Zoom
Cerca
Marco Michelini | 22 Giugno 2022

Linea Biografica

 

«Oggetto di lodi altissime e di attacchi violenti durante il Seicento (e poi variamente, ma sostanzialmente considerata in una prospettiva più cauta di poesia lontana dalla vera grandezza), l’opera poetica del Marino è certo la più significativa espressione della tendenza barocca in Italia, così come la stessa personalità e vicenda biografica di questo poeta ben rappresentano un tipo di umanità e di vita “barocca” sia per le sue smisurate ambizioni e per le sue avventurose peripezie (nel tipico mondo rissoso e opportunistico delle corti secentesche e delle loro clientele di letterati famelici di protezione e prebende), sia per la debolezza morale, il gusto spettacolare, la preferenza dell’apparire sull’essere, sia anche per la sete di avventure ed esperienze culturali  e letterarie che non mancano di curiosità per il nuovo mondo scientifico, ma sempre in forma più dilettantesca che profonda, più irrequieta che ansiosa della verità e della persuasione e dell’impegno personale»[1].

Giovan Battista Marino nacque a Napoli nell’ottobre del 1569, in una casa di piazza della Selleria (poi chiamata Pendino). Il padre, Giovanni Francesco, forse di origini calabresi, era giureconsulto, non ricco né nobile, ma sufficientemente benestante; vantava, inoltre, una certa dimestichezza con le lettere, non disdegnando di allestire nella propria dimora rappresentazioni di egloghe e commedie, alle quali prenderà parte anche il giovane Giovan Battista. Il piccolo Giovan Battista ricevette i primi rudimenti di grammatica dall’umanista Alfonso Galeota, che lo introdusse allo studio del latino e ne segnalò ben presto al genitore l’ingegno non comune. Al ragazzo non venne invece impartita alcuna nozione di greco, lingua che il Marino ignorerà per tutta la vita. Del resto il Marino non ebbe né l’opportunità né, forse, la costanza di condurre regolari studi letterari e il suo profilo rimarrà, per più di un verso, quello di un umanista incompiuto.

Compiuti gli studi di grammatica e retorica, all’inizio del 1583 il padre lo avviò allo studio del diritto, nel quale progredì per tre anni prima di abbandonarlo a favore della poesia. A seguito di questa scelta, il padre lo cacciò di casa, mettendolo in condizione di dover chiedere aiuto ad amici e mecenati napoletani, e per tale motivo il poeta serberà nei confronti del padre un bruciante e durevole risentimento. Nel 1588, con il nome di Accorto, entrò nella giovane Accademia degli Svegliati, che contava fra i suoi membri rilevanti aristocratici e uomini di cultura partenopei, e dalla quale trasse notevoli suggestioni, come la crescente ambiguità nei confronti delle istituzioni statali ed ecclesiastiche.

Nella seconda metà del 1596 il Marino entrò al servizio, in qualità di segretario, di Matteo di Capua[2], principe di Conca e Grande ammiraglio del Regno, facoltosissimo mecenate e cultore delle arti. Ebbe quindi accesso alla ricca biblioteca e all’imponente quadreria del principe, grazie alla quale ebbe modo di coltivare quel gusto per l’arte figurativa che sarà la passione predominante di tutta la sua vita, in ricercata e spesso felice sintonia con la passione poetica.

Nella primavera del 1598 il Marino venne incarcerato, forse a causa di un’accusa di sodomia – che venne poi reiteratamente ribadita dai suoi nemici – o a causa della denuncia del padre di una giovane rimasta incinta del poeta e morta al sesto mese di gravidanza per procurato aborto. Comunque, quale che fosse il motivo dell’incarcerazione, Giovan Battista poté riacquistare la libertà l’anno successivo. Nel 1600, però, venne incarcerato nuovamente per avere falsificato le bolle vescovili necessarie a statuire la condizione di chierico ad un amico, arrestato per omicidio e condannato a morte: questo espediente avrebbe consentito all’imputato di sottrarsi alla condanna e di beneficiare della protezione ecclesiastica. Il falso venne però smascherato e il Marino fu incarcerato con una grave accusa, ma riuscì ad evadere e a riparare a Roma, trovando alloggio presso una locandiera.

Dopo le prime difficoltà, la protezione di cui il giovane poeta aveva goduto a Napoli si rivelò efficace anche a Roma, permettendogli di procurarsi ben presto nuovi influenti sostenitori. Per cui, grazie ai buoni uffici di costoro, di lì a breve il Marino puté entrare al servizio del potente monsignor Melchiorre Crescenzi[3], cavaliere romano, chierico di camera e coadiutore del camerlengo, oltre che raffinato e stravagante uomo di lettere. Inoltre, nella Città Eterna, il Marino entrò rapidamente in contatto con i circoli letterari romani, in particolar modo con l’Accademia degli Umoristi (inizialmente Accademia dei Begli umori), che era frequentata da letterati di grande valore quali Alessandro Tassoni e Gabriello Chiabrera. Ebbe modo anche di frequentare le dimore di patrizi e cardinali, dove riesca a familiarizzare con uomini di lettere e artisti figurativi (fra i quali il Caravaggio, che gli farà un ritratto).

