L’immagine che ci è stata trasmessa del Settecento (detto anche “secolo riformatore” o “secolo dei lumi”) dalla tradizione storiografica e dalla critica letteraria, è – sotto molti aspetti – assolutamente parziale per non dire del tutto inadeguata. A parte, infatti, le vicende della Rivoluzione francese, alle quali solitamente si guarda come ad una congerie di eventi e di aneliti libertari rapidamente consumati nei bagliori di un fuoco empirico o – peggio ancora – soffocati nel terrore e nel sangue, il Settecento non solo viene comunemente immaginato come un mondo sostanzialmente lineare e sereno, ma – peggio ancora – avviene di far coincidere la civiltà del secolo, con tutto un contesto di parrucche incipriate, di nei posticci, di delicatezze e buone maniere, di ritmi aggraziati e tranquilli, di ragionevoli fantasticherie, che vengono appena appena complicate, o incrinate, da un di più di preoccupazioni civili ovvero di sensibilità, di estro malinconico. Così, o press’a poco, generazioni di studenti si sono accostati ad alcuni degli autori del tempo, quali Metastasio, Goldoni e Parini. Ed allo stesso modo, hanno goduto di una considerazione privilegiata figure specialmente conformi a un quadro del genere, quali – per esempio – Ippolito Pindemonte.
Decisamente diversa è la prospettiva che le indagini storiche compiute negli ultimi decenni del ventesimo secolo ed anche in tempi più recenti ci hanno a poco a poco restituito. Emerge da tali ricerche un quadro di modificazioni strutturali complesse, di conflitti profondi, di violenza. Le guerre, per cominciare. Quando non si rivolga un’esclusiva attenzione ai paesi italiani, che in effetti intorno alla metà del secolo godono di un periodo di pace abbastanza lungo (senza evitare con questo di trovarsi coinvolti in una situazione più generale), contese di varia natura risultano impegnare, perlopiù duramente, il mondo europeo ed extraeuropeo: dalle grandi guerre di coalizione che aprono e chiudono il secolo, a quella lunghissima dei Sette Anni (1756-1763), che – combattuta un po’ dovunque e coinvolgendo enormi interessi finanziari – sembra veramente anticipare i più recenti conflitti mondiali; sino alle lotte di emancipazione, come quella dei Corsi contro Genova e la Francia durante gli anni sessanta, e quella di poco successiva dei coloni americani contro l’Inghilterra.
A monte in genere di tali conflitti, e in un vario intricarsi di interrelazioni, sono poi alcuni fatti decisivi nella storia socioeconomica e politica del mondo occidentale. Così l’emergere di potenze nuove come la Prussia e la Russia, e soprattutto lo straordinario incremento di vitalità demografica e di sviluppo sul piano manifatturiero e commerciale in particolare di paesi come la Francia, l’Inghilterra, l’Olanda. Di qui lo scatenarsi appunto di un tipo di conflittualità che oggi diremmo permanente: per il possesso delle colonie, cioè dei luoghi di produzione delle materie prime, per il controllo dei mari, cioè delle vie di traffico, ecc. Di qui però anche l’impulso che deriva all’economia di paesi più deboli, non interessati direttamente alla grande competizione internazionale: come parecchi stati italiani, dove lo sviluppo delle attività agricole, crescente dopo la depressione degli anni trenta, risulta strettamente legato al fabbisogno di materie prime e di prodotti semilavorati che viene sempre più aumentando nei paesi già impegnati nella cosiddetta rivoluzione industriale (un prezioso filo di seta, cioè un’importante attività di esportazione delle sete unisce per esempio allora il Piemonte all’Inghilterra, anche sul piano politico‑diplomatico). E infine il crescente affermarsi non solo nei paesi privilegiati che si son detti, ma un po’ dovunque in Europa (benché con la persistenza di ampie zone estranee al fenomeno) di una ben precisa realtà imprenditoriale‑mercantile. Una realtà che non solo significa il mondo concreto degli imprenditori e dei mercanti, la classe dei borghesi che si viene rapidamente rafforzando ed estendendo, ma implica anche una mentalità, un modo di pensare e di intendere le cose, un costume nuovo, che se da un lato giungono a toccare e conquistare frange più o meno estese della nobiltà, da un altro tendono a erodere di quest’ultima i complessi privilegi, e più in genere a porre in discussione e poi in crisi l’assetto sociale e politico tradizionale, il vecchio ordine insomma.
Altissimi per altro, per non lasciar cadere il discorso sulla violenza del secolo, i costi umani di una tale linea di sviluppo. Non solo quelli connessi alle guerre e alle rivoluzioni. Raggiunge infatti il suo massimo incremento, allora, la tratta dei negri, mentre un sensibile peggioramento delle condizioni di vita dei contadini corrisponde, e questo in particolare nell’Italia padana, ai progressi dell’agricoltura che si viene ristrutturando in direzione capitalistica.
Quest’ultimo fenomeno ci rinvia infine, in relazione con quanto si notava più sopra, a un altro dato di rilievo primario nella situazione socioeconomica e politica in specie del medio Settecento: le riforme. In realtà è appunto in fatti di così vasta portata come il riorganizzarsi delle attività agricole in senso tecnologicamente più avanzato e capitalistico, il rapido incremento delle iniziative imprenditoriali e commerciali, l’affermarsi di una classe media, una borghesia economicamente potente, e nella frizione o nell’urto di questi e altri fatti con gli istituti, le strutture, gli esponenti del vecchio ordine feudale, che trova origine in parecchi stati, specie in quelli dove più si avverte il contrasto fra antico e nuovo, l’esigenza di un intervento sovrano che giunga a incidere di forza sulle cose, riducendo ad esempio tradizionali privilegi, aprendo diverse possibilità. Sono questi tentativi, più o meno riusciti, di riforma, così come i nomi dei sovrani che vi si impegnano e degli uomini di cultura, i philosophes, che variamente li ispirano, o più esattamente che mediano, presso di loro, le tensioni e le istanze della nuova classe in ascesa. Meno noto, invece, come l’esperienza delle riforme sia tutt’altro che lineare e pacifica. Ai guasti più o meno profondi e alle lacerazioni che in genere ne derivano al mondo nobiliare, per altro già in crisi per le ragioni strutturali ricordate più sopra (e una letteratura di inquietudini e di umor nero è quella prodotta da un buon numero di aristocratici del tempo), corrispondono sul versante dei riformatori i non rari insuccessi, le frustrazioni, i cedimenti, e non infrequente è il caso dell’intellettuale che finisce per pagare di persona il proprio impegno in tal senso.
La nuova cultura europea
A una realtà coinvolta così vivacemente nei processi di trasformazione cui si è accennato corrispondono mutamenti non meno notevoli sul piano specifico della cultura. Diremo subito che il fenomeno è generalmente europeo, e investe i paesi italiani proprio e solo nella misura in cui questi ultimi si trovano in una situazione economicamente e socialmente dinamica: più dunque la Toscana e le regioni del Nord, assai meno, con l’eccezione della città di Napoli e più tardi di Palermo, le altre zone del Centro e il Sud.
Muta parecchio, intanto, il quadro d’insieme delle diverse discipline e attività intellettuali. Alcune conoscono allora una crisi lunga e complessa. È il caso della letteratura d’invenzione, dove forme di grande fortuna fra Cinquecento e Seicento come la lirica, la poesia tragica ed epica si riducono notevolmente (o si trasformano) facendo luogo a forze nuove, o rinnovate, meglio idonee a comprendere la realtà contemporanea, come un certo tipo di poesia satirica, il dramma borghese, il romanzo, che – non per niente – si affermano, prima che altrove, nella più avanzata Inghilterra. S’impongono, o ricevono un impulso decisivo ambiti di ricerca intellettuale, scienze di cui è chiara e diretta l’attinenza alla prassi economica. Così al progredire delle tecnologie che è condizione indispensabile allo sviluppo delle attività manifatturiere, delle industrie, corrisponde il boom delle scienze matematiche, fisiche, chimiche, naturali (quello, non meno notevole, dell’astronomia è forse da riferirsi ai problemi che pone il moltiplicarsi delle grandi rotte transoceaniche); e agli sviluppi dei traffici, del commercio, si lega la nascita o l’incremento di discipline come l’economia, la scienza delle finanze, la scienza della società, l’etnologia.
