Tra l’abbondantissima produzione narrativa del Seicento, che si sviluppa soprattutto nell’Italia del Nord e in particolare nelle Accademie, la novella si manifesta con carattere episodico e occasionale; e tra i prosatori che si cimentano in questo genere pochi, qualitativamente, si distaccano da uno sfondo uniforme e mediocre.
Per quanto riguarda la struttura, molta produzione risente, naturalmente in misura diversa, della novella tradizionale di tipo boccacciano, se pur manipolata e presentata in modo nuovo. Si tratta spesso di brevi avvenimenti, leggeri, di ambiente popolare, con la caratteristica propria dell’aneddoto, di novellette senza pretese, burle, risposte mordaci e scherzi. La cornice ritorna in alcune raccolte, ma, ridotta ormai – anche attraverso l’esperienza del Quattrocento e del Cinquecento – ad uno schema libresco, continua a vivere come puro momento formale, quasi scheletro e impalcatura esterna.
La novellistica di tipo tradizionale si diffonde non solo in Toscana, dove c’è una notevole produzione di motti e di facezie di scarso valore artistico, ma anche al di fuori. Il patrizio Veneto Giovanni Sagredo pubblica nel 1667 a Venezia l’Arcadia in Brenta, simile al Decameron nella sua struttura esteriore per la presenza del tipico cerimoniale, della divisione in giornate, del re e della regina; e simile è anche, in parte, Le instabilità dell’ingegno (Bologna 1637) di Anton Giulio Brignole Sale, opera in prosa e versi in cui la cornice, che rientra nella tradizione novellistica per la presenza di topoi ricorrenti, costituisce un momento di grande interesse letterario.
Ma la maggior parte delle novelle seicentesche rispecchia i gusti e le tendenze di un’epoca che ricerca nella letteratura un momento di evasione e di compiacimento; si diffonde allora quel nuovo genere detto “alla spagnola”, che si andava delineando in quegli anni, caratterizzato dalla materia amorosa, ricca di intrighi e di complicazioni. Le narrazioni, molto più ampie, si snodano in intrecci romanzeschi, rappresentati con tinte forti e in cui non manca il gusto per il colpo di scena; i temi sono quasi sempre amorosi, ma complicati da vicende improvvise (amanti che si ritrovano dopo aver perso le tracce l’uno dell’altro, travestimenti, drammi e tragedie di gelosia, rapimenti di fanciulle), e le conclusioni sono spesso tragiche. L’ambiente non è quello popolare, ma quello aristocratico ed elegante delle corti: ritraggono, insomma, la vita, i costumi, la corruzione dell’epoca e sovente l’azione si svolge in Spagna. Certo non scompare la suggestione del Boccaccio, ma la novità consiste nella ricerca del meraviglioso e del romanzesco, per cui spesso diventa difficile individuare la linea di spartizione tra il genere della novella e quello del romanzo.
Di questo tipo sono le Novelle amorose di Gian Francesco Loredan, L’albergo, La nave, L’isola, Il porto di Maiolino Bisaccioni, le Curiosissime novelle amorose di Girolamo Brusoni; autori, questi, che compaiono nella silloge Novelle amorose dei signori accademici Incogniti (Venezia 1641), frutto delle piacevoli esercitazioni dei membri della veneta Accademia degli Incogniti, che fu il centro più importante della novella italiana del XVII secolo. Fondata nel 1630 dal Loredan (da cui assunse inizialmente il nome Loredana), essa divenne ben presto il fulcro della vita intellettuale veneziana e il luogo d’incontro della cultura barocca, un ritrovo di cui fecero parte uomini illustri e famosi scrittori dell’epoca.
La vita quasi sempre avventurosa e sregolata, spesso polemica e contraddittoria, di questi personaggi per certi versi “libertini”, insofferenti alle leggi ecclesiastiche e sensibili, almeno a livello esteriore, alle posizioni aristoteliche del filosofo padovano Cesare Cremonini[1] (di cui il Loredan aveva seguito le lezioni), caratterizzano il clima spirituale dell’Accademia degli Incogniti che, come è stato osservato, ha in sé qualcosa di sfrenato e di procace, che difficilmente potrebbe essere conciliabile con la più rigida conformità ai dettami della Chiesa.
«Ingente è nel Seicento la produzione di romanzi, secondo una naturale diffusione di questo tipo di narrazione “lunga” e complicata di avventure, intrighi amorosi e politici, di sviluppi psicologici, di descrizioni di quel costume cavalleresco che corrisponde al rinnovato amore, da parte della società feudale secentesca, per personaggi e vicende di eccezione, di eroismo altero e aristocratico, di morbide e ambigue situazioni erotiche e sensuali. In altri paesi europei il romanzo (nuova creazione letteraria che sostituiva i poemi cavallereschi dei secoli precedenti e usava la prosa come più adatta al racconto e alla delineazione psicologica più puntuale) raggiunse veri e propri capolavori di varia intonazione, o più chiaramente cavallereschi come la Principessa di Clèves di madame di La Fayette in Francia, o più popolareschi e realistici-satirici come i romanzi picareschi in Spagna (per non dire del grandissimo Don Chisciotte del Cervantes), o più fortemente rappresentativi di crisi storiche e nazionali, come il Simplicissimus del Grimmelshausen in Germania.
Ma in Italia al numero e all’interesse documentario dei moltissimi romanzi (che documentariamente rappresentano tanti aspetti di un secolo avido del romanzesco come evasione piacevole nel regno dell’immaginazione e come sublimazione del proprio costume o come discettazione moralistica su una vasta casistica di situazioni singolari ed eccitanti) non corrisponde un adeguato valore artistico, una vera capacità di forte e organica struttura narrativa, una ispirazione compatta e coerente. Sì che nessuno dei numerosi romanzieri, che nel corso del secolo alimentarono l’immaginazione di un vasto pubblico di lettori, si sottrae veramente ad un giudizio di prolissità, di complicatezza, di disordine, di sciatteria stilistica, e il loro stesso interesse storico, politico e religioso non riesce mai a condensarsi in problemi centrali e capaci di sorreggere le macchinose e dispersive costruzioni narrative»[2].
L’ambiente è ancora il fastoso mondo cortigiano, con i suoi misteriosi e complicati intrighi; non manca, comunque, la più vasta geografia barocca, in quanto spesso la struttura del romanzo è un viaggio, ma senza la descrizione di luoghi e città, che vengono quasi sempre indicati in modo convenzionale e generico. Predominante è la tematica amorosa, priva di approfondimento psicologico, presente però in tutte le sue sfumature e con un gusto particolare per le situazioni originali e non comuni, uniche e irripetibili, tali da suscitare la meraviglia dei lettori. Si tratta di vicende di tipo “shakespeariano”, dove in un’atmosfera estremamente tragica predominano il veleno, il pugnale, il sangue, spesso inseriti nella dinamica della gelosia. E protagonisti sono i giovani nobili e belli, che conservano, dunque, un primato fisico, secondo i tradizionali canoni della bellezza, e un primato morale; se pur non manca tra i personaggi, generalmente secondari, il “tipo” negativo da un punto di vista estetico, morale o sociale (scelta, questa, che è possibile comprendere in quel gusto, così specificatamente barocco, per ciò che è vario, diverso e singolare ad ogni costo). Vivo è anche l’interesse per le vicende di carattere politico e guerresco, che danno luogo a lunghe digressioni o excursus sui problemi politico-storici, sulla Ragion di Stato e sull’arte militare.
Autori di romanzi furono Giovanni Francesco Biondi, Ambrogio Marini, Ferrante Pallavicino, Pace Pasini, Maiolino Bisaccioni, i già citati Carlo De’ Dottori, Giovanni Francesco Loredan, Francesco Frugoni e – non ultimo – Girolamo Brusoni, con la sua trilogia [La gondola a tre remi (1657), Il carrozzino alla moda (1658), La peota smarrita (1662)], in cui il gusto per l’avventura, spesso di tipo sensuale, e la presenza di un ambiente meno aristocratico ove si muove Glisomiro – il “libertino” protagonista che con la sua vicenda erotica collega idealmente i tre romanzi – preannunciano già il più disinvolto mondo settecentesco. Caratteristiche proprie ha, invece, come s’è già visto, il Bertoldo e Bertoldino del bolognese Giulio Cesare Croce, dove, con un linguaggio molto diverso e talora originale, si tratteggia il tipo dell’astuto ma testardo contadino.
Si inseriscono, poi, nello spirito controriformistico dell’epoca, romanzi di carattere edificante (l’esempio più tipico è La Rosalinda di Bernardo Morando), in cui, spesso sullo sfondo di una realtà storica autentica, agiscono personaggi che spiccano per la purezza dei loro costumi. Sulle orme del francese Pietro Camus[3], vescovo di Belley, scrittore di romanzi cavallereschi con fine moraleggiante, gli autori di romanzi edificanti si rifanno ad un genere fruito nell’arco completo della sua casistica (avventure, viaggi, amori) per trasmettere sul filo della propaganda etica un preciso messaggio religioso.
