Linea Biografica
Galileo nacque il 15 febbraio 1564 a Pisa, primogenito dei sette figli di Vincenzo Galilei – celebre musicologo e compositore, membro della Camerata Fiorentina, appartenente ad antica famiglia mercantile ora in condizioni di modesta fortuna – e di Giulia Ammannati, la cui famiglia, originaria del territorio di Pistoia e di Pescia, vantava importanti origini.
Fin dalla prima giovinezza ricevette una seria istruzione artistica e letteraria, che lo educò all’esercizio del disegno, della musica e della letteratura nella quale s’impegnerà particolarmente, nell’ambito dell’esperienza classicista toscana, scrivendo le Considerazioni sul Tasso (databili fra il 1589 e il 1600) e le Postille all’Ariosto: al Tasso rimprovera «la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell’immagine e del verso, ciò che ama nell’Ariosto non è solo lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l’equilibrio armonico di questo, la coerenza dell’immagine l’unità organica – pur nella varietà – del fantasma poetico»[1]. Tenne anche nel 1588 all’Accademia fiorentina due Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante.
Avviato nel 1581 agli studi di medicina presso l’università di Pisa, Galileo non porterà a termine gli studi intrapresi, attratto da altri interessi culturali e probabilmente insoddisfatto dell’insegnamento universitario pisano improntato all’aristotelismo ufficiale e a un rigido e bigotto tradizionalismo. I suoi interessi dominanti e il suo orientamento metodologico si precisarono già nel 1583, quando formulò le leggi dell’isocronismo del moto del pendolo deducendole dall’osservazione di una lampada oscillante nel duomo di Pisa; in questo stesso anno seguì a Firenze le lezioni del matematico Ostilio Ricci, il cui insegnamento era rivolto soprattutto alle applicazioni pratiche della matematica.
Abbandonata l’università nel 1585 si dedicò allo studio della matematica e della fisica, in particolare di Euclide e di Archimede, il cui metodo sperimentale costituirà uno dei principali punti di riferimento della sua ricerca. I frutti di questo intenso periodo di studio furono colti nel 1586 con l’invenzione della bilancetta idrostatica per misurare il peso specifico degli elementi (e si intitola appunto La bilancetta un breve scritto, di evidente ispirazione archimedea, in cui descrive il funzionamento della sua invenzione), e nel 1587 con la formulazione di alcuni teoremi sul baricentro dei solidi, pubblicati soltanto nel 1638.
In questi anni intrecciò proficue relazioni con i maggiori matematici del tempo, con il gesuita tedesco Cristoforo Clavio (Cristoph Klau o Schüssel)[2] docente al Collegio Romano e con l’insigne astronomo marchigiano Guidobaldo Del Monte[3], nella speranza che queste relazioni gli permettessero di raggiungere una regolare sistemazione economica. Oltre a impartire lezioni private di matematica a Firenze e a Siena, nel 1587 andò a Roma dal Clavio a richiedere una raccomandazione per entrare nello Studio di Bologna, ma tutto questo fu inutile, poiché a Bologna gli preferirono alla cattedra di matematica il padovano Giovanni Antonio Magini. Nel 1589, grazie ai buoni uffici del Del Monte (il quale lo raccomandò a suo fratello, il cardinale Francesco Maria[4]), Galilei ottenne l’assegnazione della cattedra di matematica all’università di Pisa, dove espose chiaramente il suo programma pedagogico, procurandosi subito una certa ostilità nell’ambiente accademico di formazione aristotelica. L’insofferenza, insomma, che aveva segnato il suo soggiorno da studente all’università, si rinnovò rapidamente: il gruppo accademico e scientifico tradizionalista, vincolato a un vuoto e pomposo formalismo, guardava con sospetto ed incomprensione, se non addirittura con decisa avversione, all’anticonformismo del giovane docente, impegnato negli studi e negli esperimenti, anche pubblici, sul moto dei gravi con risultati originali, in netto contrasto con la meccanica aristotelica.
Nell’estate del 1591 il padre Vincenzo morì, lasciando a Galileo l’onere di mantenere tutta la famiglia: per il matrimonio della sorella Virginia, sposatasi quello stesso anno, Galileo dovette provvedere alla dote, contraendo dei debiti, così come avrebbe poi dovuto fare per le nozze della sorella Livia nel 1601, e altri denari avrebbe dovuto spendere per soccorrere le necessità della numerosa famiglia del fratello Michelangelo.
In questa difficile situazione economica, nel 1592 Guidobaldo Del Monte intervenne nuovamente ad aiutare Galileo, raccomandandolo al prestigioso Studio di Padova, dove era ancora vacante la cattedra di matematica dopo la morte di Giuseppe Moleti[5]. A Padova Galilei insegnerà per diciotto anni, trascorrendo un periodo fecondo di studi, d’invenzioni e di scoperte, favorito dall’ambiente accademico padovano tollerante e aperto, anche se ufficialmente legato a un indirizzo di studi tradizionale, cui Galilei si uniformerà nei suoi corsi di lezione pubblici, e soprattutto dall’ambiente culturale veneziano vivo e stimolante, specialmente per opera del gruppo dei giovani patrizi innovatori, di respiro europeo, non soffocato dall’ideologia della Controriforma, in cui la scienza e la tecnica trovavano cultori e studiosi appassionati e ampie possibilità di applicazione pratica nelle fiorenti attività artigianali, manifatturiere, cantieristiche.
Carattere prudente e alieno dall’assumere clamorose posizioni di rottura Galilei preferisce in questo periodo non pubblicare i risultati della propria ricerca scientifica, ben consapevole della loro portata rivoluzionaria; si limita alla pubblicazione di manuali universitari come la Breve istruzione all’architettura militare, le Meccaniche (1593), il Trattato della Sfera ovvero Cosmografia (1597) conforme all’ortodossia aristotelica e tolemaica; tuttavia, sempre nello stesso anno, egli scrive le lettere a Jacopo Mazzoni[6] e a Keplero[7] in cui dichiara la sua adesione alle teorie copernicane.
