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Marco Michelini | 2 Aprile 2023

Oltre agli scrittori dialettali e popolareschi, nonché ai compilatori di resoconti dei loro viaggi, assumono, nel corso del seicento, «una nuova e più valida fisionomia altri scrittori di prose, che non perdono mai di vista, o raramente e per eccezioni, la prospettiva dell’acutezza, o semplicemente perseguita nelle forme espressive, o più concretamente collegata ad un contenuto più o meno precisato. Più particolarmente si potrà dire che, come nella poesia barocca vanno registrate varie posizioni e sfumature a seconda del grado con cui si aderisce da parte dei singoli poeti alle proposte mariniane teorizzate in seguito dal Tesauro, così nella prosa si possono rintracciare diverse tendenze più o meno accentuatamente barocche. Anche se regolate su di un diverso dominio e una diversa pratica dell’acutezza e della metafora, tutte appaiono tuttavia fondate su uno slancio di immagini bizzarre, usufruenti di un lessico ricco e sovrabbondante, ora dotto ora proprio della lingua parlata, tessute su di una sintassi complessa e preziosa. Si dovrà poi constatare che la prosa segue cronologicamente alla poesia barocca nel corso del secolo, prolungandosi fino alle zone estreme di esso anche nelle sue forme più tipiche ed esagerate».

Il maggiore rappresentante della prosa barocca, nel quale veramente questa può essere detta “prosa d’arte” per la preziosità, la ricercatezza e anche la dottrina con cui viene elaborata»[1], è il gesuita Daniello Bartoli, il cui stato di religioso o di ecclesiastico è quasi un mero dato biografico senza conseguenze né riflessi immediati nella propria opera. Altresì vi sono scrittori, come il frate genovese Francesco Fulvio Frugoni, che per le proprie prove scrittorie – prediche, opere devote e storie romanzate – si affidano interamente ad un vero e proprio compiacimento basato sull’abile impiego delle forme espressive.

A queste tendenze, che pur tuttavia si muovono in un alveo solidamente barocco, non mancarono le opposizioni, che si inserivano nel clima controriformistico dell’epoca, soprattutto dovuto ai padri predicatori, che tanta importanza ebbero nella storia e nella cultura del Seicento. La cifra di questa produzione è uno stile fiorito e ricco, estremamente artificioso e concettuale, spesso un puro gioco intellettualistico; un linguaggio, dunque, che in una certa ripetitività funzionale utilizza i molteplici strumenti rettorici della letteratura barocca – quali le antitesi, le iperboli, le esclamazioni, l’artificiosa manipolazione dei “concetti predicabili”, come ha scritto il Sapegno – per suscitare l’interesse e la meraviglia in un pubblico religioso. In tale genere rientrano scrittori come Giovanni Azzolini[2], padre Emanuele Orchi[3], monsignor Paolo Arese[4] e il gesuita romano Paolo Segneri, che viene considerato il maggiore oratore del Seicento.

Daniello Bartoli

Nato a Ferrara nel 1608, frequentò dapprima il Collegio dei Gesuiti e, non ancora sedicenne, entrò in quell’Ordine come novizio. Inviato nel 1625 a Piacenza, studiò per un anno retorica e poi, a Parma, filosofia; ma acquistata ben presto grande fama tra i condiscepoli, fu lui stesso incaricato di insegnare retorica. Nel 1633 iniziò anche a studiare teologia, ma eccessivamente affaticato, avendo una salute cagionevole, fu mandato dai suoi superiori a Milano, all’università di Brera, e in seguito a Bologna per proseguire gli studi; dopo averli completati, il Bartoli chiese ripetutamente di essere assegnato alle missioni, ma i superiori decisero di trattenerlo in patria e incaricarlo dell’insegnamento della filosofia.

Per necessità contingenti, però, ovvero la mancanza di un sacerdote in un pulpito durante la Quaresima, venne avviato alla predicazione, compito che svolse con grande entusiasmo. Si recò, così, nel 1637 a Piacenza, e poi negli anni seguenti a Mantova, Modena, Parma, Bologna. Per la sua notorietà di oratore sacro, ormai grandissima, fu invitato anche a Ferrara, Firenze, Lucca, Genova, Torino, Roma, Napoli, Palermo, Malta. Nel 1643, a Pistoia, fece la professione solenne i quattro voti religiosi e due anni più tardi esordì nel mondo letterario con la pubblicazione dell’Uomo di lettere difeso ed emendato.

Nel 1646, mentre si dirigeva verso Palermo, in occasione della Quaresima, la galera su cui era imbarcato naufragò. Il Bartoli, con i suoi compagni, riuscì a salvarsi a stento, ma andò perduto il prezioso manoscritto delle sue prediche. Il pericolo da lui corso nel naufragio e i danni alla salute che ne ricavò indussero il generale Vincenzo Carafa[5] ad affidargli il compito di storiografo ufficiale della Compagnia di Gesù e gli assegnò come dimora stabile la Casa dei professi in Roma. Ma solo nel 1648, dopo aver ancora predicato a Napoli e a Malta, il Bartoli rinunciò completamente alla sua attività di predicatore, che gli era stata tassativamente proibita dai superiori.

A partire da quel momento Bartoli risiedette stabilmente a Roma, lavorando instancabilmente al colossale progetto di una storia complessiva dei gesuiti, l’Istoria della Compagnia di Gesù, che avrebbe coperto tutti i continenti e le singole nazioni dove questi avevano operato. Nella tranquillità del periodo romano – interrotta soltanto da qualche viaggio a Loreto e, forse, a Venezia – egli condusse una vita semplice e solitaria, priva di avvenimenti esteriori, dedicandosi con tenacia ed impegno alla grandiosa composizione dell’Istoria ed a numerose altre opere di diverso valore, ma assai importanti, generalmente, a comprendere la posizione e la personalità di questo scrittore gesuita. Nel 1671 fu nominato Rettore del Collegio Romano, l’attuale Università Gregoriana, ma questa carica, tutt’altro che decorativa e che egli accettò senza entusiasmo, gli portava via troppo tempo, sicché nel 1673 fu lasciato libero di tornare al suo tavolo di lavoro.