Negli ultimi mesi del 1601 Giovan Battista Marino partì alla volta di Venezia per seguire la pubblicazione a stampa delle Rime. Durante il viaggio Giovan Battista sostò in diverse città (Siena, Firenze, Bologna, Ferrara e Padova), nelle quali incontrò patrizi, accademici e personalità letterarie. Giunse finalmente a Venezia all’inizio del 1602 e sempre nello stesso anno videro la luce le due cospicue parti della sua raccolta poetica con il titolo di Rime amorose, marittime, boscherecce, heroiche, morali, sacre et varie. Parte prima e Rime. Parte seconda. Madrigali, et canzoni.

Rientrato a Roma, alla metà del 1603 entrò al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini, Nipote di Clemente VIII. Il motivo non fu dettato da dissidi con il Crescenzi, ma piuttosto dalla speciale opportunità che il potente e generoso cardinale poteva rappresentare per la sua carriera letteraria. Infatti, alla corte dell’Aldobrandini, Giovan Battista poté approfondire gli studi di letteratura ecclesiastica già coltivati a Napoli e destinati a trovare espressione nelle prose delle Dicerie sacre (1614), ma soprattutto dedicarsi alla produzione in versi: oltre a scrivere molte delle rime che costituiranno la terza parte della Lira, mise mano all’Adone, che per più di vent’anni sarà al centro dei suoi pensieri, lavorò al poema La strage degli innocenti, scrisse alcuni poemetti, fra cui I sospiri d’Ergasto, suo capolavoro pastorale, e svariati componimenti d’occasione.

Con la morte di Clemente VIII, dopo il brevissimo pontificato di Leone XI[4], venne eletto Paolo V[5], il quale comandò all’Aldobrandini di fare ritorno alla sua sede arcivescovile di Ravenna. Il Marino fu costretto a seguirlo (1606), e – privato della vita romana – si trovò a condurre, come egli stesso scrisse, una «vita afflitta ed egra». Ciò nonostante lavorò intensamente, accompagnando il lavoro allo studio (soprattutto le sacre Scritture e gli scritti teologici, specialmente patristici, ma anche le disposizioni conciliari e il diritto canonico).

All’inizio del 1608 Pietro Aldobrandini, Protettore del Piemonte, si recò alla corte di Carlo Emanuele I di Savoia[6] ed il Marino, che faceva parte del seguito del cardinale, vi fu accolto con tutti gli onori. Immediato, però, nacque un conflitto con uno dei poeti di corte, il genovese Gaspare Murtola[7], segretario del duca, il quale cominciò a far circolare un gruppo di componimenti indirizzati contro il potenziale rivale e intitolati Il lasagnuolo di monna Betta, ovvero Bastonatura del Marino, datagli da Tiff, Tuff, Taff. A questo e ad altri attacchi murtoliani, il Marino rispose con una batteria di sonetti satirici, le Fischiate, efficacissime parodie dei modi letterari del Murtola. Nonostante la gravità delle accuse da lui rivolte all’avversario, dallo scontro il Murtola uscì sconfitto e ciò accrebbe il suo risentimento. Non solo: avendo il Marino composto un panegirico del duca nel ricercato metro della sesta rima (Ritratto del serenissimo don Carlo Emanuello duca di Savoia), ciò fece sì che il Savoia conferisse al poeta il cavalierato dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e che il Murtola fosse licenziato. Divorato dall’invidia ed esasperato dallo scherno del rivale, ma anche credendo che il licenziamento fosse opera di quest’ultimo, il Murtola attentò alla vita del Marino sparandogli «con una pistolotta carica di cinque palle ben grosse», ma ferendolo solo di striscio. Arrestato, venne condannato a morte, ma Giovan Battista – che pure aveva dato all’episodio il massimo di pubblicità – richiese per lui la grazia, riuscendo ad ottenerla.

Nel 1611, alcuni delatori accusarono il Marino di avere declamato con intenti satirici contro il duca versi di carattere burlesco. Quei versi, in realtà, erano stati scritti a Napoli, ma il duca, che portava nel corpo i segni di un’infanzia cagionevole, si risentì e fece incarcerare il poeta dall’aprile del 1611 fino al giugno del 1612. E poiché Carlo Emanuele aveva disposto con un editto che nel ducato non si potevano divulgare libelli pena la carcerazione e la confisca dei beni, al Marino furono anche confiscati tutti gli scritti, compreso quelli in corsa d’opera, cosa questa che intralciò moltissimo il suo lavoro, anche perché il sequestro durò più a lungo della carcerazione.

