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Marco Michelini | 7 Maggio 2023

Linea Biografica

Discendente dall’illustre famiglia piemontese dei conti di Salmour, nacque a Torino nel 1592, ultimo dei nove figli del conte Alessandro – poeta e architetto, autore dell’elegante poema didascalico La Sereide (1585) – e di Margherita Mulazzi, nobildonna astigiana. La famiglia paterna dei conti di Salmour, insediata a Fossano (Cuneo) da alcune generazioni, vantava al proprio interno letterati (come, appunto, il conte Alessandro), religiosi agostiniani e gesuiti, e membri della magistratura e del governo di Casa Savoia, alla quale era strettamente legata. Emanuele compì probabilmente i suoi primi studi in casa, affidato in particolare alle cure del secondogenito Lodovico, lettore di diritto all’Università e amico di Giovan Battista Marino. Successivamente entrò nel collegio dei gesuiti a Torino, dove rimase fra il 1605 e il 1611 per gli studi inferiori (grammatica, umanità, retorica). Il 10 novembre 1611 entrò nella Compagnia di Gesù; al termine del biennio di probazione fu ammesso ai voti semplici e destinato, per proseguire gli studi, al collegio di Brera. Fu Magister rhetoricae a Cremona nell’anno scolastico 1618-19 e i due anni successivi (1619-20 e 1620-21) nel Collegio milanese, dove insegnavano “i migliori maestri”. Per i suoi allievi scrive, tra il 1619 e il 1621, secondo i moduli tipici del teatro gesuitico, la tragedia cristiana Hermenegildus, in versi latini, rappresentata nel Collegio di Brera il 26 agosto 1621, ampiamente mutata e “trasposta” in italiano molti anni più tardi, e stampata nel 1661 con il titolo Ermenegildo insieme all’Edipo e all’Ippolito.

Nel giugno del 1635 uscì dalla Compagnia di Gesù per dissensi disciplinari, rimanendo sacerdote secolare. L’esperienza religiosa gli fornì una solida cultura umanistico‑filosofica e gli consentì inoltre di esprimersi come oratore e come insegnante. Al periodo gesuitico risalgono i Panegirici sacri (1633), tra i quali spicca il discorso accademico Il giudicio, breve ma importante trattato sugli stili dell’oratoria sacra. Dopo aver lasciato la Compagnia Tesauro fu al seguito del principe Tommaso Francesco di Savoia‑Carignano[1] prima nelle Fiandre e poi in Piemonte (1635-42), ne divenne lo storiografo ufficiale e svolse per lui delicate missioni diplomatiche.

Rientrato a Torino, nel 1642 assunse gli incarichi di precettore, storico ed epigrafista della corte sabauda, presso la quale operò per oltre tre decenni, guadagnandosi una fama europea. In quegli anni Tesauro svolse un’attività intensa, componendo epigrafi, elogi, insegne, orazioni, panegirici per i membri della Casa reale e per le personalità più importanti. Fu anche iconologo e autore dell’intero programma decorativo della Venaria Reale[2].

Nel 1666 la Municipalità di Torino approvò il progetto di un’edizione di tutte le sue opere e conferì al Tesauro il compito di scrivere una Historia dell’augusta città di Torino, alla quale egli poté attendere però solo parzialmente poiché nel febbraio 1675 morì improvvisamente a Torino. Per sua volontà fu sepolto nella cappella gentilizia della chiesa di S. Francesco a Fossano. Il primo volume (dei sei previsti) dell’erudita Historia uscì postumo nel 1679.

Opere

Autore di numerosissime opere che vanno dalla storiografia (Campeggiamenti overo istorie del Piemonte, Torino 1643-1645; Campeggiamenti di fiandra, Torino 1646; Origine delle guerre civili del Piemonte, Torino 1673), alla tragedia (Ermenegildo, Edipo, Ippolito, Torino 1661), ai panegirici sacri e profani (Panegirici, Torino 1655-1660), alla filosofia morale (Filosofia morale, Torino 1670), Emanuele Tesauro deve oggi la sua fama maggiore al Cannocchiale aristotelico (pubblicato a Torino nel 1650 e in edizione definitiva, sempre a Torino, nel 1670 con successive numerose ristampe), trattato fondamentale sullo stile e sulla concezione retorica, emblematica ed allegorica del XVII secolo. Grazie alla sistemazione teorica compiuta da Tesauro, il Barocco cessò di essere una moda per proporsi come espressione della mentalità del tempo. Quindi esso non è soltanto un manuale normativo per futuri predicatori tesi a meravigliare e persuadere con parole che siano immagini, ma anche una guida, una chiave ermeneutica per chi si addentri nella selva della retorica del Seicento.