A seguito di un improvviso malore, la morte lo colse nel 1685, mettendo fine alla sua intensa vita, ricca di meditazione e di studio.

«L’importanza del Bartoli è difficilmente valutabile, se non si tiene conto dell’ambiente e della situazione storico – culturale in cui egli si trovò ad operare. Non si può resistere alla tentazione, infatti, di considerare il Bartoli lo scrittore più rappresentativo di quel periodo delle nostre lettere, fra il 1640 e il 1680, contrassegnato innegabilmente dal predominio della cultura ecclesiastica e in particolare gesuitica, uscita dalla Controriforma. Da questa condizione di forza, da questo impegno gigantesco di espansione, che valica i confini d’Italia per raggiungere tutti i punti d’Europa e del mondo, deriva senza dubbio – oltre che da una disposizione naturale del carattere – quel particolare tono di sicurezza, di serenità fiduciosa, di ampia e dignitosa apertura, che caratterizza tutta o quasi tutta l’opera del Bartoli, che, molto probabilmente, non avrebbe potuto neanche pensare ad un progetto così colossale come quello che contraddistingue l’Istoria della Compagnia di Gesù senza la convinzione di costruire su basi storicamente solide e durature»[6].

L’approfondimento etico e religioso, la ricerca e la meditazione sulla vita, e soprattutto sull’uomo nel suo rapporto diretto con Dio – motivo intorno a cui ruota il discorso del Bartoli nella maggior parte della sua produzione – costituiscono esplicitamente la tematica di alcune operette di tono oratorio, costruite forse sugli argomenti delle prediche. Nel 1650 fu pubblicata La Povertà contenta, descritta e dedicata ai ricchi non mai contenti; nel 1653 Dell’eternità consigliera; nel 1667 L’uomo al punto, cioè in punto di morte, ammonimento ai peccatori perché riflettano sulla morte; nel 1670 Dell’ultimo e beato fine dell’uomo, in due libri; nel 1675 Delle due eternità dell’uomo, l’una in Dio, l’altra con Dio, e, legata a questa, Le grandezze di Cristo in se stesso e le nostre in Lui; infine, i sei Pensieri sacri, scritti al termine della vita. Allo stesso intento si riconducono opere come La geografia trasportata al morale (1664) e Dei simboli trasportati al morale (1677); ma qui l’attento e intellettualistico lavoro con cui l’autore ricerca i simboli, attraverso i quali esprimere la grandezza divina e la riflessione sulla vita e sulla morte dell’uomo, rivela un gusto più tipicamente barocco.

La giovanile operetta Dell’eternità consigliera è appunto già indicativa in tal senso, poiché presenta tutti i moduli tipici dell’oratoria sacra, utilizzando ogni strumento linguistico – le interrogazioni, l’exemplum, le contrapposizioni – per indurre gli uomini alla meditazione. Nei paragoni che si susseguono con un ritmo gradualmente crescente – e non manca un certo gusto seicentesco per la ricerca di immagini multiformi – si coglie l’angoscioso fluire della vita nel “pelago” dell’eternità, in quegli “infiniti spazi” da cui levita un senso cosmico. «A parte Galileo, nessuno in fondo aveva ancora espresso con altrettanta forza, di nuovo in una sfera di risonanza leopardiana […], la sensazione tra “attonita” e “smarrita”, di ritrovarsi “perduto nell’immensità di que’ vastissimi spazi”»[7].

Nell’ultimo periodo della sua vita, compose anche opere di argomento scientifico (La tensione e la pressione disputanti qual di loro sostenga l’argento vivo ne’ cannelli dopo fattone il vuoto, 1677; Del suono, de’ tremori armonici e dell’udito, 1679; Del ghiaccio e della coagulazione, 1681), dove non mancano, però, spunti morali e religiosi, in quanto lo spettacolo della natura, in cui necessariamente si avverte la presenza di una mente creatrice, predomina su qualunque altro motivo, determinando d’altra parte quel processo, tipico del Bartoli scrittore e cristiano, di riavvicinamento a Dio attraverso l’ammirazione del mondo terreno.

«Il Bartoli ebbe inoltre un’inclinazione vivissima – né poteva essere altrimenti in uno scrittore come lui – per i problemi retorici e grammaticali. La sua prima opera, non a caso, è dedicata al tentativo di delineare una figura d’intellettuale giudizioso e moderno: anche se L’uomo di lettere difeso ed emendato non può dirsi opera di retorica nel senso stretto del termine, è vero però che larghi brani vi sono dedicati alle principali questioni, tecniche e stilistiche, dello scrivere»[8]. L’opera delinea la figura ideale del letterato, i difetti morali e formali da evitare, il concettismo; e affronta, inoltre, i problemi più strettamente legati al mestiere stesso dello scrittore: l’esigenza di conciliare i momenti spirituali con quelli culturali, e la necessità di vivere in un tradizionale rapporto di mecenatismo, unica soluzione per il letterato che deve essere libero da preoccupazioni economiche per dedicarsi serenamente ai suoi studi. Egli critica e rifiuta anche, in maniera decisa e severa, quello che lui chiama lo “stile moderno e concettoso”, tratteggiato con pungente ironia, da cui compare anche una critica per il gusto barocco. Questa condanna è rivolta non tanto al concettismo in sé, talora utile per abbellire l’esteriorità del discorso, quanto all’uso eccessivo e smodato che ne fanno gli scrittori seicenteschi, preoccupati di “inventare” continuamente, in un multiforme gioco creativo, “ingegnose sottigliezze” che spesso risultano “sconciature o sconcerti” e denunziano tutta la loro vacuità. Più specificamente dedicati, invece, ai problemi linguistici sono Il torto e il diritto del Non si può dato in giudicio sopra molte regole della lingua italiana (1655), apparso sotto lo pseudonimo di Ferrante Longobardi, ed il trattato Dell’ortografia italiana (1670).

