«Fra le aspirazioni più ambiziose e irrealizzabili (data la scarsa forza di pensiero e di sentimento e la tendenza irresistibile alle digressioni e allo sviluppo eccessivo dei particolari descrittivi e spettacolari) dell’epoca barocca è da sottolineare quella della ripresa del poema eroico, che si appoggia spesso sul grande modello della Gerusalemme liberata e accomuna in prospettive assai simili sia personalità più ostili al nuovo modello dell’Adone […], sia personalità chiaramente passate attraverso l’esperienza concettistica barocca, ma volte a recuperare nel poema epico una grandiosità più strutturata e organica. Come è soprattutto il caso di Girolamo Graziani (marchigiano, 1604-1675) che nel suo poema, Il conquisto di Granata, tentò, non senza qualche risonanza poetica più energica e patetica, di associare fra di loro una vicenda guerresca e religiosa (la guerra fra spagnoli cristiani e arabi maomettani culminata nella conquista della città di Granata da parte di Ferdinando il cattolico) con episodi romanzeschi e amorosi, rispondendo così al gusto di un pubblico avido di avvenimenti grandiosi e di una stretta e ambigua fusione fra sensualità erotica, devozione controriformistica, altera profilazione di personaggi complicati da un orgoglioso desiderio di gloria e soprattutto di fama e di una morbida e sin morbosa sensibilità.
Ma se la tendenza al poema eroico è da ascrivere alle aspirazioni più velleitarie del secolo, più fruttuosa letterariamente e più significativa per altri aspetti di un’epoca più complicata che profondamente complessa è la diffusa tendenza al poema eroicomico che mescolando elementi epici e comici spezza la rigidità solenne del poema eroico (ed eroico-religioso) e ne costituisce una specie di parodia che permette libero sfogo al fondo di bizzarria, di irrisione, di divertimento, vivo nell’animo secentesco sotto la veste più sontuosa delle velleitarie aspirazioni grandiose»[1].
Per quanto considerato un genere minore, il poema eroicomico, in cui l’intento parodistico letterario, cioè la lettura in chiave comica del poema eroico cavalleresco ufficiale, si mescola con la volontà, talora spregiudicata, di satireggiare con toni burleschi la mediocre vita contemporanea, sullo sfondo delle città italiane di quel tempo, caratterizzate da una realtà politica esclusivamente provinciale, con i loro contrasti, con le contese meschine, i rancori, ma anche con le loro tradizioni e i loro costumi, «finisce per costituire uno dei “generi” più caratteristici del Seicento, una delle sue creazioni più particolari e nuove, anche se naturalmente non manca di riferimenti ai precedenti della tradizione, rappresentati da poemi come il Morgante del Pulci»[2]. Si tratta, per lo più, di poemi in ottave che, traendo spunto anche da episodi con una base storica reale (e spesso si tratta di contese tra due comuni o contrasti tra fazioni di una stessa città), ridicolizzano la vicenda con l’inserimento di particolarissimi personaggi o di avventure dall’andamento parodico.
Si distinsero maggiormente in quest’ambito il pittore Lorenzo Lippi[3], Piero de’ Bardi[4] e Giambattista Lalli da Norcia. Importante è, poi, come momento esemplificativo di parodia mitologica, Lo scherno degli dei (1618) del pistoiese Francesco Bracciolini. Ma nel genere eroicomico la personalità di maggior rilievo è quella di Alessandro Tassoni con la celebre Secchia rapita, narrazione in chiave comica di una guerra combattuta tra Modena e Bologna per il possesso di una “secchia”.
La struttura del poema tassoniano ritorna in numerosissime opere dell’epoca (quali, ad esempio, La troia rapita (1662) di Loreto Vittori[5] o Le pazzie de’ savi ovvero il Lambertaccio (1641), poema in dodici canti sulle discordie civili che agitavano Bologna, del poeta dialettale Bartolomeo Bocchini[6]), tra cui si distinguono per qualche pregio non irrilevante La presa di San Miniato di Ippolito Neri[7] (pubblicata postuma nel 1760, a Firenze) e soprattutto L’Asino (1652) di Carlo De’ Dottori. In quest’ultima opera, sullo sfondo della lotta tra i soldati di Padova, che avevano sottratto uno stendardo con l’insegna dell’asinello, e quelli di Vicenza, compare la società padovana del secolo (in cui si inseriscono anche personaggi storici reali, secondo i moduli del Tassoni), ritratta col gusto umoristico della parodia della vita quotidiana e della satira, sempre poeticamente misurata e priva di astiosità; e non manca un’attenzione particolare per gli amori tristi e angosciosi (la vicenda di Orlando ed Elisa), rappresentati con arte sapientissima e finezza psicologica, che preannunciano già la profondità artistica dell’Aristodemo, che può considerarsi il capolavoro tragico barocco.
