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Marco Michelini | 30 Novembre 2022

«Gli elementi comici e satirici presenti nel poema del Tassoni si espandono in maniera più diretta in veri e propri “generi” di poesia giocosa e di poesia satirica che si precisano nel Seicento come controfaccia degli aspetti più grandiosi e persino macabri di un secolo che si compiaceva insieme di toni sontuosi e a volte tetri (con al fondo il sapore amaro della morte e della caducità sotto le apparenze più sontuosamente vitali ed esuberanti) e di toni burleschi fra un riso aperto e baldanzoso e un più acre divertimento aggressivo e critico nei confronti nel costume del tempo e dei vizi umani in quello più evidenti e da quello più condizionati»[1].

Tra la fiorente poesia satirica seicentesca, riappare anche la satira in latino, con gli spunti e le tematiche del modello tradizionale, che ritornano anche nella vasta produzione volgare: è la polemica antifemminile, è la critica ad un’ambizione smodata e ad un lusso eccessivo. Ma l’insofferenza per una serie di luoghi comuni, tipicamente barocchi (l’ipocrisia, la corruzione dei costumi, la vuota letteratura), mediata attraverso l’intento satirico, diventa il punto focale per l’osservazione del mondo contemporaneo, descritto con spunti polemici, non privi di momenti di ripensamento personale, ma senza alcuna prospettiva di soluzioni alternative.

Tra i poeti satirici importante fu Benedetto Menzini, tenace oppositore del marinismo, tanto da essere considerato dai contemporanei il «salvatore» della poesia italiana. Di qualche valore furono anche Jacopo Soldani[2], autore di sette satire (tra cui le più famose sono la IV Contro i peripatetici, in difesa di Galileo e contro i nemici della nuova scienza, e la VI, con l’esaltazione della concezione stoica della vita); il napoletano Ludovico Adimari[3], che in uno stile lucidamente aggressivo si scaglia contro le donne; Antonio Abati da Gubbio[4], rimatore marinista, autore della Frascherie (1651), unione curiosa e bizzarra di versi e di prosa, in cui sono comprese otto delle nove satire da lui composte. Ma la personalità certo più interessante nell’ambito del genere satirico fu quella del napoletano Salvator Rosa.

All’interno dell’esperienza lirica classicista del primo Seicento si inserisce anche la poesia ditirambica, che vuole rinnovare, in un clima di accademia, il genere delle composizioni greche. Questo tipo di produzione, che fiorì in particolar modo nell’ambiente culturale fiorentino, acquista un aspetto singolare nel celebre ditirambo polimetro, il Bacco in Toscana, di Francesco Redi, di cui s’è già parlato. È da ricordare inoltre, per una sorta di estro verbale e di gusto inventivo, la Bucchereide di Lorenzo Bellini[5]. Il ditirambo, recitato all’Accademia della Crusca nel 1699, è una celebrazione delle terre odorose con cui nel Seicento si facevano particolari vasi; e vi si inseriscono digressioni di vario tipo, ma predominano, comunque, preziosi ed esteriori interessi linguistici.

 

Salvator Rosa

 

Salvatore De Rosa (questa la forma esatta del cognome) nacque all’Arenella nel 1615, al tempo un villaggio alle porte di Napoli, Da Vito Antonio – ricordato dalle fonti come architetto o agrimensore – e da Giulia Greco, che apparteneva a una famiglia di pittori. Rimasto orfano di padre nel 1621 venne affidato al nonno materno, che lo fece entrare nel convento dei padri Somaschi, così da diventare prete o avvocato. Tuttavia, a differenza del fratello che divenne sacerdote, Salvatore – che già manifestava le proprie inclinazioni artistiche – lasciò il convento ed andò ad imparare i primi rudimenti della pittura dallo zio materno Paolo Greco.

Nel 1638 Salvator Rosa si stabilì a Roma, protetto dell’influente cardinale Francesco Maria Brancaccio[6], appassionato di arte e teatro. Nell’Urbe, ambiente grandioso e spietato al tempo stesso, Rosa cominciò a coltivare una vasta gamma di interessi, che comprendeva, oltre alla pittura, anche la scrittura e il teatro. Durante la sua carriera da attore, in particolare, molto spesso si cimentò in satire, con le quali colpì con lo scherno l’establishment culturale dominante rappresentato dal Bernini[7], col quale ebbe fortissimi dissapori. E proprio a causa di ciò nel 1640 decise di trasferirsi a Firenze.

