«Vasta e varia è la vita teatrale anche nel Seicento italiano, benché essa non raggiunga certo (in forza dei limiti più volte notati della civiltà e della società secentesca italiana) gli esiti poetici altissimi cui il teatro secentesco perviene in paesi tanto più ricchi di forte vitalità storica: il grande teatro shakespeariano in Inghilterra, quello di Corneille e di Racine in Francia, quello di Calderón de la Barca e di Lope de Vega in Spagna, che, d’altra parte, tanto debbono all’esperienza teatrale italiana cinquecentesca e alla stessa novellistica italiana […].
In Italia, nel Seicento, si espande e continua l’attività professionale e originale dei grandi attori e mimi della commedia dell’arte, che sempre più s’affermano con le loro compagnie nei teatri europei, mentre insieme continua lo sviluppo del melodramma o dramma per musica avvantaggiato dal moltiplicarsi di musicisti, di scenografi che assecondano il gusto spettacolare del secolo in accordo con i librettisti, che sempre più tendono ad offrire trame macchinose, complicate di toni eroici, comici, burleschi, disposte soprattutto a sollecitare gli effetti prevalenti della musica e della scenografia sacrificando la organicità e l’importanza del libretto e dell’opera letteraria, fino a quel grado minimo di una poesia resa serva della musica e della scenografia che alla fine del secolo provocherà le più dure accuse contro il melodramma stesso»[1].
In pratica, questo gusto dello “spettacolare”, che – come s’è già detto – anche in poesia tendeva alla spettacolarità delle situazioni e dello stesso linguaggio, si traduce da un lato come dimensione non esclusivamente stilistica, per cui ogni fatto o sentimento deve tradursi in una ricercata ostentazione; dall’altro come gusto della sperimentazione (e il genere lo permetteva), in una ricerca di moduli espressivi nuovi ed originali. Nello stesso tempo ciò che è importante è anche l’apertura dell’esperienza drammatica verso un pubblico più vasto e reale: il teatro, un tempo luogo assolutamente privilegiato e cortigiano, diventa adesso pubblico (per la prima volta nel 1637 a Venezia si apre un teatro con ingresso libero, il San Cassiano), pur conservando un carattere elitario.
Tra i vari generi la commedia classicheggiante non raggiunse nel Seicento quei notevoli risultati che aveva avuto nel XVI secolo; basti qui ricordare Michelangelo Buonarroti il Giovane, ricchissimo scrittore e autore de La Tancia e de La Fiera (rappresentate nel 1611 e nel 1618); ed anche il poeta dialettale Carlo Maria Maggi[2], che scrisse commedie dove il dialetto milanese si inserisce con un certo gusto nella lingua ufficiale. Così come anche modesto fu il valore del dramma pastorale, in cui si continuava la tradizione dell’Aminta del Tasso e del Pastor fido del Guarini; tra i suoi autori è possibile citare, per alcuni meriti artistici di maggiore morbidezza ed ingegnosità, Guidubaldo Bonarelli con la Fìlli di Sciro.
Tuttavia, nel XVII secolo si verificò parallelamente la definitiva e importante affermazione della Commedia dell’Arte, o a soggetto (certo più adatta, come genere, a quel gusto barocco per l’immaginazione libera e creativa), che si sostituì presto alla commedia rinascimentale.
Questo tipo di rappresentazione, nato già nella seconda metà del Cinquecento, non possedeva un testo scritto, ma gli attori dovevano adattare su un “canovaccio” tutta una serie di battute, dialoghi e monologhi fissi che trovavano il loro momento inventivo proprio nella libertà con cui si inserivano nell’azione scenica. Nacquero allora le compagnie teatrali con struttura stabile, formate il più delle volte da attori autori; ed anche le maschere, che rappresentavano dei “tipi” canonici, spesso legati ad una realtà regionale, e talora simboli di una classe sociale (Pantalone, Arlecchino, Brighella, Tartaglia, Pulcinella, ecc.) ancor più che dei loro vizi e dei lro difetti. Famosa fu la compagnia dei Gelosi, la cui attività durò dal 1568 al 1604; ne facevano parte gli attori più abili di quel tempo: Francesco Andreini[3], che aveva assunto nelle rappresentazioni il ruolo fisso del capitano Spavento (autore, tra l’altro, delle Bravure del capitano Spavento, Venezia 1607); la moglie Isabella Canali Andreini, scrittrice di rime petrarchesche; e Flaminio Scala[4], autore de Il teatro delle favole rappresentative, ovvero la ricreazione comica, boscareccia e tragica (Venezia 1611), opera di basilare importanza per comprendere la Commedia dell’Arte, poiché i lavori contenuti in quest’opera sono cinquanta e da essi si può chiaramente evincere che nel “teatro improvviso” non si rappresentavano soltanto commedie, ma anche tragedie. Quaranta di questi sono veri e propri scenari di commedie, mentre dieci sono un miscuglio di comico e di sentimentale.
Nel corso del Seicento, inoltre, dall’unione tra Commedia dell’Arte e moduli letterari tradizionali nacque una nuova forma di commedia, detta “ridiculosa”, dove, rinunciando al canovaccio, si recuperano gli schemi scenici cinquecenteschi, ma si inseriscono i momenti più tipici della rappresentazione improvvisata (le maschere, i dialetti, ecc.).
Ma certamente è nella produzione tragica che il XVII secolo realizzò risultati di alto valore poetico. Riguardo alla struttura esteriore, nelle tragedie viene riproposto lo schema cinquecentesco con le regole canonizzate dai trattatisti (le tre unità, il coro e la divisione in cinque atti). In quanto alla scelta tra il tipo di tragedia trissinana, che richiama la semplicità greca, e quella seguita dal Giraldi Cinzio con il gusto violento e orrido di stampo senechiano, predomina la seconda. Nelle proposte tematiche torna sempre il contrasto tra coscienza individuale e ragion di stato, sentimento e potere, etica e politica; mentre gli eroi della tragedia, consapevoli di un drammatico conflitto, sembrano rassegnati al sacrificio della morte, come unico momento risolutivo possibile.
Di alto impegno, e certo tra i capolavori del teatro tragico italiano, sono l’Aristodemo di Carlo De’ Dottori e le tragedie di Federigo Della Valle, ricche di profonda sensibilità poetica. Autori tragici, di minor impegno, furono anche il Chiabrera (Erminia, Angelica in Ebuda), il Bracciolini (Evandro), il Testi (Arsinda, Isola d’Aitino), il Caraccio[5] (Corradino), il Cebà[6] (Alcippo, Principessa Silandra, Gemelle Capuane).
Mediocre è inoltre il quadro del teatro edificante, che pure fu copioso nel Seicento come strumento efficacissimo della propaganda religiosa, nello spirito controriformistico dell’epoca. Tra le numerose opere teatrali di carattere sacro, poche raggiunsero un valore letterario; tra queste: l’Ermenegildo martire di Sforza Pallavicino; l’Ermenegildo di Emanuele Tesauro e i drammi religiosi di Benedetto Cinquanta.
Guidubaldo Bonarelli
Guidubaldo (o Guidobaldo) nacque a Pesaro nel 1563 dal conte Pietro Bonarelli della Rovere, gentiluomo della corte di Urbino, e da Ippolita di Montevecchio. A seguito del susseguirsi di sfortunate vicende, la famiglia ben presto fu costretta a trasferirsi prima a Ferrara e poi presso i conti Gonzaga di Novellara.
Nel 1579, avendolo il padre destinato alla carriera ecclesiastica, il giovane Guidubaldo venne mandato in Francia a studiare teologia nel collegio dei gesuiti di Pont‑à‑Mousson, e filosofia alla Sorbona. Tornato in Italia, non volle obbedire al padre, che lo voleva appunto ecclesiastico, e nel 1592 si recò a Milano al servizio di Federico Borromeo. Successivamente andò a Ferrara presso il duca Alfonso II d’Este, con l’incarico di cameriere segreto. Furono anni, quelli dal 1595 al 1600, di intensa attività diplomatica, prima per conto di Alfonso II e poi per il suo successore, il quale, però, avendo scoperto il matrimonio segreto tra il Bonarelli e Laura Coccapani, figlia del tesoriere ducale, bandì il poeta dallo stato.
Per intercessione del cardinale Alessandro d’Este[7] il Bonarelli ottenne il perdono, ma non fu più riabilitato nelle sue funzioni ed ebbe così il tempo di dedicarsi ai suoi interessi letterari. Fece parte, a Ferrara, dell’Accademia degli Intrepidi; e nel 1605, all’apertura del teatro ducale ferrarese, dette alla scena la sua più importante composizione, la Filli di Sciro, che fu pubblicata due anni dopo.
Nel 1608, mentre su invito del cardinale Alessandro si stava recando a Roma per occupare il posto di maggiordomo, fu colto dalla morte a Fano.
La Filli di Sciro, l’opera più importante del Bonarelli, è favola pastorale costruita sul doppio amore di Celia per i due pastori Niso e Aminta, che l’avevano salvata dalle insidie di un centauro, e sul sentimento parallelo di Clori per Niso. Angosciata dall’amore contrastante, Celia, disperata, tenta il suicidio. La situazione si scioglie con l’agnizione finale: Celia riconosce in Niso il fratello Tirsi perduto nell’infanzia e può così sposare felicemente Aminta; Clori, che in realtà si chiama Filli, può dimostrare a Tirsi, grazie ad un cerchio d’oro diviso a metà, di essere la fanciulla di Sciro da lui amata un tempo e da cui la sorte l’aveva diviso. Innamorati e promessi sposi ancora in giovane età, inviati come ostaggi al re di Tracia e salvati da un soldato del re di Smirne, che li aveva separati cambiando loro il nome, i due fanciulli possono adesso riamarsi.