Ma la sapienza artistica e il senso di profonda religiosità del Bartoli si realizzano compiutamente ne La ricreazione del savio, che è una delle sue prove migliori. L’opera vuole essere un inno di ringraziamento a Dio per la meravigliosa perfezione e l’armoniosa bellezza del mondo da Lui creato. C’è, allora, lo stupore attonito del cristiano, che percepisce la vita divina in ogni manifestazione più varia e più complessa della natura; quello dell’uomo – unico essere a cui Dio ne ha dato la capacità – che intuisce nel “teatro del mondo” il “miracolo” della creazione; ed inoltre il compiacimento dell’artista che ricerca valori semantici sempre nuovi per plasmare e arricchire il creato, in ogni sua sfumatura. Così l’abilità formale, la descrizione puntuale, nata da un sottile e raffinato lavoro intellettuale, il gusto coloristico ed espressivo assumono nella prosa del Bartoli la funzione di rappresentare in un armonico scenario il “meraviglioso lavoro” dell’artefice della natura; e anzi il rapporto con Dio si realizza proprio – come è stato scritto – attraverso il mondo creato, attraverso la meraviglia che se ne sprigiona, una meraviglia che assume un valore mistico e religioso.

I momenti poetici di quest’opera, così come anche nei trattati scientifici, nascono in quelle pagine in cui lo scrittore con sguardo contemplativo ed ammirato e con autentica commozione entra nella realtà cristiana dell’universo per scoprire la presenza creatrice di Dio nelle meraviglie dei paesaggi, ma anche nei frutti, nei fiori, nelle pianticelle, negli animali, nelle piccole cose della natura, lì dove proprio si fa più grande l’arte sublime del Creatore.

Si pensi alla celebre pagina delle chiocciole – momento esemplare di prosa d’arte – in cui viene rappresentata, con un’abile inventività linguistica e con un efficace virtuosismo descrittivo, la varietà e la bellezza di quei piccoli animali, che sono una delle cose “più ammirabili della natura”, e da cui soprattutto – e qui si rivela l’intento pedagogico del Bartoli – si può trarre “alcun profittevole conoscimento della sapienza di Dio”. La descrizione, minutissima e preziosa, degli “innumerabili” gusci delle chiocciole sembra rispecchiare i nuovi interessi scientifici del secolo, ma l’entusiasmo sempre nuovo per una natura che nella molteplice apparenza di forme e di fattezze dimostra la sua perfezione, e il continuo passaggio dal mondo terreno al mondo divino chiariscono l’autentico motivo ispiratore dell’opera, che è essenzialmente un atto di devota gratitudine a Dio creatore.

Con i cinque libri Della vita e dell’Istituto di Sant’Ignazio fondatore della Compagnia di Gesù (1650), il Bartoli iniziava la sua Istoria della Compagnia di Gesù, opera che fu per il Nostro una “lunga e incredibilmente noiosa fatica” per lo scrupoloso, minuzioso e snervante spoglio nonché catalogazione di documenti, lettere e memorie, da lui eseguito senza soste. Ma l’opera, più che un’obiettiva ricostruzione storica e cronachistica, è l’apologia dei missionari cattolici e del fervore della loro carità. Il materiale, ricavato dalle relazioni dei confratelli missionari, rielaborato con una partecipazione assolutamente personale, sensibile ed attenta, crea il meraviglioso scenario pittorico in cui si muovono gli eroi dell’epopea gesuita, volta all’edificazione della religione cattolica.

La segreta nostalgia di una vita, a lui negata per ordine dei superiori, accresce la capacità immaginativa del Bartoli, che con gli occhi del credente vede agire nel sublime “spettacolo” del mondo i personaggi del martirologio cristiano, quasi espressione della divina Provvidenza.

La figura, dunque, del cristiano ideale, delineata nell’Istoria, non è quella dell’uomo contemplativo e devoto, ma di quello che agisce “eroicamente” sulla terra, facendo parte di un’ideale milizia religiosa, impegnata in una continua lotta tra i non credenti. Il disegno divino si realizza proprio attraverso le virtù umane – esemplarmente rappresentate, nell’introduzione, dal fondatore dell’Ordine, Sant’Ignazio, da S. Francesco Saverio, da padre Matteo Ricci e da padre Ridolfo d’Acquaviva – che ubbidiscono comunque ad una volontà superiore. La descrizione delle grandi difficoltà e dei disagi affrontati dagli “eroi” gesuiti, diretti nelle terre sconosciute dell’Oriente, accresce il valore della loro profonda pazienza e dello spirito di sacrificio che li animava.

«La fama del Bartoli fu grandissima ai suoi tempi. Ricordiamo qui, perché ci sembra particolarmente significativa, l’alta stima che ne ebbe Francesco Redi. Nei periodi successivi egli fu assai variamente giudicato, a seconda che nel valutarlo prevalessero criteri di carattere ideologico oppure stilistico. Non si può d’altra parte dire che l’elemento discriminante della simpatia o dell’antipatia nei suoi confronti sia determinato dall’adesione o dal rifiuto dei critici verso il cattolicesimo. Intervengono di volta in volta motivazioni più complesse, che sempre però utilizzano il Bartoli come pietra di paragone di un atteggiamento letterario generale, di tendenza. Dopo un declino accentuato durante il Settecento, il Bartoli apre un nuovo periodo della sua fortuna con il purismo e il neoclassicismo»[9].