Cambiano poi i tempi di diffusione e assimilazione degli orientamenti culturali. Entrati definitivamente in crisi, sullo scorcio del Seicento, gli schemi del pensiero tradizionale e accademico, e venendo meno il rispetto superstizioso e pregiudiziale delle auctoritates ufficiali (anzitutto di Aristotele), in favore della libera ricerca e della libera critica, si susseguono infatti e s’intersecano, nella cultura filosofica del secolo, le correnti, le mode intellettuali più diverse. Non diversamente avviene nell’ambito del pensiero economico, dove gli orientamenti mercantilistici, che prevalgono nei primi decenni del secolo, vengono messi in discussione, a cominciare dagli anni cinquanta, dalla nascente fisiocrazia, che a sua volta dovrà cedere il campo, di lì a non molto, ad ancor diverse prospettive. Ondate non meno frequenti percorrono lo spazio della cultura letteraria, anche sullo stimolo di un’industria editoriale in via di grande sviluppo, in modo non molto diverso da quel che capita oggi: con rapidità straordinaria Pope[1], Voltaire[2], Rousseau[3] e tanti altri entrano successivamente in circolo presso un pubblico di lettori assai più ampio che non in passato, e in modo abbastanza simultaneo a Parigi come a Londra, a Lisbona come a Milano o Venezia. E similmente avviene per gli autori di testi scientifici, data la frequenza e il rapido progresso degli studi. Al lettore tradizionale, quale si era venuto configurando dall’antichità greca sino al tardo Rinascimento, avvezzo a meditare su non molte opere esemplari e codificate, i classici insomma, si sostituisce un lettore assai diverso, insieme inteso e obbligato ad aggiornamenti continui, compiuti non di rado non sui testi originali (impossibile procurarseli o leggerli tutti), ma sui resoconti e le recensioni offerti da certa stampa periodica specializzata in tal senso.
Come s’intende, decisamente europea è la circolazione di tale cultura, nella misura in cui comuni ai diversi paesi sono i temi, i problemi, le esigenze, le tensioni che vi si trovano affrontati. Naturale insomma che, per esempio, un saggio sul commercio dei grani o un romanzo realistico e sentimentale suscitino un identico interesse, trovino attenti lettori a Livorno come a Stoccolma, a Dresda come a Pietroburgo. In ciò aiutando, si capisce, la vivacità, un po’ dappertutto, dell’editoria, sempre più sensibile all’utilità delle rapide traduzioni, e per altro verso la diffusa conoscenza, nel ceto borghese delle grandi città e presso la nobiltà meno defilata, di alcune lingue di uso internazionale: il francese anzitutto, che gran parte ad esempio degli scrittori italiani del tempo è in grado di scrivere correttamente; ma ancora in qualche misura, almeno presso gli intellettuali, l’italiano letterario; e poi l’inglese, la cui conoscenza si diffonde, specie dalla metà del secolo, in parallelo col crescente prestigio – economico, politico‑civile e infine anche letterario – dell’Inghilterra. Si può qui aggiungere come la conoscenza, non ancora ristrettissima come oggi, della nostra lingua, la prontezza delle traduzioni e l’appartenenza ad un comune contesto socioculturale spieghino la vasta circolazione europea di numerosi scrittori italiani, che non solo ricevono, come in prevalenza si pensa, ma inviano anche ai paesi d’oltralpe sollecitazioni e proposte.
Indicazioni del genere non devono comunque ingannare sui limiti percentuali di questo fenomeno di diffusione della cultura in Europa. Secondo calcoli recenti, non più del 2% della popolazione totale erano in Francia intorno alla metà del secolo i potenziali lettori, e solo alcune decine di migliaia gli effettivi, di un libro, per esempio, di Rousseau. Molti di meno certamente nell’insieme degli stati italiani. Fruitori, destinatari di questa cultura nuova e in vivace espansione sono dunque, converrà insistere su questo punto, i borghesi in special modo delle grandi città (professionisti, grandi imprenditori e mercanti, funzionari) e i nobili meno isolati, meno retrivi, più impegnati nel nuovo corso delle cose o semplicemente più curiosi.
A mutare infine notevolmente è la stessa figura dell’uomo di cultura, o se si preferisce il suo ruolo nell’ambito della società in cui opera. È chiaro intanto che la possibilità di vendere anche diverse migliaia di copie di un libro o quella di redigere un periodico di buona diffusione conferiscono all’intellettuale del Settecento, specie se attivo in paesi in cui più diffusa sia la cultura, un’indipendenza economica e un’autonomia professionale del tutto ignote agli scrittori del passato. In un mondo sempre più coinvolto nelle leggi e nella pratica della produzione e del commercio, anche il libro o il giornale o l’articolo assumono il carattere di un prodotto, di un oggetto più o meno buono, più o meno vendibile, e l’autore quelli di produttore e in qualche misura, nei limiti imposti dall’industria editoriale, di venditore. Di qui la qualità accentuatamente professionistica della produzione, appunto, di molti scrittori, e il ridursi o venir meno di quel tanto di tensioni ideali, pubbliche o private, che da sempre si era riferito al testo scritto. Di qui però anche la possibilità per l’intellettuale‑scrittore di emanciparsi dalla subordinazione al potere, e dalla funzionalizzazione dell’opera alle esigenze del potere, che aveva caratterizzato, tranne rare eccezioni, la tradizione letteraria occidentale, o almeno di intrattenere con i nuovi detentori del potere un rapporto, se pure ancora di dipendenza, più mobile, più sciolto.
D’altro canto gli stretti legami che uniscono, come si notava, la nuova cultura alle esigenze più o meno profonde della società in cui si esplica, finiscono per porre i suoi esponenti in una situazione naturalmente privilegiata. Questo nel senso che l’esperto di cose economiche o finanziarie, il tecnico delle scienze della natura o del diritto, o anche più generalmente l’uomo di cultura, il sapiente, il filosofo, si trovano ad assumere una funzione di stimolo, di guida, di illuminazione (spesso anche di mediazione, come si diceva, fra le ragioni dei gruppi sociali in ascesa e le scelte dei sovrani riformatori; e, appunto, con tutti i rischi del caso), insomma un ruolo strettamente organico nella realtà dinamica che li esprime. Ecco allora il grande prestigio goduto dall’intellettuale – sia esso libero scrittore, professore, accademico, bibliotecario o funzionario – nell’Europa settecentesca, gli onori che gli vengono resi dai concittadini e dai sovrani. E la via per cui ad alcuni di essi, come Goethe[4] o Pietro Verri, capita ad un certo punto di passare dalla pratica dei libri a precise funzioni amministrative o di governo.
La letteratura italiana del “secolo riformatore”
I diversi dati che si sono sin qui allineati corrispondono nella sostanza a quella che si suoi definire come cultura dei “lumi” o “illuminismo”, o meglio a certe componenti di quest’ultimo di più immediata attinenza alla realtà socioeconomica del Settecento. Ma è opportuno in questo momento notare, per non smarrire il filo del nostro discorso, che se il fenomeno è di dimensioni europee, e dunque verificabile non meno in Italia che in Francia o in Inghilterra (anche se in questi due paesi si danno ben più importanti stimoli strutturali e si realizzano alcune esperienze decisive), è vero d’altro canto che la nostra cultura, considerata nel suo insieme, viene a trovarsi di fronte alla nuova realtà, socioeconomica e intellettuale, particolarmente impreparata. Circostanze come la maggior arretratezza, in genere, a livello economico e sociale, il rigido controllo di Roma sulle scelte di pensiero e sulla pratica dei libri (un controllo che si farà sentire con forza almeno sin verso la metà del Settecento), le consuetudini bellettristiche o declamatorie di buona parte degli uomini di lettere, tutto questo, e altro, fa sì che almeno sino agli anni quaranta un discorso, una letteratura lucidamente avanzati e di valore europeo non escano da una cerchia assai ristretta di grandi intellettuali, con interessi in prevalenza filosofici e storico‑giuridici.
