Enrico Caterino Davila
Ultimogenito di Antonio e di Fiorenza Sinclitico, le cui famiglie appartenevano alla ricca ed influente nobiltà di Cipro, Enrico Caterino Davila nacque nel 1576 a Pieve di Sacco presso Padova, dove il padre si era precipitosamente rifugiato con tutta la famiglia in seguito all’occupazione turca di Cipro, avvenuta nel 1570. Privato in tal modo di una cospicua rendita e con il solo vanto del suo titolo di gran contestabile del regno di Cipro, concesso a suo nonno Pietro da Caterina Cornaro, Antonio si impegnò a reclamare aiuti e ad implorare di persona uffici per sé e sistemazioni per i figli. Nel 1571 fu a Madrid, nel 1572 a Parigi, nel 1573 a Roma, nel 1579 di nuovo a Parigi ove percepiva una pensione di 300 scudi.
Ancor fanciullo, Enrico Caterino venne affidato alla sorella Margherita (già dama d’onore di Caterina de’ Medici), ed accasatasi poi brillantemente con Jean Hémèry signore di Villars, presso la cui dimora egli venne adeguatamente istruito tanto da diventare paggio della regina, alla quale appena dodicenne indirizza un sonetto invocante vita novella per l’oppressa famiglia.
Appena adolescente, Enrico Caterino intraprese come il fratello Alvise la carriera militare al comando di Henri de Bourbon Vendóme duca di Montpensier[1] e a diciotto anni partecipò all’assedio d’Honfleur, sfiorando la morte; partecipò anche all’assedio di Laon e all’assedio d’Amiens. Tuttavia, in quegl’anni non vi fu solamente spazio per la guerra con i suoi pericoli reiterati ed improvvisi. Essendo spettatore di avvenimenti storici salienti, essendo a contatto con i maggiori protagonisti degli stessi ed avendo la possibilità di osservarne i comportamenti, egli ebbe la possibilità di memorizzare una grandissima quantità di dati che gli sarebbero ritornati utili nella sua futura opera di storico. Insomma, in Francia, egli visse un’eccezionale esperienza che segnò indelebilmente tutta la sua successiva esistenza.
Nonostante tutto, però, tra il 1598 e il 1599, Enrico Caterino scrisse l’opera Theatro del mondo, che è indubbiamente frutto del disagio che il giovane provava nell’essere scagliato in eventi tanto più grandi di lui e tanto sanguinosi, così irrimediabilmente atroci, che pareva necessario fuggire la storia ed elevarsi al di sopra delle disgrazie che essa produce, per poter conquistare alfine quella serenità d’animo che fin dalla nascita gli era mancata.
Con il cessare delle rabbiosa resistenze ispano-guisarde alla soluzione borbonica, anche la guerra cessò e la Francia riprese un percorso di riconsolidamento, grazie al recupero della capacità direttiva di Enrico IV[2]. A questo punto, dunque, non era più necessario mantenere gli esorbitanti esborsi militari sostenuti durante la guerra, per cui molti reduci dai campi di battaglia vennero licenziati. Tra questi anche Enrico Caterino, che 1599 lasciò la Francia e si trasferì in Italia con il fratello Luigi. Per la sua attività letteraria venne accolto nell’Accademia degli Innominati di Parma, da dove dovette fuggire in seguito ad un duello con il poeta Tommaso Stigliani. Trasferitosi a Venezia nel 1606 entrò al servizio della Repubblica, con lo stipendio annuo di 300 ducati e l’obbligo di presentare una compagnia di 300 fanti forestieri. Nel 1609 venne assegnato al governo di Tine, e qui, con tutta probabilità, si sposò con Orsola o Orsetta degli Ascuffi – appartenente ad una famiglia della nobiltà locale – che gli darà quattro maschi e cinque femmine. Nel 1615 il Senato lo destinò a Pieve di Cadore dove rimase sino all’aprile del 1618; dopo di che, sebbene ormai minato dalla malattia, divenne governatore di Cattaro, restandovi sino al 1621.