L’abile costruzione narrativa, giocata su un ingegnoso mosaico di situazioni coincidenti e paradossali, dove l’operazione stilistica dell’ossimoro diventa l’emblema di una struttura che procede per antitesi e opposizioni, è uno degli elementi distintivi dell’opera del Bonarelli. Ma significativo è anche il tono di delicatezza e di grazia che informa ogni situazione e in cui ogni tensione narrativa e psicologica sembra sciogliersi.
Scarsa rilevanza ha il resto della produzione letteraria del Bonarelli, consistente in due orazioni, alcune liriche e varie lettere. Di una certa importanza, invece, fu la Difesa del doppio amor di Celia, scritta nel 1606 per giustificare psicologicamente la veridicità del duplice sentimento della protagonista della sua favola pastorale. La quale, invero, ottenne un notevole e immediato successo, come appunto testimonia la Difesa, nata da un’esigenza di chiarificazione per le numerose discussioni cui aveva dato origine l’opera; e come provano anche le varie edizioni e traduzioni che se ne ebbero nel corso del Settecento.
Ottavio Rinuccini
«Si dice che Ottavio Rinuccini fosse bellissimo, assai elegante, eloquente, corteggiatore delle dame più leggiadre della società aristocratica. Rappresentò la Dafne alla presenza della granduchessa Cristina di Lorena, l’Euridice in occasione delle nozze di Maria De’ Medici, l’Arianna per le nozze di Francesco Gonzaga, dopo essere stato in Francia, cortigiano e forse innamorato della stessa regina. Cantò più volte questa e il marito Enrico IV, al solito freddo e compìto come un gentiluomo di corte. E dopo tanti amori e tanta eleganza finì la vita in cristiano raccoglimento»[8]. Così Attilio Momigliano sintetizzava, quasi cent’anni fa, nel lontano 1926, l’esperienza biografica e poetica dell’inventore del nuovo genere melodrammatico, non senza una certa dose di ironico distacco, come se la materia non fosse degna di approfondimento critico; e tale impressione viene rafforzata se si prosegue nella lettura del brevissimo saggio, laddove Momigliano afferma che Rinuccini «non sembra che abbia mai conosciuto l’intimità spirituale del vero poeta: sicché anche quel po’ di musica che vapora nel cielo scialbo de’ suoi melodrammi come una spira lieve di fumo, pare più che altro una grazia fugace di aristocratico»[9].
Sul fatto che Rinuccini sia da considerare un tipico esempio di poeta cortigiano dell’estrema stagione rinascimentale, alle soglie della nascente sensibilità barocca e marinista, non sembrano porsi particolari dubbi o difficoltà; si tratta, insomma, di un abile verseggiatore, influenzato, com’è naturale, dal petrarchismo tassiano, ma non disposto a seguirlo nei suoi esiti più spregiudicati e concettosi, legato a filo doppio, com’era, all’eredità poetica fiorentina di matrice polizianesca, che lo tratteneva dagli slanci espressivi più insoliti e ricercati, in virtù d’una sostanziale esigenza di compostezza formale: un letterato, in breve, che non conosce certo gli straordinari picchi, pur discontinui, di ispirazione poetica propri del Tasso, frutto di un ingegno fervido di immaginazione e costantemente stimolato dalle più diverse e dolorose esperienze di vita, anche se non va sottovalutata la consapevolezza critica delle sue scelte letterarie, che costituiscono il risultato di un’approfondita ricerca archeologica ed erudita, in seno alle speculazioni accademiche fiorentine tardo‑umanistiche, così come la più recente bibliografia ha messo in luce.
Nato a Firenze nel 1562 da una nobile famiglia, ricevette probabilmente un’educazione adeguata al suo rango sociale. Divenne ben presto famoso a Firenze per la composizione di alcune liriche d’amore e di vario argomento, che ricalcavano i modi della poesia del Petrarca, del Tasso, e anche del Chiabrera per l’uso dei metri.
Nel 1580 entrò a far parte di quella famosa Camerata di poeti e musicisti che si radunavano in casa del letterato e compositore Giovanni de’ Bardi[10]: in questo ambiente colto e raffinato, sotto la protezione del mecenate Jacopo Corsi[11] e della famiglia de’ Medici, il Rinuccini compose la maggior parte delle sue opere. Nel 1600 egli accompagnò Maria de’ Medici in Francia, non perché segretamente innamorato di lei, come sostennero i primi biografi, ma per riscuotere un credito. Fermatosi a Parigi per tre anni come gentiluomo del re, ottenne un’immediata fortuna allestendo per la corte vari spettacoli.
Ritornato in Italia, ebbe rapporti anche con la corte di Mantova, stringendo legami di amicizia col cardinale Ferdinando Gonzaga[12]. Si dedicò negli ultimi anni della vita a composizioni di carattere religioso. Morì a Firenze nel 1621.
Come s’è detto, a fama del Rinuccini è essenzialmente legata alla sua attività di “librettista”, rivolta alla creazione di un nuovo genere letterario – il superamento della favola pastorale e la composizione di un testo autonomo, semplice ed essenziale, per la tragedia in musica – aderente a quei canoni stilistici che si andavano delineando nelle dissertazioni teoriche del cenacolo fiorentino del conte de’ Bardi.
Compiute le sue prime esperienze liriche (madrigali e canzoni) e divenuto anche poeta cortigiano (scrisse mascherate, balletti e intermezzi per le feste di corte), il Rinuccini compose tre brevi drammi, che esemplificano il passaggio dalla favola pastorale al libretto d’opera: la Dafne del 1594, l’Euridice[13] del 1600 e l’Arianna[14] del 1608. Dello stesso anno è il Narciso, altro melodramma che non fu mai rappresentato e di cui la critica non ha tenuto gran conto.
Il poeta, in queste sue opere, riutilizza alcuni miti esemplari, tipici di una cultura tradizionale (la metamorfosi di Dafne in alloro per opera di Apollo, l’infelice amore di Orfeo per Euridice e la vicenda di Arianna e Teseo), trasformando il pathos drammatico in un’affettuosa e languida partecipazione, o attraverso il lieto fine, come per il mito di Orfeo, o mediante la narrazione – e non la rappresentazione diretta – di fatti centrali per mezzo di personaggi secondari, come nella metamorfosi di Dafne riferita da un nunzio. La schematizzazione del movimento tragico in linee essenziali (ogni complessità strutturale viene, dunque, eliminata) non preclude la costruzione di significativi momenti drammatici, dove l’autentica commozione dell’autore si traduce in una realtà armonica, sfumata nei suoi contorni, anche mediante il recupero del linguaggio lirico, creando, nel contempo, una nuova allusiva dimensione poetica, che trova nella musica la sua compiuta realizzazione.
Federico Della Valle
«La biografia di Federico Della Valle è assai scarsa di notizie. Nacque probabilmente attorno al 1560 ad Asti, o forse nell’astigiano, da una famiglia borghese di modeste condizioni sociali. La prima data certa della sua biografia è il 1585, anno in cui, a Torino, compose un Epitalamio per l’arrivo di Caterina d’Austria, figlia di Filippo II, re di Spagna, andata in moglie a Carlo Emanuele I di Savoia. Nel 1587 entrò al servizio di Caterina di Savoia come furiere maggiore della cavalleria ed occupò quell’incarico fino alla immatura scomparsa della duchessa, avvenuta nel novembre del 1597. Rimasto senza impiego, Nel 1607 si trasferì a Milano presso il governatore spagnolo della città, dove morì tra il 1628 e il 1629»[15].
La sua esperienza di uomo di corte, confinato in incarichi modesti e sproporzionati rispetto alle sue capacità, confortò in lui la formazione di un fondo gravemente pessimistico sulla situazione umana e storica, mentre ideali controriformistici e ben secenteschi (il tema della regalità di origine divina, il tema della nobiltà del servizio dei potenti, alterato dalla invidia e dagli altri vizi della vita di corte, ma non contraddetto da tutto ciò nella sua positività, il tema religioso cattolico) si configuravano nella sua meditazione in forme alte e severe, confortate da una profonda severità morale e religiosa, tanto superiore al semplice conformismo di tanta parte del costume del secolo, e forse più collegata alla moralità e religiosità di fine Cinquecento, come la sua poesia risente di esperienze tassesche e prebarocche.
La sua prima produzione (l’Epitalamio, sonetti, madrigali), di carattere encomiastico, riflette pertanto un’esperienza non certamente felice di cortigiano. Di scarso valore è anche la tragicommedia giovanile Adelonda di Frigia, rappresentata nel 1595 alla corte sabauda e pubblicata più tardi, nel 1629, dopo la morte del poeta, per cura di un nipote. L’Adelonda – che riprende la mitica vicenda della regina di Frigia, che, trasportata da una tempesta nell’isola delle Amazzoni e divenuta sacerdotessa dell’idolo a cui venivano sacrificati gli stranieri che lì approdavano, riesce a salvare il suo promesso sposo Marmirano e a porre fine al triste e barbaro costume – se preannuncia in qualche modo le prove più mature dell’autore, non riesce comunque a liberarsi delle comuni suggestioni della tradizionale poesia pastorale.