Si tratta di uomini nati in genere nei tre ultimi decenni del Seicento. Alcuni di loro appartengono al ceto cittadinesco napoletano, quella piccola o media borghesia occupata in prevalenza negli studi e nella pratica del diritto, già piuttosto avanzata culturalmente verso la fine del secolo XVII (sullo stimolo anche della tradizione telesiano‑campanelliana; un po’ come avviene a Firenze per via della tradizione galileiana, che si accentra nell’accademia del Cimento) e da cui uscirà gran parte dell’intelligenza progressiva meridionale del Settecento. Altri, invece, appartengono a quella medio‑piccola borghesia padana, di origini per lo più rurali e per lo più inserita in qualche struttura ecclesiastica (ma a livelli minimi), che avrà una parte notevole nella cultura “illuminata” di tutto il secolo. Altri ancora appartengono alla nobiltà del Nord, o meglio a quel suo settore più aperto e più sensibile che per l’alto livello, in genere, degli studi compiuti e forse anche per la disponibilità economica (da cui i costosi libri, i grandi viaggi, la conoscenza delle lingue) continuerà a rappresentare nel corso del Settecento una componente esigua dal punto di vista numerico ma di grande stimolo (anche per le sue stesse frequenti crisi e mises en question) nella nostra cultura avanzata.
Caratteristica comune alla maggior parte di questi intellettuali aristocratici, pur con alcune notevoli eccezioni, è la condizione di liberi scrittori, liberi s’intende sia da un preciso impegno professionale sia da condizionamenti mercantili del loro esercizio letterario. Una libertà che senza dubbio si legava alla loro condizione in genere economicamente privilegiata, ma poteva anche implicare una riluttanza più o meno consapevole a inserirsi nelle strutture, nei congegni di quella realtà socio‑economica in movimento di cui pure accoglievano, o facevano proprie, particolari ragioni di ordine esistenziale o intellettuale. Ovvio all’opposto che, per quanto riguarda le eccezioni, la ricerca o l’accettazione di un incarico pubblico potesse significare, in profondo, il rifiuto, vissuto sulla propria pelle, del passato e della tradizione, un’esplicita volontà di inserimento nel nuovo ordine, nel nuovo corso delle cose.
Si diceva allora della diffusa impreparazione della nostra cultura e della sua difficoltà e lentezza, durante i primi decenni del secolo, a recepire i grandi temi di quella europea. Non per nulla un motivo che intorno al 1710 ricorre insistente negli scritti degli intellettuali, e che in genere si potranno definire come proto‑illuministi, dalle Orazioni inaugurali di Vico alle Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti di Muratori, è l’opportunità per l’uomo di lettere di scuotersi di dosso certe abitudini tanto inveterate quanto cattive, di avere ad esempio finalmente il coraggio della verità, di uscire allo scoperto e impegnarsi in un rapporto fattivo con la società di cui fa parte. E conviene dire che non verrà meno neppure verso la metà del secolo, anzi avrà modo di giungere sostanzialmente indenne sino ai nostri giorni (basta sfogliare le terze pagine di tanti quotidiani), trovando un habitat specialmente idoneo in situazioni di regime, come quello napoleonico e più di recente il fascista, un caratteristico tipo di letterato italiano, poco pratico di lingue europee, abbastanza pigro per avventurarsi in testi che non siano la raccolta di rime o di novelle o il romanzo, dunque piuttosto incolto, incline invece ai piaceri della chiacchiera, sia verbale che scritta, e del ritmo arguto o soave, della canzonetta; infine sommamente preoccupato del proprio “particolare”, quindi ligio al potere, anzi attento, sensibilissimo alle ragioni, ai desideri (magari sottaciuti), ai vezzi del potere. Di qui, per tutto il secolo, un’amplissima rimeria (un nefasto, in questo caso, dei progressi dell’arte tipografica), per lo più iscritta all’Arcadia, e fra l’elogiativo, il burlesco, il blandamente amoroso e l’ovviamente didascalico, su cui non vale certo la pena d’insistere.
A parte tutto questo, è nondimeno un fatto che verso la metà del Settecento, o meglio già all’altezza degli anni quaranta, incomincia a configurarsi il quadro sempre più ricco e articolato di un mondo intellettuale aperto consapevolmente in direzione dell’illuminismo europeo, con tutte le implicazioni che si sono indicate. Si tratta di uomini nati nei primi decenni del secolo, intellettuali, come si è già accennato, che appartengono all’aristocrazia, ma la maggior parte dei quali è costituita da borghesi – anche se, talvolta, insigniti da qualche sovrano di un titolo nobiliare. E nella loro opera, che scioltamente si apre in più direzioni – dalla poesia al teatro alla narrativa alla saggistica filosofica, economica, scientifica, al giornalismo – davvero si esprimono, e non di rado in modi abbastanza espliciti, gli orientamenti, le tensioni, i problemi di quel mondo in ascesa che si è indicato all’inizio di queste pagine. E non di rado può riuscire utile rilevare i legami assai stretti che uniscono diversi di questi intellettuali fra loro, o con gli uomini di cultura similmente orientati delle generazioni che li precedono, un segno, questo, della consapevolezza che fu probabilmente propria dei molti intellettuali del tempo, di vivere un’esperienza di cultura sostanzialmente omogenea, nonostante la specificità delle rispettive scelte e posizioni.
I temi della letteratura illuministica
Variamente declinati, alcuni temi comuni in effetti percorrono, nel fondo, questa cultura. L’europeismo, intanto. Esibito, profferto con un certo candore provinciale dagli accademici dei Pugni[5], in polemica con la retriva classe dirigente di Milano, o nelle Lettere inglesi di Bettinelli a disdoro e a confusione delle arcaiche belle lettere della penisola, esso risulta vissuto concretamente – sull’esempio dei grandi intellettuali cosmopoliti primosettecenteschi – da un Algarotti, che sceglie appunto di vivere e operare nei maggiori centri europei, e circola con straordinaria naturalezza nell’opera dei maggiori scrittori, Parini per esempio, il cui Giorno appare intriso di suggestioni popiane, o Goldoni, il cui teatro filtra gli stimoli più vari del teatro e del romanzo inglese e francese per offrirsi poi a sua volta, immediatamente, a una ricezione europea.
Europeismo come cosmopolitismo, anche, nella misura in cui presuppone un’attenzione cordiale alle esperienze intellettuali o artistiche più varie, e magari più insolite, in quanto segni, manifestazioni dell’onnipotente, onnipresente natura. È questo un motivo già enunciato, sul principio del secolo, da Muratori nel trattato Della perfetta poesia italiana, e che si ritrova, intorno al 1760, nel pariniano Discorso sopra la poesia e nel saggio Sopra l’origine e i progressi dell’arte poetica di Melchior Cesarotti, e ancora più tardi negli studi sulla poesia tedesca di Aurelio De’ Giorgi Bertola. Esso rinvia per altro a un ulteriore grande tema del nostro illuminismo, appunto la fiducia profonda, per molti aspetti assoluta, nella natura, nei valori originari della natura. Nutrita più o meno consapevolmente, a seconda della cultura dei diversi scrittori, di complesse radici filosofiche, tale fiducia tende a esplicarsi da una parte in un vario discorso sui limiti che la società così com’è, come si è venuta costituendo, la civiltà, la storia sembrano porre a un più libero, fecondo, “felice” realizzarsi delle potenzialità naturali; e questo in genere nella prospettiva di un equilibrio, ritenuto possibile, di storia e natura, un equilibrio che solo più tardi, negli ultimi decenni del secolo, tenderà a rompersi, nel senso per esempio (che si può trovare in Alfieri) di un rifiuto risoluto della realtà contemporanea, cui si contrappone un antico o un primitivo o comunque un diverso miticamente vagheggiati. Da un’altra parte, la fiducia nella natura può invece esplicarsi in una varia attenzione, rivolta anche in questo caso con un equilibrio che finirà nell’avanzato Settecento per venir meno anzi talora ribaltarsi ossessivamente nel suo opposto, alle condizioni in cui il nativamente vitale, l’originario, l’intatto risultano manifestarsi in modo più scoperto e più diretto. Di qui i grandi temi, centrali in questa letteratura (che trova in Parini il testimone più interessante) della “vita rustica” e dell’amore. Fiducia nella natura può infine anche implicare qualcosa come una serena disponibilità al vario esserci delle cose, occhio aperto senza preconcetti sulla verità dell’esistenza, un atteggiamento dunque estremamente liberatorio e insieme fecondo di possibili risultati sul piano dell’arte.
