Linea Biografica
Figlio di Geronimo – un povero ciabattino analfabeta – e Catarinella Martello, Tommaso Campanella (al secolo Giovan Domenico Campanella) nacque nel 1568 a Stilo, piccolo borgo della Calabria Ulteriore, montagnosa e depressa, afflitta da un’antica condizione di miseria e di sfruttamento, e resa ancora più desolata dall’oppressivo malgoverno spagnolo.
Dopo avere iniziato lo studio della grammatica e del catechismo nel paese natale, Campanella si trasferì con la famiglia nella vicina Stignano. Nella primavera del 1582 il padre pensò di mandare il figlio presso un fratello, a Napoli, perché vi studiasse diritto, ma il giovane, per il desiderio di seguire corsi regolari di studi e abbandonare un destino di miseria, più che per una reale vocazione religiosa, decise di entrare, appena tredicenne, nell’ordine dei Domenicani cogliendo in tal modo l’opportunità di proseguire gli studi, per i quali aveva dimostrato fin dall’infanzia una vocazione prepotente accompagnata da non comuni doti d’ingegno. Novizio nel convento della vicina Placanica, vi fece i primi studi e pronunciò i voti a quindici anni nel convento di San Giorgio Morgeto, assumendo il nome di Tommaso. Fra il 1583 e il 1587 completò gli studi filosofici maturando una progressiva insoddisfazione per l’aristotelismo e la scolastica ufficiale, sentiti come troppo astratti e limitati, insufficienti a colmare la sua ansia di verità, di pervenire a un progetto di rinnovamento totale dell’uomo e del mondo, all’instaurazione del regno di Dio in terra. Si dedicò in questi anni con fervore inesauribile a esplorare le più diverse esperienze culturali antiche e moderne, accumulando una sapienza filosofica eccezionale oltre a una profonda conoscenza delle scienze naturali, della medicina, dell’alchimia, dell’astrologia e della magia, che gli valse la fama di mago con cui entrò nella tradizione popolare calabrese.
Passato nel 1588 a Cosenza per seguire il corso quadriennale di teologia, ebbe occasione di leggere il De rerum natura del filosofo cosentino Bernardino Telesio[1]; l’opera, studiata con passione ed entusiasmo, radicalmente antiaristotelica e informata a un rigoroso sensismo e materialismo, costituirà una delle fonti d’ispirazione fondamentali del pensiero di Campanella e in particolare della sua fisica e cosmogonia. Sempre insofferente della disciplina dell’Ordine, così come del suo conformismo culturale e dell’isolamento provinciale entro cui si sentiva costretto in Calabria, abbandonò Cosenza e si recò a Napoli, dove frequentò il circolo di Giambattista Della Porta (1535-1615), autore di numerose opere di scienze naturali e di magia, e dove pubblicò nel 1591 la sua prima opera, la Philosophia sensibus demonstrata, ispirata alle teorie di Telesio. L’opera, in netto contrasto con la dottrina ufficiale della Chiesa, suscitò l’immediata reazione del suo Ordine che, approfittando di una denuncia in cui si accusava Campanella di possedere un demone familiare, lo sottopose a processo condannandolo all’abiura e al ritorno in Calabria.
Ribellatosi alla condanna Campanella iniziò un lungo peregrinare per l’Italia alla ricerca di una sistemazione sicura; fu a Roma, a Firenze, a Bologna, a Padova dove frequentò Galileo e assistette alle lezioni dell’Università sotto falso nome, sempre perseguitato dai rigori dal Sant’Uffizio che gli sequestrò i manoscritti e ne censurò le opinioni. A Padova nel 1593 subì un processo accusato di sodomia, da cui però uscì discolpato; nel 1594, sempre a Padova, fu imprigionato e torturato sotto l’accusa di aver disputato de fide con un giudaizzante. Il processo venne avocato dal Sant’Uffizio a Roma e Campanella vi fu trasferito e rinchiuso nelle carceri che già ospitavano Giordano Bruno (nel sonetto Al carcere ricorderà con sgomento la «rocca sacra a tirannia segreta»). Condannato all’abiura e confinato nel convento di Santa Sabina fu liberato nel 1596, anno in cui scrisse l’edizione italiana della Poetica. La libertà tuttavia fu di breve durata; nel 1597, infatti un delinquente comune per salvare la propria vita lo accusò di eresia e Campanella venne nuovamente incarcerato e processato. Questa volta fu condannato a fare ritorno in Calabria e molte sue opere vennero proibite.