Giovan Francesco Loredan
Giovan Francesco Loredan o Loredano (Venezia, 1607 – Peschiera, 1661) nacque da Lorenzo Loredan, figlio di Giovan Francesco di Santa Maria Formosa, e da Leonora di Carlo Boldù. Rimasto orfano di padre nel 1608 e di madre nel 1609, fu affidato allo zio senatore Antonio Boldù, che gli impartì un’educazione consona al suo rango (avviandolo agli studi giuridici, filosofici e letterari), permettendogli non solo di formarsi una vasta e soda cultura ma anche di iniziare a scrivere il romanzo La Dianea (Torino, 1627). Nel medesimo anno iniziò anche la carriera di magistrato della repubblica; poi nel settembre 1632 fu eletto Savio agli Ordini – carica che mantenne per tre anni – e nel 1635 divenne Tesoriere della fortezza di Palmanova. Fu poi provveditore ai banchi (1640) e provveditore alle pompe (1642). Nel 1648 fece il salto di qualità ricoprendo l’incarico di avogador del comun, incarico che ricoprì più volte (1651, 1656 e 1657), e provveditore alle biave (1653). Raggiunse successivamente le cariche di Inquisitore di Stato e di membro del Consiglio dei Dieci. Nel 1656 entrò a far parte del Minor Consiglio, cioè tra i sei patrizi che, insieme al doge, componevano la Serenissima Signoria.
Come fondatore dell’Accademia degli Incogniti e membro di molte altre Accademie ebbe strette relazioni con quasi tutti i letterati della sua epoca. Oltre a La Dianea, nella quale sono dispiegati i più comuni e ricchi espedienti del romanzo secentesco, scrisse un altro romanzo biblico, l’Adamo (Venezia 1640), tradotto in tutta Europa, nel quale «il procedimento dilemmatico già riscontrato nel Volestain e nelle altre opere narrative sommerge e dilata lo scarno filo narrativo, con esiti ai limiti dell’eterodossia ma anche abili nel rileggere la vicenda del primo uomo alla luce dell’etica e della politica secentesche, senza però giungere all’intensità spirituale e alla forza ideologica di coeve rivisitazioni del mito adamitico»[4].
Scrittore prolifico e poliedrico scrisse anche gli Scherzi Geniali (Venezia, 1632); operette di soggetto religioso, come Sensi di devozione sui Sette Salmi penitenziali, (Venezia, 1652); Vita di Alessandro III pontefice, (Venezia, 1637); Vita di S. Giovanni vescovo di Traù, (Venezia, 1648); I gradi dell’anima, (Venezia, 1652); opere storiche come Ribellione e morte del Valestain, con lo pseudonimo di Gnaeo Falcidio Donaloro (Milano, 1634); Istoria de’ re Lusignani, con lo pseudonimo di Enrico Giblet (Bologna, 1647); e una Vita del Marino (Venezia, 1633). Inoltre, in qualità di fondatore dell’Accademia degli Incogniti curò le pubblicazioni delle opere collettive dell’Accademia.
Anton Giulio Brignole Sale
Nacque a Genova il 23 giugno 1605, da Giovan Francesco, che fu doge dal 1635 al 1637, e da Geronima di Giulio Sale. Per testamento del nonno materno, privo di discendenza diretta maschile, gli toccò in eredità nel 1608 il feudo di Groppoli, con annesso il titolo di marchese. Fu senatore della Repubblica di Genova, sia pure per soli sei mesi, e come ambasciatore svolse opera di diplomazia in Spagna. Nel 1647, dopo la prematura morte della moglie, Paolina Adorno, decise di lasciare la vita pubblica per prendere i voti e successivamente entrò a far parte della Compagnia di Gesù. Mancano notizie dirette sulla prima educazione del Brignole Sale, sebbene appaia molto probabile che essa, in un modo o nell’altro, fosse affidata ai gesuiti, come indicano – ancor più del suo tardo ingresso nella Compagnia – le relazioni con questa della famiglia ed i moduli classicisti, cari alle scuole gesuitiche, ai quali egli sin dal principio uniformò la propria produzione letteraria.
Risentì da vicino l’influenza del Cebà e del Chiabrera, interlocutore assiduo delle conversazioni letterarie nella casa paterna durante la sua adolescenza e la prima giovinezza. Le sue prime prove di poeta e di oratore Anton Giulio le diede all’Accademia degli Addormentati, della quale il padre era, se non membro, almeno estimatore e protettore.
Nel 1635 pubblicò a Bologna Le instabilità dell’ingegno, l’opera nella quale, pur sempre nei limiti ideologici e di gusto della scuola, il linguaggio barocco si mostra ricco di motivi e di spunti, sebbene all’interno di una trama di repertorio ormai logora e abusata: quattro dame e quattro cavalieri genovesi, sfuggono alla peste che minaccia Genova rifugiandosi in una villa del contado, dove per otto giornate si intrattengono in dispute accademiche coronate da canzoni, novelle, orazioni, poemetti. Marinismo e chiabrerismo dipanano anche qui tutta la gamma dei loro motivi, estenuati sino al compiacimento lascivo e addirittura al sadismo, come fece notare Benedetto Croce a proposito dei quattro sonetti per La cortigiana frustata. Nonostante i suoi indiscutibili limiti di narratore, il Nostro «riuscì a darci qualche originale e vivace pittura di luoghi, di scene, di caratteri umani. Tali sono, p. es., alcune figure di donne […] e certe macchiette, di damerini, di predicatori, di signori, di accademici, finemente delineate negli scritti satirici (Tacito abburattato, Venezia 1636; Il satirico innocente, Genova 1648, ecc.)»[5].
Al gusto e alla moda del romanzo seicentesco il Brignole Sale diede il proprio apporto con La historia spagnola (Genova 1640-1641), che tratta una tragica vicenda d’amore sullo sfondo degli ultimi anni del regno arabo di Granada. Ma il tutto viene guastato dalla preoccupazione, tipicamente barocca, di accentuare gli elementi di intrigo e di richiamare alla memoria del lettore i modelli cavallereschi dell’Ariosto e del Tasso.
Tra le altre sue opere si possono annoverare componimenti d’edificazione religiosa, vite di santi atteggiate a novelle, tre commedie[6] e i Panegirici sacri (Genova 1652). Fra i testi di carattere religioso deve ricordarsi anche La vita di sant’Alessio descritta ed arricchita con divoti episodi (1648), una biografia romanzata che ebbe in Francia due traduzioni e varie ristampe. La leggenda del santo è dunque soltanto un espediente letterario, un pretesto per scrivere un nuovo romanzo che non meno dell’Historia spagnola divaga nell’intrigo e nell’avventura; ma ora il Nostro dispone di più raffinata psicologia, di migliore arte narrativa; lo stile è alieno dalle narcisistiche variazioni di un tempo, la metafora più sobriamente impiegata e più puntualmente giustificata. Quasi sempre l’esigenza di una più penetrante caratterizzazione dei personaggi, di una più articolata lettura dei loro atteggiamenti, prevale sugli intenti agiografici.
Anton Giulio Brignole Sale morì a Genova nel 1665.
Maiolino Bisaccioni
La vicenda biografica, contraddittoria e travagliata, di Maiolino Bisaccioni si muove sul filo dell’irrequietezza e dell’avventura, in un alternarsi continuo di fortune e sfortune. Nato nel 1582 a Ferrara, dove il padre, poeta e professore universitario, ricopriva un incarico di retorica e poesia all’università, compì gli studi giuridici a Bologna; ma a sedici anni, attirato dalla vita militare, si arruolò al servizio della Repubblica di Venezia e nel 1601 combatté in Ungheria nelle file di mercenari imperiali. Tornato in Italia nel 1603, sfidò in duello a Bologna il suo stesso comandante e fu pertanto bandito dagli Stati della Chiesa. A seguito di ciò si venne a trovare in difficoltà finanziarie, e si trasferì nel ducato di Modena, dove esercitò l’avvocatura Modena. Nel 1610 riuscì a risollevare le sue sorti facendosi assegnare dai signori di Scandiano la podesteria di Baiso nel Reggiano. A seguito, però, dell’ingiusta accusa di aver ucciso un uomo con un colpo di archibugio, fu arrestato e incarcerato per breve tempo. Una volta liberato, ottenne la podesteria di Carpineti (1613). Ma, in quegli stessi anni, venne coinvolto in una disputa col Tassoni e riconosciutosi colpevole per aver scritto un libello anonimo e diffamatore nei riguardi del poeta, fu bandito dal ducato. Nel 1616 divenne podestà di Correggio, dove si era rifugiato; ma anche qui egli non ebbe vita facile: caduto in sospetto di infedeltà nel corso di trattative da lui condotte presso il governatore di Milano per un banale incidente occorso fra il principe di Correggio, spalleggiato dal duca di Mantova, e i marchesi di San Martino, sostenuti dal duca di Modena, fu costretto di nuovo a prendere la via dell’esilio.