Nel periodo milanese il Della Valle pubblica le tre tragedie Iudit (1627), Ester (1627), La reina di Scozia (1628)[16], opere di grande maturità artistica e di autentica ispirazione poetica, che costituiscono, insieme all’Aristodemo del Dottori, il capolavoro della produzione teatrale barocca. Nella prima si racconta la vicenda biblica di Giuditta e Oloferne; nella seconda Ester, la giovane moglie del re Assuero, sventa il piano di Aman, che vorrebbe distruggere gli Ebrei; nell’ultima si narra la tragica storia della cattolica Maria Stuarda, mandata sul patibolo da Elisabetta d’Inghilterra.
La struttura delle tragedie del Della Valle è lineare, limitato lo spazio e il tempo, raro il gusto per le descrizioni orride, scarsi i contrasti e i conflitti sentimentali. Ma un profondo spirito religioso – nell’accezione cupa e dolorosa, però, assunta dal Seicento – e il senso drammatico di un itinerario esistenziale ineluttabile determinano la tragicità di queste opere, dove un’ispirazione intimamente sofferta fa confluire l’universale dolore umano nel microcosmo delle tre eroine, che sono strumenti della volontà divina. Il mondo appare, infatti, nella visione del Della Valle, quasi un teatro di sventure in cui ogni cosa avviene per imperscrutabile volere divino, anche quando l’ingiustizia e il male sembrano trionfare. Il pregio, dunque, di queste tragedie consiste tutto nella partecipazione diretta del poeta ai fatti rappresentati, nella sua personale e commossa adesione, che gli permette di vivere, insieme con i suoi personaggi, il martirio e la tribolazione, la vittoria o il crollo, in una rassegnata accettazione delle debolezze e delle miserie umane. La mediazione sentimentale diventa, così, umano dolore e tristezza profonda, non solo devozione religiosa, lì dove c’è la consapevolezza di un mondo dilaniato dalla sofferenza, assolutamente contraddittorio ed estremamente fragile, che non riesce a riscattarsi, neanche nell’anelito verso Dio.
Nella dinamica tragica intorno alle eroine piene di grandezza e umanità gravitano tutti gli altri personaggi che ad esse si richiamano in un’armonica corrispondenza; e tra questi gli antagonisti, crudeli e violenti, attenti solo al proprio interesse e alla “ragion di Stato”, ma comunque tutti illuminati da un’autentica luce di alta poesia. Infatti, come ha giustamente rilevato Giovanni Getto, l’interesse dell’autore è rivolto non tanto verso il personaggio, ma piuttosto verso una situazione, un’atmosfera emozionale che intorno al personaggio si determina, a quel clima che nell’assenza del protagonista – conclusasi ormai la sua funzione o il suo destino – sembra dissolversi come labile sogno e dileguare come ogni effimera opera umana, per lasciar posto ad una presenza definitiva e imperscrutabile che, con la sua volontà intransigente e tremenda, interviene in una conferma estremamente perentoria del significato più profondo della religiosità del Della Valle, di quel suo sentimento dell’uomo avvolto dalle tenebre, pieno di contraddizioni, inconsapevole del proprio bene e del proprio male, ma certo soltanto del suo destino di sofferenza e di morte
Ne La reina di scozia, che molti critici indicano come il suo capolavoro, il Della Valle «poté immettere nella rappresentazione drammatica della morte sul patibolo di Maria Stuarda (avvenuta nel 1587) una profonda carica di sentimenti e meditazioni sulla malvagia vita di corte, sulle limitate possibilità di una politica prudente, accorta, ma onesta, sul tragico destino umano. Questa del destino umano è certo la nota più fonda e cupa nella gamma di toni drammatico‑elegiaci della tragedia (la dolcezza del ricordo, il tono tenero ed alto del lamento e commento, fra ammirazione e pietà, del coro di cameriere e di personaggi minori della vicenda della protagonista) e ad essa tutta l’opera guida nel suo sviluppo poco complesso e poco dinamico, ma intimamente tragico, nella scansione di momenti essenziali della cupa vicenda che – sempre nello sfondo squallido e ossessivo del carcere – aiuta lo svolgersi del personaggio centrale e dominante: quello della regina che dalla sua iniziale e dignitosa rassegnazione alla morte, destinatale dalla fortunata rivale, Elisabetta d’Inghilterra, si lascia prendere dalla speranza di una liberazione per ragioni politiche e insieme dal ricordo struggente di anni liberi e felici, per poi troncare eroicamente e santamente (Maria è alta incarnazione degli ideali regali‑religiosi del poeta) ogni lusinga di vita, quando Elisabetta le offre salvezza purché essa favorisca la conversione degli scozzesi dal cattolicesimo alla religione anglicana e l’educazione in questa del proprio figlio Giacomo. Sicché Maria sarà definitivamente condannata al taglio della testa ed essa apparirà nel salire al patibolo – attraverso il racconto che ne fa un maggiordomo – eroica e santa, dignitosa e gentile, fiera e umanissima in una regalità accentuata dall’orrore della descrizione del suo capo troncato, quale è fatta dal compianto funebre di una fedele cameriera.
Tutta la tragedia ha l’andamento di un grandioso compianto, che drammaticamente (e con uno sviluppo assai lineare, ma non privo, ripeto, di momenti e svolte drammatiche) risale dalla tremenda vicenda quasi contemporanea ad un senso più profondo della sorte umana, squallida e dolorosa quanto più eroico e alto ne è il rappresentante individuale, e d’altra parte illuminata dalla prova suprema del sacrificio con cui l’uomo più alto celebra la sua dignità, la sua superiorità di fronte alla ferocia degli utilitaristi spietati, la sua accettazione consapevole di un destino religiosamente giustificato nelle imperscrutabili intenzioni della divinità.
Non mancano nel fermo e alto linguaggio di questa tragedia moduli di tipo barocco, metafore e antitesi, usati con sobrietà e funzione di intensificazione delle note solenni od orride della vicenda. Ma certo più mossa, intrecciata nei personaggi o negli avvenimenti, più arricchita di moduli di tipo barocco (pur nella sostanziale linearità di fondo della poesia dellavalliana) appare la seconda tragedia: l’Ester, ancora inquadrata in una corte (quella del re assiro, Assuero, nemico e sterminatore del popolo ebreo, ma indotto a pietà per gli israeliti superstiti dalla moglie ebrea, Ester, e da questa indotto persino a colpire con la sua collera regale lo scellerato consigliere Aman). Ancora una volta il grande motivo della miseria umana campeggia nella tragedia dellavalliana, si arricchisce di una meditazione, profondamente poetica, sull’incertezza di ogni avvenire, dell’incompatibile amore fra signori e sudditi, sulla pietà che è dovuta persino ai malvagi, esposti anch’essi alla stessa sorte di sventura.
Se l’Ester rappresenta un nuovo momento della poesia dellavalliana (in cui la maggiore complicatezza di vicende e personaggi permette un maggiore movimento e uno scavo riflessivo e psicologico più vasto dell’uomo nella varietà delle sue incarnazioni individuali), il suo momento più alto e veramente complesso è rappresentato dalla terza e ultima tragedia, Judit, potente di toni, di risonanze poetiche, di chiaroscuri vigorosi sin nelle prospettive sceniche della notte e del giorno, del campo buio degli assedianti e nella luminosità della città di Betalia da cui parte l’assalto vittorioso degli ebrei.
In questa tragedia il Della Valle concentrò ed espresse (con un linguaggio più risentito e immaginoso, ma mai falso e inutile) i suoi motivi storico-personali più approfonditi: lo sdegno per la corte (e per i cortigiani vili e intriganti) come essa si configurava nella decadenza secentesca, l’antipatia per la forza prepotente e ingiusta, la pietà (veramente singolare nel tempo) per la misera vita dei soldati, vittime di disegni politici che non li riguardano, la più generale intuizione dell’urto fra potere e subalterni costretti a seguirne e a soffrirne la logica implacabile e stolta, e d’altra parte – sempre sul fondo del suo pessimismo circa la sorte degli uomini – il vigoroso sentimento della giustizia di Dio e della volontà eroica di chi se ne fa interprete e mezzo, anche quando è costretto (come la virtuosa Judit, costretta a divenire seduttrice di Oloferne per poterlo uccidere e favorire la vittoria del popolo ebreo) a ricorrere ad arti che ripugnano alla sua coscienza.
Ne risulta un’opera forte e corrusca, in cui si insinuano motivi erotici e sensuali sia nella descrizione della seducente bellezza dell’eroina, sia in quella del desiderio che per lei prova il barbarico e grandioso Oloferne, come vi si realizzano toni beffardi e crudeli e toni grotteschi sempre funzionali all’organica complessità della tragedia»[17].
Nonostante le sue indubbie qualità di tragediografo, il Della Valle fu trascurato dai contemporanei e poco conosciuto nei secoli seguenti. E se oggi la critica moderna guarda a lui come ad una delle voci più poeticamente espressive della civiltà barocca e come al maggiore autore tragico italiano prima di Vittorio Alfieri, ciò è dovuto soprattutto grazie alla “riscoperta” che, con la sua opera, ne fece Benedetto Croce.
Carlo De’ Dottori
Nacque a Padova nel 1618, secondogenito di Antonio Maria, appartenente ad un’antica e nobile famiglia, e da Nicolosa mussato. Frequentò l’Università di Padova, ma in modo non regolare e non conseguì pertanto alcuna laurea. La sua prima prova letteraria fu l’Alfenore, un romanzo composto intorno ai vent’anni. Ebbe una giovinezza irrequieta e avventurosa tanto che fra il marzo e il luglio del 1641 fu incarcerato perché sospettato di essere l’autore di un libello contro alcune personalità di Padova; la vicenda giudiziaria, dalla quale fu alla fine prosciolto, gli ispirò il poemetto La prigione, scritto verso il 1643 ma rimasto inedito fino al 1961.
