rinnovamento e riorganizzazione della cultura presenti in alcuni scritti contemporanei di Muratori e sembrino anticipare temi poi sviluppati in modo più organico e radicale durante l’illuminismo più maturo. Questi lavori erano strettamente legati a temi di grande attualità nel dibattito culturale del primo Settecento, in particolare alla critica della gnoseologia cartesiana. Un altro esempio è il breve saggio De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus emenda, pubblicato nel 1710. In quest’opera, Vico, ispirandosi a Bacon, tenta di ricostruire i modi e le condizioni di una sapienza originaria, elaborando il principio del verum-factum. Secondo questo principio, il criterio della verità non risiede nell’evidenza immediata, né nella chiarezza e distinzione delle idee, ma nella conversione del vero con il fatto. In altre parole, si può conoscere solo ciò che si fa o si costruisce, e la conoscenza è limitata a ciò che si è prodotto. Questo principio costituirà un pilastro della sua successiva esperienza intellettuale.

Come si può dedurre dall’autobiografia, la lettura (effettuata verso il 1715) dell’opera più famosa di Grozio, il De iure belli ac pacis, pubblicata a Parigi nel 1625, ha rappresentato un importante punto di svolta. In questa opera, Vico ha trovato, in modo molto semplificato, l’idea fondamentale di un diritto naturale universalmente valido e operativo. Questo ha portato all’ipotesi e alla pratica di un discorso globale sull’uomo. Inoltre, ha scoperto un metodo di ricerca che integrava fecondamente filosofia e filologia, ovvero schemi teorici e considerazioni sui fatti. Infine, ha aperto una prospettiva affascinante sulle origini primitive dell’umanità.

Vico ha ulteriormente ampliato questa prospettiva con altre analoghe, alcune delle quali recuperate da una lettura fondamentale della sua giovinezza, il De rerum natura (in particolare il libro V), e altre tratte da testi letti sotto l’influenza dell’opera di Grozio. Questi testi, fondamentali nella cultura centro-europea del Seicento, includono il Leviathan di Hobbes[4], il De iure naturali et gentium iuxta disciplinam Hebraeorum di John Selden[5] e il De iure naturali et gentium di Samuel Pufendorf[6]. D’altra parte, l’ipotesi di un’indagine complessiva sull’uomo considerato nel mutare delle sue condizioni storico-sociali, che Vico aveva verificato in Grozio, poteva naturalmente legarsi ai criteri conoscitivi già definiti nel De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda. In altre parole, se si può conoscere solo ciò che si fa, l’oggetto preminente di conoscenza, o ‘‘scienza’‘, saranno i fatti dell’uomo, ovvero la storia nel suo effettivo determinarsi.

Infine, l’idealismo deciso che permea il testo di Grotius, come fiducia nella possibilità di instaurare un ordine giusto e ragionevole nel mondo storico, potrebbe aver fornito a Vico un forte incentivo a definire e arricchire ulteriormente l’idea di una presenza attiva della ragione nella realtà fattuale. Questo concetto, già espresso nelle orazioni inaugurali in termini di un discorso sui rapporti tra cultura e società, si ritrova negli scritti giuridici del 1720-22 come indicazione dei saggi come i più adatti a garantire la giustizia come possibile convivenza. Questa idea, oltre a costituire le basi dello stesso impegno di elaborazione della Scienza nuova, riemerge esplicitamente nella ‘‘conclusione’‘ di quest’ultima, come ipotesi di «una quarta spezie di repubblica, nella quale gli uomini onesti e dabbene fussero supremi signori».

 

Le opere maggiori

 

Il Diritto universale è composto da vari scritti giuridici, menzionati in precedenza. Questi includono un testo programmatico chiamato Sinopsi del diritto universale, pubblicato nel giugno del 1720. Inoltre, ci sono due libri: De universi iuris uno principio et fine uno e De constantia iurisprudentis, pubblicati rispettivamente nel luglio 1720 e nell’agosto 1721. Infine, nel 1722 è stata pubblicata una serie di integrazioni e correzioni, chiamate Notae.

Nonostante la sua completa autonomia, il Diritto universale, è spesso e tutt’ora visto da molti studiosi come un lavoro preparatorio per l’opera successiva di Vico, come del resto lo stesso autore riteneva. Quest’opera, la Scienza nuova in forma negativa, sviluppata tra il 1723 e il 1724, è nota per il suo approccio polemico. Tuttavia, non fu pubblicata a causa della mancanza di fondi adeguati. Nonostante ciò, Vico non si perse d’animo e credette fermamente nel suo lavoro. Si dedicò quindi a ridurre il testo, che riuscì a pubblicare nell’ottobre del 1725 a Napoli, grazie al ricavato della vendita di un anello. L’opera fu intitolata Principi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritrovano i principi d’altro sistema di diritto naturale delle genti, ma è comunemente conosciuta come Scienza nuova prima.