Nel 1598 Campanella fece ritorno dopo dieci anni di assenza alla natia Calabria sconvolta da aspre lotte di fazioni, da contese giurisdizionali e dal banditismo, sempre più impoverita e desolata, ma percorsa anche da fermenti di ribellione contro il governo spagnolo e l’autorità ecclesiastica. Ritiratosi a Stilo nel convento di Santa Maria di Gesù partecipò a una vasta congiura che si andava tessendo, in un’atmorfera di esaltata aspettazione di una palingenesi cosmica, profetizzata da Campanella nelle sue prediche, per instaurare un nuovo ordine comunistico e teocratico (l’utopia della Città del Sole), che sarebbe dovuto sorgere dall’abbattimento del potere spagnolo e della Chiesa. Campanella avrebbe assunto la direzione del nuovo Stato e ne sarebbe diventato anche il legislatore. La congiura, in seguito ad alcune delazioni, venne scoperta e Campanella insieme con altri fu arrestato e tradotto a Napoli negli ultimi mesi del 1599 per essere imprigionato in Castel Nuovo. Sottoposto a tortura ammise di aver voluto instaurare una nuova repubblica, forse dando inizio con questa confessione alla lunga e tenace simulazione della pazzia che gli consentì alla fine del lungo processo, e dopo aver superato nuovi e terribili supplizi, di avere salva la vita. Restò in carcere nei diversi Castelli napoletani per ventisette anni, dal 1599 al 1626, resistendo alle dure condizioni della prigionia, che soprattutto nei primi anni erano veramente spaventose.
Durante questo periodo di prigionia, nonostante la mancanza di libri, la continua sorveglianza e i sequestri di manoscritti, vennero composte o delineate le sue opere maggiori: le Poesie, la Monarchici di Spagna (1600), la Città del Sole (1602), Del senso delle cose e della magia (1604), l’Atbeismus triumphatus e la Monarchia del Messia (1605), gli Antiveneti (1606), nei quali polemizza contro Venezia e si offrendosi come difensore delle ragioni del papato nella controversia dell’interdetto, la Theologia (1613-1624), la Poetica nella edizione latina (1613), la Metaphysica di cui scriverà ben cinque stesure fra il 1602 e il 1635. Nel contempo, mitigata un poco la durezza del carcere, mantenne i contatti con l’esterno inviando lettere e messaggi con cui partecipava al dibattito culturale europeo, ricevendo visitatori, difendendo le proprie idee, progettando riforme, adoperandosi per ottenere la libertà. Durante la carcerazione in castel Sant’Elmo (1604-1608), rinchiuso in una «fossa» sotterranea senza luce per quattro anni, Campanella maturò un profondo ripensamento che lo condusse ad accettare se stesso come parte della Chiesa Cattolica in cui si dispose a rientrare, senza venir meno, tuttavia, alle proprie idealità di un suo profondo rinnovamento.
Nel maggio del 1626 ottenne finalmente la libertà dalle autorità spagnole, ma venne fatto subito arrestare dal Sant’Uffizio, che lo trattenne ancora prigioniero a Roma per altri due anni.
Guadagnatosi i favori e la simpatia di papa Urbano VIII[2], Campanella venne liberato nel 1629 e poté riprendere la sua infaticabile attività, le sue polemiche, i suoi progetti: si offrì come difensore di Galileo, confutò atei ed eretici, parteggiò per la Francia (in opposizione alla Spagna) nella quale vedeva la potenza capace di realizzare i suoi ideali politici e religiosi. Minacciato di estradizione nel regno di Napoli, nel 1634 si rifugiò, con l’aiuto dello stesso papa Urbano VIII, in Francia, dove verso la fine dell’anno si stabilì a Parigi, benevolmente ricevuto alla corte di Luigi XIII[3]. Trascorse in questa città, nel convento domenicano di rue Saint-Honoré, gli ultimi anni della sua vita, impegnato e attivo come sempre nel difendersi dai nemici e nel propugnare le proprie idee. Morì nel 1639 mentre stava curando la pubblicazione di tutte le sue opere.
