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Marco Michelini | 13 Settembre 2022

Molti furono i lirici che si ispirarono alla poesia del Marino, ma in essi raramente la sensibilità poetica e l’ispirazione autentica superano uno schematismo intellettualistico di forme e di maniere, riflettendo così l’esaurimento e la «svogliatura» di una civiltà letteraria. E tra tutti costoro non emerge alcuna grande figura di creatore, nessuna di quelle rare personalità che, mentre ci lasciano il dono della loro opera, imprimono con essa sforzi e sviluppi nuovi alla storia: essi si mostrano invece una mera schiera di sperimentatori, di inquieti analizzatori.

«La ricerca di novità spezza il quadro tematico e formale cinquecentesco opponendo un diverso quadro gnoseologico, frutto di altre cognizioni filosofiche e scientifiche. I lirici vogliono rappresentare tutta la realtà possibile, allargare la molteplicità degli oggetti veduti accumulati o isolati, come simboli di festosità o, più solitamente, di caducità della vita umana, di corruzione, di disfacimento, di morte. La stessa morte appare spesso come oscuramento e annullamento di tutto, greve coperchio che cade riducendo tutto in polvere come se l’esistenza non ci fosse mai stata.

La lirica s’infittisce di oggetti, animali, piante, che sono guardati analiticamente come a un microscopio, di fenomeni meccanici derivanti dalle nuove scoperte, del movimento delle forme in cui si riflette l’impressione suscitata dalla scoperta copernicana: giochi mirabolanti di acque, di cascate, di ordigni meccanici, di ruote dentate di orologi variano la tematica lirica con i più strani accostamenti.

In luogo della stilizzata donna perfetta dai capelli biondi è introdotta la donna dai capelli rossi, dai capelli neri (“foschi errori”, “nera cote”, “torbidi volumi”, “chioma oscura”); o nelle chiome d’oro sono fatte errare come “fere d’avorio” i pidocchi (“anzi gemme son pur che voi scotete | de l’auto del bel crin natio tesoro”); anche la donna brutta (cui “natura acherontea veste e circonda”) varia il contenuto cinquecentesco soprattutto nel contrasto tra la bruttezza e l’ornamento di ori e rubini, come lo varia il contrasto esistente in donna bella-gobba, bella-zoppa, bella-guercia»[1].

Anche il tema dell’amore, che ritorna con maggior frequenza nei canzonieri dei marinisti, non è mai un sentimento intimo e reale, ma pura esteriorità e compiaciuto formalismo sentimentale. A tratti affiorano il senso di precarietà e l’inquietudine, che spingono l’uomo a cercare conforto nei sensi, come unico mezzo per affermare la consistenza delle cose. Da tale insicurezza esistenziale hanno origine le liriche meditative pervase dalla malinconia, dal senso di vanità della vita, del relativo, del tempo che passa inesorabilmente; e la morte, che è un tema tra i più cari del Barocco. E proprio lì dove la realtà compare con toni irreali e fiabeschi, in una metamorfosi dell’universo, e dove più intima si fa la partecipazione del poeta al ricrearsi perenne della natura, che muta nel suo ritmo evolutivo, e quindi anche al suo aspetto più desolato e triste, si delinea, talora con accenti di reale valore poetico, quella estrema instabilità, che nasce dall’assenza di certezze concrete e valori credibili, e che è la chiave della inquieta civiltà barocca.