Qui, nel clima della corte medicea, divenuto pittore «ufficiale» ed entrato nell’ambiente culturale della città (strinse amicizia con il Torricelli[8], il pittore e poeta Lorenzo Lippi, Pier Salvetti[9], Carlo Dati[10] e Antonio Abati), il Rosa si dedicò con fermo impegno agli interessi letterari, senza trascurare la recita della Commedia dell’Arte, nella quale si era già distinto nella città capitolina.

Nel 1649 si trasferì a Roma, dove visse un periodo non molto tranquillo, turbato da inimicizie e contese, ma libero comunque dalla protezione di mecenati: fermo nelle intenzioni di sottrarsi da qualsiasi vincolo che potesse condizionare la propria arte, non accettò né richieste, né commissioni, né caparre, decidendo autonomamente i soggetti e il prezzo. Concluse la sua vita nella città eterna nel 1673 e venne sepolto nella basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri.

Alla più felice attività pittorica del Rosa si accosta anche la sua produzione letteraria, costituita essenzialmente da sette che illuminano, come preziosi documenti, l’arco della vicenda biografica dell’autore. Le esperienze, infatti, dell’ambiente romano, non meno di quello fiorentino, congiunte a motivi tradizionali e ricorrenti, costituiscono la tematica delle sue composizioni: La musica, La poesia, La pittura, contro la decadenza di queste arti; La guerra, contro il governo dei principi italiani e la dominazione straniera (che non manca di momenti validi, lì dove la vena satirica del poeta si rivolge alla patria, scorciata con occhi severi: «Odioso oggetto della mia memoria […], nazione di gran fumo e poco arrosto»); L’invidia, contro le insinuazioni di alcuni suoi avversari; La Babilonia, contro la curia romana e la sua decadenza morale; Il Tirreno, una specie di esame di coscienza personale.

In queste satire, pur in uno stile spesso enfatico ed artificioso, ricco di riferimenti classici e mitologici (non certo lontano dal tradizionale registro linguistico barocco, soprattutto in quei punti – nella Poesia ad esempio – in cui la condanna della letteratura seicentesca diventa gioco compositivo e impasto stilistico), si delinea lo spirito sincero e generoso dell’autore, che guarda con attenzione e pietà al mondo contemporaneo, in ogni suo più vario aspetto, dalle arti alle condizioni politiche, con una precisa volontà di denuncia. «Nel Rosa anche l’enfasi, l’indeterminatezza e il generico degli spunti moralistici, la loquacità torrentizia dell’espressione, hanno qualcosa di spontaneo e scaturiscono dal fondo di un’indole calda ed esuberante, sinceramente amareggiata dallo spettacolo che contempla. Lo stile risente di questa ingenuità di affetti, che si appaga troppo spesso in uno sfogo immediato, irruente e approssimativo; ma non vi mancano tratti vivaci e freschi, bizzarri e felici. E dappertutto si sta innanzi, se non a un poeta, certo a un uomo vivo, con i suoi crucci e i suoi risentimenti e con la sua impetuosa e baldanzosa personalità»[11]. Ed è proprio in questa schietta umanità – ben lontana dall’immagine d’uomo eterodosso e ribelle dalla vita movimentata, che la fantasia romantica volle dare di lui – la grandezza, per quanto modesta, di Salvator Rosa, che seppe dare al genere letterario della satira una sua autentica voce.

 

Benedetto Menzini

 

Nacque a Firenze nel 1646 da Domenico di Francesco e da Domenica di Giovan Battista Cresci, famiglie di condizioni assai modeste. Grazie alla protezione del marchese Giovanni Vincenzo Salviati poté compiere i primi studi, divenendo discepolo del Redi, a cui fu sempre legato da amicizia. Presi gli ordini religiosi, divenne professore di eloquenza ricoprendo le cattedre di Firenze e Prato; ma gli fu negata quella di lingua toscana all’Università di Pisa, a causa dell’invidia di alcuni suoi nemici.

Nel 1685, trasferitosi a Roma, entrò al servizio della regina Cristina di Svezia[12], che gli offrì protezione e sostegno, e fu ammesso a far parte dell’Accademia dell’Arcadia, formatasi alla corte della regina, con lo pseudonimo di Euganio Libade. Tuttavia, alla morte di Cristina,  il poeta si ritrovò nell’indigenza finché, verso la fine di quello stesso anno, fu assunto in qualità di segretario dal cardinale Radziejowski[13], primate di Polonia e gran cancelliere del Regno; ma quando verso la fine di maggio 1690 il cardinale partì alla volta della Polonia, il Menzini si rifiutò di seguirlo. Rimasto nuovamente privo di adeguati mezzi di sostentamento, tentò dapprima di tornare in Toscana, poi di recarsi a Napoli e a Parigi, infine di ottenere la cattedra di lettere e umanità all’Università di Padova (1693): tutto senza successo.