La Scelta d’alcune poesie filosofiche
Le poesie di Campanella furono pubblicate per la prima volta nel 1622, probabilmente in Germania, ad opera di un suo discepolo, Tobia Adami[4], cui Campanella affidò dal carcere la scelta di 89 componimenti, corredati da un’annotazione espositiva, che apparve col titolo appunto di Scelta d’alcune poesie filosofiche. La Scelta rappresenta il mezzo con cui Campanella rompe il cupo isolamento del carcere per far conoscere all’esterno il proprio pensiero e diffondere il proprio messaggio; in essa, infatti sono contenuti i motivi fondamentali della sua riflessione e definite le ragioni della sua vicenda umana.
Sino dalle prime esperienze poetiche Campanella si rivolge alla poesia filosofica d’ispirazione lucreziana operando una scelta rivelatrice della sua idea di poesia e della funzione conoscitiva e profetica che ad essa attribuisce. Nella poesia egli riconosce lo strumento più efficace per comunicare le proprie verità di profeta del rinnovamento del mondo e di filosofo che, attraverso il linguaggio poetico, si divinizza e perviene a conoscere e ad esprimere la totalità del reale. La poesia assume dunque per Campanella un potere magico di conoscenza capace di suscitare nell’uomo la consapevolezza della realtà e di indurlo alla sua trasformazione. La poesia di Campanella per la sua originalità e per la sua autonomia è parsa assumere, nell’ambito dell’esperienza poetica contemporanea, una posizione del tutto periferica ed isolata che la escludeva o la poneva ai margini del fenomeno barocco; essa invece vi appartiene pienamente sia sul piano formale e metrico sia sul piano della poetica, che segna un decisivo superamento così della tradizione classica e umanistica come dell’esperienza cinquecentesca del manierismo.
In polemica con gli ideali estetici dell’edonismo rinascimentale e con la poesia di Tasso, Campanella ricerca i suoi modelli soprattutto nel Dante della Commedia, nella Bibbia, in Petrarca, in Lucrezio, accogliendo anche nella propria strumentazione poetica molti elementi della cultura e del linguaggio popolare e della tradizione ermetica ed alchimistica, in una costante tensione di adeguamento della forma espressiva al pensiero e in un impegno rigoroso nel realizzare la massima concentrazione dell’espressione e nel dare concretezza realistica alle immagini e ai concetti astratti, che caratterizza in senso prosastico e di apparente rozzezza formale la sua poesia, spesso per questo giudicata come lontana dalla lirica barocca elegante e preziosa. L’ampia sperimentazione di forme metriche, dal sirventese alla canzone articolata in madrigali, al sonetto, alla metrica barbara, e di forme lessicali rileva in quale stretto rapporto si trovi Campanella con le analoghe sperimentazioni riscontrabili nel corso dell’esperienza letteraria barocca e offre la misura, nello stesso tempo, dell’assoluta originalità con la quale egli ha saputo rielaborarle finalizzandole alle proprie formulazioni estetiche. Nello stesso modo l’uso di strumenti retorici quali la metafora, l’enumerazione, la contrapposizione concettosa o, su di un altro piano, la visione del mondo come teatro, della vita come «commedia universale» dimostrano la partecipazione di Campanella alla vicenda barocca e la sua consapevole appropriazione degli strumenti e delle tecniche del linguaggio poetico contemporaneo per trasformarli e mutarne talvolta radicalmente il significato.
