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Marco M. G. Michelini | 27 Gennaio 2022

Esclusa ufficialmente dalle università, che soprattutto – dopo la condanna di Galilei – consolidarono il loro indirizzo scientifico tradizionale in stretta connessione con l’ideologia dominante della Controriforma, la nuova scienza galileiana si diffuse e operò quasi esclusivamente in ambito extrauniversitario, trovando nel mecenatismo di principi e di sovrani e nelle Accademie da essi patrocinate o fondate i punti di forza che ne promossero e ne garantirono lo sviluppo. Nelle Accademie, una delle più antiche e sperimentate istituzioni dell’organizzazione culturale italiana, che rivestì nel corso del XVII secolo una funzione fondamentale, soprattutto in campo scientifico, fu possibile realizzare, non senza aspri contrasti con gli ambienti conservatori e l’autorità ecclesiastica, quelle condizioni di relativa autonomia nei confronti dell’ufficialità controriformistica e del potere, che consentirono agli scienziati della “scuola” galileiana di svolgere la propria ricerca e di ampliare il campo d’applicazione del nuovo metodo scientifico. Accogliendo l’insegnamento di Galilei venne affermandosi una moderna concezione della scienza fondata sul metodo sperimentale e sull’interpretazione matematica dei fenomeni naturali, nella più ampia visione di un universo regolato dalla necessità delle leggi fisico‑matematiche, cui si accompagnarono il rifiuto di ogni pretesa di certezza metafisica della scienza, la consapevolezza dei limiti della conoscenza umana, la fiducia nel valore della scienza come strumento di libertà e di progresso intellettuale, l’impegno a elaborare un linguaggio scientifico autonomo, dotato di chiarezza e di semplicità espressiva.

La speculazione scientifica di Galilei, improntata a un profondo e vivo umanesimo, aveva comportato una nuova visione del mondo e dell’uomo, investendo l’intera cultura del suo tempo. Questo atteggiamento universalistico, che implica la globalità della conoscenza, si attenua o si mantiene su un piano puramente formale negli eredi di Galilei che, operando una decisiva frattura fra cultura umanistica e cultura scientifica, tendono invece, mutate le condizioni politiche e culturali, a restringere la loro ricerca in un ambito strettamente specialistico e di puro sperimentalismo (anche in corrispondenza all’indirizzo baconiano della ricerca scientifica europea) e a spostare il campo d’applicazione del metodo galileiano dalle scienze fisico‑matematiche alle scienze biologiche e fisiologiche. Nel corso del secolo XVII la scienza andrà assumendo quelle connotazioni di estrema specializzazione e di tecnicismo che, accentuandosi progressivamente, la caratterizzeranno fino ai nostri giorni; e se nelle Accademie l’orizzonte conoscitivo della ricerca scientifica si riduce e s’impoverisce, subendo in molti casi un processo di provincializzazione, in esse tuttavia saranno realizzati decisivi progressi in vari campi della scienza, come nella biologia, nella medicina, nell’anatomia, nella botanica, nella mineralogia, ecc. Al telescopio di Galilei puntato a esplorare il cielo subentra il microscopio dei suoi eredi diretto a penetrare le strutture del microcosmo al quale viene a estendersi la rivoluzione scientifica galileiana. Il volgare magistralmente elaborato da Galilei, nelle sue opere di divulgazione e di polemica, come perfetto strumento di comunicazione universale, nel Seicento lascia il campo al latino, rinnovato anch’esso secondo il modello galileiano del Sidereus nuncius rispetto alla tradizione classica e umanistica, assunto come lingua internazionale della scienza, che consente di superare gli angusti confini regionali e di collocarsi nel vivo del dibattito scientifico europeo.

L’adozione del volgare da parte degli scienziati del Seicento avviene in molti casi per lo più in funzione di un discorso scientifico non specialistico, in cui la componente letteraria e stilistica assume particolare rilievo in relazione alla destinazione «mondana» del discorso stesso; si tratta soprattutto di lettere, discorsi, lezioni, composti per essere letti nei circoli letterari e accademici, nei quali i temi scientifici sono proposti in chiave di descrizione “meravigliosa” di fenomeni naturali e di esperienze, secondo moduli stilistici ornati e preziosi, che esprimono un interesse letterario e linguistico altrettanto vivo e operante che quello scientifico. Dallo stesso interesse letterario traggono origine le opere di quegli autori che, animati da curiosità scientifica, si applicano alla scienza con spirito edonistico o dilettantesco, che si traduce essenzialmente in belle pagine di prosa seicentesca nelle quali sono facilmente individuabili i temi e la cifra stilistica dell’esperienza letteraria barocca. La prosa scientifica del Seicento è stata spesso identificata con questo genere di letteratura di argomento scientifico, i suoi esempi autentici saranno invece da ricercare in quelle opere strettamente e rigorosamente scientifiche in latino e in volgare, che, per loro stessa natura, si pongono al di fuori dell’ambito letterario sottraendosi al giudizio della storiografia e della critica letteraria per rientrare piuttosto nel quadro più generale della storia della cultura.