Nel 1694, tramite il cardinale Giovan Francesco Albani (il futuro papa Clemente XI), ottenne da Innocenzo XII la carica di bussolante tra i servitori del papa, così che i suoi problemi economici ebbero fine. L’anno successivo, sempre merito dell’Albani, gli fu concesso anche il canonicato di S. Angelo in Pescheria. Ricoprì anche anche incarichi culturali di un certo rilievo: nel 1701 ottenne il titolo di coadiutore alla cattedra di eloquenza alla Sapienza; e l’anno seguente divenne accademico della Crusca (fece anche parte dell’Accademia Fiorentina e di quella degli Apatisti). Morì a Roma nel 1704.

L’ampia produzione minore in versi e prosa del Menzini – che comprende diversi generi – non contiene motivi di profondo valore artistico. Fu autore di Poesie liriche sui moduli petrarcheschi e tassiani; di canzoni pindariche e anacreontiche sul modello del Chiabrera; di un’Accademia Tusculana, in prosa e versi, dove si imitano i modi dell’Arcadia del Sannazaro; di un poema religioso, Terrestre paradiso (tre libri in ottave sul peccato originale e sulla cacciata dal Paradiso di Adamo ed Eva); e dell’Etopedia ovvero Instituzione morale, pensata in nove libri e modellata sulle Sette giornate del mondo creato del Tasso, che rimase incompiuta.

Forse più interessante è l’Arte poetica (1690), in terzine, dove dietro la critica al Barocco si intravede il tentativo di una nuova poetica. «letterato di buon gusto sebbene alquanto secco e di orizzonte limitato, tutto chiuso nel culto della tradizione toscana, acuto e garbato espositore di precetti retorici e stilistici»[14], il Menzini dette, però, il meglio di sé nel genere che gli era più confacente, componendo prima del 1685, in terza rima, dodici Satire (oltre ad alcune di dubbia attribuzione), pubblicate nel 1718 dopo la sua morte.

Nelle scelte tematiche (incentrate sugli invidiosi, gli ipocriti, gli avari, le abitudini alle monacazioni costrette, ed altro), in cui troppo spesso compare esclusivamente la polemica personale, che si esprime con un linguaggio intensamente realistico e violento, non privo di commistioni con la tradizione, prevale il gusto della carica­tura, diretta ai nemici dell’autore e condotta con una precisa abilità deformante. Processo caricaturale, però, che rimane esteriore e non riesce a cogliere, nella sua completezza psicologica, l’animo del personaggio.

 

***NOTE AL TESTO***

 

[1] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 288.

[2] Jacopo Soldani nacque a Firenze nel 1579, primogenito di Bernardo e di Ginevra Aldobrandini. Laureatosi a Pisa in utroque iure, nel 1607 sposò Clarice Aldobrandini, dalla quale ebbe nove figli. Fu gentiluomo di corte e aio del principe Leopoldo de’ Medici. Coltivò anche con buon gusto le lettere e la filosofia e da ultimo le scienze fisiche, matematiche e astronomiche, nelle quali fu discepolo di Galileo. Difese la poesia satirica, trattando, nella satira terza, della natura e dello scopo di essa. Coscienza austera, osservatore pensoso, Soldani confidava nell’efficacia morale del genere e lo coltivò con grande elevatezza d’intenti; ma gli fecero difetto le qualità artistiche.

[3] Lodovico Adimari nacque a Napoli nel 1644 da Zanobi di Lodovico e dalla spagnola Dona Angela di Bivero Tassis. Studiò Scienze Naturali all’Università di Pisa, mostrando però uno spiccato talento soprattutto per la poesia e in particolar modo quella satirica. Si trattenne per alcuni anni alla corte di Mantova dove per meriti poetici conquistò la stima del duca Ferdinando Carlo di Gonzaga-Nevers che gli concesse il titolo di marchese e di suo gentiluomo di camera. Poco dopo fu ammesso all’Accademia della Crusca di Firenze e all’Accademia dell’Arcadia di Roma (1691) con lo pseudonimo di Termisto Marateo. Nel 1697 il granduca Cosimo III de’ Medici lo chiamò a Firenze per ricoprire la cattedra di Lingua Toscana presso lo Studio Fiorentino dopo la scomparsa del celebre professore Francesco Redi. Fu anche nominato lettore di cavalleria all’Accademia de’ Nobili. Tra il 1690 e il 1700 compose i versi delle Satire rivolte contro l’adulazione, e, con maggior efficacia di discorso, contro i vizi delle donne, in particolare delle cantanti, ed in genere contro i costumi femminili. Morì nel 1708.