Il giudizio del Monti, secondo il quale nessuno meglio di Bartoli conobbe i segreti della lingua italiana, culminò nelle entusiastiche lodi che gli tributò Pietro Giordani, pur con gravi riserve circa l’efficacia morale dello scrittore. Fu apprezzato ancora dai massimi scrittori del nostro Ottocento quali Leopardi (che in alcune pagine del suo Zibaldone si esprime con accenti di eccezionale ammistrazione verso di lui), Tommaseo e Carducci.  Francesco De Sanctis, con una nota di chiaro biasimo, definì Bartoli «il Marino della prosa» e gli negò sincerità e sentimento religioso. Il Settembrini, ancora più violento, ne fa addirittura il campione della decadenza del secolo cui appartenne; ed il Cantù negò ogni valore alla sua opera storiografica, considerata un’accozzaglia di «racconti assurdi, miracoli accumulati, notizie false senza fiato di critica e di filosofia, onde come storico Bartoli non può che repudiarsi». L’opera di Bartoli è stata rivalutata dalla critica moderna, soprattutto con Luciano Anceschi, che ha mitigato, se non ribaltato, questi giudizi fortemente riduttivi, e la sua prosa è stata accostata alle grandi produzioni dell’architettura, della scultura e, specialmente, della pittura barocca; tanto che Bartoli è oggi considerato uno dei maggiori esponenti di quell’umanesimo devoto che, riallacciandosi alla docta pietas dei primi umanisti, prende impulso dalla Riforma cattolica in quanto questa aveva riaffermato contro la riforma protestante la dignità intrinseca della natura umana, decaduta, ma non totalmente corrotta dal peccato originale.

Francesco Fulvio Frugoni

Nacque a Genova intorno al 1620, ma si recò presto in Spagna, ad Alcalá e a Salamanca, dove compì i primi studi ed ebbe occasione, nei numerosi viaggi, di conoscere i maggiori letterati del tempo, tra cui forse anche il Quevedo[10].

Nel 1639, ritornato a Genova, entrò nell’Ordine dei Minimi di San Francesco da Paola e partecipò alle riunioni dell’Accademia degli Addormentati; strinse così amicizia con Anton Giulio Brignole Sale, il quale, essendo stato incaricato come rappresentante della repubblica di Genova alla corte di Spagna, lo condusse con sé. Ma il Frugoni interruppe il soggiorno spagnolo con vari viaggi a Genova, in Sardegna ed anche in Olanda, Inghilterra e Francia.

Nel 1652 entrò, a Genova, in casa Spinola al servizio di Aurelia[11], vedova del principe di Monaco Èrcole II Grimaldi[12], alla quale rimase fedele per lunghi anni durante le complicate vicende per la conservazione dell’eredità del marito, giacché la donna all’epoca esclusa dal suocero dai diritti di successione del principato essendo rimasta vedova prima di aver portato a termine la gravidanza del primogenito maschio. Tra il 1661 e il 1662, attiratasi l’ostilità di molti con la pubblicazione del romanzo La vergine parigina, il Frugoni fu esiliato da Genova e si trasferì a Parigi ove s’era già trasferita la Spinola, per perorare la propria causa presso il re di Francia. Nel 1662 i problemi della duchessa si risolsero in quanto, morto il suocero, ella venne ad ereditare tutti i beni della sua casata. Sia Aurelia che il Frugoni partirono dunque da Parigi, ma, mentre l’una si dirigeva a Genova, l’altro si fermò a Torino.

Durante il periodo piemontese lo scrittore coltivò particolarmente i suoi interessi letterari, componendo molte opere e venendo a contatto con altre personalità culturali (tra cui Emanuele Tesauro). Spirito inquieto, peregrinò per l’Italia, recandosi a Piacenza, a Bologna, a Venezia, a Firenze e a Milano. Nel ’79 si fermò a Venezia, dedicandosi alla composizione del Cane di Diogene, che fu pubblicato tra il 1687 e il 1689, poco dopo la morte dell’autore avvenuta circa nel 1686.

Scrittore fecondissimo e multiforme, il Frugoni iniziò la sua attività scrivendo negli anni giovanili un poema giocoso (Guardinfanteide), stampato poi nel 1643 a Perugia sotto lo pseudonimo di Flaminio Filauro. La sua produzione abbraccia, poi, opere di diverso genere, che egli andava scrivendo nel corso delle sue peregrinazioni: il panegirico sacro Il triplicato trionfo (Cagliari 1650), dedicato a Santa Caterina; il romanzo La vergine parigina (Venezia 1661) e la storia romanzata L’eroina intrepida (Venezia 1673); drammi musicali, prediche, ecc.

L’eroina intrepida, in quattro libri, racconta i casi della duchessa Aurelia Spinola dalla sua nascita fino alle complicate vicende per la successione. Il modulo narrativo più tipico del romanzo frugoniano è lo smembramento della struttura principale e l’ampliamento di un processo digressivo a carattere moralistico ed edificante. Allora già qui – come avverrà più compiutamente nel Cane di Diogene – appare l’immagine del “secolo irregolare”, stravolto nell’ordine naturale delle cose e dei valori, spesso per mezzo di un’operazione caricaturale che colpisce la vita contemporanea. Nella rappresentazione del “mondo capovolto”, teatro di illusioni e suggestioni, l’autore individua i momenti chiave di un sistema ormai “rovesciato”, che va perdendo le sue connotazioni più tradizionali: i rapporti umani, i sentimenti, il microcosmo della corte, momento emblematico di tutta la società e la terra stessa.