L’anno 1609 segna il momento di svolta decisiva nella vicenda umana e culturale di Galilei in corrispondenza con le osservazioni astronomiche compiute con il cannocchiale da lui fatto costruire – sul modello di un analogo strumento costruito per la prima volta nei primi anni del XVII secolo dall’artigiano Hans Lippershey (Wesel, 1570 – Middelburg, 1619), un ottico tedesco naturalizzato olandese, e fino ad allora impiegato soltanto come strumento di navigazione o come semplice curiosità – che lo portarono alla scoperta delle asperità della Luna, della natura degli ammassi stellari, dei quattro primi satelliti di Giove e, successivamente, nella seconda metà del 1610, alla scoperta degli anelli di Saturno, delle fasi di Venere, delle macchie solari. La relazione delle prime osservazioni e scoperte astronomiche, contenuta nel Sidereus nuncius, pubblicato nel 1610 e dedicato al granduca di Toscana Cosimo II, suscitò subito aspre polemiche, dalle quali tuttavia Galilei emerse vincitore ottenendo il riconoscimento dei maggiori scienziati del tempo impegnati nella ricerca astronomica, primo fra tutti Keplero, che ne consolidò la fama e l’autorità, mentre il granduca di Toscana lo nominò quello stesso anno «matematico primario» dell’università di Pisa e «filosofo» di corte senza obbligo di residenza né d’insegnamento, con un ricco appannaggio.
La piena consapevolezza della forza innovatrice insita nelle recenti osservazioni e scoperte astronomiche, che mettono in crisi verità scientifiche fino allora indiscusse e inverificabili (come l’immutabilità e la perfezione dei corpi celesti fondate sull’autorità di Aristotele), alla quale si unisce la certezza della portata rivoluzionaria della sua speculazione scientifica che, verificata sperimentalmente l’ipotesi copernicana, viene a sconvolgere il sistema del mondo aristotelico‑tolemaico e prospetta una nuova visione dell’universo, spinseno Galilei, sicuro anche del prestigio e dell’autorità acquisiti, ad abbandonare la condotta di prudente attesa fino ad allora adottata e a dare avvio a un programma culturale di diffusione e di affermazione pubblica delle nuove idee scientifiche. Un programma così ambizioso poteva tuttavia essere realizzato soltanto a condizione che in esso fossero coinvolte forze politiche, culturali e ideologiche tanto organizzate da garantirne il libero e pieno sviluppo. Tali forze vennero individuate da Galilei nel granducato di Toscana, il cui governo assoluto gli apparve il più idoneo ad assumere e a sostenere il suo programma anche nei confronti delle altre potenze; e nella chiesa cattolica, entro la cui ortodossia e il cui potere culturale e ideologico era necessario penetrare al fine di conseguire la piena attuazione del progetto di rinnovamento scientifico, che voleva essere insieme anche progetto di rinnovamento culturale, sociale e religioso. Queste le ragioni profonde, cui si aggiungevano ragioni di prestigio personale e di opportunità economica (infatti doveva pensare anche al mantenimento dei tre figli illegittimi, Virginia, Livia e Vincenzo Andrea avuti da una relazione con la veneziana Marina Gamba), che lo indussero ad abbandonare la Repubblica di Venezia (nella quale frattanto gli ambienti progressivi erano entrati in crisi) per la Toscana dove si trasferì nel 1610.
Stabilitosi dunque a Firenze, preparò subito un viaggio a Roma, dove si recò nell’aprile 1611 con lo scopo di esporre i propri studi e le proprie ricerche ai padri gesuiti del Collegio Romano, che lo accolsero con favore mostrandogli una benevola considerazione. A Roma strinse relazioni con alte personalità della Chiesa, il cardinale Maffeo Barberini (futuro Urbano VIII), lo stesso papa Paolo V[8] e si lega di profonda amicizia con il fondatore (1603) dell’Accademia dei Lincei (lo scienziato naturalista e mecenate Federico Cesi[9]), i cui membri seguivano un indirizzo scientifico antiaristotelico e sperimentale, nella quale fu accolto con grande onore. Rassicurato dalle manifestazioni di consenso e di benevolenza raccolte negli ambienti ecclesiastici e accademici romani, Galilei da questo momento assunse un atteggiamento di più decisa critica verso la scienza ufficiale, mentre si adoperava per precisare e divulgare i fondamenti teoretici della nuova visione del mondo. Nel 1612 pubblicò il Discorso intorno alle cose che stanno in sull’acqua o che in quella si muovono, in cui polemizzava contro le teorie del peripatetico Lodovico Delle Colombe[10], e scrisse l’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (pubblicata nel 1617) in cui sostenne apertamente le tesi copernicane. Del 1613 è la celebre lettera a Benedetto Castelli[11] che, insieme con le lettere a Pietro Dini[12] e con quella alla granduchessa Cristina di Lorena[13], tutte del 1615, costituisce una sottile e argomentata rivendicazione dell’autonomia della scienza nei confronti della fede e una precisa affermazione della validità del proprio metodo scientifico, fondato sulla «sensata esperienza» e sulle «necessarie dimostrazioni», come strumento di conoscenza oggettiva dei fenomeni naturali. Le lettere (dette “copernicane”), fatte circolare manoscritte, suscitarono polemiche vivacissime; la reazione degli avversari, gesuiti e peripatetici, giunse nel 1616 con la condanna da parte del Sant’Uffizio delle teorie copernicane e con l’ammonizione rivolta a Galilei dal cardinale Bellarmino[14] ad abbandonarne la professione[15].
Fallito il tentativo di persuadere l’autorità ecclesiastica circa la possibilità di una conciliazione, di un compromesso fra l’ortodossia cattolica e le nuove idee scientifiche, Galilei proseguì nell’approfondimento della sua speculazione e nel programma intrapreso, cogliendo l’occasione per una decisa riaffermazione del proprio pensiero nel polemico e vivacissimo Saggiatore, iniziato a comporre nel 1619 e pubblicato a cura dell’Accademia dei Lincei nel 1623, con dedica a Papa Urbano VIII, elevato al pontificato quello stesso anno e dimostratosi in passato compiacente estimatore di Galilei. Il Saggiatore era stato accolto con largo successo e non aveva suscitato particolari reazioni negli ambienti gesuitici romani, tanto che Galilei decise di recarsi a Roma per rendere omaggio al nuovo Papa e per sondarne l’orientamento verso le teorie copernicane. Urbano VIII si espresse con una certa indifferenza per il problema, che Galilei interpretò invece come disponibilità a tollerare che la sentenza di condanna del Sant’Uffizio non venisse applicata rigidamente. Fiducioso nella buona disposizione della Chiesa, Galilei si dedicò con lena rinnovata a comporre un’opera che nelle sue intenzioni doveva costituire la definitiva affermazione delle teorie copernicane e della nuova scienza. Iniziata la stesura nel 1624 la concluse nel 1630 e soltanto nel 1632, dopo molte resistenze da parte dell’autorità ecclesiastica, poté ottenere l’imprimatur e pubblicarla col titolo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano.