[4] Antonio Abati nacque a Gubbio, con ogni probabilità nei primi anni del XVII secolo. nel 1631 pubblicò a Roma i Ragguagli di Parnaso contro i poetastri e partigiani delle nazioni, nei quali denunciò la decadenza della letteratura, attaccandone l’imperante cattivo gusto, e fu membro dell’Accademia romana degli Umoristi. Fu poi a Viterbo dal 1634 al 1638, dove conobbe il pittore e poeta di satire Salvator Rosa. Nel 1638 si trasferì a Milano, da dove passò, nel 1640, alla corte imperiale, al servizio dell’arciduca Leopoldo. Nel 1644 lasciò Vienna  e si mise a viaggiare attraverso la Francia e le Fiandre, descrivendo poi queste sue esperienze nella satira Il viaggio. Rientrato in Italia, Grazie alla protezione del cardinale Fabio Chigi, futuro papa Alessandro VII, fu governatore di diverse città pontificie, ritirandosi poi a vita privata in un piccolo podere presso Senigallia, avuto in dono dalla granduchessa di Toscana Vittoria della Rovere, ove morì nell’ottobre del 1667. Poeta apprezzato ed ammirato, al di là dei suoi meriti reali, da principi e letterati, oltre alla sua opera maggiore, Le Frascherie Fasci tre, scrisse anche il dramma musicale Il Consiglio degli Dei (1660) e le Poesie postume.

[5] Lorenzo Bellini (Firenze, 1643 – Firenze, 1703), medico, anatomista e poeta, si laureò in filosofia e medicina a Pisa nel 1663; ma ancor prima della laurea, a soli diciannove anni, aveva già iniziato le sue ricerche e pubblicato il suo trattato Exercitatio anatomica de structura usu renum (1662). Dopo la laurea divenne professore di medicina teoretica presso l’Università di Pisa (dove rimase trent’anni), ma poco dopo venne trasferito alla cattedra di anatomia. Oltre alla carriera scientifica, che gli procurò grandi onori (il granduca Cosimo III de’ Medici lo scelse come suo medico personale e divenne anche consulente archiatra del papa Clemente XI), sviluppò anche un’attività più propriamente e dichiaratamente letteraria: fu membro dell’Accademia dell’Arcadia, con lo pseudonimo di Ofelte Nedeo, e dell’Accademia della Crusca, e le sue opere furono apprezzate dal Redi e dal Menzini.

[6] Francesco Maria Brancaccio (Canneto, 1592 – Roma, 1675) nacque dal barone Muzio II Brancaccio, governatore di Bari, e da Zenobia di Costanza. Papa Urbano VIII lo elevò al rango di cardinale nel concistoro del 28 novembre 1633. Proprietario di una biblioteca che conteneva 20.000 volumi, dispose che alla propria morte essa venisse destinata all’istituzione di una biblioteca pubblica a Napoli. Tale lascito avrebbe costituito il nucleo della futura Biblioteca Brancacciana, che sarebbe stata inaugurata nel 1690.

[7] Giovan Lorenzo Bernini (Napoli, 1598 – Roma, 1680) era il primo figlio maschio di Pietro Bernini, scultore tardo-manierista toscano, e di Angelica Galante. La sua formazione avvenne, nell’ambito artistico romano, sotto la guida del padre Pietro, in grado di valorizzare il precoce talento del figlio, insegnandogli i primi rudimenti della scultura. Divenuto fattivo collaboratore del padre, tra il 1614 e il 1619 cominciò ad operare in completa autonomia. Per Urbano VIII eseguì in S. Pietro il Baldacchino, il S. Longino, e Terminò Palazzo Barberini. Per Alessandro VII decorò la cappella Chigi, in S. Maria del Popolo, ideò il colonnato di S. Pietro e la Scala Regia. Di questo periodo è anche S. Andrea al Quirinale. Per Clemente X concepì la cattera di S. Pietro. Artista poliedrico e multiforme, Bernini è considerato il massimo protagonista della cultura figurativa barocca. La sua opera conobbe un clamoroso successo e dominò la scena europea per più di un secolo dopo la morte; analogamente, l’influenza di Bernini sui contemporanei e sui posteri fu di enorme portata.