«Come scrittore, il Campanella, ancorché ruvido e grezzo, è per altro più sobrio, meno enfatico e più ordinato a paragone del Bruno: l’immagine tende più in lui a condensarsi e organizzarsi, acquistando quella semplicità e chiarezza e leggerezza, per cui si fa strumento di poesia. E poeta vero è il Campanella, oltre che in qualche pagina del Senso delle cose, soprattutto nelle Poesie […]. Senza dubbio anche nelle rime, l’impeto profetico e polemico soverchia non di rado la serena contemplazione della fantasia, e spesso anche l’istintiva disposizione dialettica deprime e inaridisce la lirica; ma è presente poi quasi ovunque una volontà di canto, un diffuso afflato poetico, che da solo basta a dimostrare la genesi genuina di questi poemi filosofici. Vi si avverte un difetto di rielaborazione letteraria, di rifinitura, di lima: che non vuol dire già ignoranza della tradizione poetica precedente […], sì piuttosto accettazione frettolosa degli schemi tradizionali e di un linguaggio ormai sbiadito e in contrasto con la novità dell’ispirazione. Un tentativo più profondo di accordare all’altezza della materia la scelta della forma è nelle tre elegie “fatte con misura latina”, composte cioè in distici che si propongono di riprodurre il metro del distico classico: qui veramente il Campanella cerca di dare “al novo secol lingua nova”; qui, soprattutto nel fervido inno al sole, l’ampia misura del verso, la collocazione nuova e intensa, latineggiante, dei vocaboli; la densità e concisione del linguaggio fantastico rispondono alla vastità e alla profondità, nonché all’eloquenza, dell’impeto lirico. Altrove l’ispirazione poetica si risolve in frammenti, sia che il Campanella, nello sforzo di dare concretezza ai suoi ragionamenti filosofici, li traduca in vigorose immagini o li condensi in robuste sentenze, o sia che canti (come nella “salmodia meafisicale” in tre canzoni, scritta in carcere) il proprio atroce tormento di profeta perseguitato e di apostolo incompreso, e insieme il suo orgoglio di esser nel vero e nel giusto e la profonda convinzione della bontà e giustizia insita nell’ordine provvidenziale delle cose»[5].
Particolarmente significativa è la rielaborazione operata da Campanella dell’immagine della vita come «universale commedia» che rappresenta emblematicamente nella cultura manieristico-barocca la coscienza di una profonda crisi di valori, la visione dell’incertezza, dell’illusorietà e della disgregazione del mondo, dello stravolgimento e dell’alienazione delle coscienze e dei rapporti umani. Campanella rielabora invece questo stesso tema e questa stessa immagine in funzione sia del riconoscimento della certezza del reale e della sua organica unità, sia di critica alla società contemporanea che costringe l’uomo a rivestire la maschera per svolgere il proprio ruolo politico e sociale. Animata da un autobiografismo in cui la vicenda personale sa elevarsi sempre a valore di esperienza universale, e da una tensione intellettuale che non viene mai meno, la poesia di Campanella attraverso una critica spietata dei mali e dei vizi del suo tempo esprime il profetico sogno di una palingenesi cosmica, di un rinnovamento totale che realizzi in una monarchia universale il regno di Dio in terra e restituisca all’uomo la dignità perduta e l’autenticità del suo rapporto con la natura.