A dispetto dell’entusiasmo di Antonio Conti, che sperava in una diffusione ampia dell’opera, specialmente in Inghilterra, e che la presentò a Montesquieu[7] nel 1728, essa non ebbe successo al momento della sua pubblicazione. Questo fu dovuto alla scrittura oscura (l’abate Galiani nel 1766 la descriverà come ‘‘un libro scritto nell’oscurità da un uomo di grande luce”), alla complessità e unicità delle prospettive, e infine, nei paesi non cattolici, al fatto che il libro sembrava ‘‘adatto al gusto della Chiesa cattolica romana’‘ (come scritto nelle pagine autobiografiche dell’autore). Questo punto di vista fu confermato da una recensione critica del 1727 pubblicata negli ‘‘Acta eruditorum’‘ di Lipsia, che fu approvata privatamente ma esplicitamente da Giannone.

Per ragioni non del tutto chiare, l’opportunità di una riedizione dell’opera a Venezia, che era stata fortemente incoraggiata da Conti, non si concretizzò. Di conseguenza, Vico si dedicò a una revisione approfondita e complessa dell’opera, che fu pubblicata nuovamente a sue spese nel 1730. Questa versione è conosciuta come la Scienza nuova seconda. L’opera fu nuovamente rivista e pubblicata postuma nel 1744, con il titolo definitivo di Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni.

Verso la fine del 1725, Vico compose la sua autobiografia, un’opera che riflette sottilmente le sue difficoltà del momento attraverso uno spirito di autodifesa e autocelebrazione. Pubblicata a Venezia nel 1728, l’autobiografia fu successivamente arricchita da un’aggiunta, su suggerimento di Muratori, che però fu anch’essa pubblicata postuma.

La Scienza nuova

 

Si è già accennato all’approccio polemico che avrebbe caratterizzato la prima stesura della Scienza nuova. Tuttavia, soffermandosi semplicemente su tale aspetto, si rischia in realtà, come spesso è avvenuto, di non intendere appieno lo spirito non solo di quel testo, ma di tutto il successivo lavoro di rielaborazione, se non si tiene conto della precisa volontà del Vico di opporre proprio a quegli autori da cui aveva derivato – come si è detto – non poche suggestioni, un modo nuovo e diverso di comprendere la storia dell’uomo.

A parte questioni più specifiche, come il rifiuto della tesi di una dipendenza della storia ebraica dalla profana e più in genere l’affermazione aprioristica di una diversità radicale della prima da quella di qualunque altro popolo, era soprattutto sul principio di una presenza razionalmente operante di una «provvedenza divina» nelle «faccende degli uomini», che Vico impostava una polemica di fondo non solo con gli oggetti più immediati (Grozio, Selden, Pufendorf), ma anche contro un vario fronte che oggi potrebbe generalmente definirsi laico, da Epicuro a Machiavelli a Hobbes a Bayle[8] e Spinoza. Di qui, essenzialmente, l’ostilità di una certa cultura europea, quale si esprime sui fogli degli ‘‘Acta eruditorum’‘, come anche il senso dell’atteggiamento sprezzante di Giannone, che dopo aver preso le mosse pressoché dagli stessi autori di Vico, assai più liberamente aveva continuato ad attingere dalla più spregiudicata letteratura d’Europa, come avrebbe dimostrato con la stesura del Triregno. Di qui, ancora, il tentativo, che non è mancato in anni recenti, di assumere lo scrittore napoletano come esponente principe di una linea di pensiero insieme cristiana e italiana, una linea critica, con preveggente anticipazione, di quelle prospettive materialistiche o immanentistiche che soprattutto in seguito avrebbero circolato nel pensiero europeo.

In realtà, benché in Vico sia del tutto consapevole e intenzionale il rispetto di una ben precisa ortodossia, e non sia comunque corretto travestire la sua idea di «provvedenza» in panni idealistici o simili, non sembra improprio riconoscere, in questo nucleo concettuale (che si pone al centro della Scienza nuova pur nella diversità delle successive redazioni) di un criterio, un ritmo così divino come razionale secondo cui si sarebbe mossa e si muoverebbe la varia vicenda degli uomini, anche nei momenti e nelle apparenze di più ferina inconsapevolezza, l’espressione, straordinariamente intensa, di un’esigenza profonda di razionalità, che consente di considerare a buon diritto il nostro scrittore fra le voci più vive della cultura illuministica o, più esattamente, proto‑illuministica.

