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Marco Michelini | 18 Aprile 2021

La pace di Cateau Cambresis stipulata nel 1559 tra il re di Spagna, Filippo II, ed il re di Francia, Enrico II, sancisce il predominio spagnolo sulla nostra penisola, che, dopo il periodo delle grandi illusioni rinascimentali, darà inizio ad un periodo parecchio buio, durante il quale la società italiana, fino ad allora ispirata dai principi umanistici, subirà un progressivo inaridimento culturale.

Successivamente, con la guerra dei trent’anni (1618-1648), inizia il tramonto della potenza della Spagna ed inizia l’ascesa della potenza francese. Per quanto riguarda l’Italia, tutto questo procede di pari passo non solo con il decadimento politico delle corti, che erano i veri e propri centri propulsori della vita sociale e culturale italiana, ma anche con un’ossequiosa dipendenza di ogni valore dall’autorità costituita, sia essa politica o religiosa. Non è, infatti, un caso, che la figura dell’eroe – emblema di una visione classica della vita, intesa nella sua dimensione di forza e di prestigio – venga a scadere al rango di puro bersaglio satirico (basti pensare alla diffusione del poema eroicomico nel Seicento), quasi che sia la ribellione di una società che non riconosce più – anzi, che rifiuta – il proprio passato, ma che resta, sospesa in una tormentosa inquietudine vitale, tragicamente del tutto all’oscuro degli sviluppi che il futuro le riserva.

«La prosperità italiana, che dipendeva dalla capacità di esportare manifatture, è gravemente intaccata dal collasso delle esportazioni dei tessuti serici a Genova, Venezia e altre città, e dal disinvestimento in quel settore. La produzione italiana di manifatture resistenti e pregiate decade per la tradizionalità dei prodotti (più leggeri, moderni sono quelli inglesi e olandesi) e per il prezzo eccessivo (dovuto alla pressione fiscale nei vari Stati italiani e al costo elevato del lavoro)»[1].

Il dinamismo tra le classi sociali, così vivo a partire dal Trecento, in questo secolo sembra arrestarsi; e sempre più profondo d’altra parte si fa il distacco tra la ricca nobiltà, ben protetta da una lunga serie di privilegi, e le masse che si impoveriscono sempre più, e restano costrette a recitare – sul palcoscenico del mondo – il ruolo di comparse che nulla possono contro i soprusi, annichilite dal potere statale ed ecclesiastico che li rende facili vittime di un clientelismo sfrenato.

«La Chiesa della controriforma si pone come egemone con la duplice funzione di organizzatrice degli intellettuali ecclesiastici (col ruolo di controllo su tutti gli aspetti della vita e della cultura) e di organismo di repressione dei movimenti di pensiero laici ed ecclesiastici accennanti a forme di autonomia, di libertà critica. I gesuiti esercitano soprattutto la prima funzione con l’insegnamento scolastico, con la predicazione, con l’architettura, col teatro pedagogico, con i compromessi culturali e i modi di dominio indiretto nei confronti della letteratura laica umanistica.

La macchina della Chiesa “triumphans” trova nei gesuiti un duttile meccanismo contro la manifestazione della coscienza critica individuale e in favore del conformismo. In quest’età la Chiesa si confonde sempre più con le classi dominanti. Il modo di esercitare l’egemonia indiretta sarebbe stato quello di non schierarsi con i potenti mentre l’allontanamento dalle masse popolari, la condanna di ogni espressione gioiosa popolare pongono già la Chiesa in quella funzione difensiva che sarà catastroficamente intaccata nel Settecento.

Le utopie, del resto, che nascono nel Seicento sono manifestazioni contrarie allo spirito della controriforma, si ricollegano al razionalismo socratico della Repubblica di Platone e riflettono, deformata, la condizione di instabilità e di ribellione latente nelle masse popolari di quell’età. Attraverso il programma politico dell’utopia, l’intellettuale si esprime come individuo organizzatore, proietta umanisticamente nell’ideale dell’ottimo Stato l’impossibilità della pratica politica di trovare un nesso tra intellettuali e popolo, precorre il giacobinismo e la Rivoluzione francese che pose fine alla controriforma.

Intanto nel Seicento la controriforma, come movimento reazionario di cui l’umanesimo formalistico e anazionale era stato una premessa, manifesta la sua efficacia con l’impedire in Italia lo sviluppo delle scienze (processi di Bruno, Galileo). La nascita di forze nuove è da essa isterilita, la Compagnia di Gesù accompagna il trionfo ma si tratta di una grandiosità diplomatica e repressiva che irrigidisce l’organismo ecclesiastico. La funzione del prelato non è quella del religioso democratico ma del politico della religione.

La controriforma non supera la crisi del Rinascimento, ne è il soffocamento autoritario e meccanico che ha come conseguenza la rottura fra Chiesa e democrazia (la Chiesa adopera come sostegno il braccio secolare contro eretici e luterani), la paura della morte e della vecchiaia»[2].

Ad uno sguardo superficiale il Seicento potrebbe dunque apparire come un secolo deludente ed anonimo, quasi un momento di pausa dopo il susseguirsi di confitti di ogni genere; ma, in realtà, bisogna riconoscere che, nel doloroso passaggio dalla concezione di vita rinascimentale, foriera di nuovi valori, al repentino oscurantismo della controriforma, si assiste ad dramma di un’epoca culturale che giunge al suo termine poiché messa in crisi non solo dalla mancanza di centralità delle corti, ma soprattutto da un rivolgimento economico che non aveva più nell’Europa il suo albero motore. È un secolo di ripensamento dove non mancano, sullo sfondo di un’apparente pacificazione politica, motivi di profondi contrasti, di vigorose reazioni contro la classe dirigente controriformista.