Sempre del 1643 è la pubblicazione (sua prima in assoluto) del volumetto Poesie liriche, nelle quali, lontano dal marinismo, egli rese doveroso ossequio alla maniera di Fulvio Testi, evocato nell’introduzione, e si cimentò nell’imitazione dei lirici greci e latini. Quattro anni più tardi, nel 1647, pubblicò una edizione più elaborata e al tempo stesso accresciuta delle sue poesie stampate sotto il titolo di Le ode.
Forse la fama che andava ottenendo per le sue composizioni liriche gli fece acquistare grande stima e successo nelle accademie e presso i regnanti del tempo. Visse a Roma, dove fu al servizio del cardinale Rinaldo d’Este[18], a Mantova, presso Carlo II[19], e fu protetto dalla figlia di costui, Eleonora, che divenne poi imperatrice in seguito al matrimonio con Ferdinando III[20] e che gli fece conseguire il titolo di cavaliere e di conte; infine, visse anche a Vienna, chiamato alla corte dall’imperatore Leopoldo I[21].
A Vienna si fermò poco tempo, dopo di che fece ritorno a Padova, dove visse gli ultimi anni della sua vita dedicandosi all’attività letteraria. Dopo tristi vicende (tra cui la morte della moglie e di tre dei quattro figli) e lunghe malattie, morì nella città natale il 23 luglio 1680.
L’attività letteraria del De’ Dottori tornò spesso alle composizioni di carattere lirico (oltre alle già citate Poesie liriche e a Le ode – riproposte anche nel 1651 – scrisse Canzoni, 1650; Ode sacre e morali, 1659; Ode del 1664; le Ode e sonetti del 1680; ed altre pubblicate postume nel 1695), dove tuttavia non mancano, oltre ai riferimenti al Testi di cui s’è detto, echi del Marino e, soprattutto, di Ciro di Pers (si pensi, ad esempio, al sonetto Orologio da sole in un crocefisso, sul tempo che dà il senso, angoscioso ed inquieto, della morte: rapporto che denota in modo singolare la visione tipicamente seicentesca della vita, tragica nella sua provvisorietà).
Per ciò che riguarda la produzione giovanile del Nostro, essa si svolge lungo la linea di un gusto cavalleresco‑mondano, che rispecchia le motivazioni e le istanze di quell’ambiente dove egli compì le sue prime esperienze. Come s’è detto, al romanzo Alfenore, raccolta di novelle erotiche e avventurose, segue un poemetto giocoso, La prigione, in otto canti e in ottave, in cui tra i riferimenti all’esperienza autobiografica vengono inserite alcune novelle di tipo boccaccesco, raccontate in carcere; e, più tardi, il Parnaso, edito anche questo solo nel 1957, dove, a imitazione dei famosi “ragguagli” boccaliniani, si immagina che Apollo invii a Padova una missione per risanare la città. Di diverso argomento è l’agile poemetto in cinque canti di argomento erotico mitologico Galatea (composto prima del 1646 e rimasto inedito non tanto per incompiutezza artistica, ma piuttosto per licenziosità.), in cui si narra la vicenda d’amore di Aci e Galatea. Nel 1652 venne pubblicto il poema eroicomico L’asino, in dieci canti, sotto il nome anagrammatico di Iroldo Crotta. In quest’opera, sul modello de La secchia rapita, si racconta la guerra tra Padova e Vicenza, scorciata sul filo della parodia e della satira, dove però sono pochi i momenti significativi che si distaccano da uno sfondo uniforme e monotono.
Il De’ Dottori scrisse anche opere teatrali: la prima è una tragicommedia di mediocre interesse, Zenobia di Radamisto, edita soltanto nel 1686. Nel 1657 scrisse un dramma in prosa, Bianca de’ Rossi (edito nel 1671 a Padova, con lo pseudonimo di Eleuterio Dularete); e nel 1662 il melodramma Ippolita (pubblicato, insieme ad un altro melodramma, il David pentito, e al poemetto satirico La pirucha, nel 1695). Tra questi si inserisce la fondamentale esperienza dell’Aristodemo, composto nel 1654, ma steso definitivamente nel 1657.
A conclusione di un’intensa attività letteraria e di una vita ispirata ai più convenzionali canoni delle biografie seicentesche si pongono le Confessioni (composte nel 1676, ma apparse postume sempre con lo pseudonimo di Eleuterio Dularete), sul modello di Sant’Agostino, dove lo scrittore, in una sofferta tensione spirituale, condanna la violenza, il fasto, l’intrigo, che sono i momenti caratterizzanti del suo secolo, in cui i valori più autentici sembrano stravolti.
Tuttavia, il frutto più maturo e importante dell’opera del De’ Dottori rimane l’Aristodemo, riscoperto e riproposto, come le tragedie del Della Valle, grazie alla felice intuizione di Benedetto Croce, e che assegna a questo scrittore un posto singolare nella letteratura barocca e, in particolare, nella storia del teatro tragico italiano. In questa tragedia, infatti, lo scrittore «dà poetica e organica vita ad un complesso mondo di peripezie e di personaggi, che gli permette di approfondire il senso intimo di quelle vicende e la vita interiore dei personaggi, tutti vivi e attivi nello svolgersi del dramma che li coinvolge e li individua particolarmente»[22].
Il personaggio storico del re dei Messeni e la vicenda leggendaria del sacrificio della figlia e del suo suicidio si trasfigurano, nell’alta ispirazione poetica del De’ Dottori, in una tragedia di dolore e di morte, in una realtà disumana e contraddittoria, ambigua e indecifrabile, in cui tutti i personaggi vengono coinvolti. Merope, la figlia di Aristodemo, per volere del padre deve essere sacrificata agli dei in luogo della vittima designata, Arena (che è scomparsa e che alla fine della tragedia, dopo la sua morte, provocata da un arciere reale, si scoprirà essere figlia dello stesso Aristodemo, frutto di un amore giovanile); e questo perché dopo il sacrificio seguirà l’elezione del re, carica a cui Aristodemo aspira. Sorda alle preghiere della madre Amfia, della nutrice e del futuro sposo Policare, la fanciulla, consapevole dell’alto ufficio cui è destinata, vive l’attesa della morte in modo essenzialmente religioso, volta, in un vaneggiamento eroico, solo al fascino del suo sublime sacrificio.
La tragedia precipita quando lo spietato e violento Aristodemo, informato falsamente da Policare, in un ultimo disperato tentativo di salvare la donna amata, che la fanciulla non è più vergine e che anzi è in attesa di un figlio e non può quindi essere sacrificata, la trucida disumanamente con le proprie mani. Per cercare il frutto della colpa, il padre fruga nelle viscere della figlia e distrugge col ferro la bellezza verginale che Merope vorrebbe portare alla tomba. E mentre Policare è lapidato dalla folla, Aristodemo, percepita per un attimo la propria crudeltà, si toglie la vita.
La tenera fanciulla che accetta il suo destino con una religiosa magnanimità, distaccata dal mondo degli affetti umani, sorda sia all’amore, a cui sa rinunciare per un destino superiore, sia all’odio, compie una scelta che è rinunzia alla vita, ed è sì una ricerca di eroicità, ma diversa, estranea e remota da quella del padre Aristodemo. La figlia cerca la grandezza nella morte, il padre nella vita, nella gloria, negli onori ambiti e bramati, e per essi sacrifica ogni più puro affetto. Quello di Aristodemo è il senso dell’onore barocco, inteso come apparenza, ornamento, fastosità: misura di una civiltà in crisi che vive di momenti esteriorizzanti, mai intimi, di fatti spettacolari, mai personali.
Tutta la tragedia si muove «così nel rilievo possente e gentile della vera protagonista, Merope, che nel suo dialogo con l’amato Policare, o negli stessi versi lapidari che descrivono la sua morte per mano del padre in una compostezza classica e perfetta, rivela la profonda umanità del Dottori, il suo dolore pietoso per la sua eccelsa creatura, la sua simpatia per i caratteri eroici e quasi cristiani di essa, che vuol morire “sola ed innocente” e riparare così all’errore della fortuna con una morte bramata quale alta celebrazione della propria virtù e del proprio generoso altruismo. E d’altra parte la tragedia vive nell’intreccio di personaggi, tutti (persino Aristodemo, che nel finale avvertirà finalmente l’orrore dei suoi delitti e l’inferno dei rimorsi) interiorizzati in uno scavo sicuro, misurato, lirico della loro umanità: il gentile e generoso Policare, la trepida e dolente madre di Merope, Amfia, e gli altri personaggi minori, mai inutili e inerti in un’opera che si caratterizza anzitutto per una sua lirica e intensa tenerezza, per una sua viva e dolente umanità («piango le cose umanamente amate», dirà Policare di fronte alla decisione di sacrificio dell’amata). E a questa alta temperie sentimentale (arricchita da tante vibrate sentenze sull’orrore del potere, dell’ambizione, dello spirito di vendetta, come su tanti finissimi rilievi della tragica sorte degli uomini) ben corrisponde una costruzione tesa e chiara, un linguaggio che sa schiarire classicamente, senza disperderne la forza, le forme epigrammatiche, concettose, metaforiche del barocco, indicando quali possibilità poetiche avrebbero potuto ricavarsi anche dal linguaggio barocco, se esso fosse stato usato da veri e sostanziosi poeti, ricchi di umanità e di sincere risorse morali»[23].