All’insegnamento di Galilei si ricollegano sia quegli scienziati, colleghi o discepoli, che furono direttamente in contatto col maestro, sia quelli che si riconobbero idealmente come suoi scolari accogliendone la lezione e difendendone strenuamente la memoria. Fra essi merita di essere ricordato «Benedetto Castelli (Brescia 1578-1643) che, professore a Pisa e a Roma e fondatore dell’idraulica (ma studioso anche di ottica e di termologia), raggiunse nella prosa dei suoi numerosi scritti scientifici una esemplare chiarezza, limpida e cordiale, una capacità di descrizioni e analisi minute e ariose dei fenomeni indagati e insieme una forza di ragionamento che lega le descrizioni e le riconduce alle loro leggi e alla loro utilizzabilità umana.

Così come diretto scolaro galileiano fu Evangelista Torricelli (1608-1647) che, portando importanti contributi alla matematica, alla fisica, all’ottica e alle loro applicazioni tecniche (come il barometro e le opere ingegneresche ed idrauliche per la bonifica della Val di Chiana), si serve nei suoi numerosi scritti di una prosa didascalica, variamente atteggiata ora in forme più eleganti ora in forme più polemiche, ma sempre contraddistinta da una singolare lucidità razionale, da una concretezza e da una aderenza alle cose trattate che intimamente corrispondono ad uno spirito sperimentale mai appagato da affermazioni che non trovino riscontro effettivo nella realtà naturale. Sicché egli potrà serenamente sostenere che il vero scienziato deve avere il coraggio di mutare anche l’opinione più meditata, quando essa venga smentita dalla prova concreta della sua irrealizzabilità»[1].

Fra le accademie scientifiche nelle quali la ricerca si volse decisamente in direzione antiaristotelica in adesione all’insegnamento galileiano occupa una posizione preminente l’Accademia dei Lincei fondata nel 1603 a Roma dal principe Federico Cesi insieme ad un gruppo di giovani studiosi, con lo scopo di studiare la natura e le scienze matematiche (ma un posto di rilievo vi occupò anche la poesia). Scioltasi dopo poco tempo per opposizione dei familiari del Cesi, venne ricostituita nel 1610. In essa operarono numerosi studiosi e lo stesso Galilei vi fu accolto nel 1611: a cura dell’Accademia furono pubblicati l’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari nel 1613 e il Saggiatore nel 1623. Con la morte del Cesi nel 1630 l’Accademia cessò l’attività.

Analogo indirizzo scientifico (con un programma di lavoro in comune e di intensa ricerca sperimentale) ebbe l’Accademia del Cimento costituitasi a Firenze nel 1657, sotto gli auspici di Leopoldo de’ Medici[2]. L’Accademia, che nell’insegna portava il motto «provando e riprovando» (derivato da un verso di Dante, Paradiso III 3), svolse un’attività decennale dedicata a studi e a esperienze sul calore, sulla propagazione del suono e della luce, sulla pressione dell’aria, sul magnetismo, sui fenomeni elettrici, ecc. Di tale programma scientifico fu data ampia relazione nei Saggi di naturali esperienze fatte nell’Accademia del Cimento, redatti dal Magalotti e pubblicati a Firenze nel 1667. In questo stesso anno l’Accademia fu sciolta sia per contrasti interni sia per la nomina a cardinale di Leopoldo de’ Medici, che ne era stato il patrocinatore.

Grande importanza assunse nell’Italia meridionale l’Accademia degli Investiganti fondata a Napoli nel 1663 dal medico, filosofo e matematico Tommaso Cornelio[3]. L’attività dell’Accademia, spesso osteggiata e repressa, durò circa nove anni seguendo un indirizzo filosofico e scientifico antiaristotelico (e antimarinistico in poesia) che seppe accogliere la lezione galileiana aprendosi all’influenza dell’Accademia del Cimento. Da questo ambiente trasse origine quel filone della cultura napoletana nel quale si formò la grande personalità di Giovan Battista Vico.