Si stabilì temporaneamente a Padova, dove poté divagarsi nei conversari con dotti ed autorevoli amici. Ma nel 1622 la Serenissima lo nominò governatore di Asola, poi, nel 1623, governatore di Zara. I malanni che affliggevano il suo corpo non solo gli resero più difficile adempiere ai propri compiti, ma ebbero riflessi anche sul suo animo, che finì con il deprimersi e il rattristarsi. Durante il soggiorno di Zara, comunque, si concentra la maggiore stesura della sua opera principale, l’Istoria delle guerre civili di Francia, che sarà praticamente ultimata verso la fine del 1627 e vedrà la luce a Venezia nel 1630.
Il Davila lasciò Zara nel 1628, poiché divenuto governatore di Brescia, e lì continuò ad affaticarsi e a logorarsi per adempiere ai propri compiti, in una città atterrita dall’epidemia della peste e dagli eventi della guerra di successione nel ducato di Mantova. Ammalatosi anch’egli, dopo una lunga convalescenza, nel 1631 si spostò a Padova con la famiglia, per dirigersi poi a Crema. Morì durante il viaggio a San Michele di Campagna, nel Veronese, dove venne assassinato da un postiglione, col quale era venuto a lite violenta per il mancato cambio dei cavalli.
Opere
L’Istoria delle guerre civili di Francia del Davila è particolarmente rappresentativa di quella storiografia del primo Seicento italiano non ancora condizionata dalla cultura controriformistica e che resta pienamente partecipe e tributaria della tradizione e dei modelli storiografici cinquecenteschi, secondo i quali l’uomo (e non ancora la provvidenza divina), con le sue passioni e i suoi interessi, rappresenta il principale fattore della storia e l’indagine storica è rivolta pragmaticamente ai fatti, alle azioni e alle loro cause, motivazioni, finalità. L’opera è articolata in quindici libri: si apre con uno stringatissimo excursus sulla più che millenaria vicenda che va dall’elezione di Faramondo alla morte di Enrico II di Valois, dopo di che inizia la narrazione vera e propria che dal 1560 si estende fino al 1598 che, con la pace tra Francia e Spagna, sancisce la fine delle guerre civili.
L’Istoria del Davila si iscrive nel quadro dell’orientamento ideologico e politico antiromano e antispagnolo della Repubblica di Venezia che, giudicando la moderna monarchia francese l’alleato più idoneo per contrastare il predominio della Spagna e di Roma, ne propone il modello politico in contrapposizione all’assolutismo spagnolo. Il nucleo della narrazione è costituito dalle sanguinose guerre fra ugonotti e cattolici di cui Davila non si cura di approfondire le motivazioni religiose preferendo, conformemente al metodo d’indagine assunto, ricercare le motivazioni politiche che stanno dietro alle ragioni religiose e che costituiscono la reale causa delle azioni e degli avvenimenti narrati. La religione è intesa piuttosto come strumento usato dalle parti contrapposte per realizzare le proprie finalità politiche. L’opera di Davila dimostra una sostanziale imparzialità nel narrare le vicende delle guerre civili di Francia e le sue pagine sono caratterizzate da una forma espressiva pienamente cinquecentesca sia nel linguaggio, sia nello stile, che si richiamano ai grandi modelli di Machiavelli e di Guicciardini.