Certo è, la sua, un’esigenza di razionalità che non si apre, come tanto illuminismo, su prospettive di assoluto e di puro dover essere, ma richiede di dover fare i conti con un’effettualità complessa (le «faccende degli uomini»), investigata per di più non nel presente ma nella sua condizione di maggior resistenza e oscurità (il mondo primitivo e barbarico) e di cui sempre più Vico parrebbe aver intuito (in questo senso si può leggere la teoria dei «ricorsi», che si afferma nella Scienza nuova seconda) la capacità di contrastare quell’impulso provvidenziale che dovrebbe guidarla sulla via di un progressivo incivilimento. Rivolto, come si notava, a un mondo in cui la ragione sia tutta «spiegata», a una «repubblica» guidata da «uomini onesti e dabbene», lo sguardo dello scrittore non può, né intende, rifiutarsi di contemplare al tempo stesso quello spazio in cui, senza la «provvedenza», non sarebbe «altro stato che errore, bestialità, nerezza, marciume, sangue».

Così una sorta di conflitto, l’incertezza del cui esito non inclina alla disperazione forse solo in virtù della fede in certo senso millenaristica di Vico, sembra instaurarsi, nel testo della Scienza nuova, fra razionale e irrazionale, luce e ombra, e al limite, un poco forzando, fra principio di vita e principio di morte. Di qui, accanto alle letture secondo un’angolazione progressiva, non evidentemente illegittime, dell’opera vichiana, anche la forte suggestione che quest’ultima avrebbe esercitato fra secondo Settecento e primo Ottocento, durante cioè la varia crisi dei lumi, anche come richiamo al possibile fondo oscuro, ambiguo, precario, al di qua di ogni utopia e progetto razionale, della condizione umana. Allora, come si trova ad esempio molto esplicitamente in Alessandro Verri, suggestioni del genere potranno trovare una conferma e un incentivo nell’opera di pensatori più recenti, come, fra tutte, quella di David Hume.

Non è sicuramente questo il luogo o il momento per offrire ragguagli più precisi sulla struttura e i temi specifici della Scienza nuova. Risulta invece del tutto necessario notare ancora in queste pagine che se il nucleo – o meglio la significatività più profonda – del maggior lavoro del Vico si può riconoscere in quanto si è ora sottolineato, d’altro canto lo sviluppo concreto della ricerca, il complesso esame del vario materiale linguistico, poetico, mitologico ecc. compiuto per trovare una conferma ai principi elaborati a livello teorico, e insieme per far luce sulla complessa dinamica della società umana nel suo progredire, ricadere nella barbarie e di nuovo progredire, tutto questo dunque consentiva al nostro scrittore di istituire un’articolatissima prospettiva soprattutto sullo spazio del primitivo e del barbarico, nel suo vario manifestarsi, che avrebbe rappresentato un termine di riferimento di grande importanza (non l’unico, certo, ma in Italia sicuramente il primo e il più affascinante), in una cultura, come quella del Settecento, sempre più interessata in tal senso.

In particolare poi l’idea, sviluppata specialmente nella Scienza nuova seconda, della poesia come naturale modo di esprimersi degli «uomini del mondo fanciullo» (con il necessario carattere di fantasticità, corposità, forza, rozzezza, assenza di implicazioni teoriche) portava Vico da una parte a elaborare qualcosa come una fenomenologia della poesia primitiva, storicamente diversa e autonoma rispetto ad altri più «civili» modi d’essere della poesia, che avrebbe costituito non tanto un’«anticipazione» quanto un significativo punto d’appoggio per tante ricerche che nella seconda metà del secolo, e oltre, saranno compiute in questa direzione (basti pensare al caso di Cesarotti), da un’altra a maturare quella esigenza, per il presente, di una poesia alternativa rispetto a quella mediamente praticata – l’esigenza cioè di una poesia più intensa, più calda, più fantastica e meno raziocinante – che si trova formulata in modo esplicito in una celebre lettera a Gherardo degli Angioli del 1725. Si potrà notare, per concludere su un motivo già introdotto all’inizio di queste pagine, che benché orientamenti di questo tipo gli derivassero dall’eccezionale esperienza intellettuale che sappiamo, sicuramente Vico non era, nel sostenerli, così isolato e solo come si è a lungo pensato, ma esprimeva, a suo modo, una disposizione che se si affermerà diffusamente soprattutto nel secondo Settecento, appare condivisa già sul principio del secolo da molti scrittori, quelli più impegnati, magari nell’ambito della stessa Arcadia, contro una visione troppo razionalistica del fatto poetico. Ricompaiono così, accanto a quello di Vico, i nomi di Muratori e soprattutto di Conti.