 

Francesco Redi

 

Francesco Redi nacque ad Arezzo nel 1626 da Gregorio, archiatra granducale, e da Cecilia de Ghinci. Dopo essersi laureato in medicina e in filosofia all’Università di Pisa nel 1647, frequentò per tutto il 1648 la scuola di disegno di Remigio Cantagallina[4]. Successivamente trascorse alcuni anni in viaggi di studio che lo condussero, fra il 1650 e il 1654, a Roma, Napoli, Bologna, Padova e infine un’altra volta a Roma, dove secondo alcuni pare insegnasse retorica presso la famiglia dei principi Colonna. Tornato a Firenze venne designato dal granduca Ferdinando II[5] a succedere al padre nella carica di primo medico di corte e tale ufficio, confermatogli anche da Cosimo III[6], egli lo mantenne per tutta la vita. Rivestì inoltre la funzione di sovrintendente della fonderia e della spezieria granducale. Accolto nel 1655 fra i membri dell’Accademia della Crusca, di cui più tardi divenne arciconsolo, partecipando attivamente alla redazione della terza edizione del Vocabolario, fu nominato nel 1663 (o 1666) lettore pubblico di lingua toscana nello studio di Firenze. Sotto la protezione dei granduchi e in armonia con la loro politica culturale, ebbe modo di svolgere un’intensa attività scientifica; nel 1664 pubblicò le Osservazioni intorno alle vipere, cui fecero seguito nel 1668 Le esperienze intorno alla generazione degli insetti e più tardi nel 1684 le Osservazioni intorno agli animali viventi, che si trovano negli animali viventi, che costituiscono le sue opere scientifiche più importanti; nel 1685 pubblicò il ditirambo polimetro Bacco in Toscana, cui per lungo tempo è stata legata la sua fortuna letteraria. Sul finire del secolo sarà accolto insieme con Lorenzo Magalotti nell’Arcadia.

Morì a Pisa il 1° marzo 1697, mentre era al seguito della corte, e fu sepolto, dopo onoranze solenni, nella chiesa di S. Francesco ad Arezzo.

Figura eminente della società intellettuale e cortigiana della Toscana della seconda metà del Seicento, personalità eclettica, rivolta a molteplici interessi, che esprime compiutamente l’adesione puramente formale della cultura del secondo Seicento all’ideale umanistico della globalità del sapere e della totalità della conoscenza, Redi fu insieme – senza contraddizioni e conflitti – scienziato e poeta, medico ed erudito, filologo, lessicografo, poliglotta, animatore dell’Accademia del Cimento come dell’Accademia della Crusca. Discepolo ideale di Galilei, di cui seppe applicare con rigore e convinzione il metodo sperimentale nel campo biologico, Redi è considerato il fondatore della biologia moderna per le sue ricerche sulla generazione e sul parassitismo. Nella pratica della medicina si attenne invece a una metodologia più cauta e tradizionale, che non compromise tuttavia una sicura e larga competenza testimoniata nei numerosi Consulti medici, che, insieme con le Lettere familiari, costituiscono un prezioso contributo per penetrare e precisare la sua personalità e le sue qualità umane.

La ricerca scientifica di Redi è dominata da uno sperimentalismo talvolta eccessivo e casuale, che esprime tuttavia la sua autentica passione di scienziato e il fervore instancabile con cui indaga e descrive, in un succedersi metodico di osservazioni e di esperienze, il microcosmo delle larve e degli insetti. L’esigenza metodologica di rigore, ordine, misura e chiarezza si traduce sul piano espressivo in una prosa limpida ed efficace, di struttura discorsiva, resa vivace e colorita dall’arguzia e dall’ironia che animano e sostanziano l’argomentazione scientifica. La misura e la compostezza di questa prosa, fedele alla tradizione toscana e agli ideali puristici della Crusca, s’incrinano tuttavia nel compiaciuto descrittivismo naturalistico che denuncia le suggestioni del modello barocco di Daniello Bartoli, cui spesso Redi rivolge il suo giudizio ammirato.

Come s’è già avuto modo di accennare, il Redi divenne famoso come letterato grazie al suo poemetto Bacco in Toscana, che il 12 settembre 1666 nacque del tutto occasionalmente , come elogio dei vini toscani, durante un brindisi nell’Accademia della Crusca. Con il volgere degli anni, questo “scherzo anacreontico”[7] venne più volte rielaborato e si andò accrescendo (da 44 versi iniziali ai 980 della stesura finale), passando per sei forme principali e successive, cambiando titolo più volte e girando manoscritto. Finalmente vide la luce, nel 1685, quando era ormai divenuto un lunghissimo polimetro.