«Sostenuta e calibrata la forma, controllato lo scandito fluire dell’esposizione, sempre chiara spesso solenne e talora aulicamente ridondante. Aliena da venetismi la lingua e, semmai, con accentuazioni toscaneggianti. Ricco e accurato il lessico e sovente – designando armi bianche e da fuoco e i colpi da loro inferti, armature e parti di queste, esplosivi, fortificazioni, composizione d’eserciti e loro gerarchie funzioni specialità e disposizioni – tecnico, specialistico ipercaratterizzante. Scontata la buona fede – si tratti di fanatismo cattolico o di pertinacia ereticale ugonotta – del grosso dei contendenti che restano ottuse comparse d’un dramma di cui ignorano la dinamica, massa di manovra inferocita d’una terribile lotta per il potere nella quale gli autentici protagonisti, i capi, gli “eminenti” usano la religione a mo’ di “velame” “pretesto” “colore” per “coprire interessi”, occultare ambizioni, giustificare “inimicizie”, mascherare disegni, nobilitare progetti. Sono guerre civili, non di religione. Teatro di menzogna e tradimento la politica, nella quale la brama d’affermazione si muove, come insegna Machiavelli, dapprima circospetta e volpinamente astuta per poi scatenarsi leoninamente aggressiva. Lealtà e fedeltà sono le virtù dei gregari, mentre la simulazione e la dissimulazione valgono “pei grandi”, sono loro indispensabili. Sono un’“arte” in cui, non a caso, primeggiano Caterina, suo figlio Enrico III, Enrico di Navarra. Ma al di là delle schermaglie menzognere a corte e del cozzo armato in campo aperto […], il leitmotiv della Storia è costituito dal contorto itinerario salvifico del degradato e vilipeso istituto monarchico. Questo, malgrado tutto, sbocca nella tenuta del regno già slabbrato sbrecciato calpestato, s’attesta nella riscattata pienezza del comando centrale. Un esito felice cui presiede la volontà celeste. L’“occulta forza del fato” si trasforma – favorendo Enrico di Borbone – in “provvidenza di Dio”. Eccezionali la sua abilità simulatoria, la sua perizia bellica, ma non bastevoli. Occorre la “grazia di Dio” che l’assiste perché la sua sorte s’identifica con la salvezza della monarchia, perché la sua vittoria significa redenzione per la Francia tutta»[3].
Totalmente diversa per carattere ed argomento è il giovanile Theatro del mondo, composto tra il 1598 ed il 1599, nel quale il Davila immagina che il fantasma di un amico defunto gli appaia durante il sonno per trasportarlo fino all’ottavo cielo, da dove egli può ammirare il movimento circolare dei cieli sottostanti, fino a scorgere il picciol punto della terra. Nel frattempo l’amico gli spiega che solo seguendo sistematicamente la via della rettitudine si potrà giungere al trionfo del paradiso. Quando il fantasma scompare Davila si sveglia e trascrive ciò che – grazie all’insegnamento dell’amico scomparso, ma anche in virtù dei propri propositi, maturati alla luce di ciò che ha veduto – da quella visione ha compreso: la cognizione dell’armonia del creato deve indirizzarci al zelante rispetto di quei comandamenti che stanno alla base della vita cristiana, poiché con una vita virtuosa ci si potrà salvare dagli orrori, dalle violenze, dalle sopraffazioni, dagli inganni, da quel terribile spettacolo, insomma, che il teatro del modo attraverso la guerra ci propina.
Tuttavia, per Quanto il Theatro del mondo, sia «frutto d’un disagio reale, di stanchezza e di disgusto, suona ammanierato e scolastico nel suo proporre valori eterni e certezze consolatorie quali sicuro viatico redentore. Né appare più convincente un sonetto nel quale si volge, non senza artificio, al “provvidente superno almo fattore”. Entrambi, lo scritto più complesso e i pochi versi, attestano volontà di scrittura. Ma sono come dei sondaggi condotti un po’ a freddo nel solco devoto, donde il Davila poi si ritrae perché, tutto sommato, poco portato a zeli ortodossi e. soprattutto, perché ben lungi dal tentare alcun effettivo ritiro dal mondo»[4].
Pietro Sforza Pallavicino
Nacque a Roma nel 1607 dal marchese Alessandro Pallavicino, figlio adottivo di Sforza Pallavicino, celebre generale della Repubblica di Venezia, e da Francesca Sforza dei duchi di Segni. Il nome Sforza che gli venne imposto è un omaggio al celebre nonno e non, come molti hanno creduto, un secondo cognome, mutuato da quello della madre. Dopo gli studi elementari in casa, come d’uso nelle famiglie nobili, entrò come esterno nel Collegio Romano, applicandosi soprattutto alla filosofia e alla giurisprudenza. Nel 1625 si addottorò in filosofia e in giurisprudenza e nel 1628 si laureò in teologia.