Trascorsi appena sei mesi dalla pubblicazione, l’Inquisitore di Firenze ordinò il sequestro del Dialogo, mentre a Galilei venne intimato di presentarsi al Sant’Uffizio romano. Ormai settantenne Galilei, sotto l’accusa di aver trasgredito il divieto impostogli nel 1616 di professare le teorie copernicane, subì il processo che durerà dal 12 aprile al 22 giugno 1633, giorno in cui gli venne letta la sentenza che lo condannava al carcere formale e all’abiura. La condanna durissima segnava il definitivo tramonto del disegno culturale di Galilei e del suo tentativo di conciliare le ragioni dell’ortodossia con quelle dell’autonomia della scienza. Mutata la pena del carcere con quella del confino, Galilei si ritirò nella sua villa di Arcetri, assistito dalla figlia Virginia fattasi suora nel 1616 col nome di Maria Celeste, dove si dedicò con straordinaria operosità agli studi di meccanica e alla composizione della sua opera scientifica più importante, che venne pubblicata a Leida nel 1638 col titolo Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed i movimenti locali. Successivamente, con la Lettera sul candore della luna (1640), diede ancora prova, nonostante la cecità lo avesse colto nel 1637, della vigoria e della freschezza del suo ingegno. Morì ad Arcetri l’8 gennaio 1642.
Lo scienziato, lo scrittore, l’uomo
«Durante il corso del Cinquecento e sulla spinta delle idee umanistico‑rinascimentali di una scienza utile alla vita degli uomini (si pensi già alla fine del Quattrocento a Leonardo e alle sue ricerche tecniche volte persino a primi tentativi aeronautici) si era venuto delineando l’aspirazione ad un tipo di scienza applicabile alla tecnica e tuttavia non rinunciante alle più ardue meditazioni sulla natura e sulla sua effettiva realtà liberata dal peso delle pure ipotesi religiose e metafisiche, dalla tradizione di un pensiero puramente contemplativo e dall’autorità assoluta di teorie immutabili e sancite dalla forza della Chiesa, specie dopo il suo irrigidimento testimoniato dal rogo di Giordano Bruno e più tardi dal processo a Galileo. Proprio Galileo fu l’uomo che realizzò nella forma più alta e grandiosa (egli fu certo la più grande personalità e il più grande scrittore del Seicento) la figura dello scienziato filosofo e tecnico, capace di promuovere una svolta decisiva del pensiero moderno fondato sulla sicurezza dell’esperienza e sulla prospettiva di una filosofia attiva, interamente umana, liberatrice delle forze autentiche della ragione da ogni limite di autorità tradizionale, teologica ed astratta. Ed egli perciò visse un dramma personale e storico, culminato nel processo e nel confino che volle imporre il silenzio alle sue ardite conquiste scientifiche e che tuttavia non riuscì ad impedire a queste la loro affermazione e feconda diffusione, sia nella scuola sperimentale italiana da lui promossa, sia nel più largo campo della nuova scienza e del nuovo pensiero europeo»[16].
Con la sua straordinaria personalità, che deborda dai confini della cultura e della civiltà non solo toscana, ma persino italiana ed europea, Galileo costruì una nuova visione del mondo, demolendo i pregiudizi del metodo deduttivo e il dogmatico principio d’autorità. Spianando la strada alla concezione di uno spazio infinito, uno spazio che disorienta ed impaurisce a causa della riassimilata consapevolezza dell’umana fragilità, conseguente al mutamento d’importanza e di posto che l’uomo ed il suo pianeta vengono ad occupare nell’universo, Galileo pone le basi della nuova scienza, donandole una sua autonomia e svincolandola da quell’ottuso dogmatismo che poneva prima di ogni cosa le asserzioni di Aristotele e legittimava l’estensione del testo letterale della bibbia dall’ambito prettamente teologico a quello scientifico e naturalistico.
Si potrebbe pensare, a questo punto, che Galileo fosse un dissacratore, ma non è così. Egli, anzi, recupera le basi supreme dell’insegnamento aristotelico, anteponendo l’esperienza alla teoria. In tale modo egli risolve la dialettica fede‑ragione non in un vincolo conflittuale, ma sostenendo che la Bibbia e la Natura sono entrambe emanazioni di Dio. La prima è insegnamento soprannaturale che mira alla salvezza eterna, la seconda racchiude in sé quelle verità per conoscere le quali Dio ha dotato l’uomo di sensi, di discorso e di intelletto. Indagare e studiare i fenomeni naturali significa quindi conoscere i meccanismi creati da Dio. Di conseguenza non c’è alcuna contrapposizione tra la verità della fede e la verità della scienza, giacché entrambe provengono dalla medesima fonte, cioè Dio, e si riferiscono a due sfere differenti: la prima ha come fine il soprannaturale, mentre la seconda ha come fine la conoscenza della natura. E per giungere a tale conoscenza bisogna affidarsi alla matematica, la quale interpreta e sistema i dati dell’esperienza ed inquadra in schemi di rapporti necessari ed eterni l’incessante fluire dei fenomeni naturali. E poiché tali fenomeni si presentano all’occhio umano con una complessità tale che preclude di coglierne immediatamente il modo di essere e la ragione, occorre tradurli in grandezze numeriche e porre tra di esse un legame matematico; questo legame matematico è l’ipotesi, che andrà verificata attraverso il calcolo e la sperimentazione, per riuscire a tradurla in una legge.