La Città del Sole
Composto nel 1602 in lingua italiana (una edizione latina fu pubblicata nel 1623 a Francoforte) durante la prigionia in Castel Nuovo a Napoli, il dialogo della Città del Sole appartiene al novero di quella letteratura dell’utopia che, sul modello della Repubblica di Platone, era venuta costituendo nel corso del Cinquecento e del Seicento, a partire dall’Utopia di Tommaso Moro (1516), in un fitto apparire di opere, un autentico genere letterario, con proprie e ben codificate convenzioni, nell’ambito del quale si svolge molta della riflessione politica, morale e sociale del tempo. La Città del Sole ripropone, nella struttura dialogica e nella finzione del viaggio che conduce alla scoperta di una città ideale, di una società perfetta, gli schemi consueti di un genere già ampiamente collaudato, che consente all’autore di denunciare indirettamente i mali della società contemporanea e di esporre il proprio progetto di rinnovamento politico e sociale. Si tratta, infatti, del dialogo fra un «Ospitalario», cioè un cavaliere dell’ordine degli Ospitalieri di San Giovanni in Gerusalemme, e un «Genovese», nocchiero di Colombo, che racconta di essere sbarcato nell’isola di Taprobana dove, cercando scampo verso l’interno da un attacco degli abitanti costieri, incontra «un gran squadrone d’uomini e donne armate» che lo conducono alla Città del Sole. Essa è retta secondo un regime teocratico, comunistico egualitario, ed ha come supremo reggitore un «Principe Sacerdote» o «Metafisico», chiamato Sole, simboleggiante l’Essere, che detiene sia il potere temporale sia il potere spirituale. Al governo collaborano tre principi, Pon, Sin e Mor (rispettivamente, Potestà, Sapienza e Amore), che simboleggiano le tre «primalità» metafisiche, cui sono rigidamente subordinati vari ufficiali sacerdoti che sovrintendono alle diverse funzioni sociali svolte dai cittadini a seconda delle inclinazioni naturali da essi dimostrate fin dai primi anni e opportunamente sviluppate.
La legge naturale, che secondo Campanella è la legge della ragione, regola l’organizzazione della società dei «solari» nella quale si realizza un’ordinata, pacifica e operosa convivenza, aliena da egoismi e virtuosa. La soppressione della famiglia, l’abolizione dell’uso della moneta e della proprietà privata, l’educazione assidua dei cittadini, la pari dignità sociale di ogni mestiere e professione, il controllo delle nascite, la vita sana e sportiva, sono i cardini di questa società perfetta, in cui risorge il sogno della mitica età dell’oro. La religione professata dai «solari» è una religione pienamente naturale e razionale che venera in Dio, simboleggiato dal Sole, l’ordinatore supremo che si rivela nella natura. La religione naturale dei «solari», afferma Campanella per bocca dell’«Ospitalario», è vicina al cristianesimo (se si escludono i sacramenti) il cui rinnovamento, operato eliminandone gli «abusi», condurrà la «legge cristiana» ad essere «signora del mondo». L’utopia campanelliana, pur contenendo il riflesso della tragica situazione politico-sociale della Calabria che aveva condotto alla congiura contro il potere ecclesiastico e spagnolo, esprime la profonda aspirazione a una rigenerazione religiosa e politica del mondo in corrispondenza con un totale rinnovamento del cristianesimo in senso naturalistico e razionale.
In una prospettiva millenaristica il cristianesimo è chiamato a svolgere una missione di riforma e di unificazione politico-religiosa del mondo che sul piano della storia può trovare la possibilità di realizzarsi soltanto, secondo Campanella, affidandone realisticamente l’attuazione alle due potenze più forti, più organizzate e impegnate con tutte le loro energie nell’affermazione e nella diffusione degli ideali religiosi e politici della Controriforma e nella lotta contro l’eresia: la Chiesa cattolica, massima potenza ideologica e culturale del tempo, all’interno della quale è necessario operare per un radicale rinnovamento secondo il modello delineato nella Città del Sole, e la monarchia spagnola che ne costituisce, con il proprio potere politico e militare, il braccio armato.