Campanella, Galilei, Sarpi Rappresentano i momenti più alti di queste tensioni, il punto di rottura Con una cultura priva di validi contenuti, Il disperato tentativo di riscatto di fronte ai soprusi della mistica di Stato. Alla perfezione dell’uomo rinascimentale Che nell’estrema razionalità delle strutture (si pensi per esempio all’architettura nella sua armonica e grandiosa austerità) assumeva una posizione centrale, quasi di dominio dell’universo, si contrappone la consapevole limitatezza e subordinazione dell’uomo seicentesco alle leggi naturali. La terra non è più il punto focale della dinamica spaziale, ma è relegata ai margini, immersa in un infinito che ne denuncia la provvisorietà.

In questo quadro di precarietà, che non è solo economica e sociale, ma esistenziale, si inseriscono voci contrastanti, espressioni di dissidi interni, di rancori sopiti, di velleità tradite. Il tutto giocato su un filo che non è più il vitalismo esuberante dell’io rinascimentale, ma il meditato – e a volte sarcasticamente amaro – distacco di chi avverte l’instabilità, l’inconsistenza di certi valori ed è preso nel vortice di questa crisi. Il tentativo di superare il senso di “smagliatura” nei riguardi dei valori passati determina una ricerca frenetica del nuovo assoluto, del “meraviglioso”, della varietà nel sensibile, tentativo che si risolve a volte in uno sperimentalismo esclusivamente tecnico di temi e di forme. Il contatto con civiltà sconosciute è quasi lo specchio di un’insoddisfazione che stimola a cercare nuovi sbocchi, nell’ansia di una pacificazione spirituale. Il viaggio – momento tipico del secolo – diventa l’emblema di uno spirito di ricerca che ha mutato indirizzo: dal l’introversione cinquecentesca di stampo classicheggiante all’attenzione per la natura, per le sue leggi, quasi una volontà di quantificare l’universo e di ridefinirne su basi più razionali gli itinerari. Perché è proprio il crollo delle antiche certezze che spinge l’uomo di questo secolo, consapevole dell’inganno del reale e della provvisorietà del mondo sensibile, a ricercare nella multiformità della natura nuovi momenti esistenziali.

Quindi, la civiltà barocca, «se nella sua più vistosa apparenza si offre essenzialmente sotto l’aspetto di una civiltà stilistica, si presenta poi nelle sue molteplici componenti come una totale interprestazione della vita, ponendosi, nelle più intime ragioni che la informano, come una dimensione spirituale, appunto, che sembra coinvolgere un contegno squisitamente religioso e filosofico. È una religione e una filosofia di crisi che troviamo alla base di questa cultura, nella quale si compone la sintesi rinascimentale e viene meno l’ottimistica visione dell’uomo e della natura, l’armoniosa concezione del rapporto fra lo spirito e il mondo. Mentre il mondo dilata i suoi confini geografici e astronomici e la natura modifica i suoi principi biologici e meccanici, mentre d’altra parte ritorna ad essere una presenza preoccupante Dio, o severamente custodito nelle complicate strutture analogiche della teologia cattolica e protestante o ineffabilmente allontanato negli abissi delle complesse esperienze mistiche, l’uomo entra in lotta per il possesso di questo mondo e di questo Dio, raffinando la sua scienza e la sua filologia, suscitando e perfezionando una tecnica per ogni campo del sapere, senza che, al di là dell’ormai impossibile equilibrio rinascimentale incentrato nei valori terrestri, gli sia concesso ritornare alla facile soluzione teocentrica medievale. Se la civiltà del medioevo trovava, nella sua sicura volontà di reductio ad unum, una sua direzione ben determinata in Dio trascendente, e se la cultura del rinascimento aveva nel principio dell’uomo autonomo, libero e creatore, il motivo fondamentale in cui trovano unità e spiegazione i suoi vari temi e atteggiamenti, la civiltà barocca al contrario non ha più una sua fede e una sua certezza. La sua unica fede è forse quella nella validità di una tecnica sempre più perfezionata. La sua unica certezza è nella coscienza dell’incertezza di tutte le cose, dell’instabilità del reale, delle ingannevoli parvenze delle cose, della relatività dei rapporti fra le cose stesse»[3].

Se per lungo tempo dunque – dall’Arcadia e dalle varie posizioni del razionalismo illuministico e del classicismo – venne negato al Barocco ogni valore, associandolo a cattivo gusto, vacuità e artificiosità, mancanza di dignità morale e formale, la sua rivalutazione, grazie all’apporto critico del simbolismo e dell’impressionismo del sec. XIX, ci mostra che sarebbe del tutto riduttivo giudicarlo all’ombra del sogno di grandezza rinascimentale. E per quanto il concetto tradizionalmente negativo del Barocco rimanga pur vivo nel Croce, che lo bocciava poiché, non obbedendo ad un principio di coerenza artistica, finiva per obbedire alla legge del comodo e del capriccio, la critica moderna concorda tuttavia nel rivendicare un concetto positivo o neutro di Barocco. Fermo restando il fatto che, nonostante il dibattito sul giudizio complessivo, il Seicento è tutt’ora uno dei secoli meno esplorati quanto all’accertamento dei dati concreti e delle ricerche specifiche.

*** Note al testo ***

[1] Antonio Piromalli, Società, intellettuali, controriforma nel Seicento, in La storia della letteratura italiana scritta da Antonio Piromalli, http://www.storiadellaletteratura.it/main.php?cap=10&par=1

[2] Antonio Piromalli, ibidem.

[3] Giovanni Getto, Proposte per un’interpretazione della civiltà barocca, in Il Barocco letterario in Italia, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2000, pag. 426-427.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «Appunti di Letteratura Italiana: Il Seicento»

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