Ma Galileo non fu solamente il “padre” della nuova scienza, ma – in quanto scrittore – egli fu colui che diede l’avvio alla moderna prosa scientifica, sostituendo alla lingua latina, bandiera inossidabile del sapere accademico, il volgare italiano. Cresciuto nell’ambiente toscano, che era il rappresentante più fedele della nostra tradizione letteraria, egli rimane legatissimo al gusto del Cinquecento. «Caratteristiche della sua prosa sono un’eleganza, non ricercata e studiata, bensì naturale e schietta; una chiarezza cristallina di esposizione e di ragionamento, aliena per lo più da ogni schematismo e da ogni freddezza, e sorretta dovunque dal calmo fervore di chi sa di esser nel vero e perciò non sente il bisogno di forzare e esagerare la virtù dei proprio argomenti; un vigore combattivo infine, misurato e dignitoso, che non trascende mai all’invettiva, alla beffa o al sarcasmo, ma si effonde in sottile ironia e in garbata canzonatura dell’avversario. Nello stile e nella lingua Galileo si tiene stretto ai modi del gusto fiorentino del secolo aureo; e dalla tradizione cinquecentesca riprende e rinnova anche lo schema dialogico, che in lui non si riduce mai a finzione umanistica e oratoria bensì è la forma naturale in cui s’esprime il vivo processo dialettico del suo pensiero»[17]. Con i suoi personaggi, in parte veri e in parte inventati, egli costruisce un discorrere dialettico che consente, senza annoiare, digressioni ed approfondimenti, e trasforma l’astratto confronto delle idee in un concreto dibattito di tipi e di voci umane.
Gli scienziati che decidevano di abbandonare il latino in favore dell’italiano, nel momento in cui andavano a redigere la relazione dei loro studi e delle loro ricerche, dovevano fare i conti con le limitate forme dell’italiano del tempo, ancora manchevole di terminologie tecniche, cercando di adattare parole di uso comune all’uso più strettamente scientifico. Piuttosto che ricorrere a termini etimologicamente derivati dal greco e dal latino, Galileo ricavò la propria terminologia dalle parole di uso comune, nobilitandole attraverso una precisazione del loro significato e finalizzandole ad un uso prettamente scientifico: in tal modo egli creò un ricco e duraturo linguaggio scientifico, che rappresenta una parte importante nello sviluppo della lingua italiana.
A seguito del processo avviato contro di lui dal S. Uffizio nel 1633, Galileo divenne un martire – al pari di Bruno e Campanella – della stupidità dogmatica e del potere che schiacciano il libero ingegno. In quel triste frangente, Galileo dovette sopportare se non la tortura – cosa per altro smentita dai suoi biografi più recenti – pressioni psicologiche pressoché sconvolgenti per ogni coscienza. E tuttavia non deve essere liquidata in maniera superficiale o faziosa la scomoda posizione dei suoi avversari. Se si considera il precedente invito rivoltogli dal cardinale Bellarmino a professare le proprie idee non come certezze scientifiche ma come ipotesi, bisogna riconoscere che esso conteneva un inconsapevole presagio degli sviluppi della scienza post‑galileiana, e che l’aggrapparsi, per quanto erroneamente, alla fedeltà letterale della Bibbia, poneva in risalto il giusto problema della non completa separabilità della scienza dalla morale: problema divenuto davvero drammatico in tempi a noi molto più vicini. Certo comunque è che la Chiesa in quel complesso frangente si trovò davanti ad un bivio, e scelse la strada sbagliata.
Il Saggiatore
La straordinaria comparsa in cielo nel 1618 di tre comete successive suscitò un ampio e vivace dibattito nell’ambiente scientifico europeo sulla natura di queste stelle, al quale prese parte anche Galilei. Nel quadro di questo dibattito il gesuita Orazio Grassi[18] pubblicò nel 1619 una Disputalo astronomica de tribus cometis anni MDCXVIII in cui, riprendendo la teoria del celebre astronomo danese Tycho Brahe[19] (che sosteneva un indirizzo scientifico di compromesso fra teorie tolemaiche e teorie copernicane), affermava, avvicinandosi alquanto alla verità, ma valendosi delle argomentazioni della tradizionale scienza aristotelica e del procedimento dimostrativo scolastico, che le comete erano corpi celesti provenienti da distanze lontanissime dalla Terra. Galilei si preoccupò immediatamente di confutare queste teorie e di riaffermare la validità del copernicanesimo e del nuovo metodo scientifico, tuttavia, timoroso di provocare la reazione dell’autorità ecclesiastica, prudentemente preferì fare leggere ad un suo allievo all’Accademia fiorentina un Discorso delle comete aspramente polemico nei confronti delle tesi del Grassi. La risposta del padre gesuita non tardò a giungere nell’opera Libra astronomica ac philosophica pubblicata, sempre nel 1619, sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi. Questa volta Galilei volle impegnarsi direttamente nella polemica, nonostante incombesse su di lui l’ammonizione del Sant’Uffizio, nell’intento di rinnovare la battaglia intrapresa per la divulgazione e l’affermazione delle proprie idee. Si accinse pertanto alla stesura della sua replica, protrattasi per tre anni, dal 1619 al 1622, e pubblicata col titolo Il Saggiatore nel 1623 dall’Accademia dei Lincei, con dedica a papa Urbano VIII, cui si volgeva la speranza di Galilei di ottenere comprensione e fiducia.
Fondata sulla tesi del tutto erronea che le comete siano soltanto fenomeni atmosferici causati dalla rifrazione dei raggi solari su masse di vapori provenienti dalla Terra, l’opera si traduce tuttavia in un saggio altissimo ed esemplare di polemica scientifica, in cui Galileo afferma, con sicura e ardita consapevolezza la validità della nuova scienza. Seguendo lo svolgimento stesso delle argomentazioni del Grassi (che si avvalgono del tipico procedimento dimostrativo scolastico, astratto e sillogistico, in un’indistinta contaminazione di scienza, di erudizione, di storia, di letteratura) Galilei ne opera una critica puntuale e inesorabile, che ne demolisce e ne ridicolizza sia le pretese scientifiche, sia lo stile e il linguaggio, sia il modello stesso di ragionamento. Una fortissima tensione polemica (già presente nella stessa scelta del titolo dell’opera, Il Saggiatore, la piccola bilancia di precisione degli orefici, in contrapposizione alla Libra, la bilancia per grossi pesi, del Grassi) anima tutto il discorso galileiano diretto implacabilmente, spesso con ironia sferzante, con scherno, con disprezzo, ad opporre a un sistema di pensiero inerte e chiuso, l’inesauribile possibilità di conoscere e sperimentare offerta dalla natura; a una scienza conservatrice una scienza rivoluzionaria; alla presuntuosa certezza degli aristotelici, il valore innovante del dubbio.