Benedetto Cinquanta
Dalle pochissime notizie sulla vita del Cinquanta si sa che, nato probabilmente nel 1580, divenne frate Minore del convento di Santa Maria della Pace a Milano, acquistando una certa fama per la sua cultura teologica e le qualità oratorie rivelate come predicatore. Nel 1617 fu eletto Padre Provinciale e nell’anno seguente Definitore per la provincia Cismontana nel capitolo generale riunito a Salamanca. Pare che dimorasse per qualche tempo in Spagna, come potrebbero dimostrare alcuni spagnolismi ricorrenti nelle sue opere. Tornato a Milano tra il 1628 e il 1630 visse personalmente il disastro della peste (che costituirà l’argomento di una sua importante tragedia) e offrì la sua assistenza agli ammalati. Morì nel 1640.
La prima produzione del Cinquanta riprende i temi tipici della letteratura devota del tempo: Maddalena convertita (1616) e Resurrezione di Cristo (1617). Con intenti esclusivamente edificanti, e non letterari, egli compose dopo il suo soggiorno spagnolo alcuni drammi religiosi, non privi di particolari momenti poetici: Il ricco epulone (1621), La peste di Milano del 1630 (1632), Il figliuol prodigo (1633), Il fariseo e il pubblicano (1634), Sant’Agnese (1635).
La sua opera più importante, La peste di Milano del 1630, si ambienta a Porta Tosa, in Milano, dove vari rappresentanti di categorie sociali (gentiluomini, medici, monatti, soldati, plebei, ecc.) si incontrano e affrontano, ognuno nella propria condizione psicologica, la terribile peste e il dramma della morte. L’interesse dell’autore è rivolto alla rappresentazione della realtà contemporanea, colta sì nelle, sue perenni contraddizioni, ma fruita essenzialmente come momento esemplificativo di una superiore forza divina che agisce nel mondo. È, dunque, un teatro costruito per un pubblico più vasto, quello di tutti i fedeli, testimonianza di una intensa e continua attività religiosa, a cui s’adegua altresì il linguaggio nella sua immediatezza e semplicità espressiva.
La morte diventa, allora, il centro focale di ogni più intensa meditazione, e nello stesso tempo la zona poetica più singolare, mentre l’intuizione etica barocca della vanità e della provvisorietà della vita si accompagna al senso di caducità delle forme e delle cose: è la dimensione esistenziale dei personaggi e della città intera, sconvolta dal lutto, dalle atrocità, dalla miseria.
Il tutto si svolge e si sviluppa lungo l’esile linea di tre vicende principali, che si snodano parallelamente: la prima è quella del bolognese Casimiro che, giunto a Milano per trovare un amico, viene scambiato per untore e, sfuggito al linciaggio, in preda ad una crisi mistica decide di darsi alla vita religiosa; la seconda è quella della giovane e ricca Quirina la quale, rimasta orfana del padre vittima della peste, tenta di uscire dalla sua casa, dove era stata rinchiusa (si era rifiutata, infatti, di andare nel lazzaretto), e avendo toccato alcuni oggetti infetti, si ammala e muore; infine la terza è quella della bella Ginevra che, scampata alla peste, è costretta per sfamarsi a prostituirsi, finché viene aiutata da una ricca signora. E qui il Cinquanta esamina, con notevole spregiudicatezza, la condizione femminile del tempo. Una penetrante analisi della società contemporanea rivelano, inoltre, le numerose scene corali, in cui sono ritratti bizzarri scienziati, medici e astrologi, popolane schiette e pronte, loschi sciacalli di strada.
Scenari della Commedia dell’Arte
La recitazione della Commedia dell’Arte era condotta, come si è accennato pre-cedentemente, su scenari o canovacci, schemi scritti dagli stessi attori o dagli autori di teatro, in cui venivano indicati soltanto i personaggi che dovevano agire in ogni singola scena, i fatti che si dovevano rappresentare e l’elenco degli oggetti e dei costumi necessari per l’azione teatrale (elenco che spesso compariva accanto a quello dei personaggi). L’arbitrarietà dell’invenzione verbale, delle battute, dei lazzi era affidata all’attore, a cui toccava improvvisare, sulla traccia offerta, la propria parte; ma più tardi, per ridurre il rischio di insuccessi, si cominciarono a raccogliere in zibaldoni, o repertori, alcune battute fisse, monologhi, atti buffoneschi, ai quali l’attore potesse appigliarsi se non riusciva, in taluni momenti scenici, ad improvvisare.
Prima dell’inizio della commedia, il direttore della compagnia leggeva il soggetto agli attori, suggerendo battute e dialoghi, fornendo gli oggetti di scena necessari alla recitazione, stabilendo lo spazio scenico. il canovaccio lo si appendeva, poi, dietro le quinte per dare la possibilità agli attori, durante la rappresentazione, di leggerlo e di ricordare così la propria parte. Ogni compagnia teatrale possedeva un certo numero di “canovacci”, che, in ogni caso, dovevano adattarsi a quei ruoli fissi che gli attori rappresentavano.
Molti di questi scenari, scritti senza alcuna cura letteraria, ma esclusivamente per un intento pratico, andarono perduti; comunque ne è giunto a noi un numero sufficiente (la prima raccolta è il Teatro delle favole rappresentative di Flaminio Scala, pubblicata nel 1611) per tracciare le linee storiche essenziali di questo fortunatissimo genere teatrale, anche se nell’aridità di quegli schemi è impossibile cogliere spunti letterari o comunque valori recitativi, che potevano pur realizzarsi attraverso la parola o l’abile gestualità degli attori.
Le vicende, schematizzate, si muovevano prevalentemente sul tema amoroso giocato sugli intrighi, determinati da molteplici catene sentimentali, e sul contrasto tra amore corrisposto e amore non corrisposto, dove ogni espediente o soluzione, in una girandola di alterne vicende, era sempre in funzione del più tradizionale lieto fine.
Isabella Canali Andreini
«Nacque a Padova nel 1562; suo padre dovrebbe presumibilmente identificarsi con Paolo, della famiglia veneziana dei Canali, ma nulla di preciso è stato sinora possibile appurare né sul suo casato, né sulla sua educazione. Donna colta, che conosceva – secondo quanto attestano i suoi contemporanei – abbastanza bene il francese e lo spagnolo, alternò la sua attività di attrice con quella letteraria. Ma se da un lato la Canali non si discosta dalle caratteristiche di tanti altri scrittori dell’epoca, dall’altro può senza dubbio essere considerata come la prima grande attrice e a lei si deve soprattutto il sorgere di quella attenta considerazione verso gli artisti, che da allora in poi vennero accolti favorevolmente dai pubblici più diversi, popolari e aristocratici. La Canali contribuì a dar gloria alla compagnia dei Gelosi, diretta da Flaminio Scala, alla quale pare che ella si sia aggregata fin dal 1576 a Bologna. Vi figura però con tutta sicurezza come “prima donna innamorata” dal 1578, anno del suo matrimonio con Francesco Andreini, anch’egli entrato a far parte della compagnia, assumendovi il ruolo di un capitano superbo, il Capitan Spavento. Pare anzi che i coniugi Andreini abbiano avuto in alcuni periodi la direzione dei Gelosi e precisamente nell’aprile 1583, nel maggio 1589 e nel biennio 1603-1604. Solo raramente essi figurano in altre compagnie: così una “madama Isabella delli Anderini” recitava all’inizio di ottobre 1589 a Genova con i comici Confidenti e nel 1601 si trovava a far parte della compagnia degli Uniti»[24].
Il primo figlio, Giovan Battista nacque nel 1579 a Firenze. Isabella Canali Andreini dimostrò di avere molto talento sia nella recitazione, che nel canto e la musica. Donna ricca di qualità, era anche molto dotata per la letteratura e questo aumentò il prestigio anche della compagnia dei Gelosi per cui lavorava. Nel 1587 riuscì a far pubblicare i suoi primi sonetti. L’anno successivo fu pubblicata la favola pastorale La Mirtilla, scritta in età giovanile e fortemente ispirata all’Aminta del Tasso. Molto famosa fu anche un’altra opera da lei scritta, La pazzia d’Isabella, che la consacrò come una delle più grandi attrici del suo tempo.
Dopo vari viaggi non privi di avventure, come spesso accadeva ai gruppi teatrali durante i loro spostamenti da una città all’altra, i Gelosi nel 1603 furono invitati in Francia, alla corte di Enrico IV, dove nelle numerose recite, protrattesi per parecchi mesi, a Fontainebleau e a Parigi, la Canali Andreini si distinse dando saggio delle sue alte doti artistiche. Ma durante il viaggio di ritorno in patria, nel 1604, a Lione, incinta probabilmente per la nona volta, morì per un aborto, circondata da grandi onori (due anni più tardi il figlio Giovan Battista ne celebrò il ricordo con una raccolta di rime, il Pianto di Apollo, Rime funebri in morte d’Isabella Andreini). La sua scomparsa segnò pure la fine della quarantennale attività della compagnia dei Gelosi, da cui anche il marito si ritirò in quella triste occasione.
Isabella Canali Andreini, grazie alla considerazione che era riuscita a conquistarsi in campo artistico e letterario, non soltanto per la sua singolare perizia recitativa, cui contribuivano mirabilmente bellezza fisica, gentilezza e maestria nel canto e nella musica, ma anche per la sua vita irreprensibile sotto ogni riguardo, riuscì a conquistare per sé e per tutte le attrici, che prima di lei erano ritenuto poco più che delle meretrici, grande stima e rispetto, tanto che, nel 1601, fu ammessa all’Accademia degli Intenti di Pavia con lo pseudonimo de L’Accesa. Riscosse anche il plauso di famosi poeti, quali Tasso, Marino, che le dedicò svariati sonetti, e Chiabrera, che la definì “saggia tra ‘l suon, saggia tra i canti”.