 

Claudio Achillini

 

Nato a Bologna nel 1574 da Clearco Achillini e Polissena de’ Buoi, studiò medicina, filosofia e giurisprudenza, e in questa disciplina si laureò nel 1594. Nel 1598 cominciò ad insegnare Diritto Civile a Bologna e tenne la cattedra fino al 1602. Dopo di che si recò a Roma al seguito di mons. Razzali, con la speranza di ottenere benefici dalla Curia di Roma. Non avendo però ottenuto i risultati sperati, rientrò a Bologna e riprese l’insegnamento. Nel 1609 si trasferì allo Studio di Ferrara, che lasciò poi – mantenendo la cattedra – nel 1613 a una prima importante missione come segretario del vicelegato pontificio a Torino. Negli anni successivi prese parte a una seconda missione diplomatica come auditore di Alessandro Ludovisi, arcivescovo di Bologna (futuro Gregorio XV). Nel 1621, divenuto il Ludovisi pontefice, l’Achillini, certo di ottenerne qualche favore, si recò a Roma, ma ricevette un’altra delusione, ottenendo accoglienza cortese ma assai fredda. Nel 1624 ritornò a Ferrara ma vi restò assai poco, poiché il duca di Parma e Piacenza lo chiamò a sé a Parma, come consigliere di Stato, letterato di corte e insegnante di Diritto Civile. A Parma restò dieci anni (1626-1636) finché, a seguito delle guerre scatenate dalla Lega antiasburgica, di cui il ducato di Parma e Piacenza faceva parte, non costrinsero lo Studio parmense a chiudere i battenti. L’Achillini ritornò così a Bologna e riprese l’insegnamento presso l’Alma Mater. Morì nel 1640, nella sua villa poco fuori Bologna. La sua salma, traslata nel capoluogo, fu inumata in San Martino Maggiore.

Claudio Achillini può essere considerato come il più fedele “scolaro” del Marino e un applicatore pesante e puntiglioso della tecnica della metafora rara e sorprendente fino alla bizzarria e alla stravaganza. Ma mentre per il Marino la rivalutazione è ormai un dato di fatto, l’Achillini sembra non poter godere di una simile rinascita critica per ben precisi limiti di poetica. Mentre le sue “manierone bizzarre” sembrano anticipare, sia pure un po’ goffamente, la maniera dei barocchisti della seconda metà del secolo, il suo gioco non presenta le attrattive tecniche trascendentali di molti suoi colleghi marinisti e men che meno è capace delle insospettate profondità di cui parte consistente della poesia di quella maniera è stata, nonostante le apparenze, capace. All’epoca godette di una notevole fama e fu giudicato il maggior poeta del tempo dopo il Marino, la citazione ironica che fece il Manzoni (Promessi sposi, XXVIII) dell’inizio di un suo famoso sonetto a Luigi XIII (Sudate, o fochi, a preparar metalli) e lo spunto che da una sua lettera al Mascardi[2] lo stesso Manzoni trasse per il ragionamento di Don Ferrante sulla peste (Promessi sposi, XXXVII) lo hanno reso prototipo del letterato secentista in senso deteriore.

La sua non foltissima opera poetica, Poesie di Claudio Achillini dedicate al grande Odoardo Farnese, Duca di Parma e di Piacenza, andò per la prima volta a stampa a Bologna nel 1632 e fu poi ristampata molte altre volte fino al 1680.

 

Cesare Rinaldi

 

Nacque nel 1559 a Bologna, terzo figlio maschio di Sebastiano e di Faustina Cattani. Non prese moglie e rinunciò alla sua parte di eredità in cambio di un «onesto assegno» che li potesse permettere di dedicarsi tranquillamente all’attività letteraria, frequentare accademie e viaggiare, scrivere, pubblicare le sue raccolte di rime. Fu vicino sia agli ambienti artistici che a quelli delle diverse accademie filosofico-letterarie che fiorirono a Bologna sul finire del XVI secolo. E fu anche amico dei Carracci[3] e del Reni[4], per il quale scrisse tre canzoni, confluite poi nelle Lodi al signor Guido Reni (1632), e ricevendo a sua volta, in regalo, quadri oggi perduti. Morì a Bologna nel 1636, stimato dalle più illustri famiglie bolognesi per la sua vasta cultura, oltre che per le sue «belle e leggiadre maniere».