Rientrato in possesso delle proprie carte, Giovan Battista portò a termine e pubblicò la terza parte della Lira (1614) e le Dicerie Sacre. Dovette comunque continuare a difendersi dalla accese polemiche letterarie sorte a causa di una sua svista mitologica che l’aveva portato a confondere il leone nemeo con l’Idra di Lerna. A tutto questo si aggiunse la difficile congiuntura politica, poiché il duca Carlo Emanuele nel 1613 aveva occupato il Monferrato, mettendosi contro quasi tutte le potenze europee, ed in modo particolare la Spagna. In questo clima, che il Marino percepiva come insicuro ed ostile, cominciò a farsi strada nel poeta la necessità di trovare un’altra sistemazione, ragion per cui nel 1615 lasciò definitivamente Torino per trasferirsi in Francia alla corte di Maria de’ Medici, vedova di Enrico IV.

A Parigi Giovan Battista Marino era considerato dagli italianisants (cioè i cultori della lingua e della poesia italiana) il maggiore letterato vivente e gli venne assegnata una cospicua pensione che gli permise di vivere dedicandosi esclusivamente alla pubblicazione ed al perfezionamento delle sue opere, senza dover assumere alcun incarico pubblico. Nel 1616 pubblicò la raccolta degli Epitalami e nel 1619 inviò a Venezia La Galeria che vedrà la luce nel 1620. Subito successiva è la stampa a Parigi de La Sampogna e, sempre nel 1620, anche l’Adone, dopo anni di lavoro, giunse alla sua forma definitiva e vide la luce (sempre a Parigi nel 1623).

L’instabilità del quadro politico d’oltralpe, ma anche i problemi di salute, nonché la culminante fortuna economica e letteraria, spingono il Marino, nella tarda primavera del 1623, a fare ritorno in Italia e a stabilirsi a Roma, ospite del fratello del Crescenzi. Sul capo del Marino pendeva comunque un procedimento inquisitorio iniziato già alla fine del 1609, ma i soggiorni a Torino e in Francia avevano evitato al poeta i pericoli di un processo romano. Ma allorché si concluse inaspettatamente il pontificato di Gregorio XV[8], che sembrava ben disposto nei confronti di Giovan Battista, e sulla cattedra petrina si insediò Urbano VIII[9], la condanna del Sant’Uffizio non tardò ad arrivare (novembre 1623) e con essa anche l’ordine di rimuovere contenuti empi ed osceni dalle opere scritte fino allora, non escluso, dunque, l’Adone. A tutto ciò, nel giro di breve (primavera 1624), una nuova denuncia contro l’Adone venne inoltrata alla Congregazione dell’Indice, e ciò fece decidere al Marino di lasciare Roma e fare ritorno a Napoli (maggio 1624).

Nella città natale venne accolto trionfalmente non solo da nobili e letterati suoi estimatori, ma anche dalle due Accademie rivali, degli Infuriati e degli Oziosi, e di quest’ultima fu fatto principe, ma fu anche seriamente coinvolto nei loro contrasti. All’Accademia degli Oziosi, di fronte ad un folto pubblico, pronunciò i suoi ultimi discorsi accademici, fra cui quello sui diritti degli animali che apparirà in appendice a una postuma edizione veneziana dell’ultima grande opera mariniana, La strage degl’innocenti (Venezia, 1633). Ma le sue condizioni di salute già compromesse si aggravarono e nel marzo del 1625 morì, dopo aver tentato invano di dare alle fiamme tutte le sue carte.

 

La poetica e le opere

 

«Marino non ebbe una vera vita di sentimenti religiosi e di profonde persuasioni morali e ideali. E mentre questa mancanza lo allontana dalla pienezza della vera e grande poesia, sempre fondata su una forte vita di affetti e di idee, non si può d’altra parte avvicinarsi alla sua poesia se non proprio comprendendone l’essenziale origine sensuale (più che sentimentale) e l’essenziale versatilità letteraria, la sua disposizione al gusto e all’esaltazione descrittiva e amplificatrice delle cose nella loro sensuale apparenza, nel loro fascino visivo, pittorico, musicale, nel loro riferimento ad una sensualità sempre desta e alacre a cogliere la meraviglia dei fenomeni naturali e a destarla nei lettori servendosi delle immagini più sontuose, più avvincenti, più nuove, delle metafore e dei concetti più inusitati e inaspettati. Perciò la sua poetica, il suo bando di nuovo scrittore ben si consolida nei suoi noti versi secondo cui «è del poeta il fin la meraviglia / (parlo dell’eccellente, non del goffo) / chi non sa far stupir, vada alla striglia». Dove sarà da insistere anche sul valore della parentesi che precisa l’esigenza di una meraviglia propria del poeta “eccellente” e non “goffo”: e cioè di una meraviglia elegante e raffinata, frutto di naturale sensibilità e immaginosità, ma anche di studio, di calcolo, di utilizzazione di quanto la precedente tradizione poetica può offrire sempre nella direzione del meraviglioso e dello squisito.