Il suo canzoniere (Rime, Milano, 1601, Parigi 1603, Milano 1605), «che risente l’influsso del Rinuccini e del Chiabrera, raccoglie, come tutti gli altri del tempo, rime encomiastiche, morali, religiose, nelle forme poetiche usuali (sonetti, madrigali, canzonette, egloghe) riscontra una certa abilità e virtuosità compositiva, ma non traspare in esso alcuna originalità creativa»[25]. Persino la Mirtilla, che – come dimostrano le numerose ristampe – venne considerata il suo capolavoro, è in realtà assai povera cosa.
Anche le Lettere, date alle stampe dal marito dopo la sua morte (Venezia 1607) non si discostano dal carattere di esercizio stilistico, essenzialmente barocco, che è la costante della sua produzione. Ma l’interesse di questa raccolta si deve piuttosto individuare nell’insieme delle situazioni amorose – la tematica più diffusa nelle lettere – che l’autrice, dietro un finto personaggio maschile, rappresenta, e che, come ha scritto il Tessari corrispondono, con singolare puntualità alle situazioni psicologiche costanti conosciute dagli innamorati nella vicenda sentimentale dei canovacci. Insomma, i motivi di queste composizioni sono topoi della Commedia dell’Arte, e personaggi della Commedia dell’Arte sono altresì gli ideali destinatari delle lettere di Isabella, che del resto potremmo definire monologhi, exempla, cioè, della voce che l’innamorata e il suo partner maschile esprimono sulle scene. Il tutto tradotto però in un linguaggio attento e misurato nelle sue linee espressive, frutto di un consapevole esercizio stilistico (e qui si rivela la duplice personalità di questa famosa attrice, che volle avere anche uno spazio reale nel mondo dell’accademia).
Michelangelo Buonarroti il Giovane
Nacque a Firenze, nel 1568, da Lionardo, pronipote del grande Michelangelo, e da Cassandra Ridolfi. Fu avviato agli studi assieme ai coetanei delle migliori condizioni, fra cui Maffeo Barberini, col quale condivise la passione per le lettere, e seguì forse anch’egli la scuola dei gesuiti. Ancor giovanissimo ad introdursi nell’ambiente dotto e aulico della vita culturale fiorentina e a mostrare i primi segni della sua inclinazione: nel 1585 fu accolto nell’Accademia fiorentina, della quale fu censore nel 1598 e console l’anno successivo. Dal 1586 al 1591 frequentò lo Studio di Pisa, ancor compagno di tetto e di spensieratezza goliardica del Barberini, ove conobbe Galileo Galilei, che vi insegnava matematiche,e legandosi a lui con amicizia per sempre devota. Frattanto era entrato nell’Accademia della Crusca (1589) con il nome di Impastato, cominciando nel 1591 a collaborare alla prima redazione del Vocabolario, che sarà pubblicata nel 1612.
Tornato a Firenze, comincia ad affermarsi come accademico e poeta, stringendo importanti amicizie che lo porteranno a fondare l’accademia dei Pastori Antellesi, nell’ambito della quale compone il Racconto o novella dei Pastori Antellesi e la Favola di Antilla e Mompello. Il successo accademico è coronato nel 1596 con l’elezione ad arciconsolo della Crusca e con il suo accoglimento nell’Accademia del Disegno (1598).
Nel 1600 nella Firenze medicea si festeggiavano le nozze fra Maria de’ Medici ed Enrico IV, re di Francia. Michelangelo fu incaricato di redigerne, secondo l’uso, una Descrizione da divulgare a stampa. Questo incarico ufficiale segnò il suo ingresso a corte con un ruolo quasi di poeta cesareo e con speciali competenze nel campo degli spettacoli. Venne più volte incaricato di comporre “invenzioni” per mascherate, giostre, intermezzi, esecuzioni musicali, befanate, esibizioni cavalleresche, scene di carnevale. Nel 1605 gli venne commissionata la favola pastorale per musica Il natal d’Ercole[26] (favola pastorale di stampo cinquecentesco, dove si osserva una rara abilità metrica per il vario uso di versi e di strofe), rappresentata e subito pubblicata; seguì nel 1608 Il giudizio di Paride[27], una favola musicale, anch’esso immediatamente rappresentato a Palazzo Pitti e stampato; nel 1611 venne rappresenta La Tancia, che è probabilmente la sua opera più famosa, come mostrano le varie ristampe ed anche i rifacimenti; nel 1614 a Palazzo Pitti venne messa in scena Il passatempo[28] con il Balletto della Cortesia, danzato dai granduchi insieme a sei cavalieri e sei dame.
Ma la vita brillante e fortunata, intensa di lavori e di contese nelle accademie e operosa nei pubblici uffici[29], stava volgendo al termine. La rappresentazione de La fiera nel teatro degli Uffizi (1619) fu accolta con sfavore dai granduchi, e particolarmente dalla granduchessa madre, che criticarono episodi troppo salaci e qualche libertà di linguaggio. In realtà il dissenso era piuttosto di natura ideologica. La fiera, che ambiva ad assumere una funzione di satira morale, rappresentava la realtà sociale fiorentina in una prospettiva mercantile e borghese incompatibile con l’ideologia aristocratica che dominava ormai la corte medicea.
Da quel momento Michelangelo, se proprio non fu messo al bando, subì di certo una specie di tacita emarginazione, vedendo diradarsi notevolmente gli impegni in confronto alle frequenti incombenze cortigiane che ne avevano confortato il successo fino ad allora. In alternativa agli impegni cortigiani, oltre a continuare a lavorare ostinatamente alla Fiera, che divenne l’opera della sua vita, espandendosi a dismisura[30], si dedicò al restauro e all’abbellimento della casa di famiglia acquistata dal prozio, creando quella Galleria in cui si celebrava la gloria del grande artista e della sua famiglia e ponendo le basi delle raccolte dell’attuale museo di Casa Buonarroti a Firenze. A decorare la Galleria chiamò i pittori e gli scultori più noti sulla piazza, esercitando un mecenatismo di notevole livello. Infine, nel 1623 pubblicò anche per la prima volta le Rime di Michelangelo il Vecchio. L’ultima sua opera teatrale rappresentata a corte fu la favola pastorale La siringa (Palazzo Vecchio, 1634)[31].
Ritiratosi in campagna, gli ultimi anni della vecchiaia furono rattristati da lutti familiari e da un rovescio finanziario causato dal fallimento del banchiere Corsi (1640), presso il quale aveva investito il proprio patrimonio. Morì nel gennaio del 1646 e fu sepolto nella basilica di Santa Croce.
Oltre alle opere di cui s’è detto, nella varia produzione del Buonarroti rientrano anche un poema burlesco, l’Ajone (1643), dove si narra la vicenda amorosa di Ajone con Figline; Le Mascherate, composizione in versi in cui appaiono, sullo sfondo di una “veglia” carnevalesca in una casa nobile, figure di dame, cavalieri, maschere e personaggi allegorici; e poi intermezzi musicali, sonetti, indovinelli ed enigmi, discorsi, elogi, un’edizione della Divina Commedia, e negli ultimi anni della vita nove satire in terzine, in cui alla condanna dei vizi umani si contrappone l’elogio della vita agreste.
Tra queste molteplici prove letterarie di non grande rilievo artistico si distinguono le due opere maggiori del Buonarroti: La Tancia e La Fiera, commedie di carattere realistico, che, mentre dimostrano il profondo interesse del filologo per la lingua fiorentina nella sua accezione più immediata e colorita, costituiscono nel contempo un momento importante nella storia della commedia seicentesca.
Ne La Tancia – divisa in cinque atti di ottave, con intermezzi musicali e danzati – il nucleo narrativo, attorno a cui ruota l’azione, è rappresentato dall’amore dei due contadini Tancia e Cecco, che si intreccia con quello tra Cosa e Ciapino. La vicenda è complicata dall’arrivo del cittadino Pietro Belfiore che, innamoratosi di Tancia, la chiede in moglie, ottenendo il consenso del padre, allettato e illuso dall’ascesa sociale che il nuovo matrimonio significherà per la figlia. Ma Pietro, ostacolato dai parenti, inflessibili difensori della più comune mentalità borghese, rinuncia alle nozze, mentre Cecco e Ciapino, che per il dolore avevano tentato il suicidio gettandosi da una rupe, ottengono l’amore di Tancia e Cosa e possono alla fine sposarle.
Rilevante in quest’opera appare l’attenta e curiosa osservazione sul mondo popolare regionale scorciato nelle sue vive e cromatiche movenze, attraverso la rappresentazione dei vari personaggi, che non sono semplici figure, ma “caratteri” artisticamente delineati. La chiave di lettura de La Tancia va ricercata però nell’interessantissimo linguaggio toscano, colto nel duplice registro della parlata popolare colorita ed espressiva – riproposta con una precisione che rivela il filologo e il vocabolarista, attraverso il parlare comune, i modi di dire plebei, la deformazione di vocaboli, la storpiatura – e dell’espressione cittadina. Anzi, per lo più, la vis comica nasce proprio dallo scarto tra i due diversi piani linguistici, posti in contrasto – tanto da determinare divertenti equivoci – e reagenti l’uno con l’altro, che mettono in luce anche la dimensione sociale dei personaggi.