 Appartenente a una generazione inquieta di letterati, che anagraficamente si trova fra quella di Torquato Tasso e quella di Giambattista Marino, Rinaldi fu uno dei primi a sperimentare forti novità, di contenuto e di stile, rispetto al manierismo del secolo precedente. La sua poesia presta attenzione ad aspetti insignificanti della realtà che erano stati esclusi a priori dalla lirica precedente. Non si pensi però che questo sia un tentativo di realismo, poiché questo tipo di esigenza comparirà solo nel sette-ottocento; a Rinaldi non interessa rappresentare la realtà, ma trarne soggetti su cui praticare una sperimentazione linguistica e stilistica, in modo da riscoprire e scoprire nuove o perse figure retoriche.

 

Antonio Bruni

 

Antonio Bruni nacque a Manduria nel 1593 da Giulio Cesare, originario di Asti, e da Isabella Pasanisi. Dopo i primi studi in patria si trasferì a Napoli, dove – presumibilmente – intraprese gli studi di giurisprudenza ed iniziò a comporre versi. Dopo alterni soggiorni tra Napoli e Roma, nel 1625 venne chiamato alla corte di Urbino dal duca e ne divenne il segretario. Durante il soggiorno ad Urbino, dovette compire per il duca numerosi viaggi, inerenti al proprio ufficio, a Firenze, Pesaro e Perugia. Negli ultimi anni fece ritorno a Roma, sotto la protezione di Urbano VIII, ed ivi morì nel 1635.

 Seguace, tra i più fervidi, del Marino, che imitò persino nella scelta dei soggetti delle sue opere e nella distribuzione delle poesie nel suo canzoniere, ebbe una grandissima fama presso i contemporanei. Fu autore prolifico e precoce, tanto che la sua prima raccolta poetica, La selva di Parnaso, fu stampata a Venezia nel 1616 e procurò al Bruni molti riconoscimenti. Il canzoniere risulta diviso in due parti: la prima contiene soltanto sonetti, mentre la seconda contiene madrigali, canzoni, stanze, panegirici, e scherzi, il tutto “condito” da un vasto repertorio di artifici retorici che non dispiacquero allo stesso Marino. Altro componimento poetico del 1625 è La Ghirlanda, poemetto in sestine scritta per il duca d’Urbino. Infine, nel 1630, il Bruni diede alle stampe Le tre grazie, una raccolta di rime divise per argomenti (amorose, eroiche, sacre e morali), in cui l’autore fece anche confluire alcune poesie che erano già comparse ne La selva di Parnaso.

L’opera, comunque, più fortunata del Bruni – e nella quale rivive ciò che di più scontato e schematico vi è nell’imitazione del Marino – è le Epistole eroiche (1626). « Tipicamente marinistica è la contaminazione, entro la cornice ovidiana, di molteplici fonti latine e volgari, tali da suggerire l’impressione di una rara e brillante sintesi letteraria. Così, per citare solo alcune tra le più fortunate epistole incluse nella raccolta, il racconto di Tacito sembra essere la principale fonte dell’epistola di Seneca a Nerone, Virgilio ha ispirato quella di Turno a Lavinia, Ariosto è presente nell’epistola di Fiordispina a Bradamante, di Olimpia a Bireno, di Armida a Rinaldo, il Tasso, ricordato dal Bruni nella Ghirlanda, ispira l’epistola di Tancredi a Clorinda, mentre in quella di Venere ad Adone influì direttamente il Marino. Molte epistole sono esemplate su modelli della bassa latinità, ma, a parte i prestiti che riguardano singoli episodi, in tutte è presente quella lezione di “asianesimo” che il modernismo dei marinisti assumeva come cifra fondamentale da contrapporre al precario equilibrio della retorica classicistica: ciò che all’opera del Bruni fruttò la stima e l’ammirazione non soltanto del Marino, ma di tutti gli esponenti più in vista del mondo letterario del tempo»[5].