Nel 1631 Urbano VIII, al quale Pallavicino aveva accortamente dedicato la propria tesi, lo nominò referendarius utriusque signaturæ e membro delle congregazioni del Buon Governo e dell’Immunità ecclesiastica, assegnandogli una pensione di 250 scudi. Nel 1632 fu nominato Governatore di Jesi, Orvieto, e Camerino, incarico che mantenne per molto tempo. Nel 1637 entrò a far parte della Compagnia di Gesù e dopo un noviziato di soli sedici mesi (in luogo dei consueti due anni) ottenne la cattedra di filosofia al Collegio Romano. Contemporaneamente, affiancò all’attività ecclesiastica un’intensa attività di letterato e saggista dedicandosi alla poesia, alla trattatistica morale ed estetica, alla teologia e, infine, alla storiografia. Nel 1644 pubblicò il dialogo in quattro libri Del bene – in cui trattava fra l’altro il problema dei rapporti fra «verisimile» e «mirabile» in arte – e la tragedia Ermenegildo Martire; nel 1646 pubblicò le Considerazioni sopra l’arte dello stile e del dialogo; fra il 1656 e il 1657 venne pubblicata in due tomi l’Istoria del Concilio di Trento.
Nel 1659 attese ad una seconda edizione dell’Istoria, che vide la luce nel 1664; l’anno successivo diede alle stampe l’ultima delle sue opere: l’Arte della perfezione cristiana. Frattanto (1659) Papa Alessandro VII lo aveva creato cardinale ed il Pallavicino entrò così a fare parte del gruppo dei suoi intimi e consiglieri, tanto che ben presto egli divenne non solo uno degli ispiratori dei principali atti di governo del pontefice, ma anche il perno intellettuale del circolo chigiano, mentore e ispiratore della “Pleiade alessandrina” dei versificatori latini della corte pontificia.
Nonostante espletasse sempre i suoi diversi compiti con la massima coscienza, la sua salute si andava aggravando finché nell’aprile del 1667, a seguito di un ulteriore peggioramento, Pallavicino decise di lasciare il palazzo in cui viveva, in piazza Quattro Fontane, e di trasferirsi nel noviziato gesuitico di Sant’Andrea, ove morì il 5 di maggio, a causa di un’infezione intestinale.
L’Istoria del Concilio di Trento
La curia romana considerava da tempo il progetto di una grande opera storica sul Concilio di Trento da contrapporre, quale monumento storiografico della Chiesa romana, all’opera di Sarpi di cui doveva costituire la confutazione definitiva. L’impresa fu affidata a Terenzio Alciati che raccolse, prima della sua improvvisa scomparsa nel 1651, una mole ingente di materiale documentario attinto direttamente all’archivio del Concilio. Morto l’Alciati, l’incarico di proseguirne la ricerca e di completare l’opera venne affidato al Pallavicino, che in quattro anni riuscì a portare a termine la sua fatica.
L’Istoria del Concilio di Trento rappresenta, nel quadro della storiografia del Seicento, il risultato esemplare dell’orientamento storiografico proprio della cultura cattolica controriformistica (e in particolare di quella gesuitica), che configura l’opera storica sia come strumento apologetico di esaltazione della Chiesa postridentina e delle sue istituzioni, messo in opera con genuino impegno religioso e nel convincimento di militare dalla parte della verità; sia come strumento pedagogico di educazione intellettuale, morale e religiosa diretto a promuovere nelle coscienze il riconoscimento del primato di Roma e a suscitare il consenso per l’ordine da essa istituito. La storia religiosa, in latino e in volgare (che conosce nel Seicento una fioritura rigogliosa di opere sia in campo protestante, sia in campo cattolico, a testimonianza della temperie spirituale del secolo profondamente travagliato dal problema religioso e dal fervore con cui i due campi contendenti della cristianità elaborano, con passione partigiana, i rispettivi strumenti culturali), si pone, nella concezione della storiografia cattolica, per l’oggetto stesso della sua ricerca, su un piano di superiore dignità ed eccellenza, rispetto alle altre storie, in cui verità storica e verità religiosa pervengono a identificarsi. Pallavicino a questo proposito afferma con chiarezza: «quei racconti che hanno la religione per materia, sono tanto sopra gli altri nella materia, quanto il cielo è sopra la terra».