[8] Evangelista Torricelli ((Roma, 1608 – Firenze, 1647) nacque da genitori romagnoli,  Gaspare Ruberti, un tessitore originario di Bertinoro, e Giacoma Torricelli, originaria di Faenza. Evangelista, come Francesco, uno dei suoi fratelli, scelse di adottare il cognome della madre. Ingegno precoce e promettente, rimasto orfano in tenera età, trascorse  l’infanzia e l’adolescenza a Faenza presso lo zio materno, monaco camaldolese, che curò la sua educazione primaria. Frequentò poi la scuola dei Gesuiti, prima a Faenza e quindi a Roma, dove si avvicinò e approfondì gli studi di matematica. Si occupò di matematica infinitesimale, di geometria e di fisica, studiando il moto dei gravi e dei fluidi e approfondendo l’ottica. Si dedicò anche allo studio dei fluidi, e basandosi sul principio che l’aria avesse un peso (ed esercitasse quindi una pressione) giunse a inventare il barometro a mercurio.

[9] Pier Salvetti (Firenze, 1609 – 1652) fu sacerdote e umanista di fine ingegno. Accademico della Crusca, fece parte e fondò numerose altre accademie. La fama di questo poeta fiorentino è legata alla produzione di poesia giocosa. Alcuni suoi bizzarri componimenti come Lamento per la perdita di un grillo, Amante di bella donna bacchettona e Il soldato poltrone presentano una scorrevole facilità di versi e un garbato tono umoristico, nello schizzare rapide e divertenti caricature. (Tratto da: Elvira Marinelli, Poesia. Antologia illustrata, Demetra, 2001, pag. 267)

[10] Carlo Roberto Dati (Firenze, 1619 – Firenze, 1676), di nobile famiglia fiorentina, nacque da Camillo e Fiammetta Arrighetti. Pur avendo ricevuto un’educazione letteraria e scientifica, apprese, per volontà paterna, l’arte del battiloro, secondo l’usanza generalmete diffusa che non pregiudicava per i giovani delle famiglie nobili l’esercizio di un’arte o mestiere. Nel 1640 fu ammesso all’Accademia della Crusca, con lo pseudonimo di Smarrito; vi conseguì gradualmente tutte le cariche fino a diventarne segretario nel 1663. Nel 1648 fu chiamato allo Studio fiorentino come successore del Doni nella cattedra di Lingue classiche. Il suo interesse per gli studi linguistici lo spinse a promuovere la compilazione di un dizionario etimologico della lingua toscana, mai pubblicato per l’incuria dei colleghi.

[11] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 297-298.

[12] Cristina di Svezia (Stoccolma, 1626 – Roma, 1689) era figlia di re Gustavo II Adolfo di Svezia e della regina Maria Eleonora del Brandeburgo. All’età di sei anni, dopo la prematura scomparsa del genitore, gli succedette al trono. Educata dal potente alto cancelliere Axel Oxenstierna e figlia di uno dei massimi difensori del protestantesimo durante la guerra dei trent’anni, suscitò grande scandalo quando nel 1654, nel pieno di una profondissima crisi religiosa, si convertì al cattolicesimo (prese allora il nome di Cristina Alessandra Maria) ed abdicò in favore del cugino Carlo Gustavo. Temendo le reazioni e le vendette dei protestanti, lasciò subito la Svezia per trascorrere il resto della sua esistenza in vari paesi d’Europa stabilendosi poi definitivamente a Roma, dove si occupò di opere caritatevoli, di arte, musica e teatro.

[13] Augustyn Michał Stefan Radziejowski (Poznań, 1645 – Danzica, 1705) 1680 fu eletto vescovo di Varmia. Papa Innocenzo XI lo elevò al rango di cardinale nel concistoro del 1686 e nel 1689 ricevette il titolo di Santa Maria della Pace. Nel 1688 fu promosso arcivescovo di Gniezno, sede primaziale polacca. Quando ascese al trono di Polonia Augusto II, gli si mostrò apertamente ostile, appoggiando contro di lui la Svezia luterana. Per tale motivo nel 1705 fu sospeso da papa Clemente XI dal governo della diocesi e dai privilegi di primate.

[14] Sapegno Natalino, ibidem, pag. 296.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SEICENTO»

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