Sicché il poeta barocco ideale, con cui il Marino si identifica, vorrà, da una parte, superare e rompere la tradizione e i modi invecchiati e risaputi della poesia precedente, ma insieme dovrà ricavare dalla tradizione italiana classica (con chiare preferenze per poeti concettosi e ricchi di immaginosità rara e preziosa, come Ovidio o i poeti della decadenza latina o certo Petrarca più arduo e lambiccato o, più vicino, il Tasso nelle sue offerte prebarocche) situazioni, immagini, frasi, cadenze ritmiche con cui arricchire il proprio nuovo discorso poetico originale, ma anche preziosamente intessuto di echi letterari rifusi in esso.

Tale procedimento di novità ardimentosa, persino spavalda, e di letterarietà estrema (che alla fine convergono in una volontà molto chiaramente barocca di vincere la svogliatezza del pubblico più con la singolarità e l’artificio che con pensieri e sentimenti profondi e semplici) si può riscontrare anche nelle stesse lettere del Marino, interessanti a renderci, sempre in un tessuto letterario, la figura dell’uomo e dello scrittore con i suoi umori polemici, con le sue ambizioni, e d’altra parte con una riserva di arguzia e di burlesca comicità, che va pur calcolata nella sua stessa poesia e che spesso rompe felicemente il peso di un’abilità troppo costante e compiaciuta»[10].

I moduli stilistici della tradizione, nella loro essenzialità, da Petrarca a Tasso (come è già stato detto), vengono recuperati; ma la novità nasce da un diverso accostamento degli oggetti poetabili, che, attraverso una multiforme trasformazione analogica e un ampliamento dell’universo sensibile, determinano il capovolgimento del microcosmo poetico tradizionale.

E allora la metafora ingegnosa, e quindi il concettismo, che altro non è se non esasperazione di essa, diventa la misura della nuova poesia marinista, in cui, mentre il linguaggio si traduce in libere movenze espressive, rinnovandosi continuamente in una sorta di scommessa creativa e di poliedrica invenzione, risalta soprattutto l’immagine che si trasforma, come momento poetico privilegiato, per via analogica.

Ma il gioco intellettualistico, che è alla base dei nuovi moduli artistici, crea più spesso schematismi fissi e vuote ripetitività, piuttosto che autentici spunti poetici. Esemplificativa è, al proposito, l’esperienza dell’’Adone. Il poema ha un’esile trama; ma sul primitivo tronco il Marino, operando una sorprendente dilatazione tematica, inserisce una miriade di episodi, di vicende, di digressioni; e accanto una inventività del lessico, volta a suscitare la meraviglia, e una catalogazione di oggetti preziosi e rari, che raffigurano un mondo irreale e sfumato. Mancando però spesso l’ispirazione poetica, il discorso nel poema nasce da quel virtuosismo descrittivo che sembra riprodurre i modi propri della pittura del secolo e da quella particolarissima tecnica compositiva che doveva costituire il principale aggancio con un pubblico, quello del Seicento, assetato di novità estetizzanti e di allusive divagazioni.

La produzione del Marino fu abbondante. Nel 1602 furono stampate a Venezia le Rime, accresciute e ripubblicate nel 1614 col titolo di Lira. Nella raccolta, suddivisa in varie sezioni (le rime “amorose”, ma anche le “marittime”, le “boscherecce”, le “eroiche”, le “lugubri”, le “morali”, le “sacre”, le “varie”) predomina la casistica amorosa nei suoi aspetti più esteriori: è la descrizione del complimento galante, è l’enumerazione degli oggetti preziosissimi che circondano la donna amata, è la rappresentazione di un mondo raffinato, filtrato da una volontà aristocratica, ed è, anche, la predilezione per una natura rarefatta ed artificiosamente elegante.

Della stessa data sono le Dicerie sacre, dove, tra una fiorita cultura biblica e mitologica, l’iniziale materia religiosa diventa pretesto di minuziosità lessicale e di costruzione inventiva, che si realizza esemplarmente nell’espediente letterario di strutturare il discorso intorno ad un’unica metafora. L’opera si divide in tre orazioni: la prima, La Pittura, tratta della reliquia della S. Sindone, conservata nella cattedrale di Torino. Ma l’argomento principale è l’esaltazione del sublime “miniare” del Creatore che ha saputo, con arte mirabile, adornare il mondo di splendidi oggetti. La seconda orazione, che ha per titolo La Musica, trae spunto dalle ultime sette parole pronunziate da Gesù in croce per dimostrare che esse costituirono sette meravigliosi cantici: il Cristo, dunque, è il più abile musico. Il Cielo, la terza orazione (di scarso valore), è una lunga adulazione dell’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e della Casa di Savoia.