 

Giovan Leone Sempronio

 

Giovan Leone Sempronio, primogenito di cinque fratelli, nacque a Urbino il 28 marzo 1603, da Sempronio e Maria Veterani, in una famiglia nobile originaria di Fossombrone. Educato nel prestigioso collegio Ancarano di Bologna vi studiò poi per cinque anni diritto. Nel 1623 fece ritorno a Urbino dove esercitò l’avvocatura e ricoprì alcuni incarichi pubblici: amministratore del consiglio comunale dei Quaranta e gonfaloniere nel 1640 e 1645. Morì in Urbino, a soli 43 anni, il 31 dicembre 1646.

La sola sua opera pubblicata in vita fu la Selva poetica (1633) – il cui titolo fu probabilmente ispirato dalla Selva di Parnaso del Bruni – che si struttura come una sorta di bosco letterario, in cui le varie piante corrispondono ad altrettante sezioni tematiche. Ogni sezione viene preceduta da un’introduzione in prosa che spiega le valenze simboliche dell’albero in questione, nonché la sua presenza nella mitologia e nella letteratura. Oltre al celebre sonetto Move zoppa gentil piede ineguale, interessante è la sezione dedicata all’alloro, che comprende venticinque sonetti sull’orologio, uno degli oggetti idolatrati dalla fantasia barocca.

Altre opere del Sempronio pubblicate postume sono il poema Boemondo o Antiochia difesa (1651), in venti canti, e la tragedia il Conte Ugolino (1724), in cinque atti, ciascuno dei quali termina con un coro. Il poema, racconta «tra battaglie, incanti, amori, erranze, viaggi iniziatici e interventi celesti, l’antefatto della Gerusalemme liberata, ossia la difesa di Antiochia, strappata nel corso della prima crociata da Boemondo I d’Altavilla al re Cassiano tra il 1097 e il 1098»[6]. La tragedia, invece, trae spunto dall’episodio narrato da Dante nel XXXIII canto dell’Inferno, ma l’intreccio è fantasioso e romanzesco, ed il motivo erotico, non solo fa cadere in secondo piano quello politico (l’odio tra guelfi e ghibellini, che è al centro del canto di Dante), ma diviene il vero motivo scatenate di tutta l’azione.

 

Girolamo Fontanella

 

Nato a Napoli per il Croce[7] nel 1612, a Reggio Emilia per altri tra il 1603 e il 1607, non ci sono noti i dati della sua biografia o dei suoi studi. Sappiamo solamente che fu iscritto all’Accademia degli Oziosi e che soggiornò a Napoli tra il 1630 e il 1637 e che a Napoli morì (sempre secondo il Croce) tra il 1643 e il 1644.

La poesia di Girolamo Fontanella si muove all’insegna di un secentismo esente da eccessi, dove gli spunti melici sembrano prevalere sulle arditezze del concettismo. Questo appare già dalla prima delle sue tre raccolte di versi, Ode (1633), che è sorretta da un impianto unitario ben delineato: una lode di tutto il creato, dalle sue forme più alte e maestose, fino agli oggetti più insignificanti ed umili della realtà. È questo un afflato religioso che caratterizza tutta l’opera, che, non a caso, si apre con le maestose sestine di endecasillabi e settenari dedicate Al Cielo, e che si conclude con dei componimenti di argomento sacro, che raggiungono l’apice in quello dedicato Alla Resurrezione del Salvatore.