***NOTE AL TESTO***
[1] Bernardino Telesio (Cosenza, 1509 – Cosenza, 1588), filosofo e naturalista italiano, iniziatore della nuova filosofia della natura rinascimentale, iniziò i suoi studi nella città natale di Cosenza con lo zio Antonio, dotto umanista, che lo portò a Milano nel 1518, e poi a Roma nel 1521, dove soggiornarono fino al 1527. Imprigionato dai lanzechinecchi di Carlo V, fu poi liberato grazie a Bernardino Martirano, amico del capo dei lanzichenecchi. Telesio si recò allora a Venezia e successivamente a Padova nella cui università studiò filosofia con Geronimo Amaltea e approfondì gli studi in matematica, astronomia e filosofia morale con Federico Delfino fino al 1535 anno in cui conseguì il dottorato. Compì numerosi viaggi a Roma, a Napoli, a Bologna, godendo del favore di alcuni papi da Clemente VII a Gregorio XIII, ma soprattutto della protezione della famiglia napoletana del Duca di Nocera, Alfonso Carafa che, ospitandolo per lunghi periodi dal 1544 al 1550 e vi stette ancora dal 1565, gli permise di trovare il raccoglimento necessario per scrivere la sua opera maggiore: il De rerum natura iuxta propria principia. Telesio trascorse gli ultimi anni della sua vita a Cosenza, dove si era dedicato allo sviluppo degli studi filosofici-scientifici della locale accademia, che da lui prenderà il nome di Accademia “telesiana”. Figura di rilievo nel quadro del pensiero filosofico del suo tempo, Telesio elaborò un naturalismo ilozoistico (cioè una concezione della natura come un tutto animato) che respingeva l’apriorismo metafisico dell’aristotelismo e faceva della sensibilità lo strumento privilegiato della conoscenza. Sulla base di tali assunti sviluppò un’etica edonistica.
[2] Urbano VIII, al secolo Maffeo Vincenzo Barberini (Firenze, 1568 – Roma, 1644), nacque a Barberino Val d’Elsa da Antonio, un ricco mercante, e da Camilla Barbadori. All’età di tre anni perse il padre; si occupò pertanto della sua educazione lo zio Francesco Barberini, protonotario apostolico. Studiò a Firenze e a Roma, nel Collegio dei Gesuiti (Collegio Romano), dove si laureò in legge. Nel 1589 ottenne il dottorato in utroque iure all’Università di Pisa. Fu ordinato sacerdote nel 1604. Alla morte dello zio ne ereditò il patrimonio ed acquistòacquistò un prestigioso palazzo, arredandolo in maniera estremamente sfarzosa, sullo stile rinascimentale, lussuoso a tal punto da diventare il personaggio più in vista e importante della città. Nel 1606 ottenne la porpora cardinalizia e gli vennero affidati prestigiosi incarichi: protettore della Scozia (1607), prefetto del tribunale della Segnatura apostolica (1610), cardinale legato di Bologna (dal 1611 al 1614). Nel 1623 venne eletto papa e nel 1624, con la bolla Omnes Gentes plaudite manibus, indisse il XIII Giubileo. Nepotista e mecenate avversò il giansenismo e con la bolla In eminenti (1642) lo dichiarava dottrina contraria alla religione cristiana. Intervenne nella Guerra dei Trent’anni, per riportare la pace tra i regnanti europei. La sua politica estera fu orientata a sostenere la Francia al fine di evitare che la rivale Austria diventasse troppo potente. Il pontefice riuscì anche a tenere fuori dal conflitto i territori italiani. Dichiarò guerra (guerra di Castro) ad Odoardo I Farnese, duca di Castro, per riportare il ducato nei territori dello Stato Pontificio. La guerra, disastrosa dal punto di vista finanziario, si concluse nel 1644 con un trattato che lasciava ai Farnese il ducato.