L’Italia centrale, tutta suddivisa in principati e signorie, non poteva certo garantire più un “clima” a lui favorevole, per cui nel 1617 il Bisaccioni riuscì a trasferirsi in quel di Trento, divenendo governatore delegato di quel principe vescovo, per incarico del quale ebbe a raccogliere Statuti e privilegi della sacra religione costantiniana, stampati poi nel 1624. Naturalmente questo piccolo principato, come altri sparsi per la penisola, potyeva offrire assai limitate prospettive ed altrettanto scarsi guadagni, per cui, al scoppio della guerra dei Trent’anni, decise di intraprendere nuovamente la carriera delle armi. Il principe di Moldavia gli prometteva onori militari, facile bottino e il grado di tenente generale, ma all’arrivo a Vienna costui era già caduto in battaglia, e al Bisaccioni non rimase che adattarsi alla situazione e partecipare volonterosamente alla difesa della città contro Ungheri e Boemi, segnalandosi con altri ufficiali alla vittoriosa fazione sul ponte del Danubio.
Dopo un lungo pellegrinaggio attraverso Germania, Paesi Bassi e Francia fece ritorno in Italia. Pur essendo ormai caduto il bando dagli Stati pontifici, si tenne alla larga da Modena e Reggio, finendo di che vivere a Roma, come agente per incarichi diplomatici di minore importanza presso la corte del pontefice. Qui lo raggiunse in quello stesso anno una chiamata alla corte del principe di Avellino, Marino Caracciolo[7], uno fra i più cospicui esponenti dell’alta aristocrazia napoletana. In quella corte numerosa e fastosa il Bisaccioni venne a contatto con i maggiori esponenti della cultura napoletana dell’epoca, ottenne l’ufficio di governatore baronale della città e il primo seggio nel consiglio del principe. Entrò a far parte dell’Accademia napoletana degli Oziosi e dei Dogliosi di Avellino.
Il soggiorno alla corte avellinese diede modo al Bisaccioni di mettere da parte alcune osservazioni generali sulla vita, sulla società, sulla prassi politica e sulle istituzioni del viceregno di Napoli, e tutto questo egli più tardi lo raccoglierà e lo svilupperà, con una certa libertà di giudizio, nei suoi lavori storiografici e nella novella L’Albergo. Certo, pago di tante pompe e magnificenze, egli non si soffermò ad indagare più efficacemente quale sostanziale inconsistenza si nascondesse dietro la facciata di parata del baronaggio locale né quali gravezze pesassero sulla vita economica, né quanto estesa fosse la miseria delle plebi della città e del contado. Tuttavia non gli sfuggì il processo politico di graduale sottomissione del riottoso ceto baronale alla corona, all’assolutismo dei viceré, e non mancò di individuare le ragioni essenziali per cui le successive rivolta dei Masaniello, dei Genoino, degli Annese sarebbero fallite di fronte alla resistenza baronale, ormai passata al servizio del potere centrale.
Nel 1627 si trasferì in Sicilia, a Palermo, dove contribuì, insieme con altri letterati, a ricostruire l’Accademia palermitana dei Riaccesi. Fu poi a Torino (1635), dove affrontò ancora un paio di duelli, e infine, ormai cinquantenne, a Venezia, dove – divenuto membro dell’Accademia degli Incogniti, e poi anche segretario – si dedicò ai suoi interessi storici e letterari, ottenendo grande plauso dal pubblico, titoli cavallereschi e nobiliari ma, nonostante ciò, morì in completa miseria nel giugno del 1663.
Nel tranquillo periodo veneziano, abbandonata ormai ogni velleità militare e politica, il Bisaccioni pubblicò la maggior parte delle sue opere, utilizzando, come s’è detto, con intelligenza e successo l’esperienza personale, acquisita in tanti anni trascorsi al servizio di principi ed ecclesiastici e presso corti famose.
Tra il 1633 e il 1642 uscì a Venezia l’edizione completa del Commentario delle guerre successe in Alemagna dal tempo che il re Gustavo di Svezia si levò di Norimberga; nel 1637 la Vita dell’imperatore Ferdinando II, argomento che lo scrittore riprese più tardi nell’opera dedicata alla guerra dei Trent’anni, Memorie stanche delle mosse d’armi di Gustavo Adolfo re di Svezia in Germania dal 1630 (Bologna 1653); nel 1642 i Sensi civili. L’interesse dei lettori per gli argomenti storici e il successo ottenuto spinsero il Bisaccioni a pubblicare l’Istoria delle guerre civili di questi ultimi tempi (Venezia 1653‑1655, ristampata poi nel 1664), dove acquista un particolare rilievo la rivoluzione napoletana del 1647; ed anche l’Istoria universale dell’origine, guerre e imperio de’ Turchi (Venezia 1654).
Nell’ambito della storia intesa come “la vera maestra dei governi di stato” – a cui si richiamano le opere più propriamente storiche, ma sviluppate spesso con un’analisi a volte superficiale o a volte limitata – si muove il Demetrio Moscovita (Venezia 1649), che è sì la cronaca di un fatto reale, ma condotto sulle linee tipiche del romanzo. Nella Russia del Seicento il principe Demetrio, dopo aver sconfitto il tiranno Boride, muore in una rivolta a causa della sua eccessiva bontà; allora si sostituisce a lui un falso Demetrio che la vedova del vero principe, Anna Marina, personaggio di estrema delicatezza, e il suocero accolgono, fingendo di riconoscerlo. La triste vicenda del principe russo offre l’opportunità all’autore per dimostrare come “la debolezza del cuore” di per se stessa, disgiunta dall’astuzia politica e dall’intelligenza machiavellica, sia inadeguata all’arte del governo.
Il gusto del Bisaccioni per la storia romanzata e per l’intreccio complicato ritorna anche nelle sei novelle comprese nella silloge dell’Accademia degli Incogniti (Cento novelle amorose dei Signori Accademici Incogniti) e in quelle appartenenti alla sua celebre raccolta, edita a Venezia fra il 1637 e il 1664 (La Nave, 1637-1638; L’Albergo, 1643; L’Isola, 1648; Il Porto, 1664).
Tra le altre opere che ci ha lasciato vi sono anche delle eleganti traduzioni dal francese di opere del La Calprenède[8] (Cleopatra, Venezia 1672) e di Madeleine de Scudéry[9] (Artamena, Venezia 1651; Clelia, Venezia 1656); e due melodrammi: La Semiramide in India (Venezia 1648) e la Veramonda amazzone d’Aragona, che fu rappresentata a Venezia nel 1651.
Giovanni Sagredo
Nacque a Venezia il 2 febbraio 1617 da un’antica e nobile famiglia. Studiò per quattro anni nel collegio dementino di Roma. Nel 1643 iniziò la carriera politica e fu così addetto all’ambasciata veneta inviata a Luigi XIV dopo la sua elezione al trono. Numerosi incarichi diplomatici, svolti con estrema intelligenza e abilità, lo portarono come ambasciatore ordinario in Francia, Inghilterra e Vienna. Tornato a Venezia, difese con successo Francesco Morosini[10] dall’ingiusta accusa di aver abbandonato Candia. Nel 1676 offrì la sua candidatura per l’elezione a doge di Venezia; ma, giunto quasi alla vittoria, il popolo, istigato dai nemici dello scrittore, lo rifiutò facendo eleggere in sua vece Alvise Contarini[11]. Dopo la sconfitta continuò comunque a servire lo stato fino alla morte, avvenuta a Venezia il 10 agosto 1682.
L’intensa attività diplomatica svolta dal Sagredo è attestata dalle sue Relazioni sulle ambascerie a Parigi, a Londra e a Vienna. Nel 1673 pubblicò un volume di Memorie istoriche di monarchi ottomani, che ebbe nel Seicento sei ristampe.
Grande successo ottenne anche l’opera a cui è legata maggiormente la sua fama letteraria: la raccolta di novelle L’Arcadia in Brenta, pubblicata nel 1667 col nome di Ginnesio Gavaldo Vacalerio (anagramma di Giovanni Sagredo cavaliere). La varia e ricca materia dell’Arcadia (circa sessanta novelle, trecentosettanta motti e facezie, e inoltre poesie, indovinelli, canzoni, lettere bizzarre, giochi di società, questioni e discussioni argute) si inserisce in una invenzione strutturale tipica del genere: la cornice di chiara discendenza boccaccesca. Con l’intento di trascorrere il tempo piacevolmente e di allontanare la “melanconia”, tre nobili cavalieri e tre dame, negli ultimi giorni del carnevale, percorrono con un “burchiello” il fiume Brenta e si fermano poi in una villa. In quel paesaggio “arcadico” la nobile compagnia si intrattiene fra balli e passeggiate, raccontando a turno novelle, porgendo quesiti, cantando canzonette.