C’è nei versi del Fontanella una ricerca dell’ameno e del tenero, che il Croce, suo ammirato scopritore, ha definito come “freschezza d’impressioni”, scagionando il poeta da ogni possibile collusione con i “deliri” della scuola marinista. E in effetti nell’Ode, nonostante i prestiti dimostrati da poeti contemporanei […], si rivelano un’attenuazione delle stravaganze barocche e una riduzione del virtuosismo immaginifico a ricerca dell’inedito, dell’originale. Così, nella proposta di nuovi modelli di muliebrità, il poeta non compone un catalogo di femminili deformità, bensì celebra una bellezza ora letterariamente meno codificata (La bella bruna), ora sorpresa in fogge. e attitudini inconsuete (La bella ricamatrice, La bella saltattice, A bella donna ch’uccellava con archibugio). Il gusto del piccolo e del grazioso rende meno drammatico il compianto secentesco sulla fugacità del tempo e il dominio della fortuna, anche quando esso circonfonde di funebre rammarico il tema solenne dell’ubi sunt. Certo il Fontanella accumula per una parte cospicua della sua opera deplorazioni contro i vizi umani (l’ignoranza e l’avarizia dei principi, la gola, la superbia), ma egli è soprattutto il poeta capace di adornare di squisita semplicità l’elogio di un piccolo mondo reale e di illustrarlo con una serie di nature morte (il melogranato, la cicala, la rosa)»[8].

Lo stesso sistema concettuale e tematico è riscontrabile anche nelle due raccolte successive: i Nove cieli (1640) che, come suggerisce il titolo, è divisa in nove sezioni, ciascuna dedicata a una delle sfere celesti e ai temi ad essi riconducibili; e le Elegie (pubblicata postuma nel 1640), nella quale tentò una forma di scrittura a forti tinte melodrammatiche.

 

Ciro di Pers

 

Figlio unico dei nobili Giulio Antonio e Ginevra Colloredo, nacque nel 1599 nell’avito castello di Pers, nel territorio di Udine. Compì i suoi primi studi letterari a Gemona, studiando in particolare Virgilio, Orazio e Tasso. Dal 1613 frequentò l’università di Bologna, dove condusse studi filosofici e teologici, intrattenendo intensi contatti con Claudio Achillini e altri importanti personalità del mondo letterario. Alla morte del padre (1618) rientrò a Pers, ove si innamorò di una giovane parente, Taddea di Colloredo, la quale, però, respinse la sua proposta di matrimonio. Questa delusione amorosa lo indusse a chiedere di entrare nell’Ordine dei Cavalieri Malta, tra le file dei quali  venne ammesso nel 1626. Partì dunque alla volta di Pisa, facendo tappa a Venezia, e proseguì poi per Ferrara e Bologna, dove conobbe Fulvio Testi. Raggiunta Pisa, si imbarcò per Malta, dove approdò nel maggio del 1627. Restò nell’isola due anni e mezzo, durante i quali partecipò attivamente a missioni militari contro i Turchi, e nel 1629 fece ritorno in patria. Dopo la morte della madre (1633), si trasferì a San Daniele e negli anni che seguirono, stese forse la Relazione sulla patria del Friuli, opera storica edita a Venezia nel 1676. Nel 1650 fece un pellegrinaggio a Loreto e  nel 1651 ritornò a Pers, dedicandosi allo studio della tragedia. Tra il 1655 e il 1657 intraprese una serie di viaggi a Roma, Bologna e Venezia, ma negli anni successivi le sue condizioni di salute cominciarono a peggiorare, soprattutto a causa di problemi renali. La morte lo colse nel 1663 nel castello di famiglia.

Quasi tutte le rime di Ciro di Pers (oltre trecentocinquanta componimenti) sono state stampate postume e dopo le fortune seicentesche vennero totalmente dimenticate. Nello scorso secolo il Croce ne pubblicò un nutrito gruppo e a quell’edizione ne seguirono altre che fissarono i temi principali della sua produzione: un senso del negativo, come scrive il Rack[9], che percorre tutte le gioie, anche minime, di cui le rime sono comunque pervase; un senso d’angoscia che viene sottoposto ad un intenso lavoro di sviluppo formale; una sincera disposizione religiosa. Pers paga comunque il tributo al proprio tempo, poiché il sentimento della fugacità del tempo e della precarietà della condizione umana, viene declinato secondo i modi caratteristici del linguaggio barocco, sebbene questo presenti una tensione etica e un’intensità espressiva del tutto particolari.