Composta e misurata, sottoposta a un fermo e chiarificatore dominio razionale, che ne contiene le tensioni, in un diretto riferimento al modello classicista della prosa rinascimentale, peraltro superato e rinnovato dalle esigenze innovative stesse del metodo scientifico, la prosa galileiana fluisce, in una medietà espressiva di alta nobiltà, con perfetta adesione allo svolgersi del processo conoscitivo stesso, e si caratterizza come pienamente autonoma nei confronti sia del modello classicista sia della contemporanea prosa barocca. Se tuttavia, sul piano espressivo, l’appartenenza di Galilei alla sensibilità e alla cultura barocca è documentabile soltanto episodicamente, essa risulta, invece, pienamente riscontrabile nella coscienza profonda e sofferta (cui si contrappone l’aspirazione a una certezza assoluta), comune alla temperie spirituale del secolo, della realtà come movimento e trasformazione perenne, metamorfosi infinita e irriducibile, aperta, nella molteplicità e varietà dei fenomeni, a sempre nuove scoperte; nel senso di “meraviglia”, di “stupore” con cui i fenomeni naturali sono osservati e le nuove realtà indagate e scoperte penetrando il “labirinto” del mondo; nel libero e pieno dispiegarsi della fantasia; nella curiosità vivissima per il particolare, per il dettaglio; nella passione per l’esperimento.
La scelta del volgare, un toscano sobrio ed elegante (ma in Galilei si riscontrano anche aperture spregiudicate ai modi ruzzanteschi), come lingua scientifica, testimonia sul piano linguistico l’impegno di rinnovamento totale della ricerca scientifica assunto da Galilei. La lingua italiana, adottata da tempo dai tecnici nei loro trattati e manuali, esclusa dal campo delle scienze, dominato dal latino, lingua internazionale della tradizione accademica, rappresenta per Galilei lo strumentò pedagogico, divulgativo e progressivo più efficace per operare, in opposizione radicale alla scienza tradizionale, sia un’ampia diffusione della nuova scienza, abbattendo antiche barriere culturali e sociali, sia un rinnovamento totale della lingua scientifica, che deve istituire nuove forme espressive e una nuova terminologia, così come deve realizzare un organico collegamento con il fecondo settore della tecnica. L’adozione della lingua dei tecnici e la tecnificazione di parole del linguaggio comune rappresentano, come s’è detto, uno dei criteri linguistici più ampiamente adottati da Galilei per raggiungere quell’obiettivo di chiarezza, di precisione e di larga comunicazione che si era proposto di raggiungere con il suo programma culturale.
Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
Iniziata a comporre nel 1624, l’opera impegnò Galilei per un periodo di sei anni. Conclusa nel 1630 venne pubblicata soltanto due anni dopo (1632), quando fu possibile superare gli ostacoli frapposti dall’autorità ecclesiastica e ottenere l’imprimatur. Il dialogo, diviso in quattro giornate, si finge avvenuto a Venezia in Palazzo Sagredo ed ha come interlocutori Filippo Salviati, gentiluomo fiorentino, amico di Galilei, che rappresenta Galilei stesso; Giovan Francesco Sagredo, gentiluomo veneziano, allievo di Galilei, che rappresenta l’interlocutore ricco d’ingegno, spregiudicato e facile all’entusiasmo e alla polemica, ma sostanzialmente estraneo alla problematica scientifica; Simplicio, personaggio immaginario, che rappresenta lo scienziato conservatore e tradizionalista, seguace dell’aristotelismo, ostinato e presuntuoso nella propria certezza, convinto sostenitore del sistema tolemaico. Adottata la forma dialogica, che la tradizione rinascimentale aveva elevato a forma espressiva eminente in cui si sublimavano gli ideali cortigiani di misura, di eleganza e di armonia, Galilei ne opera una viva ed efficacissima drammatizzazione che conferisce al testo l’incisività rappresentativa, il potere di suggestione, l’intensità drammatica, la spontaneità e la vivacità di una vera e propria rappresentazione teatrale, nella quale agiscono personaggi pienamente caratterizzati e reali, vivi e umani in netto contrasto con la figura degli interlocutori del dialogo cinquecentesco, chiamati a una convenzionale personificazione di idee e di tesi. Destinato a una definitiva affermazione delle teorie copernicane e della nuova scienza, il Dialogo, lungamente meditato ed elaborato, assume la funzione di opera altamente divulgativa e propagandistica in cui tutta l’esperienza scientifica e la vicenda umana di Galilei sono ripercorse e fatte confluire sulla “scena” dove si confrontano, radicalmente contrastanti, due opposte culture, due inconciliabili visioni del mondo, due modi divergenti di concepire l’uomo e il suo rapporto con la realtà.
Nella premessa al “discreto lettore”, che apre il Dialogo, Galilei dichiara le ragioni dell’opera e ne propone il tema, con una sintesi delle principali questioni scientifiche che saranno trattate, mentre nello stesso tempo ne introduce il tono generale, sottilmente ironico e irridente, ma sostanzialmente garbato e cordiale, fingendo un umile ossequio al consiglio dell’autorità ecclesiastica che lo ha invitato a considerare il sistema copernicano come pura possibilità teorica al fine di assumerlo, in una prospettiva metafisica, come ipotesi indifferentemente confrontabile con altre ipotesi. Questa argomentazione è tuttavia smentita dallo stesso tono ironico e satirico con cui è svolta, che rivela in modo inequivocabile il vero fine che si propone l’opera: la dimostrazione della validità della ipotesi copernicana non solo a livello teorico, ma anche mediante la verifica di prove oggettive, secondo la nuova metodologia scientifica. Se nel Saggiatore la confutazione diretta della Libra del Grassi aveva alquanto limitato il campo della polemica e della contestazione galileiana, nel Dialogo invece esso si amplia e si arricchisce sino a investire con inesorabile forza eversiva non solo i fondamenti della scienza tradizionale, ma anche tutta la cultura e il quadro mentale ad essa correlati. Alla critica demolitrice del vecchio sistema aristotelico si affianca la fiduciosa certezza della validità del sistema copernicano e della forza rivoluzionaria con cui la nuova scienza e il nuovo metodo scientifico operano un radicale rinnovamento della conoscenza del reale, infrangendo schemi mentali e ideologici, mutando totalmente strutture culturali, sovvertendo l’antico rapporto fra ciclo e terra, fra uomo e natura, in una prospettiva di libertà e di progresso intellettuale.
*** NOTE AL TESTO***
[1] Antonio Banfi, Galileo Galilei, Casa Editrice Ambrosiana, Milano, 1949 (ristampato da Il Saggiatore, Milano, 1961).
