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Marco M. G. Michelini | 24 Aprile 2021

L’affermarsi di un nuovo senso estetico, come spesso accade, è la superficiale manifestazione di un cambiamento profondo della realtà storica e della visione del mondo: è il segno, insomma, di una nuova età, con una identità propria e distinta.

La coscienza della novità è un fatto assolutamente seicentesco e squisitamente moderno. Il culto per le civiltà classiche era stato il comune denominatore del Rinascimento. Nel Seicento si profila una netta, sistematica avversione al classicismo con l’affermata superiorità dei moderni sugli antichi. La querelle des anciens et des modernes, la contesa sul primato fra l’imitazione dei modelli antichi e l’ingegnosa scoperta di vie nuove diventa un tema cruciale del secolo.

Come s’è detto, la tradizione, in special modo quella italiana, liquidò il Seicento come un secolo di regresso: il pensiero nazionalista criticava la caduta del primato letterario dell’Italia classicheggiante e razionalista non meno della perdita della libertà politica a vantaggio della Spagna; lo spirito laico-libertario osservava di malocchio il rilancio della Chiesa controriformista in un disegno politico che vedeva spesso mescolarsi le ragioni del trono con quelle dell’altare. Ma in realtà il Seicento fu anche un secolo di coraggiosi progressi: nel campo dell’astronomia, delle scoperte geografiche e della tecnica (basti pensare alla clamorosa diffusione della stampa). Anche su queste esperienze si fonda l’orgogliosa consapevolezza degli uomini del Seicento di appartenere ad un nuovo mondo e di essere perciò dotati di una differente sensibilità nei confronti delle generazioni precedenti.

Sul piano letterario tale ansia del nuovo sfocerà nell’opposizione al classicismo coi suoi dogmi imitativi, basati sulla deformante lettura della Poetica di Aristotele, che fin dal momento della sua prima pubblicazione (1548), era divenuta il “testo sacro” dell’estetica rinascimentale. Il trattato aristotelico era stato interpretato arbitrariamente come un libro di norme (tra cui le famose unità di tempo, luogo e azione che imbrigliarono per secoli il nostro teatro). Tale sistema di precetti finiva per indurre un piatto conformismo, che nella sostanza recava danno alla libertà d’invenzione. Alla rigidità dei canoni artistici si aggiungevano poi le remore moralistiche, giustificate dal trauma della Riforma protestante e del neo‑paganesimo rinascimentale, ma condotte poi dalla Controriforma fino ad un clima plumbeo: l’arte finiva per misurarsi col metro dell’ideologia cattolica. Tuttavia, deve essere sottolineato che in tale aspirazione egemonica della cultura cattolica, era insito anche un disegno di divulgazione capillare, di estensione del sapere alle grandi masse, oltrepassando lo steccato aristocratico delle raffinate corti rinascimentali.

Reagendo al protestantesimo, il quale tendeva a vanificare la forza salvifica del lavoro umano, il cattolicesimo ribadiva che Dio ha dotato l’uomo di mezzi per la salvezza eterna. Per cui anche l’arte e le lettere sono, per chi le produce e chi ne fruisce, strade utili ad indirizzare alla meta suprema. Ne consegue che, se la cultura è una via di salvezza, essa non deve rimanere appannaggio di pochi dotti, ma raggiungere l’umanità tutta. Criticata in passato come vacuamente formalista ed estetizzante, la cultura dell’età barocca investe largamente la vita sociale e il costume: propone un modo di vivere, uno stile calato nei gesti quotidiani e negli arredi domestici, nei luoghi del culto e persino nella struttura volutamente teatrale, pedagogica, dell’architettura.

L’arte non è più, classicamente, imitazione della natura (una natura minata dal peccato originale), ma può cimentarsi con essa (col realismo del Caravaggio[1], che crea la natura morta e non esita a cavare il bello da una mela bacata, o col trompe l’oeil illusionistico di un Arcimboldo[2] che costruisce figure umane con gli ortaggi). L’arte, soprattutto, ha lo scopo di commuovere e di persuadere; esercita l’immaginazione, attraverso cui ci si convince che il non reale può diventare realtà. Immaginazione e realismo sono due elementi ricorrenti dell’arte seicentesca nei suoi vari generi, dalla letteratura, alla pittura, alla scultura, all’architettura.