 

Domenico Giuseppe Artale

 

Domenico Giuseppe Artale nacque nel 1632 nel castello di Mazzarino, da Antonino e da Angela Artale. Avendo perso a tre anni la madre e a nove il padre, venne affidato ad uno zio. All’età di quindici anni commise il suo primo omicidio e perciò, dopo avere lasciato tutti i suoi beni ad una parente per far sì che si maritasse da “pari suo”, si rifugiò in un Convento di padri Gesuiti dove, per circa due o tre anni, studiò Filosofia. Uscito dal suo rifugio, si arruolò nell’Ordine Militare e Religioso dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme e, con una trireme, giunse a Candia, che era a quei tempi assediata dai Turchi. Lì Artale acquistò onori e glorie tanto che gli fu tributato il diploma di Cavaliere dell’ordine aureato costantiniano di S. Giorgio, titolo che gli consentì di aggiungere allo stemma di famiglia l’Aquila Bicipite Imperiale. Tornato in Italia si stabilì a Napoli, ma compì anche numerosi viaggi. Cercò Protezione a Vienna presso l’Imperatore e la sua fama di spadaccino formidabile s’affermò anche in Germania, facendogli guadagnare l’appellativo di “cavaliere sanguinario”. Ammalatosi di podagra, chiragra e sifilide, le sue condizioni economiche peggiorarono di pari passo alla sua malattia, e si spense a Napoli nel 1679.

L’Artale cominciò a scrivere versi almeno fin dal tempo della sua partenza per Candia; e continuò, tornato in Italia, ad intrecciare alle sue avventure di spadaccino le esercitazioni letterarie. Tra le sue opere un posto del tutto particolare è occupato da Pasife, ovvero L’impossibile fatto possibile (1661), melodramma d’intreccio amoroso‑cavalleresco, in cui, con un gusto tipicamente barocco, all’amore di Bimarte per Alminda si mescola il mito classico, un poco alterato e riveduto, di Pasife[10]. Altra opera interessante è il romanzo Il Cordimarte (1660), uno dei più fortunati tra i romanzi scritti in area meridionale nel XVII secolo, in cui narra concettisticamente le avventure di un prode guerriero e il suo amore per la regina di Bisanzio. Nel 1661 pubblica La bellezza atterrata, elegia in sesta rima scritta ne 1646 sulle peste di Napoli.

Tutte le opere dell’Artale furono riunite dallo stesso autore nella raccolta in tre libri Della enciclopedia poetica, della quale il terzo libro (L’Alloro fruttuoso) è sicuramente l’opera migliore dello scrittore. Minato nel fisico dalla malattia, l’Artale ne L’Alloro, cerca di presentarsi come un pentito delle sue scapestrate azioni della giovinezza e, in tetre forme epigrammatiche, tenta di dare una visione del mondo cupa e pessimistica. Le spavalderie giovanili lasciano il posto ad una fierezza risentita, sincera sì, ma poco articolata, enfatica ed esaltata fino al paradosso più insostenibile. L’ingegnoso linguaggio barocco chiamato a sostenere un mondo effimero e fatuo, non riesca a colmare il vuoto morale ed ideale, e sebbene riesca a tradursi in una fiammata immaginosa, l’opera dell’Artale approderà a risultati sostanzialmente mediocri.

 

Tommaso Stigliani

 