Durante il soggiorno a Torino scrisse l’opera devota Il Sacro Trimegisto e l’Accademia della Fama, nonché altre numerose composizioni. Anche il periodo che seguì, tra un viaggio e l’altro, non fu meno fecondo: a Venezia, nel 1669, pubblicò il poema epico La Candia angustiata, che gli procurò grandi onori dal senato veneto; e nello stesso anno i Ritratti critici, che in qualche modo preparano il più noto Cane di Diogene; nel 1675 il melodramma L’Epulone, dove le digressioni e gli incastri sul nucleo principale dell’opera acquistano di per sé un notevole interesse letterario.

A conclusione della sua vita – quasi una summa delle precedenti esperienze culturali ed umane – il Frugoni si dedicò alla lunga e laboriosa compilazione de Il Cane di Diogene. L’opera – in cui l’autore, assumendo la voce del cane di Diogene, Saetta, parla in prima persona – è divisa in sette parti, o “latrati”, e comprende dodici racconti satirici, volti a colpire la degenerazione del secolo in ogni suo aspetto: la morale, la vita di corte, la letteratura, i vizi degli uomini, eccetera. Si tratta di una parodia bizzarra del “mondo capovolto” e dei costumi contemporanei (con un gusto per le rappresentazioni grottesche e gli scenari estrosi), di una grandiosa allegoria, dove ogni fatto ed ogni personaggio si prestano ad un gioco di analogie e di simboli, spesso puntualizzati dall’autore stesso nelle postille esplicative che compaiono sul laterale della pagina.

Il pluralismo prospettico, che è un elemento della tecnica narrativa del Frugoni, riappare anche come nota dominante del linguaggio, costituito da una trama ininterrotta di virtuosismi e di esperienze stilistiche sempre nuove e da una dilatata polivalenza semantica; e insieme compaiono lunghi elenchi di aggettivi e di concetti, rime, parole straniere. Perciò l’incalzare degli artifici linguistici, spesso in tensione tra di loro, e l’esasperazione del processo metaforico, con l’accumulo di immagini analogiche, legate a catena così che ognuna richiami la seguente per suono o allusione, trasformano spesso l’operazione parodica in un gustoso gioco deformante, dove una esasperata inventività verbale si sovrappone e quasi si sostituisce ad una più profonda operazione eversiva.

Insomma, ciò che interessa al Frugoni è la rappresentazione della “commedia del mondo”, dove la satira contro una società stravolta nei suoi valori essenziali diventa lo strumento di un fantasmagorico dipinto, affrescato da un linguaggio mutevole e in perpetua metamorfosi – l’unico capace di cogliere il senso più vero di un mondo “al rovescio”, di una realtà perennemente instabile nelle sue molteplici forme di apparenza.

Secondo Lancellotti

Figlio di Ortensio e Camilla Sebastiani, nipote del letterato Filippo Alberti[13], nacque a Perugia nel 1583. Compiuti i primi studi presso i monaci Olivetani, entrò nel 1605 in quell’Ordine, lasciando il nome originario di Vincenzo per assumere quello di Secondo. Fu in un primo tempo inviato nel monastero di Monte Oliveto; poi, nel 1606, a Siena, come predicatore, e quindi nel padovano e nel bresciano. Si acquistò ben presto grande stima e prestigio; ma nel 1611 cadde in disgrazia dei superiori, forse per il suo carattere polemico e difficile. Iniziò da allora una vita inquieta ed avventurosa, peregrinando da una città all’altra: fu dapprima ad Arezzo, poi a Rimini, a Napoli, a Messina, a Roma e nel 1616 di nuovo a Rimini, come maestro dei novizi.

Subito, però, riprese il suo vagabondaggio, recandosi (tra il 1620 e il 1628) a Venezia, a Pavia, a Perugia, a Piacenza, a Milano, ad Ascoli e a Roma. Nel 1629, durante il soggiorno romano, il Lancellotti venne richiamato a Perugia per contrasti sorti col Generale dell’Ordine e fu condannato al carcere monastico, quindi relegato nel monastero di S. Andrea di Volterra. Dopo aver più volte perorato la propria causa presso le autorità ecclesiastiche, riuscì ad ottenere una piena riabilitazione dalle accuse. Successivamente si recò a Siena, a Roma e a Perugia. Decise, infine, dopo aver predicato a Pisa e a Genova, di trasferirsi in Francia, dove pose la sua residenza prima a Lione, poi a Parigi, ove si spense nel 1643.

Spirito bizzarro e capriccioso, il Lancellotti tra i vagabondaggi e le prediche trovò il tempo di dedicarsi a numerose composizioni di carattere morale, religioso, filosofico, teologico, politico; ma la sua posizione non secondaria nella cultura barocca è legata soprattutto a quelle opere che, rifiutando l’esemplarità storica – e quindi il fine didascalico – e affermando invece la superiorità dell’«oggidì» sul passato, rispecchiano una viva esigenza del secolo (precorrendo le polemiche che sarebbero nate poco tempo dopo in Francia attraverso la Querelle des anciens et des modernes del 1687): la tendenza a riscoprire nuovi valori rispetto alla tradizione e a superare schemi ormai logori.

Il problema della modernità, assai dibattuto nel Seicento, e spesso con toni pedanti ed eruditi – il capovolgimento insomma del concetto di “imitazione” rinascimentale, il rifiuto dei canoni tradizionali e l’affermazione di una nuova libertà compositiva e tematica – viene affrontato dal Lancellotti in una chiave paradossale e aneddotica, che rivela, però, un notevole e autentico interesse per quel rinnovamento totale dell’esperienza che nel nostro autore doveva essere dettato, forse, anche dal suo carattere anticonformista e stravagante.