L’autore immagina che Bacco, il dio del vino, e la sua sposa Arianna, tornando dall’«indico Oriente» si fermino col proprio seguito nella villa medicea di Poggio Imperiale. Così il “Bacco in Toscana” mostra uno spaccato della società seicentesca e della vita di corte, coi suoi giochi, i suoi balli, i suoi rituali: Bacco simboleggia il Granduca, mentre la corte è rappresentata da satiri e ninfe. Sul prato del parco Bacco passa in rassegna i vini toscani insieme ad altri vini italiani rinomati: una lista di 57 vini in totale, che termina col migliore di tutti, quello di Montepulciano che, «per altissimo decreto», viene proclamato «d’ogni vino il re». Parallelamente coglie anche l’occasione di condannare, insieme all’acqua, le bevande da poco introdotte in Europa che stanno diventando di moda, come il cioccolato, il caffè e il tè; ed una stessa identica condanna è decretata pure contro le «barbare» bevande del Nord Europa, quali  la birra o il sidro.

Nella parte finale dell’opera Bacco in Toscana, l’alternarsi dei versi e dei giochi di assonanze e di rime riflette bene l’ebbrezza di Bacco che, ondeggiando, crede di essere su una nave in viaggio verso Brindisi, in un riuscito calembour tra Brindisi città e brindisi di vino.

La scena conclusiva rappresenta una tempesta marina, metafora della tempesta di ubriachezza di Bacco, per cui è necessario buttare a mare i barili di vino e vomitare fuori dal corpo quello ingurgitato. Ma lo scampato pericolo non può che essere festeggiato con un’altra abbondante bevuta: mentre Bacco va ancora in estasi, le Baccanti alternano ebbri canti e i satiri si sdraiano per terra, «cotti come monne», ossia ubriachi come scimmie.

Il ditirambo – dove compare sulla sfondo anche l’ambiente pisano e fiorentino, con i personaggi cari al poeta – si muove su una straordinaria molteplicità di metri, di forme, di rime, di parole preziose e bizzarre, di giochi fonici ed onomatopeici, fruiti con rara abilità per riprodurre quel biascicare tipico dell’uomo colto dall’ebbrezza del vino. Questa operazione tecnico‑stilistica, mentre concede alle forme del componimento una assoluta libertà espressiva – che si realizza in un fantastico ed immaginoso andamento – denuncia tuttavia un’attenzione particolarissima del Redi al linguaggio, ai suoni, alle parole, frutto di una precisa e profonda consapevolezza artistica. La futilità del tema e la leggerezza del componimento, condotto con una tecnica raffinatissima ed una attenzione formale assoluta, si affrancano in tal modo mediante il gioco elegante dell’invenzione, il movimento descrittivo e l’accuratezza preziosa del lessico, entro il limite di un decoro sorvegliato ma tutt’altro che imposto.

 

Lorenzo Magalotti

 

Lorenzo Magalotti nacque a Roma nel 1637 da Orazio, appartenente ad una famiglia dell’aristocrazia fiorentina e prefetto dei corrieri di Urbano VIII, e da Francesca Venturi. Dall’età di tredici anni fu convittore nel Seminario romano, dove compì i primi studi, rimanendovi per cinque anni. Successivamente, nel 1656, si iscrisse alla facoltà giuridica dello Studio di Pisa e risiedette presso lo zio paterno Filippo, da diversi anni provveditore dell’Università. Fu proprio lo zio a favorire il suo ingresso nell’Accademia della Crusca (1656), nella quale dall’estate 1658 il Magalotti fu provveditore allo “stravizzo” e nel corso del cinquantennio seguente tre volte consigliere e altrettante censore.

Negli ultimi mesi del 1659 entrò al servizio del cardinale Leopoldo de’ Medici, e si trasferì pertanto a Firenze, entrando a far parte dell’Accademia del Cimento, della quale divenne segretario nel maggio 1660, ricevendo l’incarico di redigere le relazioni delle esperienze svolte nell’Accademia. Si dedicò pertanto alla loro stesura, particolarmente lunga e laboriosa, che venne pubblicata con il titolo di Saggi di naturali esperienze nel 1667 (l’anno stesso dello scioglimento dell’Accademia). I Saggi costituiranno un vero e proprio manifesto dell’orientamento scientifico del gruppo di scienziati del Cimento, caratterizzato da una posizione moderata e prudente, che se da un lato accoglie senza riserve l’insegnamento galileiano nella riaffermazione decisa e convinta del valore conoscitivo del metodo sperimentale, dall’altro respinge ogni tentazione sistematica e teoretica, che comporti la formulazione di nuove leggi e la messa in discussione troppo violenta delle verità ufficiali.