Tommaso Stigliani nacque a Matera nel 1573, forse da una famiglia di nobili origini. Da giovane si recò a Napoli, dove conobbe Giovan Battista Marino e probabilmente il Tasso. Nel 1600 si recò a Milano dove pubblicò Polifemo, un poemetto pastorale, e l’anno successivo vide la luce a Venezia la prima parte delle sue rime. Dopo un breve soggiorno a Torino, alla corte dei Savoia, nel 1603 si trasferì a Parma, ove divenne segretario del duca. Nel 1605, riunì e ampliò le rime giovanili in un Canzoniere, che fu messo all’indice per l’indecenza di alcuni indovinelli. Incolpò della cosa Arrigo Caterino Davila e lo sfidò a duello: rimasto ferito ad una mano dovette rifugiarsi per qualche tempo a Napoli. Frattanto andava scrivendo Il mondo nuovo (sull’epopea di Cristoforo Colombo), dal quale sperava di ottenere onori e gloria, ed i cui primi 20 canti vennero pubblicati nel 1617. Tuttavia, le allusioni al Marino contenute nell’opera (canto XVI) provocarono una frattura profonda nei rapporti tra i due poeti, tanto che il Marino cercò di impedire la stampa de Il mondo nuovo e di farne distruggere le copie. Tutto questo suscitò aspre polemiche e lo Stigliani, avversato da accademie e da letterati, fu costretto a lasciare Parma nel 1621 e a stabilirsi a Roma, dove curò l’edizione de Il Saggiatore di Galileo Galilei e pubblicò una nuova edizione del suo Canzoniere, ripulita dai versi osceni. Nel 1627 diede alle stampe Dell’Occhiale, opera dove dà sfogo al suo odio per il Marino (ormai morto), e che si configura sostanzialmente come una stroncatura dell’Adone. «L’odio aguzzava lo sguardo di quest’uomo mediocre e mediocrissimo scrittore a scorgere e definire la debolezza strutturale dell’opera del Marino»[11]. Nel 1628 uscì l’edizione definitiva in 34 canti de Il mondo nuovo, e nel 1651 uscì l’edizione delle Lettere. Stigliani morì a Roma nel 1659. L’ultima delle sue opere, il rimario Arte del verso italiano, fu pubblicata postuma nel 1658.

Lo Stigliani, come poeta, non scrisse opere di grande importanza sebbene vagheggiasse di avere, con Il mondo nuovo, raggiunto lo stile dell’Ariosto e del Tasso. Ma il poema rimane saldamente ancorato al gusto del suo tempo e non si erge certo al di sopra della rimeria dei suoi contemporanei. E anche il suo Canzoniere non si distingue assolutamente dalla sfera delle imitazioni e della mediocrità. In Dell’Occhiale accusò Marino di mancanza di coerenza e fedeltà ai canoni classici della misura e della proprietà linguistica, divenendo in tal modo il poeta antimarinista per eccellenza; ma le sue accuse, generali e particolari, mosse all’Adone, per quanto non tutte prive di fondamento, dimostrano bassezza di stile e barbarismi. Senza contare che l’antimarinismo dello Stigliani è impregnato e commisto di marinismo.

 

***NOTE AL TESTO***

 

[1] Piromalli Antonio, Giambattista Marino, marinisti, oppositori, in La storia della letteratura italiana scritta da Antonio Piromalli, http://www.storiadellaletteratura.it/main.php?cap=10&par=3

[2] Agostino Mascardi (Sarzana, 1590 – Sarzana, 1640) nacque da Alderano e da Faustina de’ Nobili, studiò al Collegio Romano e nel 1606 entrò nella Compagnia di Gesù, mantenendo un forte interesse per gli studi e le composizioni letterarie, per le quali si affidava spesso al giudizio e ai consigli dell’abate benedettino Angelo Grillo. Insegnante di retorica nel collegio dei Nobili di Parma (1612), andò poi a Roma per laurearsi in legge e, grazie alle raccomandazioni del conte Camillo Molza, nel 1618 fu assunto in qualità di segretario dal cardinale Alessandro d’Este. Cacciato da Roma per un conflitto tra la famiglia Ludovisi e la famiglia d’Este (1621), Potè farvi ritorno nel 1623 con l’ezione al Soglio Pontificio di Urbano VIII che lo nominò suo cameriere d’onore. Nel 1628 ottenne la cattedra di eloquenza allo Studio della Sapienza di Roma, che mantenne fino al 1638. Tra le sue opere, oltre a quella già citata, ebbe notevole fortuna tra i contemporanei il trattato Dell’arte istorica che fu molto conosciuto anche in Francia.