 

***NOTE AL TESTO***

 

[1] Pietro Ispano (Lisbona, 1210 circa – Viterbo, 1277), nato  Pedro Julião Rebolo, eletto al soglio pontificio nel 1276 con il nome di Giovanni XXI,  è stato il 187º papa della Chiesa cattolica e l’unico pontefice portoghese della storia. Studiò teologia probabilmente all’Università di Parigi, dove si applicò anche in dialettica e logica. Approfondì la fisica e la metafisica di Aristotele. Studiò quindi medicina a Montpellier, o forse a Salerno. È probabile che, tra il 1235 ed il 1245, abbia insegnato logica in Spagna e quindi in Francia. definito dai suoi contemporanei «magnus sophista, loycus et disputator atque theologus», scrisse numerose opere, ta cui un compendio di logica formale (Summulae Logicales).

[2] Paolo da Venezia, o Paolo Veneto, vero nome Paolo Nicoletti (Udine, 1368 circa – Padova, 1428/1429), filosofo, teologo e umanista italiano,  Il suo trattato Logica magna può essere considerato la maggiore opera di logica formale prodotta nel Medioevo.

[3] Francisco Suárez (Granada, 1548 – Lisbona, 1617), gesuita, teologo, filosofo e giurista spagnolo, viene considerato il maggiore esponente della scolastica barocca.

[4] Thomas Hobbes (Westport, Malmesbury, 1588 – Hardwicke 1679), filosofo inglese del Seicento, si appassionò sin da subito alle lettere classiche tanto da divenire un esperto conoscitore del greco e del latino. Nel 1608 terminò gli studi ad Oxford diventando precettore presso una potente casata inglese: i Cavendish. Hobbes è noto per il suo pensiero politico e per essere stato il primo teorico dello Stato moderno.

[5] John Selden (Salvington, 1584 – Londra, 1654) giurista, politico ed erudito inglese, con la  pubblicazione delle opere Titles of honour (1614), Treatise on the Jews in England e De Diis syris syntagmata (1617) divenne noto al pubblico degli studiosi europei.

[6] Samuel Freiherr von Pufendorf (1632-1694) era un giurista, filosofo politico, economista e storico tedesco.  Tra le sue opere vanno ricordati i suoi commentari e le revisioni delle teorie del diritto naturale di Thomas Hobbes e Hugo Grotius.

[7] Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, meglio noto solamente come Montesquieu (La Brède, 1689 – Parigi, 1755),  filosofo, giurista, storico e pensatore politico francese, viaggiò a lungo in Europa, osservandone istituzioni e costumi. Nel 1721 scrisse le Lettere persiane. Nel 1748 pubblicò la sua opera principale, Lo spirito delle leggi. Per Montesquieu la legge non è un comandamento, ma «un rapporto necessario che deriva dalla natura delle cose»; l’insieme dei rapporti da cui essa dipende è appunto lo «spirito delle leggi», che comprende il clima, il modo di vita, l’economia, la religione, ecc. Anche le forme di governo vanno giudicate alla luce del carattere che esprimono: la monarchia incarna la passione dell’onore, il dispotismo ha come movente il timore, il governo repubblicano la virtù. La libertà si ottiene con il rispetto della legge, ma è garantita dalla divisione dei tre poteri principali dello stato: legislativo, esecutivo, giudiziario.

[8] Pierre Bayle (Carla-le-Comte, 1647 – Rotterdam, 1706) filsofo francese di tendenza scettica e razionalista, precursore dell’illuminismo, contemporaneo di Locke e Spinoza, visse come questi ultimi nei Paesi Bassi, dove trovavano rifugio i seguaci delle fedi riformate e i perseguitati per motivi di fede. Il suo pensiero è ispirato al razionalismo: speso nel sostegno della tolleranza religiosa fino a comprendere in essa l’ateismo – che egli tratta nelle Pensées diverses sur la comète e su cui egli meditava considerando la morale come indipendente dalla fede – influenzò profondamente quello di Voltaire nel Trattato sulla tolleranza.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «Appunti di Letteratura Italiana: Il Settecento»

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