Iniziò la sua attività di letterato con l’Historia congregationis Sanctae Mariae Montis Oliveti, pubblicata a Venezia nel 1623; nello stesso periodo diede alle stampe L’oggidì, overo il mondo non peggiore né più calamitoso del passato, dedicato ad Urbano VIII; l’argomento – il rifiuto del passato e la lode dei moderni – venne ripreso nella seconda parte del volume L’oggidì, overo gl’ingegni non inferiori a’ passati, edita nel 1636. Contemporaneamente il Lancellotti pubblicava i Farfalloni degli antichi istorici (1636-37), opera in cui ritorna polemicamente la critica alla tradizione attraverso la rilevazione di clamorosi “errori” dell’antica storiografia. Quattro anni più tardi, nel 1640, lo scrittore compose Chi l’indovina è savio, overo la prudenza fallacissima, dove forse la triste esperienza autobiografica lo induce ad osservare cinicamente che nel nostro mondo, vittima dell’arbitrio del caso, l’unica saggezza consiste, in fondo, nell’«indovinarla».

È invece andata perduta una sua grandiosa opera l’Acus nautica, sive expeditissima ad quamcumque de re qualibet orationem datis e tanta copia scriptoribus via, che doveva essere un “inventario”, un’enorme enciclopedia di tutte le attività umane, in cinquanta “gran volumi”, contenenti più di “trentamila dizioni, parole, titoli o capi”.

Paolo Segneri

Nacque a Nettuno nel 1624, primogenito di diciotto figli, da Francesco, discendente da una famiglia aristocratica di Firenze, e da Vittoria Bianchi, originaria di Roma. Ricevette la prima educazione nel Collegio dei Gesuiti a Roma e nel 1637, appena tredicenne, entrò nel noviziato col desiderio di dedicarsi un giorno alle missioni. Conclusi gli studi di filosofia, il Segneri ebbe per tre anni l’incarico di insegnante di retorica nel Collegio romano della Compagnia. Ordinato sacerdote nel 1653, fu inviato, poi, come insegnante di grammatica nel Collegio a Pistoia.

Privato anche lui, come il Bartoli, della gioia di poter partire come missionario nelle lontane terre dell’Asia, si dedicò tra il 1665 e il 1692 alle missioni rurali, visitando molte città dell’Italia centro‑settentrionale, che raggiungeva a costo di notevoli sacrifici e dove era accolto con grande calore dal popolo. Nello stesso tempo non trascurava di dedicarsi con una ferma volontà alla letteratura di devozione, che doveva costituire un ulteriore momento, parallelo alla predicazione, di propaganda religiosa.

«Pieno d’intenso spirito religioso, ardente di zelo per la salute delle anime, profondo nella teologia, versatissimo nella lettura dei padri, fine conoscitore e agilissimo maneggiatore della lingua italiana, il Segneri volle apparire ed essere in tutto diverso dai colleghi del suo tempo, anche da quelli della sua compagnia. Egli, nemico dell’ambizione malaccorta di apparire ora filosofo, ora fisico, ora legista, ora alchimista, ora astrologo, aborrì lo sfoggio di erudizione sacra e profana, proponendosi (lo dichiarò nel proemio del Quaresimale) di provare “ogni volta una verità, non solamente cristiana, ma pratica e di provarla davvero”. Convinto che obbligo di ogni sacro dicitore fosse quello di muovere la volontà degli uditori a praticare il bene in concreto, gli argomenti che adopera a persuadere li attinge tutti dai Libri Santi, dai Padri, da altri scrittori ecclesiastici, dalla storia della Chiesa, e li elabora con arte nitida e polita»[14].

Nel 1679 vide la luce a Firenze, e in contemporanea a Venezia, il Quaresimale, raccolta di quaranta omelie pronunciate, fra il 1655 e l’anno della pubblicazione, in varie città dell’Italia centrale. Parallelamente si impegnò come compilatore della terza edizione del Vocabolario della Crusca, dopo che nel 1678 era entrato a far parte di quell’Accademia, grazie anche al rapporto di amicizia che aveva stabilito con il Redi.

Nel 1692, invitato dal papa Innocenzo XII a Roma, in occasione della Quaresima, come predicatore nel Collegio dei cardinali, il Segneri lasciò non senza rimpianto l’ambiente delle sue missioni. Ma lì acquistò ben presto la stima del pontefice che lo nominò teologo della sacra penitenza, essendo deceduto proprio in quei giorni il padre Nicola Maria Pallavicino, che reggeva quell’ambito ufficio. Il 9 dicembre 1694, però, mentre stava componendo l’Esposizione sopra il Magnificat, la morte concluse la sua austera e laboriosa esistenza.

Il frutto dell’intensa attività predicatoria del Segneri è la raccolta Il Quaresimale, l’opera sua più significativa (considerata nello stesso tempo il capolavoro dell’oratoria sacra barocca), nata sulla base di autentiche esperienze umane, vissute in un rapporto diretto con il suo uditorio. Profondo conoscitore del mondo e degli uomini, il Segneri punta la sua attenzione sui vizi e sugli eccessi della società contemporanea, rivolta unicamente all’esteriorità formale e ai momenti “mondani”, incapace di approfondimenti interiori e di reali convinzioni; l’autore ne denuncia gli aspetti negativi più clamorosi, in un quadro desolante di decadenza politica e morale. La sua prosa, non priva talvolta di enfasi retorica, assume una tonalità più intensa e drammatica rispetto agli altri predicatori contemporanei, ed è, inoltre, ricca di un sincero calore religioso, volto ad un rinnovamento spirituale degli uomini. Gli espedienti linguistici, che non sono mai qui gratuita espressione verbale, vengono plasmati da una vocazione profonda; mentre la misura stilistica, che si realizza attraverso un discorso logico, architettonicamente ordinato con sapienza artistica, ben lontano dagli eccessi del puro movimento retorico, rivela un attento e lucido studioso.