Alla tradizionale novellistica appartiene anche la divisione della cornice in otto giornate, l’apertura di ognuna di esse con l’incontro dei personaggi, come anche l’elezione di un “principe” che stabilisce i temi, giudica e impone i pegni. Nella quarta giornata si inserisce un nuovo personaggio dal carattere ben definito: Fabrizio Fabroni da Fabriano, «uomo faceto, grasso, polputo, buon mangiatore e amico della brigata», che apporta, con i suoi racconti più liberi e licenziosi, una nota nuova e gaia all’azione.
La raccolta si apre con la descrizione “iperbolica” della nobile società di dame e cavalieri, dove – come è stato scritto – risalta una precisa attenzione dell’autore a un concreto catalogo delle doti amate dal secolo, già evidente nella modalità con cui esse sono presentate, sia nell’aspetto fisico sia nel ritratto morale, in modo da presentare un’armonia dinamica, mossa, agile, con le indicazioni fondamentali, veri miti del tempo, della bizzarria, dell’ingegno, del garbo. Inoltre si delinea già dalle prime pagine un aspetto tipico dell’opera del Sagredo: il linguaggio come gioco ingegnoso e astuzia inventiva (soprattutto attraverso la mediazione metaforica) nella gara tra i personaggi.
Ma il momento espressivo, che non si riduce nell’Arcadia ad esercizio meramente intellettualistico, vuole essere quasi il gergo di quella società “arcadica”, del suo costume, della sua vita, costituendo altresì, per un pubblico che vuole essenzialmente evadere, la forma più illusiva di un reale sublimato.
La predominanza, comunque, della struttura dialogica, l’agile movimento del discorso, tra battute, motti e aneddoti – la conversazione, insomma – sono i motivi che determinano essenzialmente il successo dell’Arcadia in brenta, che sembra già precorrere il più dinamico teatro settecentesco.
Francesco Pona
Nato nell’ottobre del 1595 a Verona da famiglia nobile, Francesco Pona fu educato dapprima dai gesuiti; dopo essersi dedicato agli studi umanistici, fu inviato allo Studio di Padova, nell’ambiente di Cesare Cremonini, per compiere gli studi di medicina e di filosofia. Gli anni padovani furono importantissimi per la sua vocazione di scrittore, così come anche il periodo trascorso per la specializzazione in anatomia a Bologna (1615-17), dove venne accolto nell’Accademia dei Gelati, di cui facevano parte lirici famosi dell’epoca.
Il ritorno a Verona nel 1617 fu segnato – oltre che dal primo matrimonio – dall’inizio della sua carriera professionale e dall’esordio poetico, entrambi non immediatamente trionfali. La sua istanza di ingresso nel primo ordine del Collegio dei Medici, quello dei “dottori”, fu infatti respinta; gli venne concesso comunque lo ius medendi in civitate, che Pona eserciterà poi sempre a un buon livello. Nel 1617 uscì anche la prima edizione delle sue Rime, frutto dell’elaborazione delle esperienze padovane e bolognesi.
Rimasto vedovo, nel 1624 contrasse nuove nozze con Elisabetta Mendadori, e da questa, come anche dalla prima moglie, ebbe numerosi figli. Per la sua intensa attività letteraria entrò nell’Accademia dei Filarmonici; e più tardi si accostò anche, negli ambienti veneziani, a quel gruppo di letterati che stavano formando, sotto la guida di Francesco Loredano, l’Accademia degli Incogniti.
Nel 1630, l’anno in cui scoppiò la peste, il Pona venne incluso nella seconda leva dei medici precettati per far fronte ai bisogni della città e del lazzaretto. Tuttavia egli riuscì a farsi esentare dal Provveditore. Gli anni che seguirono, segnati da una maggiore tranquillità, videro il Pona ricoprire incarichi onorifici: nel 1632 egli venne finalmente ammesso alla prima fascia del Collegio dei Medici di Verona; nel 1639 divenne storico ufficiale dell’Accademia Filarmonica e attorno al 1641 cavaliere di S. Marco. Infine, tra il 1650 e il 1651, a suggellare questo vero e proprio prestigi sociale arrivò la nomina dell’Imperatore a storiografo cesareo (non si sa esattamente con quali mansioni). Gravemente malato da lungo tempo, Francesco Pona morì il 2 ottobre del 1655.
Autore di numerosissime opere di genere vario (trattatistica scientifica, storiografia, poesia, teatro, narrativa), il Pona – s’è già detto – esordì come letterato con alcune composizioni liriche: le Rime, edite a Verona nel 1617; due anni dopo pubblicò, Delle rime di F. Pona parte seconda, e successivamente i sonetti berneschi, senza l’indicazione della data, forse fatti uscire a Verona nel 1627. A questi si aggiungono due scritti giovanili: Sileno, overo delle bellezze del luogo dell’Ili.mo Sig. Giovanni Giacomo Giusti, dialogo (Verona 1620); il Paradiso de’ fiori, overo l’archetipo de’ giardini, discorso (Verona 1622).
Inoltre le numerose opere narrative testimoniano l’impegno dello scrittore nella sua attività letteraria. Nel 1625 pubblicò per la prima volta La lucerna, sotto lo pseudonimo di Eureta Misoscolo, che fece seguire – dopo la condanna della Chiesa (1627) – dall’Antilucerna (Ferrara 1648), dove manca però una precisa volontà di rinnovamento. L’opera, singolare, combinazione di raccolta di novelle a cornice e romanzo avventuroso, racconta di Eureta, Studente a Padova, la cui veglia notturna viene interrotta da una voce sorprendente: la sua lucerna ha preso a parlare, rivelandoglisi abitata da uno spirito dalle molte reincarnazioni. Da qui ha inizio un susseguirsi incalzante di racconti in cui la voce narrante sembra avere attraversato tutti gli stati della materia e della vita: al momento è un oggetto, ma ha animato varie piante e animali, compresi alcuni insetti, molti uomini e soprattutto molte donne. È trasmigrato nel corpo di una pulce e in quello della grande regina Cleopatra; in una morta ammazzata a Brescia e nel monaco pazzo Ravaillac, assassino di Enrico IV. Nelle narrazioni della lucerna possiamo trovare tenere e sensuali descrizioni di amori e terribili resoconti di supplizi, svolti con quasi insopportabile, sadica precisione anatomica; allo squarcio di cronaca o alla satira di costume si affiancano l’esotismo e il fantastico, o il gotico orroroso. Il tutto arrangiato in una scrittura rapida, esatta e nervosa, in raro equilibrio tra amplificazione retorica e prosciugamento tacitista. La cornice, vivacemente dialogante, cerca di ricondurre le storie sotto le insegne di un’etica ortodossa, o tutt’al più ai dettami di una prudenza squisitamente barocca, pur senza rinunciare, talvolta, a spremerne succhi satirici. Ma nei fatti il meccanismo della metempsicosi applicato alla vicenda delle vite prospetta un universo dominato sostanzialmente dal caso e dal caos, che lo scrittore osserva con la freddezza di un anatomista e l’ironia di un filosofo cinico.
Nel 1627 a Verona il Pona diede alle stampe La Maschera iatropolitica, favola allusiva di argomento politico e anatomico; dello stesso anno è il romanzo La Messalina, che non risparmia al lettore nessuno degli eccessi sessuali tradizionalmente attribuiti al personaggio storico. Ad un simile gusto storico romano appartiene anche Li dodeci Cesari (Verona 1633).
Dopo la pubblicazione de Il gran contagio di Verona nel 1630 (Verona 1631), testimonianza di quell’avvenimento che il Pona aveva vissuto direttamente come medico, scrisse nel 1632 La galeria delle donne celebri, dove si racconta, con un certo compiacimento descrittivo, la vita di quattro donne lascive (Leda, Elena, Darcete, Semiramide) nonché di quattro pure (Lucrezia, Penelope, Artemisia, Ipsicratea), in ultimo di quattro sante (Maddalena, Barbara, Monica ed Elisabetta).
La scelta di una vita più serena e tranquilla, dopo l’esperienza della peste, non allontanò il Pona dall’intensa attività di letterato, a cui continuò a dedicarsi con costanza, pubblicando varie opere: il romanzo L’Ormondo (Padova 1635), la già citata Antilucerna, L’Adamo (Verona 1651).
A testimonianza dell’impegno teatrale dello scrittore rimangono la commedia morale Parthenis (Venezia 1627); la tragedia sacra Il Cristo passo (Verona 1629); la Cleopatra (Venezia 1635); e il drama libero La Virgiliana (Verona 1635). Si cimentò anche nelle traduzioni, eseguendo tra l’altro, nel 1629, quella del romanzo latino Argenta di John Barclay[12], opera di coesione tra il genere romanzesco e quello storico.