Comunque, l’inventività estrosa del gioco verbale e la volontà del riso, non disgiunte, per altro, del tutto dall’intento satirico, sono le cifre di questo Seicento eroicomico, che doveva trovare in tale genere letterario uno spunto di evasione e un momento alternativo per la società – quella, come dice Salvator Rosa nella sua satira La Guerra, dei «tempi nostri» che «non producono eroi». Qui si attua quel necessario capovolgimento del genere eroico in eroicomico, nel quale «confluiscono sia il motivo squisitamente letterario della parodia nei confronti di un genere ch’era stato ai suoi tempi tra i più nobili e dignitosi (il poema epico e cavalleresco), sia l’esigenza crescente di una letteratura d’intrattenimento, capace di divertire e distrarre, sia l’insorgere di una sempre maggiore frammentarietà dell’organismo politico e culturale nazionale, dopo la fase di unità cosmopolita rinascimentale. Non è un caso infatti che il poema ericomico prenda spesso a soggetto l’epoca lontana dei Comuni medievali o si ambienti in un clima aglicolo‑feudale. Nella crisi della vocazione cosmopolitica della cultura italiana, cui, come abbiamo già detto, non si sostituisce un solido impianto nazionale, comincia ad emergere ed affermarsi un gusto localistico e comunale, che trova le proprie radici nelle condizioni reali della società italiana di quei tempi, e durerà fin quando (in tempi molto prossimi a noi) quella realtà non doveva essere spezzata e distrutta dall’inesorabile avanzata dello sviluppo economico ed industriale e moderno»[8].
Va comunque fatto notare che, come scrive sempre Alberto Asor Rosa, deve essere escluso assolutamente che uno di questi parodisti riuscisse ad avvertire ed esprimere che la rottura di quello schema potesse rappresentare qualcosa di più di un fatto semplicemente letterario o di costume, e non certamente la scomparsa di un intero codice della vita sociale e morale, con tutto quello che una situazione del genere poteva comportare per la cultura e per la conoscenza.
Nicola Villani
Scarse sono le notizie biografiche sul Villani. Nacque a Pistoia nel 1590, da Ottavio, discendente di Giovanni, il cronista trecentesco, e da Giulia Baldovini. Di ricca e nobile famiglia, per quanto numerosa, compì gli studi a Firenze, a Siena e a Pisa. Nel 1618 entrò al servizio del cardinale Tiberio Muti, vescovo di Viterbo, e si trasferì a Roma. In seguito compì vari viaggi, recandosi fra l’altro in Grecia e a Venezia. Costretto a rientrare in patria, subì un periodo di carcerazione per motivi poco chiari, ma fece successivamente ritorno a Roma, ove morì nel 1636.
Inserito nel mondo culturale romano, si unì ai membri dell’Accademia degli Umoristi con il nome di Aldeano, maturando rigidi convincimenti classicistici e dedicandosi alla composizione di poesie in latino a carattere encomiastico-occasionale. Partecipò alle polemiche suscitate dall’Adone del Marino, scrivendo due saggi anonimi (Uccellatura di Vincenzo Foresi, 1630, e Considerazioni di Messer Fagiano sopra la seconda parte dell’Occhiale del cavalier Stigliani, 1631), dove si leggono considerazioni su Dante, Petrarca e Tasso. Compose anche varie opere critiche (fra cui il Ragionamento sopra la poesia giocosa de’ Greci, de’ Latini e de’ Toscani, pubblicato nel 1634), due satire in latino, in cui si tratta la corruzione dei costumi, alcune rime, un ditirambo giocoso e sei capitoli satirici contro i poeti contemporanei.
Si dedicò inoltre al poema epico con La Fiorenza difesa, pubblicato postumo a Roma (1641). L’opera, rimasta incompleta al decimo canto per la sopraggiunta morte dell’autore, tratta dell’assedio che Radagaso, re dei Goti, pose alla città di Firenze «allora che… con formidabile esercito di duecentomila o, come altri vogliono, di quattrocentomila barbari» invase l’Italia. Per intercessione divina, alla città che si difendeva eroicamente giunge l’aiuto di un esercito cristiano, inviato dall’imperatore Onorio, che sconfigge valorosamente Radagaso, rifugiatosi sulle montagne di Fiesole. Nel genere eroico rientra anche il tradizionale tema dell’amore patetico tra la fanciulla pagana e l’eroe cristiano (qui l’amazzone Totilda e il giovane Latino), che riecheggiano i personaggi tassiani di Clorinda e Tancredi.