Come poco sopra si è insinuato, quello della “felicità” è un altro tema di fondo nella letteratura dei lumi. Lo si troverà esemplificato esplicitamente nella letteratura di stampo saggistico, dove tutta una serie di testimonianze verte, magari per negativo, appunto sulla questione se e come e in quale misura la felicità si possa raggiungere. Ma un discorso sulla felicità, anche se talvolta la parola non sia pronunciata, si trova un po’ in tutti gli autori significativi del tempo. Radicato evidentemente nella dinamica della società in ascesa che si è detto, di un mondo che è consapevole di liberarsi da vecchi vincoli e condizionamenti, da antichi malesseri e infelicità, e che confida in una prosecuzione irreversibile di questo processo di emancipazione, di questa avventura liberatoria (di qui l’altro grande motivo del “progresso”), il discorso sulla felicità risulta allora oscillare fra il polo del possibile equilibrato appagamento, che si è indicato più sopra, dei valori e delle istanze della natura, insomma di un ragionevole incontro, sul piano personale e su quello pubblico, di storia e di natura, e il polo dell’utopia, della tensione cioè, che si farà sempre più insistita col maturare del secolo, a una mitica, improbabile rigenerazione dell’io privato e (o) del mondo.
Secondo dunque una ricerca continua di equilibri, una ricomposizione ininterrotta e paziente di tensioni (col rischio incombente di una frattura, uno squilibrio non più rimediabili) sembrano configurarsi i temi centrali della felicità e della natura nel discorso letterario del nostro illuminismo, specie intorno alla metà del secolo. Ora a presiedere a tali complesse esperienze intellettuali è la “ragione”, o meglio la certezza che gli esponenti di questa cultura nutrono nei confronti della ragione. Spesso esplicitamente tematizzata, tale certezza opera assai attivamente e non in superficie nella cultura letteraria del tempo. Di qui il vistoso affermarsi, in misura impensabile nella cultura del passato, di una scrittura saggistica, di un tipo di lavori cioè intesi a investigare e dibattere – e non solo nella forma apposita del trattato o del saggio, ma anche nel teatro, nel romanzo, nella stessa poesia – un’idea, un problema, un qualche dato della realtà. Di qui anche, come nella pittura dell’inglese Hogarth[6] o del veneto Canaletto[7], l’acribia nella restituzione dei dettagli, la qualità assolutamente non visionaria ma sottilmente realistica che si trova nella letteratura più attenta alla dimensione del sociale: da Goldoni al Parini del Giorno, dal Pietro Verri delle Lettere dalla guerra dei Sette Anni al Gaspare Gozzi della Gazzetta veneta e dell’Osservatore; ma è anche sufficiente, per questo, sfogliare un qualsiasi buon epistolario del tempo, da quello di Metastasio a quelli di Pietro e Alessandro Verri. Non solo infine come abito mentale ma in quanto struttura portante di una visione consapevole e complessa delle cose, la fiducia nella ragione, la certezza di una razionalità profonda inerente alla realtà e capace, al di là delle contraddizioni e delle ombre di superficie, di guidarla, si possono trovare alla base delle massime esperienze intellettuali della cultura illuminata. Molto importante, per questo riguardo, l’apporto, o almeno le suggestioni del pensiero scientifico.
Crisi e tramonto della letteratura illuministica
La cultura che si è sin qui sommariamente descritta si afferma in particolare, a parte le anticipazioni dei grandi intellettuali primo‑settecenteschi, fra gli anni quaranta e gli anni sessanta del secolo. Il Newtonianismo per le dame, che Francesco Algarotti pubblica a Milano nel 1737, e le Lezioni di commercio ossia di economia, che Genovesi finisce di pubblicare a Napoli nel 1767, aprono e chiudono in qualche modo idealmente il periodo.
Certo non è difficile trovare negli anni che seguono esperienze francamente illuministiche, legate a questa cultura per fili diretti ed espliciti. Si può pensare, per il teatro comico, a Francesco Albergati e ad altri autori meno noti, che operano fra gli anni settanta e ottanta richiamandosi a Goldoni e, se pure in minor misura, a Pietro Chiari; o, in tutt’altro ambito, all’eredità genovesiana che continua a esser viva in autori di successive generazioni. Ed è un fatto che diversi fra gli intellettuali nati intorno al 1730 proseguono anche dopo gli anni sessanta il loro lavoro in modo abbastanza intenso e lineare.
Ma nonostante la presenza di tante opere senza dubbio importanti, verso il 1770 la letteratura dei lumi ci appare ormai entrata in una crisi che sarà lunga e complessa o, se si preferisce, in un prolungato tramonto. Da un lato si vengono affermando sempre più nettamente, al suo esterno, resistenze, reazioni, discorsi alternativi. Così, per indicare qualche esempio di una situazione quantitativamente assai rilevante, la partenza nel 1762 di Goldoni da Venezia per Parigi coincide col vero e proprio trionfo, sulle scene veneziane, delle Fiabe di Carlo Gozzi, un tipo di teatro fra il comico e il fantastico che intende farsi portatore di una visione delle cose decisamente antiilluministica, di un discorso politico-civile apertamente reazionario. A sua volta nel 1766 Alfonso Varano[8], un nobile ferrarese nato nel primo decennio del secolo, concludeva la stesura delle sue celebri Visioni, solenni composizioni in versi che si aprivano con un attacco a Voltaire e in cui trovava voce, in una maniera che parve suggestiva e divenne esemplare per tanti autori del tardo Settecento, un senso accentuatamente pessimistico dell’esistenza, nutrito di un’ispirazione cristiana assai chiusa e medievaleggiante. Infine, per richiamare un altro fatto notevole, era del 1770 la prima traduzione italiana delle non meno celebri Notti di Edward Young[9], cupe e lunghissime meditazioni in versi dove si trova esattamente ribaltato quel sentimento fervido e alacre della vita che aveva animato in genere il razionalismo illuministico. Numerosi sono d’altra parte anche i segni di una crisi interna. Nel 1768 ad esempio il fratello maggiore di Carlo Gozzi, Gaspare, nato nel 1713 e che negli anni precedenti si era aperto, benché in termini assai moderati, alla cultura dei lumi, fa uscire uno strano periodico, Il Sognatore Italiano, dove – in alcuni brevi saggi in forma di racconto – si svolge un discorso assai tetro sui mali del mondo contemporaneo e sui limiti della cultura. Sempre intorno al 1770 anche Alessandro Verri, protagonista fra i più pugnaci dell’esperienza del Caffè, matura una crisi complessa. Si ritirò a Roma a condurre una vita raffinata e solitària, non più occupandosi che di belle lettere, di belle arti e di archeologia, studiò il greco antico e pubblicò sul principio degli anni ottanta Le avventure di Saffo, un insolito romanzo che conobbe una certa fortuna nel mondo di intellettuali inquieti, in prevalenza aristocratici, di cui il nobiluomo milanese si fece allora insieme portavoce e coscienza: intellettuali che si erano formati come lui alla cultura dei lumi, ma ormai variamente disincantati, stanchi, preoccupati di un possibile inasprirsi della situazione sociopolitica e dell’emergere di realtà incontrollabili (come il “popolo”, che diviene un protagonista ossessivo di questa cultura, prima e soprattutto dopo l’ottantanove). Alla nobiltà appartengono in effetti per la maggior parte i protagonisti della crisi cui stiamo accennando, e non sembra difficile connettere il fenomeno all’obiettivo malessere di una classe che sempre più avverte allora diminuire il proprio rilievo a livello socioeconomico e politico. Partecipano però di questa vicenda di crisi anche diversi uomini di cultura borghesi. È questo fra gli altri il caso di Parini, il quale scrive nel 1769 l’ultima ode di più esplicito e diretto impegno politico-civile, La musica, e dopo alcuni anni di silenzio riprende la propria ricerca di poesia con testi più problematici e di risentita intonazione privata.