Pallavicino svolge la sua Istoria in funzione della polemica contro Sarpi di cui si applica puntigliosamente a confutare le affermazioni e a rilevare le inesattezze, forte della vastissima documentazione che gli consente una ricostruzione più ampia e precisa della vicenda conciliare. La motivazione più vera e profonda della sua opera, tuttavia, consiste nella difesa e nella celebrazione della Chiesa romana e della spiritualità, dell’ideologia, della cultura che essa rappresenta, nella convinzione sincera di operare al servizio della verità. Il confronto fra l’opera di Sarpi e quella di Pallavicino (e di altri storici della stessa tendenza) dimostra quale frattura profonda le separi sia sul piano del valore storiografico, sia su quello della battaglia culturale, politica e religiosa di cui entrambe sono strumenti. Ammiratore entusiasta negli anni giovanili del Marino e della novità delle sue forme espressive, Pallavicino si indirizza successivamente, come altri letterati del suo tempo in cui l’istanza moralistica si fa predominante, verso una soluzione più moderata del problema espressivo. La prosa dell’Istoria del Concilio di Trento, attentamente sorvegliata nel continuo sforzo di evitare compiacimenti stilistici e preziosismi formali sentiti come incongrui rispetto alla gravità della materia, corrisponde pienamente a quell’ideale di misura e di eleganza perseguito da Pallavicino anche nella vita.
Il carattere ideologico dell’opera ha a lungo pesato in modo negativo sul giudizio critico complessivo del Pallavicino. E per quanto, fin dai primi anni dell’Ottocento, si fosse cercato di far prevalere una netta distinzione tra il pensiero e lo stile, che veniva largamente apprezzato, se non addirittura ammirato, il De Sanctis, con uno dei suoi ineffabili giudizi tranchant («Pallavicino, voce leziosa e affettata di quei padri riformatori»[5]), riuscì ad oscurare a lungo la fortuna di questo autore. Si deve all’opera di Benedetto Croce non solo la riscoperta del pensiero estetico del Pallavicino, ma pure un più coerente riposizionamento critico nel panorama storico e letterario del Seicento italiano.
***NOTE AL TESTO***
[1] Henri de Bourbon Vendóme duca di Montpensier (Mézières-en-Brenne, 1573 – Parigi, 1608) era figlio di Francesco di Montpensier e Renée d’Angiò-Mezières. Combatté gli uomini della Lega cattolica e in particolare, a partire dal 1590, Filippo Emanuele di Lorena, duca di Mercœur, da cui fu sconfitto a Craon nel 1592. In seguito fu nominato governatore della Normandia e si occupò della riconquista della regione per ordine del re Enrico IV di Francia, suo lontano cugino. All’assedio di Dreux rimase ferito gravemente, ma si salvò. Nel 1596 combatté con Enrico IV gli spagnoli in Artois; nel 1600 partecipò alla campagna di Savoia.
[2] Enrico IV di Borbone (Pau, 13 dicembre 1553 – Parigi, 14 maggio 1610), detto Enrico il Grande, era figlio di Antonio di Borbone e della regina Giovanna III di Navarra, dalla quale, nel 1572, ereditò la corona di Navarra, divenendo Enrico III di Navarra. Nel 1589 succedettea Enrico III di Francia, essendo erede presuntivo per la morte del Duca d’Angiò, aprendosi la strada per Parigi solo nel 1594, dopo aver compiuto l’abiura della religione calvinista. Dichiarata ufficialmente guerra alla Spagna nel 1595, dopo un’importante iniziale vittoria Fontaine-Française e aver riconquistato Amiens (1597) occupata dagli spagnoli, si giunse nel 1598 alla pace di Vervins, che portò infine alla liberazione del territorio francese dalle truppe straniere. Sempre lo stesso anno emanò l’editto di Nantes che riconosceva libertà di coscienza e di culto ai protestanti. In politica economica, Enrico IV, coadiuvato dal suo Ministro delle finanze Massimiliano di Béthune, duca di Sully, riorganizzò l’apparato statale e l’amministrazione finanziaria di una Francia stremata da più di trent’anni di guerre civili. Morì assassinato da un fanatico cattolico di nome François Ravaillac, mentre si recava in carrozza all’arsenale della Bastiglia.
[3] Benzoni Gino, DAVILA, Enrico Caterino, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 33, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1987.
[4] Ibidem.
[5] De Sanctis Franceso, Storia della letteratura italiana, a cura di Maria Teresa Lanza, introduzione di Luigi Russo, Feltrinelli, Milano, 1970, pag. 649.
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SEICENTO»
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