Il concettismo[3] barocco trova in quest’opera la sua trattazione più compiuta e coerente, che colloca Tesauro fra le figure più rappresentative della cultura del suo tempo e ne fa uno dei maggiori interpreti e teorizzatori dell’esperienza letteraria barocca, accanto allo spagnolo Baltasar Gracián[4], autore del celebre trattato Agudeza y arte de ingenio (Huesca 1648). «Il Cannocchiale Aristotelico deriva il suo estremo interesse dall’essere un ricchissimo documento della concezione retorica, emblematica ed allegorica del XVII secolo, in grado di riflettere una nuova esperienza del linguaggio in virtù della quale il sapere barocco si articola in termini diversi e originali, anche se non oppositivi, rispetto al sapere rinascimentale e classico; d’altra parte, ed in pari tempo, esso riveste il pregio particolare di lasciar trasparire nettamente la filigrana di questo sapere più remoto e arcaico, del quale si offre come l’estrema metamorfosi, proprio nel momento in cui stava per essere cancellato dalla scienza meccanica e quantitativa del Seicento»[5].

Come il modello geocentrico esce distrutto dalla sperimentazione che Galileo Galilei conduce con il suo cannocchiale, così i principi fondamentali del fare artistico sono modificati dall’opera di Tesauro, che alla rivoluzione galileiana rimanda fin dal titolo. Nel trattato, l’attenzione è rivolta soprattutto alla metafora che per Tesauro è la figura retorica per eccellenza, in quanto riesce a collegare fenomeni lontani attraverso l’analogia che le sta alla base. In un costante riferimento alla lezione e alle opere di Aristotele, in particolare alla Retorica, «lucidissimo cannocchiale per esaminare tutte le perfezioni e imperfezioni dell’eloquenza», l’opera è rivolta a formulare una trattazione sistematica dell’«argutezza» barocca articolata in una minuziosa analisi dei vari elementi che concorrono alla sua espressione e che costituiscono le componenti essenziali della tecnica espressiva barocca.

Ma non solo nella trattazione della metafora – che il Tesauro definisce «il più ingegnoso e acuto, il più pellegrino e mirabile, il più gioviale e giovevole, il più facondo e fecondo parto dell’umano intelletto» – Il Cannocchiale ha i suoi punti di maggior interesse, ma pure nell’elaborazione del concetto di «meraviglioso» o «mirabile»; nella distinzione fra «ingegno», cioè la facoltà creativa e poetica, che prelude alla «fantasia» del Vico, e «intelletto», cioè la facoltà puramente razionale e logica; fra «persuasione retorica» o «cavillazione arguta» (entimema urbanum), propria della rappresentazione ingegnosa e dilettevole, e la «dimostrazione dialettica», propria della logica e della concettualizzazione; nella teoria dell’emblema in cui la rappresentazione allegorica del reale propria del Barocco trova la sua forma espressiva più adeguata.

In ambito storiografico Tesauro ha il grande merito di non essersi limitato alla storia del Piemonte o delle campagne militari vissute i prima persona al seguito del principe di Carignano, ma, riallacciandosi direttamente a Giordane[6], di essere stato tra i primi a interessarsi della storia medievale dei popoli del Nord Europa, superando la stagione rinascimentale incentrata soprattutto sulle antichità greche e romane. Tesauro può essere a buon diritto considerato un «antesignano degli studi altomedievali, con la lussuosa edizione in folio, con rami a piena pagina, Del regno d’Italia sotto i barbari (1644), che precedeva di una decina di anni l’Historia Gothorum, Vandalorum et Langobardorum (1655) di Grozio[7]»[8].