[2] Cristoforo Clavio (Bamberga, o 1538 – Roma, 1612), è stato un gesuita, matematico e astronomo tedesco, autore di un gran numero di testi che ebbero grande influenza; è noto soprattutto per il suo contributo alla definizione del calendario gregoriano, quello ancora oggi in uso nel mondo occidentale.
[3] Guidubaldo Bourbon marchese Del Monte (Pesaro, 1545 – Mombaroccio, 1607) matematico, filosofo e astronomo di grandissimo spessore, fu – anche secondo il parere di Galileo – uno dei massimi studiosi di meccanica e matematica del Cinquecento.
[4] Francesco Maria Bourbon Del Monte (Venezia, 1549 – Roma, 1626) ottenuto il dottorato in legge divenne, prima ancora di prendere gli ordini sacri, divenne abate commendatario di Santa Croce a Monte Fabali. Recatosi a Roma, fu uditore del cardinale Alessandro Sforza e ammesso alla corte del porporato Ferdinando I de’ Medici. Successivamente svolse l’incarico di referendario del tribunale della Segnatura Apostolica nel 1580 e successivamente anche di relatore. Fu poi segretario del cardinale Ferdinando I de’ Medici, prendendo solo a questo punto gli ordini sacri. Creato cardinale diacono da papa Sisto V nel concistoro del 14 dicembre 1588, ricevette la porpora e la diaconia di Santa Maria in Domnica l’8 gennaio 1589. Acuto sostenitore delle arti e delle scienze, possessore di una grande collezione di opere antiche, fu protettore del Caravaggio ed il suo appoggio al giovane artista lombardo risultò fondamentale nei primi anni della sua carriera romana.
[5] Giuseppe Moleti (Messina, 1531 – Padova, 1588) nacque da antica famiglia messinese, che si era distinta nei secoli per le gesta compiute e per le alte cariche ricoperte da molti suoi membri. Dimostrò presto una spiccata attitudine per le discipline scientifiche, matematiche e filosofiche e fu allievo del matematico e astronomo Francesco Maurolico, che contribuì notevolmente alla sua formazione culturale. Presto acquistò notorietà e fama, anche fuori della sua città, non solo per la sua cultura poliedrica, ma anche per l’integrità dei suoi costumi. La sua fama giunse anche al Duca di Mantova, Guglielmo Gonzaga, il quale lo prego di istruire il figlio Vincenzo. Il Moleti accettò l’incarico e si trattenne a Mantova per dodici anni, finché la Repubblica di Venezia lo chiamò, dietro lauto compenso, ad occupare la cattedra di matematica all’Università di Padova. Incaricato espressamente dal Senato veneziano e dal Pontefice Gregorio XIII, Moleti approfondì e concluse gli studi matematico-astronomici che condussero alla riforma del calendario, redigendo tra l’altro le tavole che costituirono il necessario supporto per la riforma, ufficialmente introdotta, con decreto del Pontefice, a decorrere dal 15 ottobre 1582 e tuttora vigente.
[6] Jacopo Mazzoni (Cesena, 1548 – Cesena, 1598) compì i suoi studi di lettere a Bologna e quelli di filosofia a Padova. Membro dell’Accademia della Crusca, fu tra i preferiti del papa Gregorio XIII che lo avrebbe voluto prelato; Mazzoni preferì proseguire nella carriera universitaria. Dapprima fu all’Università di Macerata, ed in seguito a Pisa, dove ebbe la cattedra di filosofia dal novembre 1588 al 1597. Nel 1597 fu invitato a insegnare all’Università La Sapienza di Roma. Benché avesse da poco preso questa cattedra, seguì il cardinale Pietro Aldobrandini nei suoi incarichi a Ferrara e in seguito a Venezia. Ammalatosi sulla strada del ritorno, si recò nella sua Cesena, dove morì. La sua opera più importante è un testo di astronomia, In universam Platonis et Aristotelis philosophiam preludia (1597), nel quale egli sostiene il sistema geocentrico aristotelico contro la sempre più diffusa e apprezzata teoria copernicana eliocentrica. Questo volume è divenuto molto noto poiché Galileo Galilei, dopo averlo letto, gli inviò una lettera, datata 30 maggio 1597, nella quale difendeva Copernico e le sue teorie. Questa missiva rappresenta la più antica testimonianza dell’adesione alla teoria eliocentrica di Galileo Galilei.
[7] Giovanni Keplero, adattamento di Johannes Kepler (Weil der Stadt, 1571 – Ratisbona, 1630) nacque in una famiglia di umili origini e venne avviato dai genitori alla carriera ecclesiastica che nel 1584 lo fecero entrare nel seminario di Adelberg. Nel 1588 cominciò i suoi studi presso l’università di Tubinga (etica, dialettica, retorica, greco, ebraico, astronomia e fisica) e nel 1592 intraprese lo studio della teologia. Nel 1594 Keplero ricevette l’ncarico di insegnare matematica presso la Scuola Evangelica di Graz e successivamente divenne matematico territoriale degli Stati di Stiria. Nel 1604 osservò una supernova che ancora oggi è nota col nome di Stella di Keplero. Nel 1604 osservò una supernova che ancora oggi è nota col nome di Stella di Keplero. Nel 1609 pubblicò il suo capolavoro Astronomia nova, in cui formulò le sue prime due leggi che regolano il movimento dei pianeti. Nel 1618 Keplero scoprì la terza legge che prende il suo nome, e che rese nota l’anno dopo nell’opera Harmonices Mundi.