Dal 1667 passò al servizio di Cosimo III de’ Medici, granduca di Toscana, iniziando così un’attività diplomatica che gli consentì di aprirsi alle esperienze culturali europee e di rompere l’isolamento provinciale toscano, appagando la sua naturale irrequietudine e curiosità. Fra il 1667 e il 1678 svolge numerose missioni diplomatiche in Austria, Germania, Olanda, Belgio, Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo, Danimarca, Svezia. Nel 1675 ottenne il titolo di conte e la nomina ad ambasciatore residente a Vienna, sede dalla quale venne improvvisamente rimosso nel 1678 per ragioni rimaste ignote e legate verosimilmente a dissensi di natura politica col granduca. Ritiratosi nei suoi possedimenti trascorrerà un decennio di ripiegamento su se stesso e di profonda crisi spirituale, che, per nulla mitigata dalla riconciliazione col granduca e dalla nomina a Terzo Consigliere di Stato nel 1689, lo induce nel 1691 a rivestire l’abito dei frati filippini di Roma, tuttavia subito abbandonato dopo pochi mesi per fare ritorno a Firenze e all’attività letteraria, che diventa in quest’ultimo periodo della sua vita particolarmente intensa. Mori a Firenze nel 1712.

L’interesse e l’impegno scientifico giovanile di Magalotti si stemperano progressivamente, con l’aprirsi all’esperienza europea dei viaggi e con il lungo periodo di ritiro solitario, in un atteggiamento distaccato e disimpegnato di «scienziato morbido», piacevolmente divulgativo e salottiero, che si traduce in un’attività di scrittore interprete raffinato e sensibilissimo delle inquietudini e delle contraddizioni proprie della élite culturale di cui fa parte. L’interesse letterario si fa dunque prevalente in Magalotti, che sin dagli anni precedenti alla tormentata stesura dei Saggi di naturali esperienze si era cimentato col problema linguistico e stilistico componendo alcune delle Lettere erudite e scientifiche, una Lezione per l’Accademia della Crusca, un Comento sui primi cinque canti dell’Inferno e la Relazione della China. Nel genere delle “lettere” tuttavia Magalotti trova la struttura letterario a lui più congeniale: ad essa affida le sue opere più importanti, la cui stesura elabora per lo più lentamente, lasciandole e riprendendole più volte a distanza di tempo, pubblicate quasi tutte anonime o postume (Lettere familiari contro l’ateismo, composte fra il 1678 e il 1688; Lettere sopra le terre odorose d’Europa e d’America dette volgarmente buccheri del 1695; Lettere scientifiche ed erudite, composte in tempi diversi). Nel 1684 scrive le 15 canzoni che compongono il canzoniere La donna immaginaria. Numerose ed interessanti sono le relazioni diplomatiche e di viaggio in cui Magalotti rivela particolari doti d’intelligente e aperto osservatore.

Magalotti si dedicò anche all’attività letteraria; ma la sua produzione poetica petrarcheggiante non è ritenuta all’altezza delle sue relazioni scientifiche, tranne forse per le canzonette anacreontiche derivanti da traduzioni dalla lingua greca di testi dello stesso Anacreonte. Fu molto attivo anche come traduttore, e pure in questo campo la sua curiosità lo portò a interessarsi di ambiti assai diversi tra loro, e a intraprendere più progetti di quanti non potesse condurre in porto. Dal francese tradusse due testi non propriamente letterari: Il mendicare abolito nella città di Montalbano da un pubblico ufizio di carità e un Breve ragguaglio delle costituzioni delle badie della Trappa di Buonsollazzo e di Casamari. Dall’inglese tradusse alcune opere poetiche: Il sidro, Lo scellino lampante, l’Ode a Enrico St. John, e parte del canto I del Paradiso perduto di Milton [8].

 

Marcello Malpighi

 

II medico e biologo Marcello Malpighi (Crevalcore, Bologna 1628 – Roma 1694), figura eminente della scienza europea del Seicento, appartiene al novero degli scienziati eredi di Galilei che si collocano nell’ambito della pura scienza e in esso concentrano il loro impegno culturale, estranei a interessi e a esperienze letterarie e linguistiche che non siano intimamente connesse con il problema della ricerca di un linguaggio scientifico (in latino e in volgare) finalmente affrancato dalla letteratura. Laureatosi in medicina e in filosofia all’Università di Bologna, Malpighi passò a Pisa nel 1656, dove insegnò per un triennio medicina teorica e dove frequentò Giovanni Alfonso Borelli[9] collaborando alle sue ricerche. Nel 1659 torna a Bologna dove continua l’insegnamento di medicina teorica fino al 1662, anno in cui viene chiamato all’Università di Messina quale titolare della prima cattedra di medicina. Torna a Bologna nel 1666 per assumere la lettura di medicina pratica, che manterrà fino al 1691, quando si trasferisce a Roma in qualità di archiatro del papa Innocenzo XII[10]. Nel 1667 era diventato corrispondente della Royal Society di Londra, che sarà dal 1699 l’editrice delle sue opere. Fra le opere più importanti di Malpighi, tutte scritte in latino, si possono ricordare le dissertazioni De pulmonibus (1661), De bombyce (1669), l’Anatomes plantarum (1675-1679), gli opuscoli De lingua, De cerebro, De externo tactus organo (1695), De viscerum structura (1666), De formatione pulli in ovo (1673).