La nota distintiva del poema di Villani, che si inserisce nell’ambito di una letteratura “eroica” ormai stanca, è un linguaggio brillante e sapientemente articolato, in cui, attraverso una consapevole volontà stilistica, ritornano prestiti classici, dantismi, ricalchi virgiliani, che si inseriscono armonicamente nella trama narrativa. Infatti, nell’avvertenza dello stampatore all’edizione del 1641 si legge: «Nel rimanente, propostosi egli qui… l’esempio bene spesso de’ più antichi poeti, ha voluto sodisfar al suo genio; e seguendo in vari luoghi lo stile di Dante, si è compiaciuto di trasportar da lui molte voci e forme di dire dell’ottava eroica o, con imitazione del medesimo, di riporcene dell’altre nove, tratte per lo più dalla latina o dalla greca favella, parendogli in somigliante guisa di poterne arricchire la toscana poesia».
Francesco Bracciolini
Francesco Bracciolini nacque a Pistoia nel 1566 da una famiglia nobile e, per volere del padre, intraprese studi giuridici prima a Bologna e poi, forse, a Pisa, senza però che in lui nascesse una reale adesione a quel tipo di cultura giuridica, così lontana dalla sua naturale vocazione letteraria. Recatosi a Firenze nel 1586 si iscrisse all’Accademia Fiorentina dove poté assecondare convenientemente le proprie inclinazioni letterarie. A Firenze strinse anche amicizia con Maffeo Barberini, il futuro Urbano VIII, che doveva divenire più tardi il suo più valido protettore. Verso il 1590, volendo tentar la fortuna, andò a Roma, e poco dopo a Napoli, al servizio dei principi di Sulmona; fu quindi a Genova, dove conobbe il Chiabrera, di nuovo a Roma, e infine a Milano (1595), al seguito del cardinale Federico Borromeo[9], arcivescovo di quella città. Rimase a Milano sei anni, dopo i quali tornò a Roma (1601), dove entrò, in qualità di segretario, al servizio di Maffeo Barberini, che, conoscendo già le doti poetiche del Bracciolini, lo spronò a portare a termine quel poema sul riacquisto della Croce dalle mani dei Persiani per opera di Eraclio, al quale lavorava da tempo, e del quale era viva l’attesa. Nella Croce racquistata è presente anche l’intento encomiastico di glorificare la famiglia Medici, presentando l’eroina Erinta, figlia di Eraclio, come l’antenata della dinastia, che può così far risalire la sua genealogia alla famiglia imperiale.
Sempre nel 1601, al seguito del Barberini nominato nunzio, si recò in Francia dove pubblicò i primi quindici libri della Croce racquistata, ma subito dopo il termine della stampa abbandonò improvvisamente l’amico e protettore, facendo ritorno in Italia e si ritirò a vita privata nella città natale, ove rimase per lunghi anni, attendendo con fervore agli studi poetici e portando a termine il poema della Croce, che vide la luce a Venezia in trentacinque libri nel 1611. Nello stesso periodo, che è sicuramente il più felice della sua produzione, tragedie, drammi, poesie giocose e il poema eroicomico Lo scherno degli dei, opera per la quale è maggiormente conosciuto.
Con l’elezione del Barberini al soglio pontificio il Bracciolini si precipitò a Roma, dove venne accolto con grandi onori e venne assegnato al seguito del cardinale Antonio, fratello del sommo pontefice, che, malvolentieri, dovette accompagnare a Senigaglia (1627), quando ne fu fatto vescovo. Da Senigallia, però, rientrò ben presto a Roma, adducendo come pretesto la necessità di curare la stampa dell’Elezione di Urbano VIII.
Alla morte del Pontefice (1644), il Bracciolini, ormai vecchio e stanco, volle ritirarsi nella sua Pistoia; ivi morì l’anno seguente e fu sepolto in città nella chiesa di S. Francesco.
La varia produzione letteraria del Bracciolini si apre con una Vita di san Diego, alcune Rime pastorali e L’Amoroso sdegno, favola pastorale, dove evidenti sono gli influssi dell’Aminta del Tasso e del Pastor fido del Guarini riguardo alla trama (l’infelice amore di Acrisio per Clori, che ricambia il giovane solo dopo il suo tentativo di suicidio, e la parallela vicenda sentimentale di Dafne e Selvaggio), ormai esemplare del genere. E l’influenza del Tasso ritorna anche nelle strutture esterne del poema eroico la Croce racquistata.