Il mito del mondo pastorale, attraverso un recupero delle Metamorfosi ovidiane, manipolate dalla nuova poetica, compare nella Sampogna, raccolta di idilli “favolosi” e “pastorali”, edita a Parigi nel 1620, con una dedica al principe Tommaso di Savoia; dello stesso anno è la Coieria, descrizione in versi di quadri, disegni e sculture. Anteriori al soggiorno parigino sono l’Anversa liberata, frammento di poema epico, e la Strage degli innocenti, poema sacro diviso in quattro libri, in ottava. L’Adone, l’opera che costituisce il momento focale della produzione del Marino, fu pubblicato nel 1623, benché il poeta vi si dedicasse da molti anni, fin dal suo primo soggiorno napoletano. Scritto «in venti canti lunghissimi in ottave (in tutto si tratta di quarantacinquemila versi), narra le vicende del mitico, bellissimo pastore di nobile stirpe, che si innamora, ricambiato, di Venere, e gode del suo amore nella beata isola di Cipro, dove, nel giardino del Piacere, passa insieme all’amata attraverso le gioie procurate dai sensi (vista, odorato, udito, gusto, tatto) e quelle dell’intelligenza e visita, con lei, il cielo della luna, regno dei mali e dei sogni, il cielo di Mercurio, regno dell’arte, il cielo di Venere, regno della bellezza.

A questo punto, percorsi tutti i gradi del piacere, il racconto passa dall’idillio voluttuoso e felice alla preparazione romanzesca e avventurosa della catastrofe che prima si complica e si amplia smisuratamente con la descrizione della realtà esteriore del mondo, da quella cosmica a quella della terra con tutte le scienze e le arti dell’uomo e la stessa vita della corte, poi si addentra in una serie di intricate vicende. Adone, perseguitato da Marte, amante di Venere, è costretto a fuggire da Cipro e a ripararsi presso la maga Falsirena che, amandolo non riamata, lo tramuta in pappagallo. Salvato poi da Mercurio e ripreso il suo aspetto umano, ritorna a Cipro e viene nominato da Venere re di Cipro. Sennonché Marte aizza contro di lui un cinghiale che lo ferisce e lo uccide provocando la disperazione di Venere, la quale onorerà la sua morte con l’istituzione di giuochi funebri descritti lungamente nella fine del poema con l’inserimento in essi di un sontuoso avvenimento principesco contemporaneo: le nozze di Luigi XIII, re di Francia, e di Anna, principessa d’Austria.

«La trama è complicata, ma, rispetto all’enorme lunghezza del poema, risulta in realtà esile e debole, e ben lontana sia dalla incessante creatività narrativa dell’Ariosto sia dall’organicità più solenne e scandita del Tasso. E come il Marino nel suo poema manca di una forte e necessaria struttura (perché mancava di una forte e sicura fantasia e di un’idea centrale possente), così l’unità e le ragioni vere dell’Adone andranno piuttosto cercate – secondo la sua “poetica”, la sua ispirazione, il gusto stesso suo e del suo tempo – in un bisogno di digressioni, di episodi, di descrizioni, collegati fra loro, più che dalla stessa trama, da un gusto di varietà e di versatilità appoggiata al motivo ispirativo del godimento sensuale e ingegnoso della realtà nelle sue apparenze labili e meravigliose, singolari e piacevoli anche quando toccano gli elementi del magico, dell’abnorme, del mostruoso. Non ingannino le allegorie già ricordate, premesse poi ai canti per superare le censure ecclesiastiche e per venire incontro alle esigenze religiose e moralistiche del tempo della controriforma e secondo le quali la stessa morte dell’affascinante Adone dovrebbe dimostrare che “smoderato piacer termina in doglia”. In realtà il Marino interpretava l’animo del suo tempo nella propria tendenza a esaltare, con inesauribile ricchezza e varietà immaginosa e “mirabile”, il godimento erotico, il piacere dei sensi, la meraviglia della realtà della vita naturale e associata, screziandola e variandola in infiniti episodi e paesaggi molli e voluttuosi, in miti idillici affascinanti, e soprattutto in descrizioni (la descrizione è in certo senso la fondamentale forma poetica del barocco italiano) condotte avanti con un virtuosismo a volte esasperante, ma a volte indubbiamente alimentato da una eccezionale sensibilità e sorretto da una abilità letteraria raffinatissima. In questi casi più felici e tutt’altro che infrequenti si può misurare il singolare incanto della poesia mariniana, la sua capacità di attrarci tuttora (al di là delle lodi entusiastiche e delle stroncature radicali e senza perciò dimenticare che mai il Marino giunge alla vera e grande poesia) in un mondo favoloso e fragile, effimero, ma pur affascinante di parvenze sontuose e raffinate, di effetti pittorici e musicali che fondono in sé movimenti patetici e idillici, elementi di grazia e di melodia: e si pensi almeno […] all’elogio della rosa e, ancor meglio, alla gara fra il musico e l’usignolo, dove si esalta al massimo grado quell’abilità e capacità inventiva di immagini e suoni cui il Marino intendeva affidare le qualità più tipiche della sua nuova poesia[11]».