Fondatore dell’anatomia microscopica egli indaga, applicando il metodo analogico‑comparativo, la struttura alveolare dei polmoni; la circolazione del sangue nei capillari, stabilendo il nesso ancora mancante fra condotti venosi e condotti arteriosi, che veniva a risolvere il problema della circolazione sanguigna; la struttura della lingua e della cute, scoprendo le papille; ed estende le sue ricerche al meccanismo della secrezione, all’ematologia, all’embriologia, al mondo vegetale. L’opera scientifica di Malpighi testimonia un coerente e deciso impegno nel tener fede all’insegnamento galileiano, che si traduce non solo nell’applicazione di una metodologia rinnovatrice, ma anche nell’indefessa opera di contestazione nei confronti degli ambienti universitari conservatori ancora dominati da galenisti e da aristotelici. L’adozione del volgare da parte di Malpighi avviene in occasione di una polemica contro un sostenitore della medicina empirica, che in quel periodo si andava riaffermando sotto la spinta dell’empirismo di John Locke[11]. Tale scelta è operata nella consapevolezza di dover disporre in questo caso di uno strumento che assicuri la più ampia comunicazione possibile alle sue idee: nel 1689 stende una Risposta alla lettera intitolata «De recentiorum medicorum studio» (conosciuta anche come Risposta apologetica), in cui controbatte punto per punto le tesi empiristiche del medico Giovanni Girolamo Sbaraglia[12], fortemente polemiche nei confronti della sua opera biologica e della medicina razionale. La Risposta costituisce il testamento scientifico di Malpighi ed è un vero e proprio discorso del metodo che mostra l’essenzialità e la pacatezza della dissertazione di Malpighi, così come la semplicità, la concretezza e la chiarezza della sua prosa scientifica, ma che conferma anche con quanta vitalità operasse ancora nella seconda metà del Seicento la lezione galileiana.

*** NOTE AL TESTO***

[1] Walter Binni, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in OPERE COMPLETE DI WALTER BINNI, Il Ponte Editore, 2017, pag.269.

[2] Leopoldo de’ Medici (Firenze, 1617 – Firenze, 1675) era il figlio più giovane del granduca Cosimo II e quindi fratello del granduca Ferdinando II. A soli 3 anni perse il padre e con i suoi fratelli rimase sotto la protezione delle granduchesse reggenti, Maria Maddalena d’Austria, sua madre, e la nonna Cristina di Lorena. Quando suo fratello maggiore ebbe compiuto l’età per essere nominato granduca, Leopoldo lo poté affiancare nella direzione politica dello stato; in particolare fu un acceso promotore delle manifatture, dell’agricoltura e del commercio. Fu un grande appassionato di discipline scientifiche, un po’ come tutto il ramo granducale dei Medici. Ricostituì nel 1638 l’antica Accademia Platonica e nel 1657 fondò, assieme al fratello Ferdinando, l’Accademia del Cimento, secondo una sua precisa idea di ricerca scientifica basata sull’osservazione diretta dei fatti, in applicazione del metodo scientifico galileiano. Nel 1641 inoltre era stato eletto membro dell’Accademia della Crusca, dove svolse l’importante ruolo di reggente delle adunanze generali del 1650 e del 1663; inoltre si occupò scrupolosamente della preparazione delle voci riguardanti le arti per la III edizione del Vocabolario della Crusca (1691). Fu anche un grande collezionista di libri rari (il suo bibliotecario fu Antonio Magliabechi), di dipinti, di disegni, miniature, statue, monete e autoritratti. Dei fitti rapporti che seppe intrattenere con artisti, agenti d’arte e altri collezionisti, ci resta un vasto carteggio che ci dà un vivido ritratto della sua personalità sempre alla ricerca della conoscenza.