Il periodo trascorso a Pistoia, dopo l’allontanamento dal Barberini, fu – come s’è già detto – il più fecondo della sua produzione: tragedie (L’Evandro, L’Harpalice, La Pentesilea), drammi, poesie giocose e Lo scherno degli dei. In onore del papa Urbano VIII compose anche l’Elezione di Urbano VIII, pubblicata nel 1628, che celebra in ventitré canti la vittoria delle Virtù sui Vizi, ostili all’elevazione del Barberini al soglio papale, e in cui i pesanti spunti di carattere moraleggiante alterano i motivi poetici dell’opera. All’ultimo periodo appartengono due poemi epici: La Roccella espugnata (in quindici canti, poiché altri cinque andarono dispersi) e La Eulgheria convertita, in venti libri, dove il nucleo primitivo di un episodio storico (nel primo la guerra franco‑inglese; nel secondo la vicenda di Trebolo, re dei Bulgari, e la sua conversione al cristianesimo) si dilata per comprendere in un unico disegno, secondo il modello tassiano, fatti meravigliosi, situazioni miracolose, amori, avventure.
Come abbiamo già avuto modo di dire, la sua opera più nota è certamente Lo scherno degli dei, poema burlesco pubblicato nel 1618, in quattordici canti, a cui se ne aggiunsero nel 1625 altri sei. Nel poema, intessuto sugli amori di Marte con Venere, sorpresa dal consorte Vulcano, che a sua volta la tradisce con la bella scimmia Doralice – ma si inseriscono pure numerosi degli episodi secondari – il Bracciolini opera una parodia nei confronti delle tradizionali divinità classiche, riducendole ad una dimensione essenzialmente umana. Gli dei dell’Olimpo (che «paion Boccacci da Certaldo / ridendo tutti al lume della luna») si spogliano dell’aulicità tradizionale per rappresentare il mediocre ruolo di esseri comuni, ancora più degradati nella dinamica dell’azione; e quotidiane e realistiche risultano pure le loro abitudini e il loro agire.
Ma un’unica tonalità – il comico ricercato sempre, ed esclusivamente, nella dissacrazione delle figure olimpiche – riduce il valore di questo poema che, se ci interessa come documento storico di un genere, resta senz’altro inferiore a La secchia rapita del Tassoni; opera che, per quanto pubblicata dopo Lo scherno degli dei (ma il Bracciolini doveva conoscerla attraverso i manoscritti che già circolavano), rimane l’esempio più tipico del poema eroicomico seicentesco.
Giambattista Lalli
Nacque a Norcia nel 1572 da un’illustre famiglia. Nella città natale compì i suoi primi studi, dopo di che si trasferì a Parma, presso lo zio materno, per iniziare lo studio del diritto. Laureatosi in legge all’università di Perugia nel 1598, entrò al servizio dei Farnese e da questi nominato governatore di alcune cittadine ducato di Parma. Nel 1603, alla morte dello zio, che era appena divenuto vescovo di Rieti, il lalli cercò di inserirsi nell’amministrazione pontificia e fu al governo di Trevi, Foligno, Osimo e, infine, Città di Castello, trasferimenti resi ancora più disagevoli per il sopravvenire della sordità. Ritiratosi dalla carriera politica, ritornò a Norcia nel 1634. Poco dopo fu colpito da un colpo apoplettico che lo rese parecchio infermo e nel 1637, a sessantaquattro anni, concluse la sua vita.
Poeta di facile vena, compose tre poemetti burleschi, a cui è per lo più legata la sua fama: la Moscheide overo Domiziano il moschicida, la Franceide e l’Eneide travestita.
Il primo, pubblicato a Milano nel 1624 e ispirato all’opera del Folengo, ha per bizzarro argomento la guerra delle mosche contro l’imperatore Domiziano, insofferente agli insetti. Singolare è anche il secondo (edito a Venezia nel 1629), in cui, sullo sfondo storico della disfida di Barletta, si descrivono le conseguenze del così detto “mal francese”, cioè la sifilide.
Ne l’Eneide travestita (Roma 1633) il poeta tenta, invece, una deformazione parodistica del poema virgiliano, riducendo l’epico al quotidiano; operazione che si ripete, in parte, ne La Gerusalemme desolata overo Tito Vespasiano, rifacimento eroicomico del poema del Tasso.