Significativa è anche la produzione minore del Marino, in quanto aiuta a chiarire i molteplici casi della sua vita, i rapporti e gli interessi letterari: innanzi tutto le Fischiate della Murtoleide, 81 sonetti scritti contro Gaspare Murtola, il “tondo poetaccio” della corte di Torino che infilzava versi “in guisa di salsicce”, autore Della creazione del mondo (Venezia 1608), l’opera che aveva suscitato le critiche del poeta e che era stata all’origine della famosa contesa (a questa raccolta, i cui sonetti sono spesso pretesto per un linguaggio quanto mai polemico e vivace, il Murtola rispose con la Marineide); i Panegirici (Tebro festante per Leone XI, la Fama per Anna d’Inghilterra, il Ritratto del serenissimo don Carlo Emanuello, il Tempio per Maria de’ Medici); gli Epitalami; le Lettere.

Pertanto, anche se l’Adone rimane un punto di riferimento essenziale, come documento fondamentale della nuova poetica, l’arte del Marino va ricercata soprattutto in quegli idilli compresi nella Lira, nella Coieria, e soprattutto nella Sampogna, «preziosi ricami sulla trama degli antichi miti amorosi, tutti sospesi in una sottile aura letteraria, bucolica e melodrammatica, dove il sentimento si stempera in melodia, la favola si fa pretesto a un lussureggiane e libero fiorire d’immagini, e le immagini trascinate nel vortice di una vaga sonorità. Si veda, per Esempio, l’idillio di Atteone: Eran da la chiarezza De l’onde trasparenti Innargentate l’ombre, e da la luce De le candide membra Imbiancati gli orrori; onde parea Spuntar ne l’antro oscuro A meza notte l’alba: e, lampeggiando Con sferze oblique e tremuli reflessi Per lungo tratto il vago lume intorno, Qual suol quando la luna Lo suo splendor sereno Vibra nel mar tranquillo, O quando il sol saetta Con lucido baleno Specchio di bel diamante, Portava agli occhi miei raggi di neve, Ch’abbarbagliando di lontan la vista Mi ferivano il core. Mai, neppure nel Tasso dei madrigali e dell’Aminta, neppure nel Guarini, la parola aveva mostrato una così forte tendenza, attraverso l’estenuazione dell’impulso intellettualistico e letterario, a svuotarsi di ogni significato logico, e, senza rinunciare del resto al lusso irragionevole delle immagini, appagarsi compiaciuta in una ricerca di valori musicali ed evocativi, in un gioco di labili e indistinte vibrazioni sentimentali»[12]. E tutto questo, sempre attraverso un movimento di specchi semantici, instaura un rapporto analogico tra le cose della realtà sensibile, creando una grammatica intuitiva, che è il nuovo modo, del tutto barocco, di leggere il mondo.

L’Adone, come s’è già detto, ebbe un’enorme diffusione all’estero e il Marino ottenne un grandissimo successo, in quanto si guardava a lui come al caposcuola di un gusto e di una poetica nuova. La sua innegabile importanza, dunque, va ricercata soprattutto nella storia delle lettere e in quel suo consapevole sperimentalismo, che, mentre è l’espressione di una precisa temperie spirituale, inserendosi nel fenomeno innovativo europeo del secolo (contemporaneo al marinismo in Italia è il preziosismo in Francia, l’eufuismo in Inghilterra, il gongorismo in Spagna), denunzia anche l’incapacità della cultura italiana di trovare una soluzione di ricambio ad un materiale poetico ormai esangue.

 

***NOTE AL TESTO***

 

[1] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 276.

[2] Matteo di Capua (1568-1607), conte di Palena e secondo principe di Conca, Grande Ammiraglio del Regno di Napoli, fu il più munifico patrono delle arti e delle lettere a Napoli tra Cinquecento e Seicento. La sua biblioteca e le collezioni d’arte, ricche di opere attribuite a Correggio, Raffaello e Tiziano, furono tra le più importanti mai raccolte a Napoli.