Il nuovo gusto si coglie soprattutto nella lirica barocca, che nasce da un processo graduale di trasformazione del petrarchismo cinquecentesco, fino alla fase matura del Tasso, vero precursore del nuovo gusto con la sua sensibilità inquieta e la sua raffinata tecnica formale. Certo, la lirica tassiana, per quanto inoltrata lungo il sentiero dello sperimentalismo, non recide mai i legami con la tradizione, mentre i seicentisti ecciteranno il bagaglio tecnico fino al gioco più cerebrale e intellettualistico, esagerando le inclinazioni alla parola ornata e le manifestazioni concettose latenti in altri lirici del Cinquecento, da Angelo Di Costanzo[3] a Berardino Rota, da Luigi Tansillo a Giovan Battista Guarini, nel cui dramma pastorale Pastor fido (1590) già si registrava la centralità del mito amoroso che farà del sensualismo una nota dominante della poesia nuova.

In sostanza i poeti del seicento determinano la rottura delle regole e potenziano una variegata capacità combinatoria di espedienti stilistico‑retorici il cui insieme si può riassumere sotto l’etichetta di concettismo. Il concettismo obbedisce a una poetica intellettualistica (di cui esistono esempi nella tradizione antica, come nei poetae novelli della tarda latinità, ma che riaffiora in varie avanguardie formalistiche del Novecento): essa fa ricorso all’ingegnosità, all’arguzia, all’ironia e allo scherzo su argomenti gravi e profondi, al bisticcio di parole, all’uso reiterato di figure retoriche, che sono il sale della poesia barocca. Intorno al concettismo si sviluppano nel corso del Seicento veri e propri studi di estetica, tra cui sono degni di menzione il trattato Delle acutezze di Matteo Peregrini[4] e, soprattutto, Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro (1592-1675), che definì il meccanismo della poesia barocca come un insieme di «bizzarrie vagamente scher­zanti». Dal canto suo Pietro Sforza Pallavicino nel trattato Dello stile e del dialogo e in Del bene riconobbe la piena autonomia della poesia che ha l’unico scopo di «adornare l’intelletto nostro d’immagini o (…) d’apprensioni sontuose, nuove, mirabili, splendide». Si tendeva insomma a costruire un repertorio organico di nuovi stilemi per sorprendere il lettore con immagini e concetti estrosi, e a definire il senso della «maraviglia», come dirà il Marino in due versi divenuti famosi: «È del poeta il fin la maraviglia /(…)/ chi non sa far stupir, vada a la striglia». L’artificio sostituisce la naturalezza al vertice delle virtù espressive.

Uno dei mezzi più adoperati nel dettato poetico seicentesco è la metafora. Il trasferimento d’una parola o d’una locuzione dal senso proprio a quello figurato, traslato, era già diffuso nella tradizione del linguaggio letterario: ma la metafora barocca è complicata e fitta a tal punto che il discorso poetico ne è letteralmente trapuntato. La metafora, sosteneva ancora il Tesauro, è tipica non solo della scrittura ma della stessa mentalità barocca, tocca tutti i campi artistici, ed è insita persino nella natura: «Questo appare in tante bizzarrie vagamente scherzanti nelle facciate de’ sontuosi edifici: capitelli fogliati, rabeschi de’ fregi, triglifi, metope, mascaroni, cariatidi (…): tutte metafore di pietra e simboli uniti, che aggiungono vaghezza all’opra e mistero alla vaghezza». Su una metafora lo scrittore barocco lavora a lungo fino alla filiazione di innumerevoli altre metafore secondarie dipendenti dalla prima, costituendo un intreccio di significati davvero sorprendente.

Altro strumento virtuosistico del linguaggio barocco è l’analogia, una tecnica che avrà molta fortuna specialmente presso i poeti del Novecento, ma che già ora trova sperimentazioni efficaci. L’accostamento inedito di due elementi concreti (cose, oggetti, aspetti della natura) mai prima ravvicinati e a prima vista non ravvicinabili, avviene sopprimendo il nesso del paragone tradizionale (il classico «come»); talvolta si tace addirittura anche il primo termine di paragone, sicché «la rosa bianca» diventa «l’alba del prato intatta». Una folta serie illimitata di varianti danno luogo all’analogia continuata: «latte de’ l’erba ameno», «neve natia de’ fiori», «coppa di vago argento».