Pace Pasini
Pace Pasini (Vicenza, 1583 – Padova, 1644), figlio di Pietro, discendente di una famiglia originaria della val Sabbia, dopo i primi studi di grammatica a Vicenza continuò a Padova, applicandosi agli studi giuridici, che ben presto trascurò per interessarsi della nuova scienza – fu in contatto con Galileo Galilei e con Giovanni Keplero – e soprattutto della filosofia, seguendo assiduamente le lezioni di Cesare Cremonini. Fece anche parte dell’Accademia degli Incogniti. A seguito di un delitto per un futile contenzioso privato, nel 1624 venne esiliato a Zara, da cui fece ritorno, liberato ed assolto, nel 1627.
L’esordio letterario di Pasini avvenne nel 1612 con un libretto, stampato a Vicenza, dal titolo Rime varie, et Gli increduli, overo De’ rimedii d’amore, dialogo di Pace Pacino. La seconda opera (Campo Martio, overo Le bellezze di Lidia), novecento versi endecasillabi e settenari, venne stampata sempre a Vicenza nel 1614. Di ambito politico ed encomiastico è il poemetto, composto da sessantasei ottave, Il sogno de l’illustrissimo sig. Pietro Memo, risalente al 1623 ma stampato nel 1642, costruito sul modello di visione del Somnium Scipionis, ma anche con ambiziosi calchi danteschi e con citazioni da Ovidio e dall’iconologia contemporanea.
Ma la più nota delle opere del Pasini è l’Historia del Cavalier Perduto (Venezia, 1644), che si inserisce nella tradizione del romanzo barocco veneto e dei narratori Incogniti, secondo una linea che intreccia avventure cavalleresche amorose a tematiche storico-politiche, e di altri romanzieri italiani. L’ambientazione storica è ripresa dall’Italia liberata dai Goti del Trissino, ma sullo sfondo della guerra tra Totila e i Bizantini vivono temi e valori della società nobiliare del Seicento quali l’onore e la reputazione. Alla labilità storica, che permette l’innesto anacronistico della guerra tra Orsini e Colonnesi, corrisponde la labilità geografica: le zone d’azione principali rimangono quelle ben note al Pasini, tra i Monti Berici e i Colli Euganei, nei castelli del veronese, del vicentino e del padovano, nonché la Dalmazia e Giadra conosciute in esilio, ma si estendono all’Italia tutta. «La struttura narrativa circolare si regge sulla misteriosa identità del protagonista, il Cavalier Perduto, il quale impegna quasi tutta la prima metà del romanzo nell’affannosa inchiesta di se stesso. Scoperta la quale – è Adoino, figlio del duca Mundilla Orsini – vive tutto il resto del romanzo guerreggiando contro Policarpo, principe dei Goti, e quindi contro i Colonnesi guidati da Rodoaldo, fino al matrimonio finale con Dobbrizza di Giarda agevolato dall’azione diplomatica di un misterioso re persiano, Saporeso, che impone ai contendenti un “atto cortese e generoso e grande”. Finale altamente politico: un romanzo barocco iniziato come avventurosa inchiesta di se stesso, termina nel nome della ragion di Stato e dell’utilità della pace in un “secol di ferro”»[13].
Giovan Francesco Biondi
Avventurosa ed inquieta la vicenda biografica del Biondi. Nato nel 1572 a Lesina, in Dalmazia, compì gli studi a Padova. Trascorse parte della sua vita fra la corte francese, come segretario dell’ambasciatore della Repubblica veneziana, e quella inglese (1609), convertendosi alla religione riformista.
Dal 1610 si dedicò alle missioni diplomatiche per conto della Repubblica di Venezia e del re inglese Giacomo I[14]. Da questi, all’età di cinquanta anni, ricevette il titolo di cavaliere e una pensione, che gli offrì la possibilità di trascorrere anni privi di preoccupazioni e di dedicarsi, così, all’attività letteraria. Più tardi, scoppiate le guerre di religione, il Biondi, preoccupato per la sua sorte, abbandonò l’Inghilterra e si recò in Svizzera, ad Aubonne, dove morì nel 1644.
Nel tranquillo periodo londinese il Biondi compose la sua importante trilogia: L’Eromena (Venezia 1624), La donzella desterrada (Camerino 1632) e Il Coralbo (Venezia 1632), romanzi ciclici d’avventura che celano, attraverso l’allegoria, uno sfondo storico contemporaneo, mediato da una precisa volontà fantastica.
A Venezia tra il 1637 e il 1647 fu pubblicata l’Istoria dette guerre civili d’Inghilterra tra le due case di Lancastro e Iorc (tradotta poi in inglese), che costituisce un momento fondamentale della produzione storico‑letteraria del Biondi e ne attesta, nel contempo, una certa capacità di analisi critica e di approfondimento problematico nei riguardi dei fatti e delle vicende contemporanee. Per cui alla descrizione dei momenti storici si aggiunge lo studio psicologico dei personaggi, come anche l’attenzione per i problemi economici.
Ferrante Pallavicino
La biografia di Ferrante Pallavicino è un momento esemplare di quel libertinismo seicentesco di ambiente più specificatamente Veneto, a cui si è accennato a proposito dell’Accademia degli Incogniti.
Nato nel 1615 a Piacenza da Giangirolamo, marchese di Scipione, e da Chiara Cavalca, figlia del conte Pompeo, rimasto orfano del padre, entrò nel monastero dei Canonici Lateranensi, a Milano. Ma abbandonata ben presto la vita monastica, si fermò a Venezia, dove entrò a far parte dell’ambiente degli Incogniti, divenendo intimo amico del Loredano e del Brusoni, e dove pubblicò libri degli argomenti più disparati: da temi sacri a novelle di genere decisamente audaci.
Ritornato nel 1641 da un lungo viaggio in Germania, dove si convertì al calvinismo “imbevendo nella libertà di quella provincia maggior libertà di stile, di pensieri e di vita”, a causa di una sua opera (Il corriero svaligiato), che colpiva la Chiesa e in particolar modo i gesuiti, fu rinchiuso nel carcere di Venezia per sei mesi. Uscito di prigione nel 1642, la sua ostinata vena polemica lo spinse a comporre La Baccinata ovvero Battarella per le api Barberini, e il Dialogo tra due gentiluomini Acanzi (1642), che traggono il soggetto dalla guerra per il Ducato di Castro tra il papa Urbano VIII, appartenente alla famiglia Barberini, e la famiglia Farnese. I Barberini, tramite il nunzio apostolico a Venezia, riuscirono ad attirare con l’inganno lo scrittore in Francia, nei pressi di Avignone, allora dominio pontificio, e si vendicarono – dopo averlo accusato e processato per avere scritto libelli contro il pontefice – facendolo decapitare in piazza, dopo la tortura, il 5 marzo 1644. La descrizione dell’orribile morte, immaginata per bocca dello stesso ucciso, si legge nell’operetta anonima, in forma dialogica, L’anima di Ferrante Pallavicino (Villafranca 1660?), composta probabilmente da uno degli Incogniti.
Scrittore di facile vena, il Pallavicino compose in un breve arco di tempo numerosi romanzi di genere vario. Tra quelli sacri e di storia romana: La Susanna (Venezia 1636), Il Giuseppe (Venezia 1648), Il Sansone (Venezia 1648), La Barsabea (Venezia 1654), Agrippina, madre di Nerone (Venezia 1642), Agrippina, moglie di Britannico (Venezia 1642); tra i mitologici: La rete di Vulcano (Venezia 1654); e tra quelli eroico‑cavallereschi: La Taliclea (Venezia 1636), L’Ambasciatore invidiato (Venezia 1654), La pudicizia schernita e Il principe ermafrodito. Quest’ultimo è giocato sul tema tradizionale dell’equivoco del sesso: un re, per motivi dinastici, lascia credere che la figlia sia un maschio; ma la fanciulla si mostra in pubblico con abiti femminili, e, sostenendo di essere la sorella del finto principe, dà luogo a situazioni ambigue e paradossali.
Sono soprattutto i romanzi che riflettono il gusto del Pallavicino per la realtà doppia e polivalente, intesa come momento di metamorfosi multiple e di giochi illusivi, che ritornano nella lingua varia, nell’espressione libera e nei temi dominanti (il labirinto – emblema delle innumerevoli apparenze del reale – lo scambio di persona, il perenne mutare dei sentimenti).
Chiarificatrici della personalità e della posizione ideologica dell’autore sono poi alcune operette antiecclesiastiche e fortemente polemiche: Il corriero svaligiato, stampato nel 1641 sotto il falso nome di Ginifacio Spironcini, che lo fece finire in carcere; Il divorzio celeste del 1643; due satire del 1646 contro Urbano VIII e i Barberini; e la già citata Baccinata. Questi volumetti per le decise posizioni antipapali (come anche alcuni romanzi dove sono presenti argomenti lascivi) furono inclusi nell’Indice dei libri proibiti.