Giocava in questo e in altri casi consimili un ruolo specialmente notevole il disagio diffuso e crescente nei confronti delle riforme, o meglio del loro concreto determinarsi, da parte di quegli intellettuali che pure le avevano pensate e sostenute. E più in genere interveniva il divario sempre più avvertito fra l’effettiva realtà delle cose e le prospettive, le attese dell’illuminismo, specie se vissute con una qualche radicalità. Coinvolto in un presente che sempre più gli appare lontano dalla natura e dalla ragione, degradato e non migliorabile, l’intellettuale crede di rifugiarsi nel chiuso dell’io, di una propria virtù personale, oppure incomincia a sognare, del tutto irrazionalisticamente, una palingenesi, una rivoluzione futura, o a guardare ad un mondo altro, diverso, che immagina vitale e felice, o almeno meno arido e meno infelice del qui e ora: la Grecia antica, la Roma repubblicana, un certo Medioevo, il mondo primitivo o selvaggio di Tahiti. Qui il senso profondo di alcune correnti di cultura che percorrono (in un rapporto evidentemente assai complesso con l’illuminismo) sia l’Italia che più in generale l’Europa durante gli ultimi tre o quattro decenni del secolo: neoclassicismo, goticismo, primitivismo, esotismo, ecc.
Si può aggiungere come allora in molti casi fra il guardare al passato e il guardare al futuro si stabiliscano interrelazioni sottili. Il positivo voluto intravedere nel passato, o nel primitivo esotico, anticipa e prefigura quel positivo che si dovrà instaurare: l’umanità energica ed eroica che ha spinto i Greci contro i Persiani è quella stessa che dovrà, dovrebbe animare gli Italiani, o i Tedeschi ecc. in un tempo che si spera non lontano. Difficile naturalmente riconoscere quanto di progressivo, di radicalmente avanzato, di rivoluzionario, e quanto non invece di regressivo, di potenzialmente reazionario ci fosse in atteggiamenti del genere, che comunque rappresentano, converrà ripetere, uno sviluppo di certi postulati dell’illuminismo. Questo spiega però come sullo scorcio del secolo, in anni cioè in cui le vicende politiche costringono gli uomini di cultura ad uscire allo scoperto, a scegliere una parte precisa, fra i cultori dell’antico alcuni, come Alfieri, finiscano per imboccare la via di un fiero reazionarismo e altri, come l’allora giovanissimo Foscolo (e Parini, s’intende), si trovino con la medesima coerenza dalla parte della Rivoluzione.
La letteratura del tardo settecento
Occorre qui precisare, riprendendo un motivo introdotto all’inizio di queste pagine, come la crisi della cultura illuministica si consumi, negli ultimi decenni del secolo, in corrispondenza con una situazione socioeconomica e politica sempre più tesa e complessa. Prosegue intanto, di pari passo col costante incremento delle attività manifatturiere e mercantili e del fenomeno di capitalizzazione dell’agricoltura, un po’ dappertutto in Europa l’affermazione della classe borghese. Ma a tale affermazione, che la pratica delle riforme in genere ha stimolato notevolmente, si viene ora opponendo un’accanita resistenza della nobiltà, resistenza se non nuova certo assai più acre che nei decenni precedenti. A loro volta una certa crisi nella produzione agricola, che si verifica intorno al terz’ultimo decennio del secolo, e un diffuso aumento dei prezzi sono all’origine di un malcontento e un’irrequietezza crescenti nel mondo popolare, operai di città e soprattutto contadini, che avviano non di rado delle vere e proprie rivolte. Così per ragioni diverse nei contadini, negli operai, nei borghesi e nei nobili (questi ormai duramente divisi fra le punte avanzate e la gran parte intesa a conservare il conservabile) si fa strada la sensazione di uno stato di cose non più a lungo sostenibile, l’idea che si debba verificare una svolta. Aggiunge esca a questo stato d’animo un fenomeno nuovo e caratteristico del mondo occidentale negli ultimi anni del Settecento: la tendenza a dibattere insieme, riunirsi, associarsi, tendenza favorita a sua volta – a livello dei colti, o comunque di quanti sono in grado di leggere – da uno straordinario incremento che si verifica nella stampa, specie periodica. Infine si compiono, con l’ultimo ventennio del secolo, le grandi rivoluzioni d’America e di Francia. Ai vecchi ceti privilegiati di tutta Europa viene da questo una sensazione apocalittica di crollo, di fine di un mondo: di qui il cupo reazionarismo di opere come Le notti romane del nostro Alessandro Verri, pubblicate in successive edizioni e con grandissima fortuna fra il 1792 e il 1804. Agli intellettuali avanzati, siano essi borghesi o nobili illuminati, aperti al nuovo, viene invece uno stimolo assai forte a non rinunciare all’impegno di trasformazione delle cose, e in molti casi la certezza che sia davvero realizzabile una società di liberi e di eguali. Una straordinaria tensione percorre in effetti la cultura progressiva europea sullo scorcio del Settecento. E il secolo si chiude su un quadro europeo estremamente intricato di spinte e controspinte, di conflitti fra gli stati e, all’interno di questi, fra le classi in ascesa e in declino.
Alla luce di una situazione così mossa e così difficile si può forse in effetti comprendere meglio la crisi dell’illuminismo italiano, quale si era affermato intorno e poco oltre la metà del secolo. Crisi che significa reazioni crescenti dall’esterno e graduale mutamento, trasformazione di prospettive, ma anche, come si notava, stanchezza, disorientamento, chiusura in se stessi di alcuni fra gli uomini più rappresentativi di tale cultura. Si son fatti i nomi di Parini, di Alessandro Verri, di Gaspare Gozzi; ma si potrebbero ora aggiungere quelli di un Beccaria, un Carli, un Ortes, autori fra l’altro, i due ultimi, di libri come L’uomo libero (1778) e, rispettivamente, Delle scienze utili e dilettevoli per rapporto alla felicità umana (1785), che la dicono assai lunga sulle difficoltà vissute da questa cultura all’altezza degli anni ottanta.
Specialmente però il tener d’occhio la complessa realtà degli ultimi decenni consente di meglio comprendere l’esperienza, e in prospettiva per quanto possibile unitaria, di numerosi scrittori appartenenti aelle generazioni più giovani, e in particolare di quella, assai viva e interessante, dei nati intorno al 1750. È il caso di Alfieri, ma anche di personalità meno erompenti e geniali ma non per questo meno notevoli (quando si voglia costruire una storia intellettuale), e più o meno note come, per seguire l’ordine di nascita, Luigi Gonzaga di Castiglione[10], Mario Pagano, Francesco Cassoli[11], Luigi Angiolini, Ippolito Pindemonte, Aurelio De’ Giorgi Bertola, Giovanni Fantoni[12], Alessandro Pepoli[13]. Sono coetanei di Goethe, di Schiller[14], di Forster[15] e degli idéologues francesi, con i quali condividono in genere il gusto per la speculazione filosofica, etico‑politica ed estetica specialmente, per il viaggio come avventura insieme esistenziale e intellettuale, e la passione politica. Sono coetanei anche degli Stürmer, con cui hanno in comune, alcuni almeno, un’accesa disposizione all’esercizio fisico, alla vita dei sensi e all’oltranza amorosa. Appartengono inoltre in prevalenza alla nobiltà, di cui vivono l’estrema crisi e di cui rappresentano al tempo stesso quella punta avanzata che si diceva, aperta al nuovo ma con forti tensioni irrazionalistiche e con grande instabilità.
La formazione di questi intellettuali si innesta generalmente sul ceppo dell’illuminismo mediosettecentesco. Genovesi, come già si è accennato nel caso di Pagano, Cesarotti e altri, specie i grandi philosophes francesi, Rousseau compreso s’intende, sono i loro maestri. Conforme però allo spirito dei tempi, cioè a quella diffusa attesa di soluzioni decisive che percorre la cultura progressiva europea nel tardo Settecento, essi tendono in prevalenza a lasciar cadere, dell’esperienza dei lumi, la realistica attenzione ai problemi socioeconomici, la disposizione a mediare e a non rompere certi sottili equilibri (la componente riformistica, insomma), e a ritagliarne invece, a loro volta caricandola, la radicalità di alcune istanze o previsioni, come per esempio di una partecipazione politica generalizzata o di una liberazione integrale dell’uomo e delle sue potenzialità. Di qui la preferenza accordata a certi autori, come Rousseau appunto o Helvétius[16], che vien letto magari con l’occhio al Machiavelli dei Discorsi. Di qui anche il radicalismo sostanzialmente avveniristico di molti libri scritti o pubblicati intorno al 1780, dal Saggio sullo spirito umano di Gonzaga ai Saggi politici di Pagano, dal Saggio di libertà sopra varii punti di Pepoli ai più noti trattati alfieriani Della tirannide e Del principe e delle lettere. Si può aggiungere che questi e altri testi del genere, unitamente al vario insieme di poesia politico-civile che compongono un po’ tutti gli autori richiamati, specie nella forma della lirica e della tragedia, costituivano l’antecedente più immediato, e non inascoltato, della vera e propria esplosione di letteratura politico-civile che si sarebbe avuta all’indomani del 1796, cioè nel periodo prima giacobino e poi napoleonico.