[3] Melchiorre Crescenzi (1568 – 1612), appartenente all’illustre famiglia di cavalieri romani, studiò a Perugia. Nel 1597, compiuti gli studi, divenne chierico di camera. Nel 1607 vendette l’ufficio di chierico per debiti e – nello stesso anno, a Venezia – diede scandalo perché si mostrò pubblicamente in abito secolare e perché frequentava Paolo Sarpi. Nel 1601 accolse nel Palazzo Serlupi Crescenzi Giovan Battista Marino, che gli dedicò la prima parte delle sue Rime (1602).

[4] Leone XI, al secolo Alessandro de’ Medici di Ottajano (Firenze, 1535 – Roma, 1605), nacque Ottaviano e Francesca Salviati, ultimo di quattro figli ed unico maschio. Allorché decise di intraprendere la via del sacerdozio fu osteggiato dalla madre che sperava per l’unico figlio maschio un altro destino. Fu dunque affidato al cugino di secondo grado Cosimo I de’ Medici, che lo condusse con sé in un viaggio a Roma. Qui Alessandro conobbe Filippo Neri (il futuro santo) dal quale rimase profondamente colpito. Morta la madre, nel 1566 decise di prendere gli ordini sacri e il 22 luglio 1567 l’arcivescovo di Firenze Antonio Altoviti lo ordinò sacerdote. Nel 1569, nominato dal granduca di Toscana ambasciatore presso la Santa Sede, si trasferì da Firenze a Roma dove fu presentato a Pio V, che ne apprezzo le doti e lo nominò protonotario apostolico (1569). Morto Pio V, Gregorio XIII lo nominò prima vescovo di Pistoia (1573), poi arcivescovo di Firenze (1574) e infine lo creò cardinale (1583). Dopo un lungo soggiorno in Francia in qualità di legato a latere, durante il quale riuscì a far sì che Enrico IV si riconciliasse definitivamente con la Chiesa Cattolica, e che Filippo II riconoscesse il Borbone come legittimo sovrano di Francia, tornò a Roma e nel conclave del 1605 venne eletto Papa e fu consacrato il 10 aprile, domenica di Pasqua, dal cardinale protodiacono Francesco Sforza. Il suo è tutt’ora il pontificato più breve della storia poiché durò solo 26 giorni.

[5] Paolo V, al secolo Camillo Borghese (Roma, 1552 – Roma, 1621) nacque dall’avvocato concistoriale Marcantonio, patrizio senese, e dalla nobile romana Flaminia Astalli. Studiò all’università di Perugia e in quella di Padova. Dopo essersi laureato in utroque iure, svolse dapprima l’attività di avvocato, finché non scelse la carriera ecclesiastica. Il suo primo incarico fu quello di referendario della Segnatura di giustizia. Ordinato sacerdote nel 1577, Camillo salì uno dopo l’altro i diversi gradi della gerarchia della Curia romana, fino ad essere nominato, da Sisto V, vicelegato a Bologna (1588). Il successore Clemente VIII lo fece nunzio particolare presso il re di Spagna Filippo II (1595) e poi lo creò cardinale (1596). Durante il cardinalato, il Borghese rivestì diverse cariche, tra cui quella di segretario dell’Inquisizione romana (1602) e di cardinale vicario, cioè rappresentante del papa come vescovo di Roma (1603). Nel secondo conclave del 1605 venne eletto Papa e sostenne un aspro conflitto giurisdizionale con la Serenissima, cui lanciò l’interdetto (1616). Incoraggiò le attività missionarie e, assertore di un cattolicesimo intransigente, continuò l’opera di riforma della Chiesa, ma nun fu immune dal nepotismo.

[6] Carlo Emanuele I di Savoia, detto il Grande (Rivoli, 1562 – Savigliano, 1630), nacque da Emanuele Filiberto di Savoia e Margherita di Valois. Sebbene fosse di gracile costituzione, con le spalle leggermente arcuate, i lineamenti delicati e l’incarnato pallido, il padre, fin da bambino, lo abituò ad ogni sorta di esercizio fisico e di sport, rendendolo un abile cavaliere e un invincibile spadaccino. Nel 1580 successe al padre e subito si inserì nei contrasti tra Francia e Spagna per ampliare i suoi domini in Italia, ottenendo il marchesato di Saluzzo in cambio di alcuni domini transalpini. Si alleò poi con i francesi, ma alla morte di Enrico IV si trovò coinvolto con infelice esito nelle guerre del Monferrato. In politica interna seguì e sviluppò l’indirizzo paterno e governò con mitezza, favorendo gli studi, promuovendo lo sviluppo del commercio e dell’industria, rafforzando la milizia, trasformando in patriziato civile la nobiltà feudale.