Un esempio celebre del virtuosismo barocco, la descrizione del canto dell’usignolo nell’Adone del Marino, offre un campionario di stilemi barocchi e produce un vero e proprio assolo musicale con abbondanza di svisature: «Chi crederà che forze accoglier possa / animetta sì picciola cotante? / e celar tra le vene e dentro l’ossa / tanta dolcezza un atomo sonante? / o ch’altro sia che la liev’aura mossa, / una voce pennuta, un suon volante? / e vestito di penne un vivo fiato, / una piuma canora, un canto alato?»[5].

Nell’ottava riportata pullulano le metafore, da quella iperbolica atomo sonante (un essere minuscolo che emette musica), alla sequenza voce pennuta, vivo fiato, piuma canora, canto alato, che hanno tutte ardite valenze metaforiche, incrociate con altre figure di pensiero (ad esempio l’ossimoro vivo fiato) o di suono (ad esempio l’assonanza vocalica canto alato). Prese di per sé, o collocate nel linguaggio comune, le espressioni non hanno senso, giacché la voce non ha penne, né le piume sono canore, ecc.; ma nel contesto poetico l’autore si sbizzarrisce ad attribuire caratteristiche ad oggetti che non le possono avere e che si giustificano solo come parti del tutto: la voce, in sostanza, è pennuta perché si vuol dire che l’usignolo (che ha penne) canta (e qui la metafora s’incontra con figure di contiguità, come la metonimia e la sineddoche, o «parte per il tutto»); questa metafora è subito rovesciata in piuma canora, dove è la piuma dell’usignolo che ha voce. Il poeta mostra d’essere «sensibile soprattutto al fascino di fenomeni che abbiano un sapore e un andamento meccanico. Si ha l’impressione, insomma, che l’usignolo qui descritto non sia un uccello di carne e sangue, ma un giocattolo automatico, privo di vita»[6].

***NOTE AL TESTO***

[1] Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, dal nome del paese lombardo che gli ha dato i natali, nacque nel 1571 da un architetto a servizio del marchese di Caravaggio. Allievo dapprima del pittore bergamasco Simone Peterzano, nel 1592 decise di trasferirsi a Roma, dove fu accolto fra la servitù del nobile Pandolfo Pucci. Assalito da una grave malattia, fu ricoverato all’Ospedale della Consolazione: a questo periodo risalgono i celebri ritratti allo specchio tra cui il cosiddetto Bacchino malato. La svolta nella carriera del Caravaggio fu segnata dall’acquisto de I bari da parte del cardinal Francesco Maria del Monte: dopo tale avvenimento, si trasferì a Palazzo Madama, residenza del cardinale, dove restò fino al 1600. Nel corso degli anni fu anche a libro paga del marchese Vincenzo Giustiniani, dei Barberini, dei Borghese, dei Costa, dei Massimo e dei Mattei. Nel 1606 in un duello uccise Ranuccio Tomassoni e fu costretto alla fuga: si recò a Napoli, a Malta, a Messina e poi di nuovo a Napoli (1609) dove venne aggredito e ferito gravemente. Ancora convalescente si imbarcò nel luglio del 1610 per lo Stato pontificio, giacché i suoi potettori romani erano ormai riusciti ad ottenergli la grazia. Arrestato erroneamente a Palo di Ladispoli per accertamenti, e successivamente, affaticato e malato di febbre alta, probabilmente a causa di un’infezione intestinale trascurata, venne ricoverato nel sanatorio Santa Maria Ausiliatrice a Porto Ercole, dove morì a soli 38 anni, il 18 luglio 1610.

[2] Giuseppe Arcimboldo (Milano, 1527 – Milano, 1593) nacque da Biagio, pittore accreditato presso la Veneranda Fabbrica del Duomo e discendente da un ramo cadetto di un’aristocratica famiglia milanese. Presso la bottega paterna Giuseppe iniziò la sua attività artistica verso il 1549. Nel 1556 lavorò nel duomo di Monza, con un monumentale affresco nel transetto, rappresentante l’Albero di Iesse, realizzato in collaborazione con Giuseppe Meda. Nel 1558 fu impegnato nell’esecuzione di un cartone per un arazzo nella cattedrale di Como. L’episodio decisivo della vita e della carriera di Arcimboldo fu la sua partenza, nel 1562, alla volta di Vienna, invitato a corte da Massimiliano II d’Asburgo. A Vienna fu nominato pittore di corte, oltre che costumista, scenografo teatrale e architetto. A lui venivano affidati gli allestimenti per gli eventi mondani più importanti a corte. È in quegli anni che Arcimboldo realizzò due dei suoi cicli più celebri: Le stagioni (1563-1572) e I quattro elementi della cosmologia aristotelica (aria, fuoco, terra, acqua). I dipinti erano realizzati in modo che ognuna delle stagioni corrispondesse ad un diverso elemento, invitando l’osservatore ad una lettura simbolica dell’opera. Inutile dire che ognuno dei volti rappresentato nelle stagioni è formato da elementi naturali di quel periodo dell’anno (frutta, verdure, ortaggi), secondo uno schema ricorrente nell’universo simbolico di Arcimboldo. Alla morte di Massimiliano II (1576), ascese al trono il figlio Rodolfo II d’Asburgo, che volle con sé Arcimboldo quando trasferì la capitale dell’impero da Vienna a Praga nel 1583. Per il nuovo imperatore, Arcimboldo, oltre che come artista, fu impiegato anche come acquirente di opere d’arte. Alla corte imperiale, oltre alla fama artistica ed al benessere economico, Arcimboldo beneficiò di speciali onorificenze fino ad essere nominato da Rodolfo Conte Palatino. Nel 1587, ottenne il permesso di ritornare a Milano, dove morì nel luglio del 1593.