[8] Paolo V, al secolo Camillo Borghese (Roma, 17 settembre 1552 – Roma, 28 gennaio 1621), nacque a Roma, primo di sette figli, da Marcantonio, avvocato concistoriale e patrizio senese, e dalla nobile romana Flaminia Astalli. Camillo Borghese studiò all’università di Perugia e in quella di Padova. Dopo essersi laureato in utroque iure, svolse dapprima l’attività di avvocato, finché non scelse la carriera ecclesiastica. Il suo primo incarico fu quello di referendario della Segnatura di giustizia. Ordinato sacerdote nel 1577, Camillo salì uno dopo l’altro i diversi gradi della gerarchia della Curia romana, fino ad essere nominato, da Sisto V, vicelegato a Bologna (1588). Il successore Clemente VIII lo fece nunzio particolare presso il re di Spagna Filippo II (1595) e poi lo creò cardinale (1596). Dopo il breve pontificato di Leone XI, durato solo 26 giorni, nel 1605 venne eletto Papa. Assertore di un cattolicesimo intransigente, continuò l’opera di riforma della Chiesa, ma non fu immune dal nepotismo. Sostenne un aspro conflitto giurisdizionale con la Repubblica di Venezia, cui lanciò l’interdetto. Incoraggiò le attività missionarie, riconobbe diversi ordini religiosi. Con il breve Cum certas unicuique (1607) il pontefice concesse numerose indulgenze alle Confraternite di Santa Maria erette presso le chiese dei Servi, mentre con la costituzione Nuper archiconfraternitati (1607) intese definire in modo netto le modalità di costituzione e di funzionamento delle confraternite ecclesiastiche. Riconobbe anche ordini religiosi cavallereschi: con la bolla Romanus Pontifex (1608) il nuovo Ordine della Beata Vergine del Monte Carmelo e, nell’ottobre dello stesso anno ne stabilì la fusione con l’ordine di San Lazzaro, dando così vita all’Ordine di San Lazzaro e di Nostra Signora del Monte Carmelo; 1614 l’Ordine della Maddalena, fondato dal francese Giovanni Chesnel, Signore della Chaponrie; nel 1615 istituì l’Ordine dei Cavalieri di Gesù Maria.
[9] Federico Cesi (Roma, 1585 – Acquasparta, 1630), appartenente ad una nobile famiglia umbro-romana che aveva annoverato tra i propri membri cinque cardinali, nacque a Roma nel palazzo Cesi-Gaddi, in via della Maschera d’oro, dove fondò l’Accademia e creò un ricco orto botanico. Fin da giovanissimo manifestò un forte interesse per il rinnovamento della cultura tradizionale. Tale impegno lo espresse soprattutto nella fondazione e nel sostegno che prestò all’Accademia dei Lincei, da lui istituita nel 1603, con il medico e naturalista olandese Johannes van Heeck, con il matematico Francesco Stelluti, e con l’erudito Anastasio De Filiis. Dopo il 1609 aumentò il numero dei membri dell’Accademia nominando eminenti personalità straniere ed italiane come Galileo Galilei (associato nel 1611), con cui ebbe rapporti particolarmente intensi e al quale prestò notevole sostegno soprattutto nello scontro dello scienziato pisano con le autorità ecclesiastiche, facendo leva anche sulla sua posizione influente nel patriziato romano. Il Cesi si dedicò con profitto agli studi di botanica e naturalistici in genere, progettando anche una sua enciclopedia botanica, anticipando di decenni – con gli altri Lincei – la metodologia scientifica comparativa della moderna morfologia vegetale.
[10] Ludovico delle Colombe (Firenze, 1565 – 1616), filosofo aristotelico e letterato italiano, fiorentino, è noto per essere stato uno strenuo avversario di Galileo Galilei. Nulla si sa di preciso della sua vita e della sua famiglia, se non che fu di nobile origine. Di lui ci restano diverse opere, nelle quali difende le dottrine aristoteliche con un particolare disinteresse sia verso le nuove osservazioni sia verso la coerenza logica.
[11] Benedetto Castelli, al secolo Antonio Castelli (Brescia, 1578 – Roma, 1643), Antonio Castelli nacque nel 1578 da Annibale e Alba Tiberi e prese il nome di Benedetto entrando nell’ordine benedettino il 4 settembre 1595; fu il primo di sette fratelli e i suoi dati anagrafici non sono precisi a causa dell’assenza del certificato di battesimo. A Brescia iniziò gli studi matematici che dovette terminare a Padova, dove fu trasferito nel monastero cittadino di Santa Giustina (1604). Nel 1610 Castelli ritornò a Brescia, nel monastero di San Faustino, da dove scrisse a Galileo, suo maestro e amico, di cui aveva una grande stima, ringraziandolo del dono del Sidereus Nuncius, da lui già letto ed apprezzato. Fu poi di nuovo a Padova, quindi a Firenze presso Galileo, col quale collaborò assiduamente alle sue nuove opere. Divenuto professore ordinario all’Università di Pisa (1613), continuò i suoi studi, specialmente quelli intorno al moto ed alla misura delle acque correnti. Chiamato a Roma dal nuovo Papa Urbano VIII come professore alla Sapienza, accompagnò monsignor Ottavio Corsini a risolvere la questione del Reno, che opponeva le città di Bologna e Ferrara. Sulla questione Castelli sostenne l’introduzione del Reno nel Po Grande, prendendolo alla Botta Ghislieri e introducendolo nel Po Grande sotto la Stellata. Gli è stato dedicato un asteroide, 6857 Castelli.
[12] Pietro Dini (Firenze, ?? – Fermo, 1625) Fu avviato alla carriera ecclesiastica dal cardinale Ottavio Bandini, zio di parte materna, che divenne il suo protettore. Fin da giovane partecipò attivamente alla vita culturale fiorentina come membro dell’Accademia della Crusca e console, nel 1605, dell’Accademia Fiorentina. Presto raggiunse a Roma lo zio, che gli aveva preparato la strada per una brillante carriera. A questi anni risale l’amicizia con Galileo. Tra il 1611 e il 1615 i due furono legati da un intenso carteggio. In seguito alle accuse del domenicano Niccolò Lorini (1544-p. 1617) circa la Lettera a Benedetto Castelli, Galileo si rivolse all’amico perché difendesse la sua ortodossia religiosa presso il cardinale Bellarmino (1542-1621) e il padre gesuita Grienberger (1561-1636), pregandolo di far circolare la “vera” versione della Lettera. A Roma, infatti, erano giunte copie dello scritto che potevano mettere in cattiva luce Galileo, per via di certe posizioni poco ortodosse per la teologia ufficiale. Non è chiaro se la seconda versione, inviata dallo scienziato a Dini, fosse stata edulcorata dall’autore o se la prima fosse stata manipolata da qualche avversario con l’intento preciso di nuocergli.
[13] Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana (Bar-le-Duc 1565 – Firenze 1636), nacque Carlo III di Lorena e di Claudia di Francia. Sposò nel 1589 il granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici, che voleva riavvicinarsi alla Francia; temperamento religioso, fondò in Toscana numerosissimi conventi e, morto il marito (1609), contribuì a purificare la corte dai vizî che vi si erano introdotti. Politicamente, però, l’opera di C. fu nefasta: già cattiva ispiratrice della politica del figlio Cosimo II, fu poi (1621-29) precipua responsabile della colpevole debolezza del consiglio di reggenza del nipote Ferdinando II.