Scrisse anche delle Epistole giocose, in terza rima, e delle Rime del Petrarca in stil burlesco.
***NOTE AL TESTO***
[1] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 284-285.
[2] Binni Walter, ibidem, pag. 285.
[3] Lorenzo Lippi (Firenze, 1606 – Firenze, 1665) pittore caravaggesco, poeta e scrittore, amico di Salvator Rosa, scrisse Il Malmantile racquistato, pubblicato postumo nel 1676.
[4] Piero de’ Bardi (Firenze, prima del 1570 – Firenze, 1660 ca), poeta, scrittore e accademico della crusca, fu autore del poema Avino, Avolio, Ottone e Berlinghieri, detto anche il Poemone (1643), che trae il titolo da un verso dell’Orlando furioso e voleva essere una parodia dell’epos classico.
[5] Loreto Vittori (Spoleto, 1600 – Roma, 1670) poeta, librettista, compositore e uno dei primi cantanti castrati italiano, fu scoperto a Spoleto da Maffeo Barberini (il futuro papa Urbano VIII) e fu inviato a Roma nel 1617. Qui divenne allievo di Giovanni Bernardino Nanino e Francesco Soriano. Cantò a Loreto e nella sua città natale, quindi fu cantore nella Cappella Sistina dal 1622 sino alla morte. Nel 1639 scrisse un melodramma dal titolo La Galatea andato in scena (1644) al Palazzo Spinelli di Cariati di Napoli. Compose inoltre l’oratorio Sant’Ignazio di Loyola, andato perduto, e due melodrammi dal titolo Sant’Irene (1644) e La pellegrina costante (1647), quest’ultima tratta da un romanzo francese di J.P.Camus. Scrisse anche l’opera Diana schernita andata in scena sempre a Napoli nel 1644 e la commedia inedita La fiera di Palestrina, un’altra commedia, Le zittelle cantarine, e una raccolta di monodie e di Dialoghi sacri e morali. Il suo poema eroicomico, La Troja rapita (1662), che sulla falsariga della Secchia rapita del Tassoni narra la guerra fra Rieti e Cantalice ai tempi di papa Eugenio IV, contiene importanti dati autobiografici, relativi anche all’ambiente romano barberiniano.
[6] Bartolomeo Bocchini, nato a Bologna nel 1604 da Giovan Battista e morto forse a Venezia tra il 1648 e il 1653, fu pittore, poeta dialettale e soprattutto attore della commedia dell’arte col nome di Zan Muzzina.
[7] Ippolito Neri (Empoli, 1652 – 1708) nacque da Lorenzo e da Agata di Alessandro Sandonnini. Si laureò a Pisa in Filosofia e medicina e, poco prima della sua morte, venne nominato medico particolare del granduca Ferdinando.
[8] Rosa Alberto Asor, Sintesi di storia della letteratura italiana, La nuova Italia Editrice, Firenze, 5a ristampa, 1978, pag. 211.
[9] Federico Borromeo (Milano, 1564 – Milano, 1631) nacque da Giulio Cesare Borromeo e Margherita Trivulzio. Suo padre morì quando egli aveva appena tre anni ed a lungo risentì l’influenza del cugino San Carlo Borromeo, il quale fu sua guida spirituale e lo instradò alla carriera ecclesiastica. Laureatosi in teologia all’Università di Pavia nel 1585, nel settembre del 1586 lasciò Pavia e si trasferì a Roma, dove entrò in contatto con San Filippo Neri e con il cardinale Cesare Baronio. Creato cardinale da papa Sisto V nel 1587 (a soli 23 anni), nel 1595 accettò la nomina ad arcivescovo di Milano, uniformandosi, nella gestione della diocesi, a quanto aveva fatto il cugino San Carlo. Pertanto effettuò visite pastorali, convocò sinodi, ampliò i seminari, rafforzò la rete dei vicariati, incentivò l’associazionismo religioso dei laici e diede esempio di grande carità cristiana. Fondò la Biblioteca Ambrosiana (inaugurata nel 1618) e la Pinacoteca, fece erigere la statua di San Carlo ad Arona ed abbellì il Duomo di Milano con dipinti e sculture. Oltre ad un ricco epistolario, ci restano di Federico Borromeo una gran numero di opere, italiane e latine, di carattere erudito e spirituale, che rivelano la sua attenzione per il misticismo e per il soprannaturale.
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SEICENTO»
Lascia un commento. Se vuoi che appaia il tuo avatar, devi registrarti su Gravatar
Devi essere collegato per lasciare un commento.