Nel Tesauro il termine “barbari” ha un valore puramente generico; infatti egli ci squaderna una galleria di re, senza alcun riferimento culturale e civile, caratterizzati in modo letterario-drammatico tipicamente barocco: Alboino, Autari, Liutprando, ecc. (tanto per citarne alcuni), spiccano quali grandi personaggi, nel bene e nel male, superando il tradizionale concetto di barbarie. E da ciò deriva il suo giudizio finale sul regno longobardo: «Regno non men famoso per le malvagie attioni che per le buone: barbaro nel conquistare, et benigno nel conservare: autor delle leggi e distruggitore: insegnator della pietà, et della ferinità: pernicioso ugualmente, et profittevole alla Chiesa; alla quale molto rapì et molto donò; molto scemò di religione, et molto ne accrebbe». In una più ampia prospettiva, provvidenzialistica, sotto l’Impero romano si iniziò la distruzione del paganesimo: sotto i Goti, benché ariani, quest’opera è portata a termine «hauendo intanto Iddio proveduto, che nel seguente Regno de’ Longobardi, come più humano, ancor l’Arriana pestilenza fosse purgata».

 

***NOTE AL TESTO***

[1] Tommaso Francesco di Savoia  (Torino, 21 dicembre 1596 – Torino, 22 gennaio 1656), principe di Carignano, marchese di Salussola, marchese di Bosque e di Châtellard, marchese di Racconigi e di Villafranca, gran maestro di Francia, cavaliere dell’Annunziata, era figlio di Carlo Emanuele I di Savoia e di Caterina Michela d’Asburgo ed è stato il capostipite del ramo Savoia-Carignano. Nel 1620 divenne infatti, per disposizione del padre, Principe di Carignano dando origine alla linea dei Savoia-Carignano, dalla quale discenderanno i futuri Re d’Italia di Casa Savoia.

[2] Il palazzo di caccia costruito dall’architetto Amedeo di Castellamonte per Carlo Emanuele II.

[3] Il concettismo è uno stile letterario caratteristico della letteratura barocca spagnola della fine del XVI secolo al XVII secolo, del quale Alonso de Ledesma fu l’iniziatore. Dalla Spagna il concettismo si diffuse rapidamente in tutta Europa.

[4] Baltasar Gracián y Morales (Belmonte de Calatayud, 1601 – Tarazona, 1658), gesuita, scrittore e filosofo spagnolo, si dedicò alla prosa didattica e filosofica che si sviluppò durante il cosiddetto Siglo de oro. La produzione letteraria di Gracián si può ascrivere alla corrente letteraria chiamata concettismo. Egli creò uno stile basato su frasi brevi, molto personale e denso, concentrato e polisemico, nel quale domina il gioco di parole e l’associazione ingegnosa fra parole e idee. Il risultato è un linguaggio laconico, pieno di aforismi e capace di esprimere una ricca gamma di significati.

[5] Rigoni Mario Andrea, Emanuele Tesauro, in Dizionario critico della letteratura italiana, III, UTET, Torino, 1974.

[6] Giordane, o Giordano (?? – 550 circa), di probabile origine gotica, è stato uno storico bizantino di lingua latina del VI secolo. Alto funzionario della corte di Costantinopoli, scrisse il De origine actibusque Getarum, che altro non è se non un riassunto della perduta Storia dei Goti di Cassiodoro. Altra opera di Giordane è il De summa temporum vel origine actibusque gentis Romanorum, una storia universale, dalle origini al tempo presente (547), con particolare attenzione al popolo romano.

[7] Hugo de Groot, da cui l’italiano ugone (o Ugo) Grozio (Delft, 1583 – Rostock, 1645) fu giurista, filosofo, teologo, umanista, storico, poeta, filologo, nonché politico, di nazionalità olandese. La sua opera più importante, De iure belli ac pacis (1625) contribuì, durante i travagliati anni delle guerre di religione europee, alla formulazione del diritto internazionale moderno, questo nonostante il giudizio della critica contemporanea abbia ridimensionato la sua originalità speculativa [n.d.r].

[8] Bertelli Sergio, Dal post-Rinascimento al Risorgimento, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Storia e Politica, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2013.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SEICENTO»

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