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Marco Michelini | 10 Marzo 2021

Linea Biografica

Torquato tasso nacque a Sorrento l’11 marzo 1544, ultimo di tre figli (dopo Cornelia ed un omonimo fratello morto a pochi mesi nel 1542), da Porzia de’ Rossi, nobildonna napoletana di origini toscane, e da Bernardo, letterato e cortigiano nato a Venezia, ma di antica nobiltà bergamasca, segretario del principe di Salerno Ferrante Sanseverino. Nel 1550 la famiglia si trasferì a Napoli. Ma caduto il Sanseverino in disgrazia del Viceré, Bernardo dovette fuggire e perse ogni ricchezza. Furono anni difficili: la madre, sola con due figli, piangeva il marito lontano e in pericolo, e doveva difendere i propri averi dall’avidità dei fratelli che si rifiutavano di consegnarle la dote.

Nel 1554 Bernardo, con un sussidio del Sanseverino, si stabilì a Roma in un appartamento nel palazzo del cardinale Ippolito d’Este, dove Torquato lo raggiunse; la madre, invece, trattenuta a Napoli dai fratelli, morì due anni dopo (non senza il sospetto che questi l’avessero avvelenata per motivi di interesse). Tale sventura segnò un solco profondo nell’animo del fanciullo, come egli stesso ricorderà più tardi nella drammatica e appassionata canzone Al Metauro. A Roma Tasso proseguì privatamente gli studi insieme al cugino di secondo grado Cristoforo, giunto da Bergamo, con cui restò anche in seguito in buoni rapporti.

Nel settembre del 1556, preoccupato della paventata invasione di Roma da parte degli spagnoli per il dissidio scoppiato tra Filippo II e Paolo IV, Bernardo mandò Torquato a Bergamo presso alcuni parenti e si rifugiò presso la corte urbinate di Guidobaldo II Della Rovere, dove fu raggiunto dal figlio pochi mesi dopo. Alla corte dei Della rovere Torquato trascorse due anni, divenendo compagno del principe Francesco Maria[1], che aveva otto anni, e in quell’ambiente di sfarzo e raffinatezza egli maturò elementi fondamentali non solo della sua biografia, ma addirittura della sua formazione psicologica e culturale, avviandosi a divenire quel tipo di perfetto cortigiano che era stato vagheggiato dal Castiglione: brillante nelle virtù cavalleresche, ricco di cultura artistica e letteraria, colto conversatore mondano. Bernardo era – come s’è detto – un letterato d’un certo pregio, e a Venezia, dove si era trasferito nel 1559, completava, appunto, il suo poema, l’Amadigi, mentre guidava il figlio, che lo aveva raggiunto, nelle sue prime esperienze poetiche.

Nel novembre del 1560, per volontà paterna, iniziò a Padova gli studi di legge, ma con scarso interesse, passando ben presto a quelli di eloquenza e filosofia; conobbe allora alcuni celebri maestri, come il Sigonio[2], che rimarrà un modello costante per le dissertazioni teoriche tassesche future, e Sperone Speroni. Furono comunque tempi felici: nell’allegria della vita studentesca il giovane Tasso brillava per le sue doti fisiche e per le sue qualità intellettuali. Strinse allora amicizia con Scipione Gonzaga[3] e fu accolto nella sua Accademia degli Eterei, ritrovo di seguaci dello Speroni che miravano alla perfezione della forma, non senza scadere nell’artificiosità. A diciassette anni si innamorò della quindicenne Lucrezia Bendidio, bellissima giovinetta della corte estense, per la quale scrisse varie poesie petrarcheggianti; ma si trattò di un amore essenzialmente letterario. Pubblicò frattanto, nel 1562, il suo primo romanzo cavalleresco, il Rinaldo. Continuò a studiare a Padova e fu per un anno a Bologna, da dove dovette però fuggire perché accusato di essere l’autore di un testo che attaccava pesantemente, con una satira sferzante, alcuni studenti e professori dello Studio. Nel 1564 a Mantova ebbe un nuovo amore, forse per Laura Peperara, figlia di ricchi mercanti.