[3] Tommaso Cornelio (Rovito, 1614 – Napoli, 1684) nacque in Calabria, dove poté formarsi alla scuola cosentina sulle teorie anti-aristoteliche di Bernardino Telesio. Studiò medicina a Roma, dove entrò a contatto con la cultura scientifica dell’Italia rinascimentale, approfondendo e facendo proprie molte tesi galileiane, conobbe il naturalismo telesiano e campanelliano, di cui fu erede il suo maestro Marco Aurelio Severino. Appena rientrò a Napoli divenne professore di matematica e medicina teoretica: nella capitale del sud portò la filosofia di Cartesio e di Gassendi. Al 1663 risale la sua opera principale, i Progymnasmata physica, in cui sono esposte le sue teorie matematiche e filosofiche. L’Accademia degli Investiganti, da lui fondata, sotto la protezione del marchese Andrea Conclubet, annoverò fra i suoi soci più importanti il medico e naturalista Leonardo di Capua (1617-1695), il medico Luca Antonio Porzio (1634-1723), il giurista e filosofo Francesco D’Andrea (1625-1698), i letterati Carlo Buragna (1634-1679) e Niccolò Amenta (1659-1719), il vescovo Giovanni Caramuel (1606-1682).

[4] Remigio Cantagallina (Sansepolcro, 1582/1583 – Firenze, 1656) fu allievo di Giulio Parigi e si dedicò inizialmente alla pittura, realizzando nel 1604 uno dei suoi quadri più famosi, L’ultima cena, conservata nel civico museo pinacoteca di Sansepolcro. In seguito divenne incisore e dal 1612 al 1613 si recò nei Paesi Bassi dove realizzò più di cento incisioni di vedute e città, ispirandosi all’opera di Paul Brill.

[5] Ferdinando II de’ Medici (Firenze, 1610 – Firenze, 1670), figlio di Cosimo II e di Maria Maddalena d’Asburgo, perse il padre quando aveva solamente 11 anni, per cui, fino al raggiungimento della maggiore età, la Toscana fu affidata alla reggenza della madre e della nonna paterna. Il governo delle due reggenti fu pessimo: furono effettuate enormi spese per la mania di lusso delle due donne, si aprirono le porte del governo e della corte ad un gran numero di ecclesiastici incapaci, mentre l’aumento di tasse e balzelli segnò l’inizio della decadenza economica Toscana. Divenuto granduca a tutti gli effetti, Ferdinando cercò, con l’aiuto dei fratelli Giovan Carlo, Mattias e Leopoldo, cercò di rimettere in sesto le finanze dello stato, riducendo notevolmente le spese di corte; ma nonostante i suoi sforzi, non poté impedire i primi sintomi di decadenza dell’economia toscana, dovuti principalmente ai danni della peste del 1630 e alla disastrosa congiuntura economico e politica internazionale, culminata con l’oneroso intervento toscano del 1643 nella seconda guerra di Castro, per impedire un rafforzamento dello Stato Pontificio ai confini meridionali del Granducato.

[6] Cosimo III de’ Medici (Firenze, 1642 – Firenze, 1723), figlio del granduca Ferdinando II e di Vittoria Della Rovere, fu il penultimo granduca di Toscana appartenente alla dinastia dei Medici. Il suo regno, il più lungo nella storia della Toscana, fu caratterizzato da un forte declino politico ed economico, punteggiato dalle campagne persecutorie nei confronti degli ebrei e verso chiunque non si conformasse alla rigida morale cattolica. Sposò per procura (1661) Margherita Luisa d’Orléans, cugina di Luigi XIV, dalla quale – nonostante i continui dissapori – ebbe tre figli: Ferdinando (1663), Anna Maria Luisa (1667) e Gian Gastone (1671). Nei suoi ultimi anni Cosimo III, di fronte al rischio concreto di estinzione della propria casata, cercò di far nominare sua figlia Anna Maria Luisa come sua erede universale, ma l’imperatore Carlo VI d’Asburgo non lo permise. Alla sua morte gli succedette il figlio Gian Gastone.

[7] Poesia burlesca conforme allo stile del poeta greco Anacreonte (Teo, ca. 570 a.C. – Atene, 485 a.C.), autore, oltreché di giambi vigorosi e crudi nell’invettiva, di liriche ed elegie che cantano, con una grazia delicata e triste, soprattutto il vino e l’amore.

[8] John Milton (Londra 1608 – Londra 1674) fu educato in un ambiente puritano, e dopo aver conseguito la laurea al Christ’s College dell’Università di Cambridge, avvertì insoddisfazione verso il clero anglicano; contemporaneamente, il crescente interesse per la poesia lo indusse a rinunciare a prendere gli ordini sacri. Vivendo con il padre, dal 1632 al 1638 nel Buckinghamshire, poté studiare, libero da ogni preoccupazione, i classici e la storia ecclesiastica e politica, specialmente su testi di Bembo, Dante, Petrarca e Tasso. Tra il 1638 e il 1639 viaggiò in Italia, Francia e Svizzera. Tornato in patria allo scoppio della guerra civile fu partigiano di Cromwell ricoprendo incarichi nel governo repubblicano, finché, con la restaurazione (1660), si ritirò a vita privata. Massimo esponente dell’umanesimo britannico, fu il poeta del contrasto tra sensualità e purezza, erudizione libresca ed intenso sentire. Nella sua opera più importante, il poema Paradiso perduto (1667), trovò espressione la religiosità dell’epoca, attraverso lo stile musicalissimo del blank verse. Tra le altre sue opere vanno ricordati i poemetti L’allegro e Il penseroso (1645), l’idillio pastorale Comus (1637), l’elegia Lycidas (1638), il poema Paradiso riconquistato (1671) e la tragedia I nemici di Sansone (1671).