Parecchi degli uomini di cultura che si sono fin qui citati finiscono, durante gli anni novanta, per assumere parte attiva nella lotta politica. E se alcuni non rinunciano all’esercizio della poesia o del teatro (però sempre più funzionalizzati alle esigenze della prassi), il nome di altri esce invece allora in modo temporaneo o definitivo dalle cronache letterarie. Lo si ritrova, magari sfogliando i giornali del tempo, nella cronaca di un’assemblea di cittadini o nei resoconti di una battaglia. Ed in genere importante è il loro contributo al dibattito, che si apre allora nella cultura progressiva, sull’istruzione pubblica, cioè non più sul se (una vecchia questione dell’illuminismo mediosettecentesco), ma sul come aprire alle masse popolari – il termine è pertinente, essendo ormai alle soglie dell’Ottocento – l’esperienza, la pratica della lingua e della cultura scritte (un po’ il problema affrontato dall’intelligenza russa intorno al 1920). Notevole che in questo vario impegno si trovino, accanto agli intellettuali di cui stiamo parlando e che ne costituiscono il nerbo, già numerosi altri assai più giovani (cioè i nati intorno al 1770) e qualche grande vecchio non sopravvissuto evidentemente a se stesso.
Per diversi uomini di cultura tuttavia della generazione del 1750 la qualità illuministica della prima formazione, anziché tradursi col maturare degli eventi nel rapporto organico, cui ora si accennava, con la prassi progressiva, finisce prima o poi per dar luogo, magari anche dopo momenti di acceso radicalismo libertario, ad un vario atteggiamento di disinganno (per usare un termine alfieriano), di irritazione, di stanchezza, di fuga nei confronti della realtà. Capita specialmente intorno al 1790, cioè subito dopo l’inizio della Rivoluzione in Francia. Il caso più vistoso e più noto è appunto quello rappresentato da Alfieri, il quale del resto inclina in breve, come si è detto, ad un aspro reazionarismo. Ma intorno a questo caso emergente non è certo difficile riconoscere nella cultura dell’ultimo Settecento un buon numero di intellettuali in prevalenza trenta‑quarantenni, formalmente magari ancora su posizioni avanzate, ma sempre più presi, un po’ tutti, da introversioni più o meno accentuate, da ossessioni e compiacimenti del tutto privati, o dall’abbandono a certi grandi miti che circolano nell’atmosfera culturale del tempo: i miti, cui si è accennato, della purezza e della vitalità dell’antico, del primitivo, del selvaggio; il mito della virtù, come ipotesi di salvezza personale, comunque; il mito di un’intatta armonia, dischiuso dalle scienze matematiche, o del bello ideale, capace di offrirsi come alternativa e come consolazione alle brutture e alle offese del mondo storico; il mito della grazia ecc.
Sarà ancora utile osservare come gran parte delle esperienze di cui si è parlato in queste ultime pagine siano considerate da alcuni studiosi, e più in genere vengano accolte dalla pratica dei manuali didattici, entro la categoria di Preromanticismo. Ciò consegue, fra l’altro, da un criterio più generale invalso a suo tempo nella trattazione storico‑critica dei fatti artistici e letterari, criterio inteso a considerare questi ultimi non tanto nella concretezza delle loro motivazioni e determinazioni storico‑sociali, quanto nell’astratto raccogliersi e rapportarsi secondo ampie prospettive d’insieme, relative in sostanza al mutare delle idee, del gusto, della sensibilità. Di qui è appunto derivata la sistemazione del Settecento letterario in tre sezioni, o momenti cronologicamente successivi. L’età o letteratura dell’Arcadia, anzitutto, facendosi in sostanza coincidere la varia esperienza dei primi decenni del secolo con l’omonima iniziativa avviata in Roma sullo scorcio del Seicento secondo prospettive di rinnovamento ideologico e artistico in senso razionalistico‑cartesiano (ovvio che una categoria del genere abbia finito, benché notevolmente comprensiva, per privilegiare la poesia in particolare lirica e drammatica e la trattatistica critico-estetica del primo Settecento, lasciando piuttosto ai margini, come casi a sé oppure minori, esperienze meno attinenti al razionalismo arcadico o più problematiche, come quelle di un Vico). Età quindi o letteratura dell’illuminismo, per ragioni che sono evidenti e in parte di fatto coincidono con quelle che hanno orientato la stesura di queste pagine. Infine il Preromanticismo. Come termine e come concetto tributario esplicitamente di Romanticismo, benché appunto talvolta riferito alla letteratura dell’avanzato Settecento per denotarla nel suo insieme, esso in particolare inerirebbe a quel complesso di fenomeni e di esperienze che se da un lato appare più difforme e lontano dalla civiltà dei lumi, da un altro si direbbe anticipare il vero e proprio romanticismo. Sotto la sua etichetta è stato così possibile raccogliere fatti molto diversi fra loro, specie se considerati nelle rispettive motivazioni, come appunto la lirica malinconica di un Alfieri, un Pindemonte, i temi sepolcrali o rovinistici di un Alessandro Verri, e quanti altri, gli appassionamenti per Ossian[17] di un Cesarotti e così via. Si potrà qui osservare che se si arriva a conferire a fatti del genere qualcosa come un significato collettivo profondo, sotteso in certo modo a quelle che risultano le loro motivazioni più evidenti, sino a dare al Preromanticismo un valore di categoria spirituale o psicologica di portata diremo così universale (un po’ com’è stato fatto da alcuni studiosi già per il Manierismo, il Barocco e, appunto, il Romanticismo), non facilmente una ipotesi di questo tipo riesce verificabile e pertanto accettabile. Meno azzardato invece ritenere da un lato che con gli ultimi decenni del secolo si sia venuto determinando nel mondo intellettuale europeo, e così anche italiano, un insieme di fatti di cultura, e di qui una temperie, un clima di cultura caratterizzati da una diffusa disposizione irrazionalistica, e in particolare da un’attenzione insistita e non di rado inquieta, turbata, ai temi, diremo così, del non razionalmente controllabile: la morte, il sacro, la dimensione oscura delle cose, la sfera della passione e più in genere delle emozioni, l’io profondo e così via. E da un altro che a questo clima, che a un livello di superficie si traduce in diverse e assai diffuse maniere letterarie (la poesia notturna, sepolcrale, delle rovine ecc.), sia risultata in particolare sensibile, in modi e gradi dissimili, appunto quell’intelligenza variamente presa nella crisi di cui si è detto. Ora se a una tale temperie di cultura, contraddistinta, converrà insistere, da un accentuato irrazionalismo, si vuol dare il nome di Preromanticismo, così da evidenziarne lo specifico rapporto con una certa cultura degli anni immediatamente successivi, il Romanticismo appunto, non c’è dubbio che gran parte degli intellettuali cui si è fatto cenno più sopra appaiono coinvolti in letture, in suggestioni, in esperienze di qualità preromantica.
***NOTE AL TESTO***
[1] Alexander Pope (Londra 1688 – Twickenham, Middlesex, 1744) fu tra i maggiori poeti del XVIII secolo, e nelle sue opere lo spirito classico della poesia inglese giunse all’apice. Fu il maestro riconosciuto della poesia che ha per argomento la vita sociale dell’uomo e ne considera le debolezze con un senso comune che sbocca inevitabilmente nella satira. Artista straordinario, non ebbe rivali nell’uso che fece del distico eroico (il metro da lui adoperato in tutte le sue opere migliori), rappresentando una svolta per la letteratura inglese. La dolcezza lirica dei suoi Pastorals, la grazia arguta e delicata di The Rape of the Lock, l’ampiezza maestosa della sua Iliade, l’eloquenza dell’Eloise to Abelard, il tono disinvolto e conversativo delle sue Imitations of Horace, attestano la meravigliosa varietà che egli poteva permettersi in un campo ristretto e imposto. La passione inappagabile della perfezione, il desiderio di portare la propria opera a quel massimo di eccellenza che potesse raggiungere, fanno di lui il terzo autore più citato (secondo il Dizionario di Oxford delle citazioni) dopo William Shakespeare e Alfred Tennyson.