La fine drammatica del Pallavicino ne accrebbe la fama in Italia e in Europa tanto che le sue opere, nonostante le proibizioni e i sequestri dell’Inquisizione, continuarono ad avere larga diffusione e numerose furono le ristampe fino alla fine del XVII secolo. La Baccinata, Il Corriero svaligiato, e Il Divorzio celeste ebbero traduzioni anche in altre lingue europee, in francese, inglese, tedesco, olandese e svedese. Molti furono poi gli scrittori che riprendevano o proseguivano più o meno liberamente i temi di Pallavicino, diffondendo in Europa la polemica anticlericale e anticattolica che aveva animato la sua opera.
Tutto questo, però, non basta certo a salvare l’opera di questo scrittore sostanzialmente mediocre: con tutto il rispetto che si può cercare di attribuire all’uomo, il Pallavicino, come è stato scritto, non è sicuramente né un ribelle né un innovatore pronto a sacrificare la propria vita per un ideale, ma solo un acido libellista privo di vero valore morale.
Giovanni Ambrogio Marini
Nell’ambito del romanzo, alla produzione veneta degli Incogniti si aggiunge anche l’esperienza ligure rappresentata da Giovanni Ambrogio Marini, uno dei più importanti romanzieri del Seicento.
Pochissime le notizie della sua biografia. Nacque a Venezia nel 1596 da Giovanni Ambrosio (o Ambrogio) De Marini, procuratore e senatore della Repubblica genovese e di una ignota nobildonna veneziana, dalla quale aveva avuto in precedenza (1594) un altro figlio, Marino. Una volta tornato a Genova, il padre sposò nei primi anni del nuovo secolo Maria Garbarino, dalla quale ebbe altri due figli.
Dopo il 1606, insieme con il fratello Marino, frequentò a Parma il collegio dei Nobili di Parma, rinomato istituto retto dai gesuiti. Per volontà paterna nel 1609 i due fratelli furono ascritti alla nobiltà genovese e alla morte del padre, nel 1612, in ottemperanza alle disposizioni testamentarie furono dichiarati eredi universali, per essere legittimati (1612). Conclusi gli studi due anni dopo, il Marini si laureò, sempre a Parma, in filosofia.
Fatto ritorno a Genova nel 1617, a seguito di una loro richiesta, i due fratelli ottennero dal Senato l’affrancamento dalla tutela degli zii Domenico, futuro arcivescovo di Genova, Francesco e Giovanni Agostino, futuro doge. E poiché il Marino aveva già presa la decisione di frasi prete, consegnò una procura al fratello per l’amministrazione dei beni paterni ricevuti in eredità.
La situazione economica della famiglia, divenuta precaria per l’esosità delle tasse di successione e le scarse rendite di alcuni possedimenti a Roma e nel Napoletano, costrinsero i due fratelli ad alienare alcune proprietà. Nonostante la svendita, la situazione peggiorò a tal punto che il fratello Marino, pressato dai creditori, fu costretto a lasciare Genova per rifugiarsi a Madrid e poi a Bruxelles ove rimase sino al 1663 quando poté rientrare nella città natale, grazie a un salvacondotto procuratogli da Giovanni.
Il Marini morì a Genova il 26 giugno 1668. La sua tomba è tra quelle della famiglia De Marini nella cattedrale di S. Lorenzo.
La scelta, forse, di un’esistenza riservata ed intima spinse il Marini a pubblicare nel 1640, a Bracciano, la prima parte del suo più importante romanzo attribuendolo al tedesco Giovan Maria Indris, col titolo di Calloandro sconosciuto, opera che riprende la tradizione cavalleresca del secolo precedente e narra le vicende di un principe di Costantinopoli (Calloandro appunto) e della sua amata Leonilda. Pubblicò poi la seconda parte a Genova nel 1641, con il nome romano di Bario Grisimani, anagramma del primo. Dopo successive ristampe (Endimiro creduto Uranio ed Endimiro smascherato), l’autore decise solo nel 1653 di assumersi la paternità del suo capolavoro, che andava conquistando sempre più i favori del pubblico e che fu riedito a Roma col titolo di Calloandro fedele (il Marini ne fece anche una versione teatrale, Il Calloandro fedele, tragicomedia, Genova 1656, che dedicò alla sorellastra).
Salutato dai contemporanei come uno dei romanzi più felici dell’epoca, il Calloandro godette sin dalla sua prima apparizione di un’ampia fortuna critica. Nel secolo successivo fu invece considerato unanimemente come un esempio del cattivo gusto della produzione romanzesca barocca. Ciononostante, l’opera ebbe grande fortuna editoriale: ne furono fatte più di trenta ristampe in lingua italiana, l’ultima delle quali risale addirittura al 1887. Ma ebbe grande fortuna anche in Europa: fu tradotto in tedesco e in francese, e si contano anche due edizioni polacche e una svedese.
Di minore importanza sono altri due romanzi: Le gare de’ disperati, pubblicato a Milano nel 1644 (e più tardi, col titolo di Nuove gare de’ disperati, a Genova nel 1660), con il tradizionale iter dell’amore contrastato; e Gli scherzi di fortuna a pro’ dell’innocenza (Genova 1662), dove le vicende del protagonista, il cavalier Cleonte, alle prese con la malvagia duchessa Amparia, intessute da equivoci e scambi, riprendono la complicata trama del Calloandro. Dello scrittore rimangono anche opere di carattere edificante: Cras et numquam moriemur (Roma 1646), Il caso non a caso (Genova 1650), La schiavitudine mondana ridotta in libertà (Milano 1652), La settimana santa ben avventurosamente sfuggita (Genova 1657). Né bisogna stupirsi, come osserva opportunamente il Raimondi, «di questa, diciamo così, convivenza di interessi, dal momento che il Marini era convinto che anche il romanzo, con i suoi scenari patetici e le sue situazioni melodrammatiche, dovesse avere in ultima analisi un ufficio di catarsi morale».
Girolamo Brusoni
Nato a Badia Vangadizza, nel Polesine, tra il 1610 e il 1614, da famiglia di antica origine senese, si trasferì a Ferrara e poi, forse in conseguenza di una delusione amorosa, in Toscana, dove rimase alcuni anni. Tornato in Emilia poco tempo dopo, in seguito alla morte del padre e dei fratelli rimase erede di un notevole patrimonio che perse, però, in breve tempo a causa di un parente. Entrò allora nell’Ordine dei Certosini, assumendo il nome di Cherubino, e passò presto a Padova forse per continuare gli studi teologici.
Ma il clima anticonformista e libertino di Venezia doveva essere una forte tentazione per un temperamento, come quello del Brusoni, poco adatto alle regole della vita monastica. Abbandonata, quindi, Padova, si fermò a Venezia dove, divenuto intimo amico del Loredano e del Pallavicino, letterati già affermati, poté entrare nella famosa Accademia degli Incogniti col nome di Aggirato – esperienza, questa, fondamentale per la sua produzione letteraria. Ma alla fine del 1642 il nunzio apostolico a Venezia, considerata poco ortodossa la sua condotta, gli ordinò di ritornare alla Certosa di Padova. Abbandonato, però, ancora una volta il convento, nel 1644 fu arrestato a Padova e tradotto in un “camerotto” della prigione Giustiniana di Venezia, dove trascorse sei mesi di intensa attività letteraria: scrisse varie rime in lingua italiana, una canzonetta in dialetto veneziano, alcune novelle licenziose, un “trascorso” di imitazione bernesca, e un panegirico alla Repubblica veneta, forse il più enfatico e barocco dei suoi componimenti. Probabilmente fu la dedica al doge di questo panegirico o la protezione di qualche autorevole patrizio veneto, che ad un accademico Incognito non poteva mancare, a restituire al Brusoni la libertà. Ma la liberazione non dovette essere senza condizioni: prima fra tutte, naturalmente, quella di ritornare in convento.
Nel 1651, comunque, uscì definitivamente dal convento con il consenso dell’autorità ecclesiastica. Da allora il pericoloso clima antiriformista, poco tollerante nei confronti di quegli “scapigliati” veneziani (come abbiamo detto, il suo amico Pallavicino, a cui aveva dedicato La vita di Francesco Pallavicino, era stato decapitato ad Avignone), spinse il Brusoni ad una vita più ritirata e meno compromettente, tanto da dimenticare –e a fare dimenticare – i suoi trascorsi, a tal punto che nell’operetta Sogni di Parnaso censurò i libertini (che si fanno «conoscere seguaci di quei pazzi ateisti»), e rinnegando, quindi, le sue stesse esperienze precedenti.