Oltre al Quaresimale il Segneri scrisse numerose opere di carattere religioso, che egli andava componendo nei momenti di pausa tra una missione e l’altra: Il penitente istruito, 1669; Il confessore istruito, 1672; La manna dell’anima, 1673; Il divoto di Maria Vergine, 1677; La Concordia tra la fatica e la quiete nell’orazione, 16880; Il cristiano istruito nella sua legge, 1686; L’incredulo senza scusa, 1690; Il parroco istruito e l’Esposizione del Miserere, 1692.

L’opera del Segneri godette di alterna fortuna fra il XVIII e il XIX secolo: accolta con benevolenza, proprio per il suo purismo cruscante e antibarocco, da classicisti e neoclassici, ebbe invece, generalmente, l’avversione della critica romantica, con le eccezioni di Niccolò Tommaseo e Alessandro Manzoni. Così se un critico cattolico lo giudicò il maggior oratore italiano dopo Bernardino da Siena e il Savonarola, poiché non abusò di barocchismi marinisti nel suo stile predicatorio, diametralmente opposto fu il giudizio del De Sanctis, che del Segneri scrisse: «Non ha altra serietà che letteraria, ornare e abbellire il luogo comune con citazioni, esempli, paragoni e figure rettoriche: perciò stemperato, superficiale, volgare e ciarliero. Si loda il suo esordio alla predica del paradiso: Al cielo, al cielo!. Il concetto è questo: – la terra non offre un bene perfetto; miriamo dunque al cielo. E noi abbiamo conosciuto già questo mondo. Eh, al cielo, al cielo! – Ora la prima parte non ha bisogno di dimostrazione, perché ammessa da tutti. Ma qui si accaneggia il Segneri e intorno a questo luogo comune intesse tutt’i suoi ricami. E se avesse veramente il sentimento della terrena felicità e delle gioie celesti, non mancherebbe ai suoi colori novità, freschezza, profondità. Ma non è che uno spasso letterario, un esercizio rettorico. Luogo comune il concetto, luoghi comuni gli accessori. Non mira efficacemente a convertire, a persuadere l’uditorio; non ha fede, né ardore apostolico, né unzione; non ama gli uomini, non lavora alla loro salute e al loro bene. Ha nel cervello una dottrina religiosa e morale d’accatto ed ereditaria, non conquistata col sudore della sua fronte, una grande erudizione sacra e profana: ivi niente si move, tutto è fissato e a posto. La sua attività è al di fuori, intorno al condurre il discorso e a distribuire le gradazioni, le ombre, le luci e i colori. Gli si può dar questa lode negativa, che se spesso stanca, non annoia l’uditorio, che tien sospeso e maravigliato, con un crescendo di gradazioni e sorprese rettoriche; e talora piacevoleggia e bambineggia per compiacere a quello. Ancora è a sua lode che si mostra scrittore corretto, e non capita nelle stramberie del padre Francesco Panigarola, o nelle sdolcinature e affettazioni de’ suoi successori»[15].

 

*** NOTE AL TESTO ***

[1] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 299-300.

[2] Giovanni Azzolini nacque a Messagne in Salento ed entrò tra i teatini di Lecce nel 1611. Studiò a Capua, ottenendo la laurea in teologia nel 1621. Trasferito a Firenze, vi iniziò la sua attività di religioso e nel 1627 fu destinato alla nuova casa di Andria, ma non avendo la fondazione prosperato dimorò a Napoli fino al 1651, allorché fu destinato a S. Antonino in Sorrento. Nel 1653 fu eletto vicario di S. Andrea della Valle in Roma. Nel settembre 1654 ritornò a Sorrento ed ivi morì nel 1655. La sua oratoria è un esempio tipico dello stile di quel cavalier Marino che, devoto ai teatini, donò loro, morendo, la sua ricca biblioteca e volle nella loro chiesa dei SS. Apostoli la propria tomba. Senza essere peraltro il più strano, in questo senso, degli oratori secentisti, giacché la sua oratoria non è talora priva di sentimento e di calore, tuttavia si è detto a ragione che l’Azzolini nei suoi Paradossi rettorici abbia codificato quasi i vizi allora comuni agli oratori sacri. [Francisco Andreu, AZZOLINI, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 4, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1962]

[3] Emanuele Orchi, teologo, filosofo e oratore sacro, nacque a Como, da nobile famiglia, nei primi del 1600 e morì a Procida nel 1649. Laureato in filosofia a Brera e in medicina a Pavia, entrò assai giovane nell’ordine dei cappuccini, dedicandosi all’insegnamento e soprattutto alla predicazione, nella quale conseguì fama grandissima. Il suo Quaresimale, stampato a Venezia nel 1650, fu persino tradotto in latino (Magonza 1668). Ma si tratta di fortuna e di fama circoscritte al sec. XVII, perché dovute solo alla forma stravagante delle prediche. Seguace della moda oratoria del concetto predicabile, l’Orchi ha la fatua abilità d’intessere intorno ai temi dei suoi discorsi le deduzioni più strane, adornandole, anzi “confettandole” di “arguzie”, cioè d’immagini strampalate, di bizzarri paragoni, di giuochi di parole, e anche di vere e proprie buffonerie che, a volte, rasentano l’indecenza. [Luigi Fassò, ORCHI, Emanuele, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1935]