[3] I Carracci furono tre pittori bolognesi, Annibale (1560-1609) e Agostino (1557-1602) erano fratelli, mentre Ludovico (1555-1619) era loro cugino. Provenivano da una famiglia della piccola borghesia locale e si dedicarono alla pittura formandosi nell’ambiente cittadino. Oltre alle opere singole i tre cugini Carracci furono attivi in imprese realizzate collettivamente. Nel 1584 affrescarono alcune sale del palazzo del conte Filippo Fava a Bologna. La decorazione più famosa che realizzarono nella dimora del conte Fava è il fregio con Storie di Giasone e Medea. Successivamente realizzando un fregio con le Storie della fondazione di Roma nel salone d’onore di Palazzo Magnani. Lavorarono anche alla decorazione di alcune stanze di Palazzo Farnese a Roma.

[4] Guido Reni (Bologna, 1575 – Bologna, 1642) nacque da Daniele, musicista e maestro della Cappella di San Petronio e Ginevra Pozzi. Nel 1584 abbandonò gli studi di musica a cui era stato avviato dal padre per entrare nell’avviata bottega bolognese del pittore fiammingo Denijs Calvaert, amico del padre, che si impegnò a tenerlo per dieci anni. Ebbe per compagni di apprendistato pittori destinati a grande successo come Francesco Albani e il Domenichino. Morto il padre nel 1594, Guido lasciò la bottega del Calvaert per entrare nella scuola di pittura fondata dai Carracci nel 1582. Qui approfondì la pittura ad olio, l’incisione a bulino e copiando a più riprese singole parti dell’Estasi di Santa Cecilia, allora esposta nella chiesa di San Giovanni in Monte. Ben presto maturò un’interpretazione del naturalismo caravaggesco in chiave classicista (Strage degli innocenti) insistendo sull’equilibrio dei ritmi compositivo (Affreschi nel palazzo del Quirinale e nel palazzo Rospigliosi Pallavicini; San Michele arcangelo in S. Maria della concezione. Autore di numerose opere profane, studiò anche nuove soluzioni iconografiche ai temi devozionali (Pietà dei mendicanti). Con Bernardino Spada contribuì alla creazione del ritratto aulico secentesco.

[5] Mutini Claudio, BRUNI, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 14, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1972, https://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-bruni_%28Dizionario-Biografico%29/

[6] Luisella Giachino, SEMPRONIO, Giovan Leone, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 92, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2018, https://www.treccani.it/enciclopedia/giovan-leone-sempronio_%28Dizionario-Biografico%29/

[7] Croce Bnedetto, Per la biografia di un poeta barocco: Girolamo Fontanella, in La critica, vol. 36, 1938.

[8] Contarino Rosario, FONTANELLA, Girolamo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 48, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1997, https://www.treccani.it/enciclopedia/girolamo-fontanella_%28Dizionario-Biografico%29/

[9] Rak Michele, Introduzione, in Ciro di Pers, Poesie, Einaudi, Torino, 1978.

[10] Secondo la versione più comune del mito, Poseidone inviò a Minosse un bianchissimo toro affinché venisse sacrificato in suo onore. Il re di Creta però non obbedì al dio, ritenendo il dono troppo bello e ne sacrificò un altro al suo posto. La vendetta divina non tardò ad arrivare. Nella moglie di Minosse, Pasifae, si sviluppò ben presto una passione così folle per l’animale da spingerla a desiderare ardentemente di unirsi a esso. Decisa a soddisfare il proprio impulso mostruoso, la regina chiese aiuto a Dèdalo, rifugiatosi a Creta per sfuggire a una condanna per omicidio, che le costruì una vacca di legno cava, rivestita della pelle dell’esemplare di femmina da lui più amato, nella quale entrare per consumare il rapporto. Il toro, montando la finta vacca, fecondò Pasìfae che diede alla luce il Minotauro.

[11] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 288.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SEICENTO»

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