Rimasto libero dagli obblighi religiosi, convisse con una donna da cui ebbe quattro figli, legame illegittimo, certo, ma tranquillo e definitivo. Dedicatosi, poi, all’attività di corrispondente politico e storico, scrisse la sua importante Istoria d’Italia, per la quale entrò in contatto con la corte piemontese. Nel 1676 venne chiamato come storico ufficiale dal governo sabaudo; ma, arrivato a Torino, dopo un primo periodo di celebrità (fu il fondatore e il primo direttore dell’Accademia Reale), si attirò l’ostilità di alcuni e cadde in disgrazia. Il 26 luglio del 1686, ormai povero e ammalato, chiese il permesso alla corte di rientrare a Venezia; non si sa tuttavia se lo ottenne, perché da allora i documenti non parlano più di lui.
Nel clima, dunque, dell’Accademia degli Incogniti e della cultura barocca che l’informa si sviluppa l’arte giovanile del Brusoni, fecondissimo scrittore secondo la moda del secolo. La maggior parte delle prime opere non si distaccano dal gusto del romanzo eroico‑galante. Aveva appena quindici anni quando compose Lo scherzo di fortuna e L’ambizione calpestata, pubblicata poi a Venezia nel 1641 insieme ai Ragguagli di Parnaso (composti nel periodo toscano), operetta di imitazione boccaliniana, priva di autentico valore, ma significativa per l’atteggiamento di fondo (si tratta di una polemica contro i principi, gli spagnoli, le proibizioni dei libri).
Più strettamente legate alla vita e al gusto dell’Accademia veneziana sono il romanzo La fuggitiva (Venezia 1639), che ottenne un notevole successo – in quarant’anni sei ristampe – forse perché dietro la finzione letteraria l’autore aveva voluto rappresentare le tristi vicende di personaggi dell’epoca (è la storia di Pellegrina, figlia di Pietro e Bianca Capello e moglie del nobile bolognese Ulisse Bentivoglio); Gli aborti dell’occasione (Venezia 1641), raccolta degli interventi dello scrittore nelle riunioni degli Incogniti; Le glorie degli Incogniti (Venezia 1647), pubblicata anonima, contenente brevi elogi dei membri dell’Accademia. Ed ancora le Lettere amorose (Venezia 1642) e I complimenti amorosi, dieci dialoghi ricchi di citazioni erudite.
Il successo ottenuto con La fuggitiva spinse il Brusoni a comporre romanzi che rispondessero alle esigenze di un sempre più vasto pubblico: tra il 1640 e il 1642 scrisse L’amante maltrattato, Il principe Deredato, La giustizia oltraggiata (questi ultimi due andarono smarriti) e La turbolenza delle Vestali (pubblicato nel 1658 col titolo Degli amori tragici), opera in cui, dietro le lascive avventure di alcune vestali con dei giovani romani, si adombrano le corruzioni e gli eccessi del XVII secolo, la sua insofferenza ai canoni morali, il suo desiderio di esperienze erotiche e antireligiose. Nel 1645 a Venezia uscì Il camerotto, contenente gli scritti del carcere: rime in italiano e in dialetto veneziano; quattro novelle (più tardi incluse nella raccolta Curiosissime novelle amorose, Venezia, 1655 e 1663); un panegirico a Venezia e il “trascorso” L’eccellenza delle corna.
Se La Orestilla (Venezia 1652) e L’amante maltrattato (Venezia 1654) sono ancora romanzi legati alla tradizione nel linguaggio e nella trama, l’apertura verso moduli narrativi e registri linguistici più autonomi e liberi è segnata da La Filismena (Venezia 1657), dove il protagonista, il principe Ferdinando di Cordova, si muove in uno spazio storico più concreto e reale. Nello stesso anno fu pubblicata La gondola a tre remi, seguita nel 1658 da Il carrozzino alla moda (posti entrambi all’Indice dei libri proibiti) e nel ‘62 La peota smarrita, a conclusione della importante trilogia che, ambientata realisticamente nella Venezia del secolo, procurò al Brusoni la fama di creatore di un nuovo tipo di romanzo “borghese”, un romanzo di costume agganciato alla vita contemporanea.
Alla sua attività di storico si ricollega l’Istoria d’Italia, iniziata a Venezia nel 1656 e ristampata poi con successivi ampliamenti (a Venezia, nel 1657, 1661, 1671, 1676 e poi a Torino nel 1680). L’opera, divisa in 46 libri con struttura annalistica, riepiloga i fatti politici italiani dal 1627 (inizio della contesa per la successione di Mantova e del Monferrato) al 1680, con una puntualità e una diligenza – dovuta anche al fatto che l’autore fu osservatore diretto di alcune vicende – che la rendono preziosa dal punto di vista informativo.
Bernardo Morando
Bernardo Morando (Sestri Ponente, 1589 – Piacenza, 1656) nacque da Guglielmo e da Mariettina Morando, e dopo aver compiuto i primi studi nella città natale presso gli eremiti geronimini della chiesa di S. Maria della Costa, nel 1598 seguì il padre a Genova, dove proseguì la sua formazione acquisendo conoscenze anche in campo commerciale. Sin da ragazzo si cimentò con la scrittura in versi, componendo in italiano, in latino e in greco, ma della sua produzione giovanile non ci è pervenuto nulla.
Nel 1604 fu mandato dal padre a Piacenza, dove la famiglia aveva importanti interessi e il nonno paterno Biagio nel 1596 aveva ottenuto la cittadinanza per sé e per i discendenti. Morando vi trascorse tutta la vita, allontanandosene solo per brevi periodi. Ben presto divenne una figura importante nella vita della corte farnesiana, cui lo legavano tanto le attività economiche quanto la produzione poetica, in buona parte dedicata alla celebrazione della dinastia regnante.
Nel 1610 Morando divenne «direttor primario» degli spettacoli della corte, carica che tenne fino alla morte. Delle ricche feste cittadine non si limitò a curare l’allestimento, ma, in molte occasioni, scrisse i testi delle messe in scena, la maggior parte dei quali furono stampati: i balletti Ercole fanciullo (1639), Vittoria d’amore (1641) e Le ninfe del Po (1644); Le risse pacificate da Cupido (1644); i drammi musicali Il ratto d’Elena (1646) e Ercole nell’Erimanto (1651). L’opera più impegnativa di questa produzione fu l’ultima scritta da Morando: Le vicende del tempo (1652), «drama fantastico musicale diviso in tre azzioni con l’introduzione di tre Balletti».
Nel 1612 sposò Angelica Bignami, dalla quale ebbe tredici figli. Per il resto, la sua vita trascorse senza grossi eventi di rilievo, divisa equanimemente tra il culto delle lettere e l’impegno per l’accrescimento del patrimonio e del prestigio della famiglia. Partecipò alla costituzione della piacentina Accademia degli Spiritosi, voluta dai Farnese, tenendo anche il discorso per l’inaugurazione, il 3 settembre 1655, che fu poi pubblicato lo stesso anno, col titolo La fontana artificiosa, overo le glorie dell’arte. Fu inoltre membro di due delle più importanti accademie del tempo: gli Addormentati di Genova e gli Incogniti di Venezia.
Come tutta la sua famiglia, Morando fu un uomo estremamente religioso tanto che, dopo la morte della moglie, divenne sacerdote. Compose diverse opere di carattere religioso, tra cui l’unica pubblicata in vita è la raccolta di Divozioni poetiche (Parma, 1639). Alla sua morte gli vennero tributate imponenti onoranze funebri.
La sua notorietà in campo letterario è legata principalmente alla composizione del romanzo La Rosalinda (Piacenza, 1650), il cui successo è testimoniato non solo dalle numerose ristampe e dalle due traduzioni in lingua francese ed inglese, ma anche dal fatto che ne furono tratti tre drammi musicali. Nell’ avvertenza ai lettori Morando dice chiaramente che, oltre alla verosimiglianza, nel suo romanzo è di assoluta importanza la varietà. E proprio la ricerca della varietà porta tra l’altro all’inserimento nel racconto di non poche liriche, pronunciate dai protagonisti, e di digressioni discorsive, veri e propri trattatelli su vari aspetti religiosi e politici. Le vicende, svolte secondo una trama complicatissima, ricca di colpi di scena e bruschi cambiamenti di prospettiva che rimandano al modello dell’Orlando furioso, sono ambientate in anni recenti, e hanno come sfondo eventi reali. Le tematiche principali affrontate direttamente o adombrate nel testo si riallacciano agli interessi sempre manifestati da Morando: emergono così forti istanze religiose, di chiara impronta controriformistica, e la rivendicazione orgogliosa del proprio ceto d’origine. Infatti, nella rappresentazione della società sono mescolati ambienti borghesi e aristocratici, giacché, per Morando, tra le due classi non si manifestano più sostanziali differenze quanto ad ideali e stili di comportamento.