Nell’ottobre 1565 giunse a Ferrara in occasione del secondo matrimonio del duca Alfonso II d’Este, uomo dotato di buona cultura, che teneva alla sua corte illustri ingegni. Il Tasso fu assunto alla corte personale del fratello del duca, il cardinale Luigi d’Este[4]. Furono ancora anni sereni: incominciava a ottenere i primi successi leggendo in corte i suoi versi, accolto nell’amicizia delle famiglie più illustri; obblighi particolari di lavoro non ne aveva, salvo quello di scrivere il poema che aveva promesso: il Gierusalemme, iniziato probabilmente a Venezia, sospeso durante gli studi padovani, e ora ripreso appunto a Ferrara, con l’ausilio della biblioteca estense, così ricca di poemi cavallereschi.

Nel settembre del 1569, Bernardo Tasso morì ad Ostiglia, dove svolgeva un incarico per i Gonzaga. La scomparsa del padre costituì un grave colpo per l’animo del poeta, che con lui perdeva l’unica persona che avesse veramente amato in tutta la vita; colui che, anche se uomo sfortunato, gli era sempre stato di affettuosa guida e di nobile esempio. Durante la malattia, Torquato lo assistette con cura, tanto che a causa delle veglie e delle preoccupazioni, fu, come egli stesso dice, assalito «da una fastidiosa malattia». Da allora cominciò anche quella balbuzie di cui prima non si hanno notizie.

Nell’ottobre del 1570 partì per la Francia, con altri cortigiani, al seguito di Luigi d’Este, intenzionato a regolare una serie di questioni economiche. Il soggiorno transalpino fu di sei mesi, ma, siccome il cardinale aveva messo a disposizione del poeta poco denaro, questi trascorse il periodo francese sostanzialmente nell’ombra. Deluso e insoddisfatto, si licenziò: prima manifestazione di quel sentimento di inquietudine e di incontentabilità che si farà via via sempre più esasperante. Sprando in una migliore fortuna, scese a Roma a servizio del cardinale Ippolito II d’Este[5]; ma, deluso anche da questi, decise di risalire la penisola, facendosi ospitare per qualche tempo ad Urbino da Francesco Maria II Della Rovere. Entrato nel 1572 al servizio del duca AlfonsoII, anche qui senza obblighi particolari, nel 1573 portò a termine l’Aminta, favola pastorale che venne recitata nel palazzo estense dell’isola di Belvedere. L’opera ebbe grande successo, e cominciarono da allora a circolarne molte copie manoscritte.

Il 1575 fu l’anno fondamentale: la Gerusalemme era ormai terminata. Ma proprio da questo momento cominciò una nuova drammatica epoca nella vita del poeta: mali fisici lo tormentavano, il carattere divenne sempre più inquieto e turbato, si iniziarono a scorgere i primi segni di un grave squilibrio psichico. Inoltre, tutto preso da scrupoli religiosi e letterari sottopose il suo capolavoro a ogni sorta di revisori (tra i più autorevoli vi fu Sperone Speroni); anzi, temendo di essere addirittura eretico si fece esaminare dagli inquisitori di Ferrara e Bologna; sebbene assolto, non fu soddisfatto; era preda di nuove ossessioni e a mania di persecuzione, credeva nell’arte magica, aveva principi di allucinazione, vedeva eretici in tutta la corte e ne fece i nomi all’Inquisitore. Ciononostante lavorò con energia alla revisione del poema e scrisse lunghe lettere di discussione. Il carnevale del 1577 fu l’ultima stagione di felicità. In una sera del mese di giugno, mentre parlava dei suoi travagli con la sorella del duca Alfonso, assalì con un coltello un servo che, di nascosto, osservava il suo comportamento. Fu allora rinchiuso in una specie di prigione per alcuni giorni, poi liberato ma tenuto sotto sorveglianza. Cominciò anche ad avere l’ossessione di essere avvelenato. Fuggì allora da Ferrara e con un faticoso percorso arrivò a Napoli dalla sorella; qui, segno di un morboso desiderio d’affetto, si presentò a Cornelia travestito da pastore e annunciandole la propria morte, così da vedere la sua reazione, e svelandole la sua vera identità solo dopo aver osservato la reazione realmente addolorata della donna. Dopo una breve serenità, venne ripreso dall’inquietudine e dall’ansia dei viaggi: Roma, Ferrara, Mantova, Padova, Venezia, Pesaro; infine si recò a Torino, in un viaggio stremante, «a piedi, per fanghi e per acque, soffrendo nel corpo e nell’anima», ove venne alloggiato in casa del genero di Emanuele Filiberto.