[4] Paolo Arese nacque a Cremona nel 1574. Suo padre, il conte Marcantonio, era podestà di Cremona. Il suo nome di battesimo era Cesare, ma cambiò il nome in Paolo quando, nel 1590, entrò nei Chierici regolari teatini. Compiuti gli studi, a 24 anni fu chiamato ad insegnare filosofia e teologia a Napoli, dove nel 1598 venne ordinato sacerdote. Sebbene non appariscente oratore, predicò con buon successo nelle più importanti città d’Italia, specialmente in Verona, dove fu ascritto all’Accademia dei Filarmonici. Fu superiore del suo ordine e confessore alla corte di Torino. Nel 1620 Paolo V lo elevò alla sede vescovile di Tortona, diocesi che governò per ventiquattro anni, visitandola tutta ogni tre anni. Si segnalò per la sua carità durante la peste del 1630, e i due assedi che la città subì nel corso della Guerra dei trent’anni, dai Francesi nel 1642 e dagli Spagnoli nel 1643. Fu promotore degli studi, tanto da meritarsi il titolo di mecenate dei letterati. Morì a Tortona nel 1644.

[5] Vincenzo Carafa della Stadera (Andria, 5 maggio 1585 – Roma, 6 giugno 1649) apparteneva alla famiglia dei duchi di Montorio, la stessa di papa Paolo IV, ed era figlio di Fabrizio, II duca di Andria, e di sua moglie, Maria Carafa di Stigliano. Entrò tra i Gesuiti nel 1604 e, laureatosi in filosofia, fu Superiore Provinciale di Napoli. Con lo pseudonimo di Aloysius Sidereus, pubblicò alcune opere ascetiche. Nel 1646 venne scelto come settimo Preposito Generale della Compagnia di Gesù ed i suoi quattro anni di generalato furono segnati dalle aspre controversie con i teologi giansenisti, dalle accuse di lassismo morale e dalle  missioni nelle Americhe, segnate dal martirio di un gruppo di gesuiti ad opera degli indiani.

[6] Alberto Asor-Rosa, BARTOLI, Daniello, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 6, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1964.

[7] Ezio Raimondi, Daniello Bartoli e la “ricreazione del savio”, in Letteratura barocca. Studi sul Seicento italiano, Olschki, Firenze, 1961.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Francisco de Quevedo Villegas (Madrid, 1580 – Villanueva de los Infantes, 1645) Di famiglia nobile, compì i primi studi presso i Gesuiti, proseguì con quelli classici all’Università di Alcalá de Henares e studiò teologia a Valladolid. Non bello e afflitto da una grave miopia, amico di Pedro Téllez-Girón terzo duca di Osuna, lo seguì prima a Palermo e poi a Napoli e, quando il duca vi fu nominato Viceré, ebbe la segreteria delle Finanze. Quevedo fu accolto nell’Accademia degli Oziosi, fondata quattro anni prima dall’allora viceré della città, il conte di Lemos, e strinse amicizia con il poeta neo-latino Giulio Cesare Stella e con Mariano Valguarnera, umanista e amico intimo di Papa Urbano VIII, che, su esortazione di Quevedo, tradusse dal greco in italiano le Odi di Anacreonte. Tornato in Spagna nel 1634, si sposò con una vedova, Esperanza de Mendoza, dalla quale però si separò poco tempo dopo. Esplicò importanti missioni diplomatiche e fu segretario del re a corte, ma a causa di un memoriale contro il re a lui attribuito, nel 1639 fu imprigionato per quattro anni. Morì due anni dopo aver riacquistato la libertà. Oltre ad avere un’ottima formazione umanistica, Quevedo conosceva perfettamente l’italiano, il francese, il latino, il greco, l’arabo e l’ebraico. Poeta di altissime qualità intellettuali e visionarie, Quevedo diede il meglio di sé nei sonetti. L’opera poetica fu raccolta e pubblicata postuma ne El Parnaso español (1648) e ne Las tres ultimas musas castellanas (1670). Tra le opere in prosa spicca il romanzo picaresco La vida del Buscón (1603), che, nell’ambito di quella particolare letteratura, raggiunge l’estremo limite della rappresentazione cruda e grottesca dell’umana miseria.

[11] Maria Aurelia Spinola (Genova 1620 – 1670) naqua da Luca Spinola di Gaspare di Gioffredo, Principe di Molfetta, e da Pellina Spinola, figlia di Giovanni Battista Spinola, I Duca di San Pietro. Aurelia crebbe in una ricca atmosfera aristocratica, aperta all’Europa e cosmopolita, fatta di saloni, ricevimenti, banchetti ed incontri. Grazie ai suoi genitori conobbe la vita mondana ed ebbe un’ educazione raffinata, sapeva leggere, scrivere e fare di conto;  grazie alla madre apprese il canto, la musica, la danza ed il ricamo.

[12] Ercole Grimaldi (Parigi, 1623 – Montecarlo, 1651) fu Principe ereditario di Monaco e Marchese titolare di Baux, ma non divenne mai sovrano poiché morì (ucciso da un colpo d’arma da fuoco) undici anni prima del padre Onorato II di Monaco. Fu quindi suo figlio, il principe Luigi, a succedere al nonno sul trono monegasco.

[13] Filippo Alberti (Umbertide, 1548 – Perugia, 1612) fu amico di vari letterati contemporanei, in particolare di Torquato Tasso, che lo conobbe alla corte di Ferrara e lo ricorda nelle sue poesie. La sua opera principale è Elogi degli uomini illustri perugini, che dovette interrompere per l’invidia e le pretese di alcuni suoi potenti concittadini.

[14] Tacchi Venturi Pietro, SEGNERI, Paolo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1936.

[15] De Sanctis Franceso, Storia della letteratura italiana, a cura di Maria Teresa Lanza, introduzione di Luigi Russo, Feltrinelli, Milano, 1970, pag 618.


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