[2] Voltaire, pseudonimo di François-Marie Arouet (Parigi, 1694 – Parigi, 1778), filosofo, drammaturgo, storico, scrittore, poeta, aforista, enciclopedista, autore di fiabe, romanziere, saggista e polemista, fu uno degli animatori e degli esponenti principali dell’Illuminismo, insieme a Montesquieu, Rousseau, Diderot, d’Alembert, d’Holbach e du Châtelet. La vasta produzione letteraria di Voltaire si caratterizza per l’ironia, la chiarezza dello stile, la vivacità dei toni e la polemica contro le ingiustizie e le superstizioni. Deista, cioè seguace della religione naturale che vede la divinità come estranea al mondo e alla storia, ma scettico, fortemente anticlericale e laico, Voltaire è considerato uno dei principali ispiratori del pensiero razionalista e non religioso moderno.
[3] Jean-Jacques Rousseau (Ginevra 1712 – Ermenonville, Oise, 1778), filosofo, scrittore, pedagogista e musicista, insieme a Montesquieu fu uno dei grandi lettori settecenteschi di Machiavelli. Ne possedeva le opere in italiano e, con altri libri, le vendette, in un tempo sfortunato, in Inghilterra. Fra i massimi protagonisti dell’Illuminismo, la sua teoria politica propose una riforma radicale del patto sociale, modellata sull’ideale della città antica e su una stretta connessione tra educazione e vita pubblica. In ambito morale Rousseau sostenne la bontà originaria dell’uomo, reso malvagio dalla società.
[4] Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno, 1749 – Weimar, 1832), scrittore, poeta, drammaturgo, saggista, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale, viene solitamente reputato uno dei casi più rappresentativi nel panorama culturale europeo. La sua attività fu rivolta alla poesia, al dramma, alla letteratura, alla teologia, alla filosofia, all’umanesimo e alle scienze, ma fu prolifico anche nella pittura, nella musica e nelle altre arti. Il suo magnum opus è il Faust, un’opera monumentale alla quale lavorò per oltre sessant’anni. Goethe fu l’originario inventore del concetto di Weltliteratur (letteratura mondiale), derivato dalla sua approfondita conoscenza e ammirazione per molti capisaldi di diverse realtà culturali nazionali (inglese, francese, italiana, greca, persiana e araba). Ebbe grande influenza anche sul pensiero filosofico del tempo, in particolare sulla speculazione di Hegel, Schelling e, successivamente, Nietzsche.
[5] L’Accademia dei Pugni (anche chiamata Società dei Pugni) fu un’istituzione culturale fondata a Milano nel 1761 da Pietro e Alessandro Verri, alla quale parteciparono molti degli intellettuali illuministi lombardi dell’epoca.
[6] William Hogarth (Londra, 1697 – Londra, 1764), pittore, incisore e autore di stampe satiriche, si inserisce in un contesto culturale in cui con l’affermazione della borghesia e dei valori sociali di buon senso e rispettabilità, gli artisti inseriscono nei loro quadri una morale concreta e facilmente identificabile, unita al gusto del racconto e ad un’analisi attenta degli aspetti reali e quotidiani.
[7] Canaletto, pseudonimo di Giovanni Antonio Canal (Venezia, 1697 – Venezia, 1768), pittore e incisore, fu soprattutto noto come vedutista. Oltre a unire nella rappresentazione topografica architettura e natura, i suoi dipinti sono il risultato di un’attenta resa atmosferica, della scelta di precise condizioni di luce per ogni particolare momento della giornata e di un’indagine condotta con criteri di scientifica oggettività, realizzati nel periodo della più ampia diffusione delle idee razionalistiche dell’Illuminismo. Insistendo sul valore matematico della prospettiva, per dipingere le sue opere l’artista si avvaleva talvolta della camera ottica.
[8] Alfonso Varano (Ferrara, 1705 – Ferrara, 1788), discendente degli antichi duchi di Camerino, visse una vita semplice e solitaria dedita agli studi. Acclamato poeta sin dalla sua adolescenza, dopo giovanili rime amorose, bernesche, pastorali, d’occasione e di devozione, scrisse due tragedie classicheggianti, Demetrio (1749) e Giovanni di Giscala (1754); in quest’ultima il protagonista è rappresentato in una sua furente magnanimità che fa sentire vicino il Romanticismo. Per la loro lugubre tristezza lo preannunciano anche le 12 Visioni sacre e morali (la sua opera più nota), cominciate nel 1749 e terminate nel 1766, ma poi corrette per tutto il resto della vita, anche se – in nessun passo – esse riescano a sollevarsi ad un’altezza realmente poetica. Alle Visioni seguirono ancora le tragedie Agnese e Saeba regina di Ginge e di Taniorre.
[9] Edward Young (Upham, Hampshire, 1683 – Welwyn, Hertfordshire, 1765) fu cappellano di Giorgio II d’Inghilterra e rettore a Welwyn. Nel 1719 fece rappresentare una pomposa tragedia, Busiris (scritta nel 1713), che H. Fielding mise in ridicolo; nel 1721 apparve l’altra tragedia Revenge, e circa nella stessa epoca fu scritta The brothers rappresentata solo nel 1753. Tra il 1725 e il 1728 pubblicò una serie di satire in distici eroici, The Universal passion. Tuttavia la sua celebrità è dovuta all’opera Complaint, or night thoughts on life, death and immortality (1742-45), opera a carattere autobiografico in cui l’autore espone (in versi sciolti) il suo pensiero sulla vita e sulla morte, unendo eleganza stilistica e intensità accorata, dando così inizio alla letteratura della sensibilità e alla poesia sepolcrale. Oggi Young è quasi del tutto dimenticato nel mondo anglosassone, mentre è più noto in Francia. All’epoca, però, il poema ebbe il plauso unanime di pubblico e letterati di tutta Europa e fu tradotto in francese, tedesco, italiano, spagnolo, portoghese, svedese e ungherese.
[10] Luigi Gonzaga (Venezia, 1745 – Vienna, 1819), ultimo discendente in linea diretta dei Gonzaga di Castiglione delle Stiviere (prima marchesi e poi principi), dopo lunghe questioni e trattative alienò a Maria Teresa ogni sua pretesa sul principato degli avi per un appannaggio annuo di diecimila fiorini. Mezzo erudito e mezzo avventuriero, fu amante della poetessa improvvisatrice Corilla Olimpica (al secolo Maria Maddalena Morelli), di diciotto anni più vecchia di lui. Imbevuto di spirito illuministico, lesse in Arcadia e pubblicò un suo discorso, Il letterato buon cittadino (Roma 1776), nel quale si mostra sostenitore di idee costituzionali. Durante le vicende della sua vita agitata, scrisse altri saggi e discorsi e dissertazioni d’ogni genere.
[11] Francesco Cassoli (Reggio Emilia, 1749 – Reggio Emilia, 1812) appartenne a quella schiera di poeti emiliani, fedeli al classicismo, che fiorì tra la fine del secolo XVIII e il principio del secolo XIX. Tradusse le odi di Orazio e compose liriche un po’ fredde ma sapientemente corrette, nelle quali, accanto all’influenza dei classici, si sente anche quella del Parini, del quale fu amico. Negli ultimi anni, ideò anche inni sacri. Si ricordano di lui specialmente gl’inni Alla sanità, e le odi Al letto, Alla lucerna.