***NOTE AL TESTO***
[1] Cesare Cremonini nacque a Cento di Ferrara da Mattea Pilanzi e da Matteo Cremonini, un pittore originario di Cremona (da cui il cognome, che era originariamente Zamboni), del quale si conservano affreschi negli oratori delle chiese della Pietà e di San Rocco. Un fratello di Cesare, Giovan Battista, seguì le orme paterne con qualche successo nelle città emiliane e a Bologna. Cesare prese invece la strada degli studi umanistici: studente in legge nell’Università di Ferrara, scelse poi filosofia, divenendo dal 1579 insegnante di filosofia naturale nello Studio ferrarese fino al 1589. Il 23 novembre 1590 fu chiamato a Padova per insegnare filosofia naturale in secundo loco, mentre Francesco Piccolomini assumeva la prima cattedra. Il 27 gennaio 1591 Cremonini iniziò il suo corso, leggendo la prolusione Exordium habitum Patavii VI Kalendis Februarii 1591. Filosofo aristotelico, non senza subire l’influenza del platonismo di Pico della Mirandola, difese una concezione fisico-metafisica coerente con i principi dell’aristotelismo, distinguendo nettamente tra il pensiero di Aristotele, che era compito del maestro esporre, e i divergenti insegnamenti della fede, verso i quali era professato formale ossequio. Collega a Padova di Galileo Galilei, non volle mai, a quanto pare, prendere in considerazione le sue ipotesi né compiere osservazioni celesti con il ‘cannocchiale’ galileiano. Pochi sono gli scritti stampati di Cremonini, sono invece giunte a noi molteplici trascrizioni delle sue lezioni, che egli preferiva tenere oralmente al posto della forma scritta.
[2] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 298.
[3] Jean-Pierre Camus (Parigi, 1584 – Parigi, 1652), già magistrato e seguace del pensiero di Michel de Montaigne, abbracciò lo stato ecclesiastico e per la sua eloquenza, nonostante non avesse ancora raggiunto l’età canonica di 25 anni, nel 1609 fu proposto da Enrico IV a vescovo di Belley. Fu consacrato da S. Francesco di Sales, del quale fu un fedele discepolo. Rinunciò al governo della diocesi nel 1629 e si ritirò nell’abbazia di Aunay, di cui fu commendatario; fu poi vicario generale dell’arcidiocesi di Rouen e nel 1649 si stabilì a Parigi, dove si dedicò all’aiuto dei poveri nell’Ospedale degli Incurabili. Ebbe l’intuizione di servirsi dello straordinario entusiasmo che suscitava il genere romanzesco, per farne strumento d’edificazione cristiana. Scrisse con trascurata semplicità una cinquantina di romanzi e numerose novelle, ch’ebbero grande successo e dove le più strambe e piccanti peripezie terminavano immancabilmente col trionfo dei giusti e la punizione dei peccatori. Lo stile è un perfetto esempio di cattivo gusto, ma il Camus ebbe il merito di dare al romanzo un carattere familiare e popolare, in contrasto con la pomposità e l’eleganza dell’epoca.
[4] Carminati Clizia, LOREDAN, Giovan Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 65, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2005.
[5] Crivelli Gustavo Balsamo, BRIGNOLE SALE, Anton Giulio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1930
[6] Il geloso non geloso (1663), Li comici schiavi (1666) e Gli due anelli simili (1669).
[7] Marino II Caracciolo (Atripalda, 1587 – Napoli, 1630), 3° Principe di Avellino, 4° Duca di Atripalda, Gran Cancelliere del Regno di Napoli dal 1617 e Patrizio Napoletano, Cavaliere dell’Ordine del Toson d’Oro dal 1622, era figlio di Camillo Caracciolo, II Principe di Avellino e Roberta Carafa.
[8] La Calprenède (castello di Toulgou, Périgord, 1614 – Grand-Andély 1663), fu l’autore di romanzi d’avventure amorose ed eroiche – prolissi ed enfatici, ma assai apprezzati al suo tempo – e di alcune opere teatrali.
[9] Madeleine de Scudéry (Le Havre 1608 – Parigi 1701) fu una scrittrice francese, il cui nome è legato alla fortuna del romanzo sentimentale intorno alla metà del 1600. Pubblicò sotto il nome del fratello, e con la sua collaborazione diversi romanzi che, sotto il velo della storia orientale o romana, volevano rappresentare gli ideali della società del tempo, colta e raffinatissima.
[10] Francesco Morosini (Venezia, 1619 – Nauplia, 1694) era figlio terzogenito del futuro procuratore Pietro di Michele, della parrocchia di Santa Marina, e di Maria Morosini di Gabriele, del ramo ‘in calle dei Botteri’. Partecipò fin da giovane alle imprese marittime di Venezia, e nel 1656 divenne provveditore generale a Candia. Nominato capitano generale da Mar nel 1657, combatté instancabilmente i Turchi sino al 1661, quando talune accuse sul suo governo della squadra navale, dalle quali fu assolto, lo allontanarono per alcuni anni dal mare. Nel 1667, nominato per la seconda volta capitano generale da Mar, difese ancora Candia e solo nel 1669 si piegò alla pace. Un nuovo processo non gli impedì la partecipazione alla vita politica sino al 1683 come revisore delle fortificazioni in terraferma. Ma dal 1684, essendo stato rieletto capitano generale da Mar, in quattro anni compì quella celebre riconquista della Morea che gli valse il titolo di Peloponnesiaco. Eletto doge nel 1688, tentò, mentre tornava a Venezia per ricevere l’investitura dogale, l’assedio di Negroponte, con esito sfortunato. Nel 1693, benché vecchio, riprese il comando della flotta veneziana, riuscendo a conquistare Salamina e qualche piazza minore, ma, sfinito dalle febbri, morì l’anno successivo.
[11] Alvise Contarini (Venezia, 24 ottobre 1601 – Venezia, 15 gennaio 1684), centoseiesimo doge della Repubblica di Venezia, era figlio di Nicolò ed Elena Michiel. Uomo di media ricchezza e di mediocre capacità politica, si distinse più volte come ambasciatore e, in specie, quale mediatore per la Repubblica di Venezia al Congresso di Vestfalia, che si concluse nel 1648. Contarini ricoprì numerosi rettorati nelle città di terraferma oltre ad esser provveditore, savio del consiglio ed esser eletto, infine, procuratore di San Marco. Alla morte del doge Nicolò Sagredo, fratello dello scrittore Giovanni, nel 1676 il Contarini venne eletto al dogato, anche per rimarginare le ferite della guerra di Candia che aveva dissanguato l’erario. In realtà il Contarini pensò soprattutto ai lussi e ai divertimenti sfrenati e, quando tentò di governare come un doge dei tempi passati, venne subito ripreso dai suoi consiglieri per eccessiva autonomia. Riuscì comunque a mantenere la Repubblica estranea al conflitto allora in atto fra i Turchi e l’Impero e solo pochi giorni prima di morire si decise ad aderire alla lega antiturca stretta tra il papa, l’Imperatore e il re di Polonia.
[12] John Barclay (Pont-à-Mousson, 28 gennaio 1582 – Roma, 15 agosto 1621), figlio di William, visse a Londra, alla corte di Giacomo I (1606-16), in Francia e Roma, nello Stato Pontificio (1616-21), in cui morì e fu sepolto nella chiesa di sant’Onofrio al Gianicolo. Fu un poeta, scrittore e satirista scozzese di orientamento cattolico. Scrisse in latino un romanzo a chiave, Argenis (1621), con allusioni ad eventi e personalità del suo tempo. Ancora in latino scrisse, con lo pseudonimo di Euphormio Lusininus, un romanzo picaresco, Satyricon (1603-14), satira contro i gesuiti. Difese contro l’attacco del Bellarmino il De potestate papae di suo padre William, di cui aveva curato la pubblicazione (1609).
[13] Marini Quinto, PASINI, Pace, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 81, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2014.
[14] Giacomo I d’Inghilterra e VI come re di Scozia (Edimburgo 1566 – Londra 1625) era figlio di Maria Stuarda e di Lord H. Darnley. All’abdicazione della madre, fu incoronato, a poco più di un anno, re di Scozia (29 luglio 1567) e fu solo un’arma di ricatto in mano ai vari reggenti. Debole di salute e di carattere, dal 1585 ebbe parte nel governo, e appoggiandosi alla regina Elisabetta poté condurre una lotta a fondo contro l’opposizione baronale, stroncandone velleità e privilegi; analogo carattere assolutista ebbe la sua politica religiosa, nella lotta contro i fautori della superiorità della Chiesa sullo Stato. Temendo che un intervento a favore della madre gli alienasse la simpatia di Elisabetta, non reagì all’uccisione di Maria Stuarda e nel 1603 egli poté succedere pacificamente a Elisabetta sul trono inglese. Le sue teorie politiche sul diritto divino dei re lo resero ben presto inviso sia ai cattolici che ai puritani. Si scontrò con il parlamento, restio a finanziare l’inconcludente politica del Duca di Buckingham. Alla sua morte lasciò un regno decisamente impoverito per gli sperperi e la corruzione della corte, indebolito sul piano internazionale e nel quale già covava una forte opposizione alla corona.
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