[14] Roberto Francesco Romolo Bellarmino (Montepulciano, 1542 – Roma, 1621) Terzogenito di cinque figli, nacque in una famiglia di Montepulciano di nobili origini, per parte sia paterna sia materna, ma in via di declino economico. Suo padre, Vincenzo Bellarmino, fu gonfaloniere di Montepulciano, e sua madre, Cinzia Cervini, molto pia e religiosa, era sorella di papa Marcello II. Fin da piccolo ebbe una salute precaria e una forte inclinazione per la Chiesa. Dopo un’iniziale educazione in famiglia, vista l’inclinazione religiosa, fu inviato per gli studi presso i padri gesuiti. All’età di sedici anni espresse l’intenzione di entrare nell’ordine gesuita e suo padre, dopo resistenze iniziali, gli diede il permesso. Studiò nel Collegio romano dal 1560 al 1563, e fu condiscepolo di Cristoforo Clavio. Iniziò successivamente a insegnare materie umanistiche sempre in scuole del suo ordine religioso, prima a Firenze e poi a Mondovì; in questa cittadina piemontese, si distinse come predicatore, nonostante non fosse ancora ordinato sacerdote, e si applicò allo studio del greco. Ordinato sacerdote a Gand nel 1570, guadagnò notorietà sia come insegnante sia come predicatore; in quest’ultima veste era capace di attirare al suo pulpito sia cattolici sia protestanti. Nel 1576 fu richiamato a Roma da papa Gregorio XIII che gli affidò la cattedra di apologetica, da poco istituita nel Collegio romano, attività che svolse fino al 1587. Nel 1590 fece parte della legazione, guidata dal cardinal legato Enrico Caetani, che papa Sisto V aveva inviato in Francia per difendere la Chiesa cattolica nelle difficoltà scaturite dalla guerra civile tra cattolici e ugonotti, subito dopo l’assassinio del re Enrico III di Francia. Nel 1592 Bellarmino divenne rettore del Collegio romano, incarico che svolse per circa due anni fino al 1594. Nel 1595 divenne preposito dell’ordine gesuita per la provincia di Napoli. Nel 1597 papa Clemente VIII lo richiamò a Roma e lo nominò consultore teologo, oltre che “esaminatore per la nomina dei vescovi”, “consultore del Sant’Uffizio” e teologo della sacra penitenzieria. Nel concistoro del 1599 il Papa nominò Bellarmino cardinale presbitero con il titolo di Santa Maria in Via. Bellarmino ebbe ruoli importanti nei processi a Giordano Bruno e a Tommaso Campanella. Nel 1930 Pio XI lo canonizzò e nel 1931 lo nominò Dottore della Chiesa.
[15] Il 24 maggio 1616 Bellarmino firmò su richiesta dello stesso Galilei una dichiarazione nella quale si affermava che non gli era stata impartita nessuna penitenza o abiura per aver difeso la tesi eliocentrica, ma solo una denuncia all’Indice, a riprova del fatto che non c’era stato alcun processo contro di lui. Questa dichiarazione fu poi falsificata da un grande nemico di Galilei, padre Seguri, che divulgò un verbale apocrifo in cui Bellarmino ammoniva Galilei, pena il carcere, di non insistere nella difesa della tesi eliocentrica. Questo falso documento fu poi utilizzato anni dopo nel processo contro Galilei, quando Bellarmino, ormai morto, non poteva più smentire tale verbale.
[16] Walter Binni, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in OPERE COMPLETE DI WALTER BINNI, Il Ponte Editore, 2017, pag. 262-263.
[17] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 229.
[18] Orazio Grassi (Savona, 1583 – Roma, 1654) entrò a diciotto anni nella Compagnia di Gesù, divenendo presto professore di matematica, prima a Genova e poi a Roma. Il Grassi fu anche architetto (a lui si deve il progetto della chiesa di Sant’Ignazio adiacente al Collegio Romano) ma la sua fama è legata principalmente alla disputa sulle comete che lo oppose a Galileo. Tra le accuse mosse dal gesuita vi era, tra l’altro, quella secondo cui la spiegazione del fenomeno presupponeva una manifesta adesione al sistema copernicano, che da alcuni anni era stato messo al bando. Nel 1626 il Grassi, che nel frattempo aveva abbassato i toni della polemica, pubblicò a Parigi un’altra opera, la Ratio ponderum librae et simbellae, in qua quid e Lotharii Sarsii ‘Libra astronomica’ quidque e Galilei Galilei Simbellatore de cometis statuendum sit, collatis vtriusque rationum momentis, philosophorum arbitrio proponitur. Galileo vi era attaccato non solo in merito alle comete, ma anche sul piano teologico dottrinale per alcune affermazioni sulle qualità primarie e secondarie dei corpi e sulla struttura crepuscolare della materia. Negli anni dolorosi del processo Orazio Grassi non mostrò acredine nei confronti di Galileo, anche se la polemica che li aveva visti coinvolti aveva senza dubbio contribuito a porlo in cattiva luce presso i Gesuiti.
[19] Tycho Brahe (Knutstorp, 1546 – Praga, 1601) nacque da Otte Brahe, un nobile cortigiano e comandante militare del regno, e da Beate Bille, appartente alla nobiltà. Entrambe le famiglie erano ricchissime e fra le più importanti della Danimarca. Sin dall’adolescenza Brahe ebbe interesse per l’astrologia, cosa che lo spinse poi agli studi di astronomia, motivato dalla necessità di avere misure precise delle effemeridi. Brahe continuò a occuparsi di predizioni astrologiche lungo tutto l’arco della propria vita. Dopo aver concluso gli studi universitari di astronomia a Copenaghen, Wittenberg e Basilea, nel 1573 pubblicò un resoconto delle sue osservazioni della stella nuova (che oggi chiameremmo supernova ) comparsa nel 1572 nella costellazione di Cassiopea. Il re di Danimarca gli affidò allora in uso perpetuo l’isola di Hven, su cui Tycho fece costruire il grande osservatorio astronomico di Uraniborg. Brahe non abbracciò né il modello tolemaico né la teoria copernicana ma propose un proprio modello (non corretto) del Sistema solare, secondo il quale tutti i pianeti ruotavano intorno al Sole mentre il Sole e la Luna ruotavano intorno alla Terra. Tuttavia fu proprio grazie alle precisissime misure di Tycho Brahe che il suo assistente Keplero potè in seguito dimostrare la fondatezza del modello di Copernico.
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SEICENTO»
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