[3] Luigi XIII di Borbone, detto il Giusto (Fontainebleau, 1601 – Saint-Germain-en-Laye, 1643) era il primo figlio di Enrico IV e di Maria de’ Medici. Ascese al trono di Francia a soli otto anni e mezzo a seguito del tragico assassinio del padre nel 1610 e dato che era ancora minorenne la madre assunse la reggenza. La politica di Maria de’ Medici, ispirata da Concino Concini e dalla moglie di lui Leonora Dori Galigai, fu fieramente avversata dalla nobiltà, specialmente dai Condé, che si sollevarono in armi fra il 1614 e il 1616. Contro la volontà di Enrico IV, che aveva predisposto per Luigi un matrimonio con la principessa Nicoletta di Lorena, figlia del duca Enrico II ed erede appunto dei ducati di Lorena e Bar, Maria de’ Medici costrinse il figlio a sposare la giovane Anna d’Austria, infanta di Spagna. Nel 1617 venne assassinato il Concini, e ciò diede l’occasione a Luigi – che forse aveva ordinato il delitto – di prendere in mano la situazione e di togliere finalmente alla Regina Madre la sua posizione di potere. Da allora, per circa quattro anni, il governo fu nelle mani del favorito del nuovo re, Carlo, duca di Luynes. Per due volte Maria de’ Medici armerà un esercito contro il figlio, ma verrà sconfitta definitivamente nella battaglia di Ponts-de-Cé (1620). Caduto in disgrazia il duca di Luynes (morto poi di scarlattina), nel 1624 Maria de Medici, riconciliatasi ormai con il figlio, riuscì a far ammettere al Consiglio del re il cardinale Richelieu. Tra i due nacque subito un’intesa perfetta tanto che Luigi, pur pretendendo che ogni decisione fosse sottoposta alla sua approvazione, lasciò di fatto il governo al brillante ed energico cardinale, che giocò un ruolo prevalente nell’amministrazione del suo regno e cambiò decisamente il destino della Francia per i successivi diciotto anni. La politica di Richelieu ebbe due scopi preminenti: in politica interna, ridurre l’influenza ugonotta sulla monarchia e ridimensionare fortemente l’arroganza della nobiltà francese, sottomettendola al potere regale; in politica estera, lottare contro l’impero degli Asburgo. Per azzerare la potenza degli Ugonotti, mise sotto assedio La Rochelle (primo porto francese sull’Atlantico e che, per la sua posizione, consentiva ai protestanti di ricevere armi e viveri dalla flotta inglese): dopo 14 mesi di combattimento, spesso curato personalmente dal cardinale, La Rochelle cadde (1628), segnandone il declino commerciale, e la Pace di Alais (1629), pur confermando agli ugonotti la libertà di culto, tolse loro il sostegno militare delle piazzeforti. Nel 1635 Luigi XIII dichiarò guerra alla Spagna (riprendendo di fatto la Guerra dei Trent’anni) e quei combattimenti consentirono alla corona francese di incorporare nel regno l’Artois e il Rossiglione.
[4] Tobias Emmanuel Adami (Werda, 1581 – Weimar, 1643) figlio del funzionario prussiano Matthäus e di Eva Walter, completò gli studi scolastici a Werda e Zwickau. All’età di 16 anni si iscrisse presso l’Università di Lipsia, dove tra l’altro seguì i corsi di filosofia del professor H. Pursius. Iniziò anche a studiare medicina con il professor Balthasar Giller, ma si trasferì presto a Tubinga per studiare legge. Nell’inverno tra il 1599 e il 1600 Adami terminò gli studi e fece ritorno a casa. Nel 1611, accompagnato da Rudolf von Bünau, Adami viaggiò in Italia, Grecia, Cipro, Siria, Palestina, rientrando attraverso Malta di nuovo in Italia. A Napoli, dove rimase per circa un anno, riuscì a mettersi in contatto epistolare con Tommaso Campanella, allora incarcerato nel Castel dell’Ovo. Von Bünau e Adami lasciarono Napoli portando con loro numerose opere di Campanella che Adami pubblicherà in Germania: il De sensu rerum, la Philosophia epilogistica, la Medicina, la Metaphysica, il De gentilismo non retinendo, l’Apologia pro Galileo e la Scelta di poesie filosofiche. Nel 1613 incontrò a Roma Federico Cesi e a Firenze Galileo Galilei. Nello stesso anno Adami si iscrisse anche all’Università di Siena e, un anno dopo, i due compagni partirono per la Spagna, rimanendo nove mesi a Madrid. Da lì raggiunsero Londra passando da Parigi e Amsterdam. Di ritorno in Germania, nel 1616 Adami ebbe un posto di storia e retorica all’Università di Wittenberg. Nel 1617 entrò nell’amministrazione di Sassonia-Weimar, dove fu promosso consigliere nel 1626. Tra il 1619 e il 1621 partì con Hans Bernd von Botzheim, con il duca Albrecht von Sachsen-Eisenach e Johann Friedrich von Sachsen-Weimar, per un lungo viaggio attraverso la Svizzera e la Francia.
[5] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 223.
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SEICENTO»
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