[9] Giovanni Alfonso Borelli (Napoli, 1608 – Roma, 1679) fu studioso poliedrico, promulgatore delle dottrine galileiane ed ebbe il merito di applicare il metodo matematico ai problemi di carattere biologico. Fu socio dell’Accademia del cimento e maestro di Marcello Malpighi e di Lorenzo Bellini.

[10] Innocenzo XII, al secolo Antonio Pignatelli di Spinazzola (Spinazzola, 1615 – Roma, 1700), membro di un nobile casato napoletano, nacque da Francesco, marchese di Cerchiara e di Spinazzola, e da Porzia Carafa, figlia del duca d’Andria Fabrizio Carafa. trascorse tutto il periodo di formazione a Roma nel Collegio dei Gesuiti, dove prese gli ordini sacri (probabilmente nel 1643) e si laureò in utroque iure. Successivamente papa Urbano VIII lo chiamò nella Curia romana. Fu ordinato vescovo il 27 ottobre 1652[2]. Svolse la carriera diplomatica come nunzio apostolico. Per undici anni (1660 – marzo 1671) risiedette all’estero, tra Confederazione polacco-lituana e Impero austriaco. Fu creato cardinale nel 1681 da Innocenzo XI. Eletto Papa nel conclave del 1691 riprese le direttive di Innocenzo XI contro il nepotismo e condannò giansenismo e quietismo.

[11] John Locke (Wrington, 1632 – High Laver, 1704) era di famiglia puritana e il padre, procuratore e ufficiale giudiziario, combatté durante la prima rivoluzione inglese con l’esercito del Parlamento contro il re Carlo I, che sarà decapitato nel 1649. Nel 1652 entrò al Christ Church di Oxford, dove, conseguiti i gradi di baccelliere e maestro di arti, continuò a soggiornare pur avendo rinunciato alla carriera ecclesiastica per darsi agli studi di medicina. Ma non conseguì regolarmente il titolo dottorale, impegnandosi con ardore anche in studi di fisica e di fisiologia. Nel suo Saggio sull’intelletto umano (1690), criticando l’innatismo, ripose l’origine delle idee nell’esperienza (senso esterno o sensazione, senso interno o riflessione). Considerò oggettive le qualità primarie dei corpi (solidità, estensione, movimento ecc.) e soggettive le qualità secondarie (colore, odore, sapore ecc.). Negò la conoscibilità della sostanza, ma non la sua esistenza, né quella di Dio. Nella dottrina politica fu il teorico del liberalismo, mentre in pedagogia fondò l’educazione sul rispetto della dignità dell’uomo come essere ragionevole e sul processo di autoformazione attraverso l’esperienza.

[12] Giovanni Girolamo Sbaraglia (Bologna, 1641 – Bologna, 1710) nacque da Girolamo, appartenente a un’antica famiglia bolognese, e da Bartolomea Giuliani. Dopo aver ricevuto la prima educazione presso l’oratorio dei Filippini, fu instradato, al pari del fratello maggiore Tommaso, verso gli studi universitari. Nel 1663 conseguì la laurea in filosofia e medicina all’Università di Bologna, a cui seguì nello stesso anno l’aggregazione ai rispettivi collegi professionali. Sostenitore della tradizione medica galenica, che in quegli anni si contrapponeva sempre più apertamente al fronte dei sostenitori delle scoperte anatomiche recenti, nel 1668 fu anche ascritto tra gli anatomici dell’università, che costituivano un gruppo di élite all’interno del corpo accademico e che a turno assumevano l’incarico della serie annuale delle lezioni pubbliche di anatomia. Nel 1670 passò alla cattedra di medicina teorica che tenne per i successivi quarant’anni. Rimasto celibe e senza figli, lasciò una cospicua eredità, costituita anche da una ricca biblioteca, alla sorella Eufrosina, che in sua memoria fece erigere un monumento progettato dal famoso artista Donato Creti. Il monumento, tuttora conservato, si trova all’interno del palazzo dell’Archiginnasio, accanto a quello del suo avversario Malpighi.


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