De La Fiera vi sono due stesure: quella della prima rappresentazione, più breve e meno complicata, e una ritoccata ancora a lungo, e accresciutasi (come s’è detto in maniera esorbitante), che vide però la luce solo nel 1726. La trama è fin troppo semplice: Il podestà Evandro arriva in una cittadina, dove si tiene una fiera, della quale sono date innumerevoli scene che ne ritraggono talvolta con vivezza i vari aspetti. Gli episodi sono, però, privi di un intreccio, gli intenti moraleggianti si esprimono in prolissi ragionamenti e quelli satirici non riescono a tener vivo l’interesse, che cede a tanta verbosità.
Vergilio Verucci
Si conosce pochissimo della vita del Verucci. Nato a Norcia, probabilmente nel 1586, fondò nel 1606, a Roma, l’Accademia degli Intrigati, assumendo il nome di Universale, ma appartenne anche alla Accademia degli Umoristi e a quella dei Divisi. Laureato in legge, per la sua perizia nella giurisprudenza e per la probità dei suoi costumi, ricoprì numerosi incarichi per conto dello stato pontificio, spostandosi da una località all’altra: fu governatore a Vallinfreda e Montemarciano, podestà di Foligno e giudice a Tolfa e ad Ascoli. Tuttavia, questi gravosi impegni non gli vietarono di occuparsi, nel corso degli anni, dell’attività teatrale, per quanto la considerasse un «diporto» per «ricrearsi l’animo» dalle «cure molto maggiori». Fu anche attore, principalmente nei panni di Pantalone e a lui si deve inoltre l’invenzione, nel suo Pantalone innamorato, della maschera perugina di Guazzetto. Non si conosce la data della sua morte, avvenuta certamente dopo il 1663.
La produzione teatrale del Verucci – significativa nell’ambito delle così dette commedie ridiculose[32] – comprende circa dodici opere teatrali. A Li diversi linguaggi, pubblicata nel 1609, segue la Pazzia (in tre atti, stampata nello stesso anno), dove ricompaiono i personaggi e le situazioni della Commedia dell’Arte. Nel 1618 fu pubblicata La spada fatale, in cui si inserisce con una spiccata sensibilità artistica il meraviglioso (è la spada che dal ciclo pende pericolosamente sul palazzo del principe di Salerno; è il negromante che interpreta gli astri; è l’oracolo oscuro e misterioso). Di tono fortemente comico e satirico è la sua ultima commedia, Le schiave, dove gli avvenimenti «ridicoli e giocosi» abbondano «per assecondare – dice l’autore nel prologo – il gusto dei nostri tempi».
Un andamento comico ha anche il Pulcinella amante di Colombina, in cui il Verucci, sul filo principale dell’amore di Virgilio per la giovane Flaminia, inserendo anche vari personaggi paradigmatici della Commedia dell’Arte (servi, padroni, ecc.), tratta la materia con un linguaggio volutamente licenzioso ed equivoco, ricco di doppi sensi e di espressioni volgari. Alle ridiculose appartiene anche per linguaggio, personaggi, dialogo e struttura la Moglie superba, in cinque atti, dove la vicenda di Magnifico, combattuto tra la seconda moglie Cleria e il figlio della prima, Orazio, è condotta con una attenzione particolare ai caratteri, ma soprattutto alle situazioni ridicole e buffonesche. Del Verucci va ricordato anche il Servo astuto, l’Ersilia, Li stroppiati, e il Vecchio innamorato, pubblicata a Bologna nel 1663 e ribattezzata Il Pantalone innamorato.
Ma la prima opera del Verucci, Li diversi linguaggi (in cinque atti), composta «nella sua fanciullezza», è una delle più significative per quel particolare pastiche linguistico‑dialettale, dichiarato programmaticamente già nel prologo. Ed è questa, tutto sommato, la novità del teatro de Verucci: nell’uso di vari dialetti e perciò delle maschere (Colombina, Pulcinella, Pantalone, ecc.), che egli adoperò con una larghezza senza pari. La commedia, che tratta, secondo i moduli delle ridicolose, di argomenti «familiari, di burle ridicolose e di soggetto allegro», è costruita, appunto, sull’accostamento di vari dialetti corrispondenti ai relativi personaggi (veneziano, perugino, fiorentino, siciliano, romanesco, bergamasco) – e in questo modo si realizza principalmente la funzione comica – esasperando una tendenza che, presente in alcuni autori cinquecenteschi, era stata ripresa dalla Commedia dell’Arte. E ad essa l’opera del Verucci si richiama per la dinamica dell’azione, che vive essenzialmente su spunti ridicoli, attraverso anche un dialogo fresco e spontaneo; per i personaggi, autentici “tipi” della Commedia improvvisata; per il linguaggio «diverso», che, in questa composizione scenica, crea e caratterizza il comico.
Va sottolineato, comunque, che tutti i dialetti di questa commedia – il veneziano, il bergamasco, il romanesco, il siciliano, il bolognese, il napoletano, il perugino, l’italo‑francese – sono approssimativi, ma l’autore cerca di giustificare la loro forma abbozzata, affermando che i personaggi dialettali, trovandosi fuori di patria, fingono di sforzarsi «di pigliare il parlar comune».
***NOTE AL TESTO***
[1] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 293.
[2] Carlo Maria Maggi (Milano, 1630 – Milano, 1699) figlio unico di Giovan Battista, agiato mercante di ori e di sete, e di Angela Riva, si laureò in utroque a Bologna nel 1649 e quindi, dopo qualche viaggio in varie parti d’Italia, si stabilì definitivamente in patria. Ricoprì importanti uffici, nei quali diede prova della sua rettitudine e della sua dottrina: segretario del senato, curatore dei confini, professore di latino e greco nelle scuole palatine, soprintendente all’università di Pavia, membro della Crusca e dell’Arcadia. Lontano nelle sue cose più tarde dal gusto secentistico e soprattutto dal marinismo, contro il quale esercitò, proprio nelle sue liriche, un’acuta opera di erosione. Scrisse anche melodrammi, drammi sacri, tragedie, orazioni, carmi latini e greci. Ma il meglio della sua produzione sono le poesie burlesche, specie quelle in dialetto, e le commedie (Il Mancomale, Il Barone di Birbanza, I consigli di Meneghino, Il falso filosofo), in cui varî personaggi parlano in milanese, e in cui compaiono alcune figure caratteristiche (ad esempio la maschera milanese Meneghino, già esistente ma da lui resa celebre).
[3] Francesco Andreini (Pistoia, 1548 – 1624), dopo una breve parentesi da militare, nel 1576 iniziò la professione di comico recitando parti da innamorato. Tra il 1577 e il 1578 entrò nella Compagnia dei Gelosi, assunse il ruolo che particolarmente lo rese famoso, quello cioè del Capitan Spavento da Vall’Inferna. Nello stesso periodo, (1578) sposò Isabella Canali, comica e letterata illustre. Insieme gli Andreini recitarono, quasi sempre coi Gelosi, in varie città dell’Italia e, infine, dal luglio-agosto 1603 alla primavera del 1604, recitarono in Francia, alla corte di Enrico IV, a Fontainebleau e a Parigi. Attore assai dotato, e insieme letterato di varia cultura, soprattutto classica, e poliglotta, l’A. rappresenta un momento assai importante nella storia della commedia dell’arte: quello in cui il professionismo degli attori si sistema in vera e propria accademia di recitazione e nel quale all’uomo di teatro si richiede preparazione letteraria e consapevolezza teorica.
[4] Flaminio Scala (Roma?, 1552 ca – Mantova, 1624), attore teatrale e comico italiano, famosissimo nella commedia dell’arte, interpretava in genere la parte dell’innamorato col nome di Flavio. Recitò dapprima con la Compagnia dei Gelosi in Francia, poi con gli Accesi a Mantova dai Gonzaga (1606), infine con la Compagnia dei Confidenti, dove ebbe il ruolo di capocomico, che era al servizio dell’impresario fiorentino Don Giovanni de’ Medici. Nel 1615 con i Confidenti si insediò al Teatro San Moisè di Venezia dove allestiva spettacoli teatrali nel periodo del carnevale. Oltre a Il teatro delle favole rappresentative Scala pubblicò anche una commedia dell’arte per esteso intitolata Il finto marito e gli viene attribuito anche Il Postumio, commedia stampata a Lione nel 1600 senza il nome dell’autore, durante le feste per le nozze di Maria de’ Medici, regina di Francia e sposa di Enrico IV.
[5] Antonio Caraccio, barone di Corano (Nardò, luglio 1630 – Roma, 14 febbraio 1702), nacque da Niccolò e dalla verseggiatrice Caterina Scorna. Compì i primi studi a Nardò e a quattordici anni compose un poemetto in ottava rima: Le lacrime d’Alcione. Il padre però lo mandò a Napoli per seguire gli studi di diritto. Nel 1651 si trasferì a Roma ove si avviò al segretariato presso illustri cardinali e, successivamente, passò al servizio del governatore di Roma, cardinale Giambattista Spinola, in qualità di maestro di camera e di capitano della sua guardia. Nel 1690 entrò nella nuova Accademia dell’Arcadia dove presto fu dei dodici Vicecustodi col nome di Lacone Cromizio. Oltre alla tragedia Corradino, scrisse il poema epico L’Impero vendicato (la sua opera maggiore) e un canzoniere. Fu verseggiatore sobrio e alieno dal cattivo gusto del secolo, ma come poeta non si elevò al disopra del comune.