Ma ovunque andasse non trovava pace. Ogni volta che giungeva in un luogo nuovo gli sembrava di migliorare; poi, placatosi per breve tempo il tormento interiore, la vicenda ricominciava da capo. Da Torino decise di tornare a Ferrara e vi giunge mentre fervevano i preparativi per le nozze di Alfonso con Margherita Gonzaga. In questa atmosfera di allegria si sentì solo e trascurato (in realtà era stato accolto con tutti i riguardi). Prigioniero della sua solitudine avvertì quel clima di festa sontuosa come un mondo a lui estraneo e ostile. Così in una sera del febbraio 1579 diede in escandescenze ed esplose in ingiurie contro gli Estensi nelle anticamere del palazzo ducale. Venne allora condotto all’ospedale di S. Anna e legato in una cella come pazzo furioso. Il trattamento in seguito divenne migliore; si cercò di lenire le sue sofferenze; poté ricevere visite e compiere passeggiate, ma doveva essere accompagnato, perché ogni tanto era preso da crisi di furore. Approfittando allora della situazione, il Malespini[6] pubblicò a Venezia il poema in edizione incompleta e scorretta, con il titolo di Goffredo, edizione dalla quale sono espunti sei canti, per i quali è presentato solo un riassunto in prosa. Seguirono l’edizione di Angelo Ingegneri, che, di sua iniziativa, lo intitolò Gerusalemme Liberata (il Tasso ne fu irritato perché voleva che il titolo fosse corretto in Conquistata) e le edizioni del Bonnà. Il libro ebbe un successo immenso. Uscivano frattanto l’Aminta, un certo numero di Rime e, due anni dopo, la tragedia Galealto re di Norvegia e ancora Rime e Prose.

Torquato scriveva nel frattempo a tutti i principi e signori di sua conoscenza, affinché lo liberassero dalla sua «prigione». In realtà si temeva che la libertà potesse nuocere più che giovare alla sua incerta salute mentale. Bisogna inoltre considerare che Ferrara era stata per un certo tempo il centro dei Riformatori in Italia. La stessa Renata d’Este, cacciata in esilio, seguiva le dottrine calviniste; con grande ira del figlio Alfonso, che, privo di eredi, doveva ottenere dal Papa il diritto alla successione per il cugino Cesare, affinché Ferrara non ritornasse alla Chiesa, come suo legittimo feudo. Perciò il duca Alfonso, probabilmente, era preoccupato della continua mania del Tasso di vedere eretici in tutta la corte, e al tempo stesso aveva bisogno che tutti si convincessero che il poeta era uno squilibrato, le cui denunce erano prive di senso. Né, d’altra parte, è da escludere che fosse geloso, giacché il Tasso voleva passare al servizio di qualche altra corte (tra cui i Medici, avversi agli Estensi). La fama del poeta frattanto cresceva, tanto che Elisabetta d’Inghilterra chiese notizie di lui. Si diffuse all’estero la leggenda di un Tasso pazzo d’amore per una dama di alto lignaggio. Va notato, comunque, che nonostante tutte queste sofferenze continuava a poetare e scrivere, sia pure ad intervalli. Nel 1585 scoppiò la violenta polemica Furioso-Gerusalemme, che aggiungendosi alle precedenti critiche esasperò ancor più l’animo del poeta; egli rispose ai detrattori con la sua Apologia. Finalmente nel luglio 1586 Angelo Grillo (un frate che gli fu di molto conforto spirituale) e Vincenzo Gonzaga[7], cognato del duca Alfonso, ottennero che fosse trasferito a Mantova. Era la liberazione attesa da sette anni. Ma anche a Mantova, dopo un breve entusiasmo, ricadde in preda ai suoi mali: malinconia e perdita della memoria, causate, com’egli stesso diceva, da «frenesia». Lavorò, tuttavia, con molta intensità fra il 1586 e il 1587. Ripreso dall’inquietudine andò a Bergamo, poi di nuovo a Mantova, poi a Roma presso l’antico amico Scipione Gonzaga.