[3] Angelo di Costanzo (Napoli, 1507 circa – Napoli, novembre 1591) nacque da Alessandro, proprietario di diversi possedimenti nonché del castello e del feudo di Cantalupo, e da Roberta Sanframondo, figlia del conte di Cerreto. Nel 1527, per sfuggire alla peste in Napoli, si rifugiò insieme alle famiglie del Sannazzaro e del Poderico presso Somma rimanendovi fino al 1530 e legandosi in amicizia con i due poeti. Si dedicò agli studi e fu membro di numerose accademie. Ebbe importanti incarichi nella sua città. Nel 1540 fu bandito dal Viceré di Napoli Don Pedro de Toledo e si rifugiò nel suo feudo di Cantalupo, in provincia di Isernia; ritornò a Napoli nel 1549 e nel 1589 fu uno dei sei membri della magistratura napoletana. Scrisse versi latini e italiani. Dei carmi latini ne scrisse molti però soltanto dieci di essi sono giunti fino a noi. In italiano scrisse soprattutto dei sonetti, secondo il modello petrarchista di Pietro Bembo, molto lodati dai contemporanei per il loro carattere concettoso e ricercato e per la perfezione formale; piacquero pertanto sia ai marinisti del XVII secolo che agli arcadi del secolo successivo.

[4] Matteo Peregrini (Liano di Castel S. Pietro Bologna, 1595 – Roma, 1652) nacque da famiglia di certo non nobile: il padre Giovanni proveniva da Sassuno nei pressi di Monterenzio (Bologna); ebbe un fratello, Lorenzo, che fu fra i primi gazzettieri bolognesi, autore di pubblici avvisi usciti dal 1642 a Bologna. Laureatosi in filosofia presso lo Studio bolognese nel 1620, nello stesso anno, con una lettera di raccomandazione di Antonio Barberini (fratello del futuro papa Urbano VIII), ottenne la cattedra di logica nello Studio bolognese e la conservò per i successivi tre anni. Ricevette poi gli ordini sacri e si addottorò in teologia nel 1622. Divenne presto parte attiva della vivace vita intellettuale bolognese, entrando a far parte dell’Accademia dei Gelati e di quella della Notte, venendo così a contatto con i più insigni esponenti della cultura bolognese. Nel 1625 la famiglia Barberini chiamò Peregrini al suo servizio. Nonostante l’indubbio successo romano e la benevolenza dei Barberini, Peregrini nel 1637 lasciò Roma per Genova, dove riprese forse l’insegnamento di filosofia morale. A Genova Peregrini fu pure a servizio dei Doria e frequentò l’Accademia degli Addormentati entrando in rapporto con i letterati genovesi più insigni del momento. Nel 1649 tornò a Bologna dove ricoprì l’incarico di primo segretario del Senato bolognese. Riprese anche l’insegnamento accademico come professore di filosofia naturale, ma nel 1650, invitato tramite il cardinale Pallavicino a Roma per occupare il posto di vicebibliotecario della Vaticana, lasciò Bologna. Peregrini raggiunse l’apice della sua carriera come primo custode della Biblioteca apostolica Vaticana nel 1651 e morì a Roma nel 1652.

[5] Adone, VII, 37.

[6] Alberto Asor Rosa, La lirica del Seicento, Laterza, Bari, 1979, pag. 53.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL SEICENTO»

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