[6] Ansaldo Cebà (Genova, 1565 – Genova, 1623) studiò all’Università di Padova, approfondendosi specialmente nella lingua greca, tanto da potere poi tradurre e commentare assai bene i Caratteri di Teofrasto. Tornato in patria nel 1591, fu accolto nell’Accademia degli Addormentati. All’ambiente dell’Accademia, orientata dal suo magistero all’impegno civile e politico, va ricondotta gran parte della sua produzione: il trattato politico Il cittadino di Repubblica (1617), rivolto all’educazione dell’élite della Repubblica di Genova; le tragedie e vari poemi epici, sia sacri che civili. Il Cebà illustrò inoltre le sue idee sul poema epico nel dialogo Il Gonzaga (Genova, 1621), che si inserì nel dibattito sorto dopo la pubblicazione della Gerusalemme liberata: il Cebà si dichiarò difensore dei classici e di uno stile più sobrio, rifiutando il modello di poema epico proposto da Torquato Tasso.
[7] Alessandro d’Este (Ferrara, 5 maggio 1568 – Roma, 13 maggio 1624), figlio illegittimo (poi riconosciuto) di Alfonso d’Este, marchese di Montecchio, e di Violante Segni, fu avviato agli studi presso l’Università di Padova dove conseguì la laurea in legge. Nel 1587 fu ordinato sacerdote. Papa Clemente VIII lo elevò al rango di cardinale nel concistoro del 3 marzo 1599 e in seguito si adoperò molto a favore della famiglia estense. Nel 1605 venne nominato governatore di Tivoli. Durante il suo mandato provvide a restaurare e a portare agli antichi splendori Villa d’Este, voluta dal cardinale Ippolito II d’Este.
[8] Momigliano Attilio, I melodrammi del Rinuccini, in Studi di poesia, terza ediz. riveduta e accresciuta, D’Anna, Messina-Firenze, 1960, pp. 89-93.
[9] Ibidem.
[10] Giovanni Bardi, conte di Vernio, (Firenze, 1534 – Firenze, 1612) studiò lingua latina, lingua greca e composizione musicale anche se gli anni della giovinezza li passò impegnato in campagne militari. La sua importanza è dovuta all’essere stato fra i principali esponenti di un gruppo di compositori, teoretici e letterati che diedero vita alla Camerata de’ Bardi (gruppo che comprendeva Vincenzo Galilei, padre dell’astronomo Galileo, nonché Giulio Caccini e Pietro Strozzi), il cui scopo era quello di restaurare gli effetti estetici della musica antica greca alla produzione musicale contemporanea. Il risultato di questa unione fu la nascita della monodia e quindi dell’opera. Inoltre le innovazioni apportate dalla Camerata, sotto l’egida di Giovanni Bardi, porteranno poi a quella che sarà definita musica barocca.
[11] Jacopo Corsi (Firenze, 1561 – Firenze, 1602), appartenente al nobile casato dei Corsi, fu uno dei padri della futura opera lirica. Amico di Jacopo Peri, condivise con questi le inquietudini tese al recupero, attraverso la musica, della drammaticità del teatro dell’antica Grecia. Nel suo palazzo – Palazzo Tornabuoni – alla fine del Cinquecento riunì la prima Accademia di Musica di Firenze: qui nacque nel 1598 il melodramma italiano con la prima rappresentazione privata di Dafne, su libretto di Ottavio Rinuccini.
[12] Ferdinando Gonzaga, VI duca di Mantova e Duca del Monferrato dal 1612 al 1626 (Mantova, 1587 – Mantova, 1626), era il secondogenito di Vincenzo I e di Eleonora de’ Medici. Destinato alla carriera ecclesiastica, ricevette nel dicembre 1607, all’età di vent’anni, la porpora cardinalizia, ma nonostante la nomina, si distinse, come il padre, per il carattere inquieto, nonché per l’amore per il lusso e lo sfarzo. Dopo la morte del fratello Francesco, avvenuta nel 1612, Ferdinando smise la porpora e il 6 gennaio 1616 salì al governo del ducato di Mantova. Uomo di grande cultura e intelletto, ma non dotato dello spessore umano e politico che aveva fatto grandi i suoi avi, ospitò alla sua corte celebri artisti, tra i quali Domenico Fetti, detto Il Mantovano, Carlo Saraceni e il fiammingo Antoon van Dyck. Architetto di corte fu Nicolò Sebregondi, che edificò tra il 1613 e il 1624 la sfarzosa residenza di campagna Villa La Favorita.
[13] Musicata da Jacopo Peri, l’Euridice, in 814 versi, fu rappresentata per la prima volta, con una grandiosa scenografia, a Firenze il 6 ottobre 1600, in occasione delle nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia.
[14] Musicata da Claudio Monteverdi.
[15] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 294.
[16] La prima stesura de La reina di Scozia risale tuttavia al 1591 (con l’iniziale titolo di Maria la reina), cioè ad appena quattro anni dopo l’esecuzione di Maria Stuarda, mentre una prima rielaborazione venne scritta nel 1595.
[17] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 294
[18] Rinaldo d’Este (Modena, 1655 – Modena, 1737) era l’ultimogenito del duca di Modena e Reggio Francesco I d’Este e di Lucrezia Barberini. Destinato alla carriera ecclesiastica, papa Innocenzo XI lo creò cardinale diacono nel concistoro del 2 settembre 1686, e 20 dicembre 1688 ricevette la porpora cardinalizia ed il titolo diaconale di Santa Maria della Scala. Alla morte di suo nipote Francesco II, avvenuta nel 1664 senza eredi, rassegnò a papa Innocenzo XII le sue dimissioni dalla carriera ecclesiastica, potendo così salire al trono ducale.
[19] Carlo II di Gonzaga-Nevers (Mantova, 1629 – Mantova, 1665) era figlio di Carlo di Nevers e Rethel e di Maria Gonzaga, e nipote del duca di Mantova Carlo I. Alla morte del nonno (1637), essendo orfano di padre dal 1632, era stato designato successore al governo di Mantova sotto la tutela della madre Maria. Quest’ultima aveva governò il Ducato con saggezza per 10 anni, ma al compimento del diciottesimo anno di età Carlo II la mise da parte assumendo in prima persona il controllo dello stato mantovano. uomo corrotto e politico tortuoso, finì col darsi in braccio agli Asburgo (dal 1656 fu vicario e generalissimo delle armi imperiali in Italia), e battuto dalla Francia, dal duca di Savoia e da quello di Modena, lasciò morendo al figlio Ferdinando Carlo una povera eredità.
[20] Ferdinando III d’Asburgo (Graz, 1608 – Vienna, 1657) era figlio di Ferdinando II e di sua moglie, Maria Anna di Baviera. Ricevette una rigorosa educazione religiosa e scientifica dai padri gesuiti chiamati a essere suoi tutori. Ferdinando imparò sette lingue: tedesco, latino, italiano, spagnolo, francese, ceco e ungherese, parlandole tutte fluentemente. Come il padree, fu un fervente cattolico ma si oppose fortemente all’influenza che i gesuiti avevano instaurato a corte. Durante la guerra dei trent’anni, al comando dell’esercito imperiale, prese Ratisbona e sconfisse gli svedesi a Nördlingen (1634). Re dei Romani nel 1636 e successore del padre nell’Impero (1637), indirizzò la sua politica verso la conclusione della guerra dei Trent’anni; nelle lunghe trattative con la Svezia, con i principi protestanti tedeschi e con la Francia, tentò invano la difesa della costituzione imperiale allora vigente e il mantenimento dell’intolleranza religiosa nei confronti del protestantesimo; fu costretto a sottoscrivere (1648) l’umiliante trattato di Vestfalia.
[21] Leopoldo I (Vienna, 1640 – Vienna, 1705) era il secondogenito dell’imperatore Ferdinando III e di Maria Anna, sorella di Filippo IV di Spagna. Alla morte del fratello maggiore (1654) divenne l’erede al trono e nel 1658 succedette al padre. Fu impegnato in un lungo conflitto con i turchi che assediarono Vienna (1683), ma che poi, ripetutamente sconfitti, furono costretti a Capitolare e a firmare la pace di Karlowitz che sancì definitivamente la sovranità degli Asburgo sull’Ungheria. A fronte della politica aggressiva perseguita da Luigi XIV prese parte alle guerre della lega di Augusta e di successione spagnola, unendosi con l’Inghilterra e i Paesi Bassi contro la Francia.
[22] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 297.
[23] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 297.
[24] Pannella Liliana, CANALI, Isabella, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 17, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1974, https://www.treccani.it/enciclopedia/isabella-canali_(Dizionario-Biografico)
[25] Pannella Liliana, CANALI, Isabella, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 17, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1974, https://www.treccani.it/enciclopedia/isabella-canali_(Dizionario-Biografico)
[26] L’opera fu commissionata venuta a Firenze di Alfonso e Luigi d’Este.
[27] Questo in occasione delle nozze di Cosimo de’ Medici, principe ereditario, con Maria Maddalena d’Austria.
[28] Si tratta di un’azione allegorica in versi e prosa dove di particolare interesse è l’unione di più generi letterari (commedia erudita, commedia musicale, la pastorale, ecc.).
[29] Fu magistrato di Dogana (1613-14), dei Nove (1615), della Grascia e dei Conservatori delle leggi (1619-20), del Sale (1624).
[30] È composta da cinque lunghe “giornate”, ciascuna in 5atti e con un prologo, in metri lirici, recitato da personificazioni (la Mercatura, l’Interesse, il Negozio, le Leggi e simili), per un totale di 25atti e di oltre 25.000 versi.
[31] Fu commissionata in onore del principe Alessandro, fratello del re Ladislao di Polonia, ospite del granduca Ferdinando II.
[32] La Commedia Ridicolosa fu un genere teatrale diffuso in Italia dall’inizio del XVII secolo che nacque dalla diaspora dei comici dell’arte verso le corti europee e continuò fino alla fine del Settecento.
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