[12] Giovanni Fantoni (Fivizzano, 1755 – Fivizzano, 1807) terzo figlio maschio del conte Lodovico Antonio Fantoni e della marchesa Anna De Silva della Banditella, fu avviato alla vita ecclesiastica, ma il suo carattere insofferente alla disciplina e il suo spirito anticlericale non erano compatibili con la vita monastica. Il padre, perciò, tentò di avviarlo alla vita militare e riuscì a fargli ottenere un incarico come luogotenente di fanteria. Ma Giovanni si rivelò inadatto anche a questa carriera e, dopo aver dato le dimissioni, finì addirittura per rischiare l’arresto per debiti (1779). Frattanto, nel 1776 era stato ammesso in Arcdia con il nome di Labindo Arsinoetico, ed è proprio con questo soprannome che il Fantoni è maggiormente noto. Nel 1800 fu professore di eloquenza e belle lettere a Pisa, ma il suo insegnamento durò pochi mesi poiché fu sospeso dal governo per gli accenti giacobini delle sue lezioni. Infatti, in politica fu un giacobino e, in letteratura, uno dei più cospicui rappresentanti della poesia neoclassica italiana. Il Fantoni fu poeta molto fecondo, ma ciò che lo lega indissolubilmente alla storia della nostra letteratura sono le Odi divise in due libri, nelle quali penetra talvolta la vena erotica, ma predomina l’intento morale e civile, senza però sopraffare la poesia. In tali componimenti egli introdusse anche – felicemente – i metri oraziani, divenendo in tal senso un precursore del Carducci che – nei Levia Gravia e nei Giambi ed Epodi – ne riprese alcune forme metriche.
[13] Akessandro Ercole Pepoli (Venezia, 1757 – Firenze, 1796), figlio del conte e senatore bolognese Cornelio e della nobile veneziana Marina Grimani, mostrò fin da giovinetto un ingegno brillante e irrequieto. Nel magnifico palazzo dei Pepoli sul Canal Grande entrò in contatto con l’alta società veneta e poté attingere alla ricchissima biblioteca paterna, dove accanto ai classici volgari figuravano romanzi e la produzione drammatica sei-settecentesca e dove era solidamente rappresentata anche la cultura scientifica. Pepoli fu autore di intrecci, attore, cantante, ballerino, regista ed editore, ma il teatro restò la sua passione prima e totalizzante. La sperimentazione di forme ibride e un intreccio giocato tra verosimiglianza e concessioni al meraviglioso sono la caratteristica della sua «fisedia», una forma teatrale teorizzata in provocatorio antagonismo con il ben più celebre Vittorio Alfieri. Ancora oggi sulla sua figura incombe il ritratto del memorialista Antonio Longo che lo inchioda a un giudizio di mediocrità per la volubilità di un genio comunque indiscutibile.
[14] Johann Christoph Friedrich von Schiller (Marbach, Württemberg, 1759 – Weimar 1805), poeta, drammaturgo e pensatore, entrò nell’accademia militare di Solitüd, trasferita poi a Stoccarda, dove studiò legge e più tardi medicina. Dopo alcuni tentativi poetici (tra cui l’Inno alla gioia, reso celebre da Beethoven che lo musicò nella nona sinfonia), compose il dramma Die Räuber (I Masnadieri, 1781), veemente e anarchica esaltazione della libertà individuale al di sopra d’ogni convenzione sociale e morale. Successivamente scrive La congiura di Fiesco a Genova (Die Verschwörung des Fiesco zu Genua, 1783), Intrigo e amore (Kabale und Liebe. Ein bürgerliches Trauerspiel, 1784), la novella Der Verbrecher aus Infamie, (1786, scritta in collaborazione con Jakob Friedrich von Abel) e Don Carlos (Don Karlos, Infant von Spanien, 1787). Ma è con la trilogia del Wallenstein (composta da Il Campo di Wallenstein, i Piccolomini, La morte di Wallenstein) che inizia la grande stagione dei capolavori di Schiller: nel 1800 scrive Maria Stuart, nel 1801 La pulzella d’Orléans (Die Jungfrau von Orléans), nel 1803 La sposa di Messina (Die Braut von Messina), nel 1804 il Guglielmo Tell (Wilhelm Tell). Il motivo della libertà percorre quasi tutta l’opera di Schiller, e sempre il messaggio etico è inscindibile da quello artistico. questa è anche la ragione per cui egli fu esaltato, o criticato, a seconda del peso che si dette ai valori etico-nazionali ai tempi dell’idealismo liberale o del materialismo positivista. Sennonché in questa cornice di alta nobiltà del sentire, di eloquenza travolgente e categorica, con il sussidio di un linguaggio smagliante, filosoficamente esatto, e di un ritmo serrato nel verso e nella prosa, Schiller fu maestro nel tracciare indimenticabili profili di una estrema virilità e di una tragicità assoluta.
[15] Johann Georg Adam Forster (Nassenhuben, 1754 – Parigi, 1794), naturalista, etnologo, giornalista e scrittore – che anticipò la molteplicità d’interessi di Alessandro von Humboldt e direttamente contribuì alla sua prima formazione – accompagnò in giovane età il padre (Johann Reinhold Forster) in vari viaggi e spedizioni di esplorazione, tra cui il secondo viaggio nel Pacifico di James Cook. Il suo resoconto di quel viaggio, intitolato A Voyage Round the World, contribuì significativamente all’etnologia delle popolazioni Polinesiane, rimanendo ancora oggi un lavoro di grande considerazione. A seguito di questa pubblicazione Forster venne considerato uno dei fondatori della moderna letteratura scientifica di viaggio. Figura centrale dell’Illuminismo, prosatore diseguale ma spontaneo, colorito e immediato, precursore per molti aspetti dell’età romantica, disperse, senza giunger mai alla necessaria concentrazione, il suo ingegno. Dedicatosi completamente alla causa della rivoluzione, quando l’esercito rivoluzionario francese occupò Magonza (1792) partecipò attivamente alla fondazione della Repubblica di Magonza, la prima repubblica costruita su principi democratici in Germania. Nel 1793 si recò come delegato a Parigi per ottenere che la nuova Repubblica venisse riconosciuta come stato indipendente dalla Francia. La richiesta venne accolta, ma le truppe prussiane e asburgiche ripresero il controllo dei territori perduti, lo status precedente venne ripristinato e Forster venne dichiarato fuorilegge e messo al bando dalla Germania. Non Riuscì più a ritornare in patria poiché a soli trentanove anni morì improvvisamente a Parigi.
[16] Claude-Adrien Helvétius (Parigi, 1715 – Versailles, 1771) studiò presso il collegio gesuita Louis-Le-Grand e nel 1738, su raccomandazione della regina Maria Leszczyńska, moglie del re di Francia Luigi XV, venne nominato esattore delle imposte regie, che gli consentì di accumulare in un decennio un notevole patrimonio. Ritiratosi nel 1748 a vita privata, Helvétius poté dedicarsi alla stesura di un ampio trattato filosofico, De l’esprit, che comparve a Parigi alla fine del luglio 1758. Per i suoi contenuti materialisti e sensisti, il libro venne giudicato ben presto scandaloso. Attaccato sia dai gesuiti sia dai giansenisti, dal parlamento e dalla Sorbona, Helvétius dovette rifugiarsi per qualche tempo in Prussia. Dopo umilianti ritrattazioni del suo pensiero, riuscì tuttavia a salvarsi dal pericolo di perdere la vita e le sue proprietà. Tale scandalo giovò alla fortuna del libro che fu subito ripubblicato clandestinamente e venne tradotto in diverse lingue, divenendo il necessario corredo delle letture degli intellettuali di fine secolo. Tant’è che quando Helvétius si recò in Inghilterra nel 1764 e in Prussia nel 1765 venne ricevuto con tutti gli onori spettanti a un illustre personaggio. Egli, comunque, in vita sua non pubblicò altro: il poema Le Bonheur e il trattato De l’homme, che riprendono le tesi di De l’esprit, uscirono postumi.
[17] Ossian è un leggendario guerriero e poeta della tradizione scozzese, protagonista dell’omonima epica (Ciclo di Ossian), che si suppone vissuto nel III secolo d. C. La vicenda letteraria di Ossian scoppiò allorché il poeta James Macpherson (1736-1796) pubblicò anonimamente nel 1760 Fragments of Ancient Poetry collected in the Highlands of Scotland, and translated from the Gaelic or Erse language, fingendo di aver tradotto fedelmente le originali poesie di Ossian, mentre in realtà si basò su dei frammenti e inventò molti “canti”. Il successo delle sue presunte traduzioni, nondimeno, fu straordinario. La prosa potente, il riferimento a una natura selvaggia, ne fanno un’opera fondamentale del Preromanticismo, tanto che persino Foscolo e Goethe lo lessero entusiasticamente.
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