[7] Gaspare Murtola (Mùrtola; Genova, 1570 ca – Corneto, 1624), dopo essersi brillantemente laureato in legge e aver intrapreso la carriera ecclesiastica, si dedicò intensamente alla scrittura, apparentemente con un certo successo. Fu latinista non disprezzabile, e in latino scrisse alcune fortunate Neniae ad imitazione di quelle del Pontano. Tra le sue opere più importanti si devono sicuramente ricordare il poema sacro Della creazione del mondo (1608), le  Canzonette (1609) e Le pescatorie (1618).

[8] Gregorio XV, al secolo Alessandro Ludovisi (Bologna, 1554 – Roma, 1623), nacque da Pompeo e Camilla Bianchini, ottavo figlio e terzo maschio della coppia. Suo fratello fu Orazio, militare e diplomatico, da lui creato I duca di Fiano. Studiò filosofia e teologia al Collegio dei Gesuiti di Roma e, successivamente, diritto al Collegio Germanico. Nel 1575 si addottorò in utroque iure all’università di Bologna e pochi giorni dopo era già a Roma: Dopo aver ricevuto gli ordini sacri, iniziò una rapida ascesa negli incarichi più delicati all’interno della Curia romana. nel 1597 fu nominato Arcivescovo vicegerente della diocesi di Roma; Nel 1612 divenne arcivescovo di Bologna e nel 1616 fu nominato nunzio straordinario in Savoia per dirimere la controversia sul Monferrato. Nel concistoro del 1616 papa Paolo V lo nominò cardinale e nel 1618 ricevette il titolo di Santa Maria in Traspontina. Alla morte di Paolo V, nel conclave del 1621, venne eletto papa dopo un solo giorno. Gregorio XV cercò di porre un argine alle ingerenze degli Stati cattolici nell’elezione pontificia e a tal fine 1621 emanò la costituzione apostolica Aeterni Patris Filius, subito seguita (1622) dalla bolla Decet Romanum Pontificem, mediante le quali veniva riaffermata la necessità della clausura per il Conclave, nonché l’obbligo dell’elezione mediante una maggioranza dei due terzi del collegio cardinalizio. Appoggiò la riforma cattolica di Ferdinando II e ottenne la presenza di una maggioranza cattolica nella dieta imperiale. Mecenate e patrono delle arti commissionò al Guercino la grande pala d’altare con la Sepoltura e gloria di santa Petronilla, collocata sull’altare dedicato alla stessa santa nella basilica di San Pietro in Vaticano.

[9] Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini (Firenze, 1568 – Roma, 1644), nacque da Antonio, un ricco mercante, e da Camilla Barbadori. All’età di tre anni perse il padre; si occupò pertanto della sua educazione lo zio Francesco Barberini, protonotario apostolico. Studiò a Firenze e a Roma, nel Collegio dei Gesuiti (Collegio Romano), dove si laureò in legge. Nel 1589 ottenne il dottorato in utroque iure all’Università di Pisa. Appena ventenne era entrato nell’Accademia Fiorentina e in seguito fece parte anche dell’Accademia degli Alterati di Firenze, di quella degli Insensati di Perugia, di quella degli Umoristi di Roma e di quella dei Gelati di Bologna. Ordinato diacono nel 1592, venne ordinato sacerdote nel 1604. Morto lo zio che, da giovane, lo aveva ospitato a Roma, ne ereditò il cospicuo patrimonio, con il quale acquistò un prestigioso palazzo, arredandolo in maniera estremamente sfarzosa, sullo stile rinascimentale, lussuoso a tal punto da diventare il personaggio più in vista e importante della città. Entrato nella carriera ecclesiastica, fu nominato referendario da Sisto V e governatore di Fano da Clemente VIII; protonotario apostolico, arcivescovo di Nazareth, nunzio a Parigi (1604), ed ebbe la porpora cardinalizia nel 1606. Divenne poi protettore della Scozia (1607), vescovo di Spoleto (1608), legato di Bologna (1611-14) e prefetto della Segnatura di giustizia. Nel conclave del 1623 venne eletto Papa. Informò la sua azione ai decreti tridentini; impose ai cardinali e ai vescovi l’obbligo della residenza; riformò il clero regolare e secolare e i seminari; stabilì le norme da seguire nei processi di beatificazione e di canonizzazione; promosse numerose beatificazioni; potenziò l’Inquisizione e condannò il giansenismo (1640, 1643). Grande nepotista, estese il dominio pontifico al ducato di Urbino e fu impegnato nella rovinosa guerra di Castro, dovuta ad interessi familiari. Mecenate e cultore della letteratura classica, fu anche autore di versi, sia in latino che in greco.

[10] Binni Walter, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in Opere Complete Di Walter Binni, Il Ponte Editore, 2017, pag. 277.

[11] Ibidem, pag. 279.

[12] Sapegno Natalino, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 287-288.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SEICENTO»

Lascia un commento. Se vuoi che appaia il tuo avatar, devi registrarti su Gravatar

Devi essere collegato per lasciare un commento.