Gli ultimi anni, trascorsi fra Roma e Napoli, divennero sempre più dolorosi, ma non fecero cessare in lui l’ambizione e la mania di grandezza. Avrebbe voluto che Napoli lo mantenesse a spese pubbliche e accentuò sempre più la sua funzione di poeta encomiastico. Poi pensò agli onori ecclesiastici e sperò di essere introdotto presso il papa. Nel 1588 si recò a Napoli (anche nella speranza di recuperare la dote materna), accolto da due generosi signori che lo ammiravano grandemente: Giovanni Battista Manso[8] e Matteo di Capua[9]. Tuttavia all’ospitalità che tutta la nobiltà napoletana voleva offrirgli, Torquato preferì accettare l’accoglienza di un convento di frati olivetani, per i quali, come ringraziamento, scrisse il poemetto Monte Oliveto, rimasto incompiuto. Tornato a Roma ne scrisse un altro: il Rogo amoroso; preparò tre libri di Rime, mentre vagheggiava la ristampa di tutte le sue opere rivedute e corrette. Nel 1590 venne ricevuto a Firenze con grande onore dai Medici; poi tornò a Napoli, dove scrisse il Mondo creato e compone madrigali per musica. Ma era sempre inquieto e insoddisfatto; a soli quarantotto anni si sentiva ormai «carico d’anni e d’ingiurie e con animo pieno di vana speranza». Nel 1593 fu infine ospite nel palazzo pontificio dai cardinali Pietro[10] e Cinzio Aldobrandini[11]; e qui pubblicò la Conquistata, dedicandola al cardinale Cinzio (questi in cambio gli promise la solenne incoronazione a poeta in Campidoglio). Ma il rifacimento del poema non ebbe successo e costituì una nuova delusione per il poeta, ormai è bramoso solo di quiete e meditazione spirituale; perciò in questi ultimi anni cercò rifugio e conforto nei conventi olivetani. Sperò ancora di ottenere il perdono di Alfonso, per poter andare a morire in quella Ferrara che era stato il luogo felice della sua giovinezza. Ma nella primavera del 1595, mentre si stava ormai preparando l’incoronazione, la sua salute si aggravò: la vecchia ossessione di essere avvelenato gli fu probabilmente fatale, perché facendo il Tasso continuo uso di antidoti, finì per intossicare davvero un corpo ormai stremato fisicamente e psichicamente. Nell’imminenza della morte chiese di essere trasportato nel monastero di S. Onofrio sul Gianicolo per dedicarsi alla preghiera. Si dice che quando fu avvertito della gravità del suo male, sia apparso completamente rinsavito e liberato dalle ossessioni. Il 25 aprile di quell’anno morì, rivelatisi vani tutti i tentativi del cardinale Cinzio per salvarlo. Gli furono rese solenni onoranze.

La vita del Tasso è stata oggetto, lungo i secoli, di interpretazioni più o meno fantastiche e appassionate. La leggenda di un Tasso pazzo per amore, diffusasi in Francia e Inghilterra ancora vivente il poeta, fu tosto ripresa in Italia agli inizi del Seicento dai suoi primi biografi, per culminare in maniera esemplare (salvo qualche contrastante voce settecentesca) nel periodo del Romanticismo, così incline a vedere nelle sofferenze tassiane l’espressione del poeta vittima di una società meschina, che opprime il genio e ne conculca l’aspirazione a più libere forme di vita (il Tasso sarebbe stato perseguitato dal duca Alfonso non già per la sua cosiddetta pazzia, ma perché innamorato di Eleonora d’Este[12]). Goethe scrisse addirittura un dramma sul nostro poeta, e numerosi romantici si appassionarono alla figura del Tasso per quell’intenso rapporto vita-poesia che, canone dell’estetica romantica, sembrava appunto ritrovare nel tormentato poeta del Cinquecento una sua vibrante e drammatica manifestazione. Nell’età positivistica, invece, critici e studiosi si dedicarono, con gusto del patologico e pedantesca minuzia, a ricostruirne le fasi della vita per metterne in luce le incertezze e le miserie umane. Oggi la critica si sforza di non mitizzare più la figura patetica e tragica dell’uomo, bensì di coglierne quegli elementi che servano meglio a chiarire il significato della sua poesia e a collocare in una più esatta prospettiva storica questa travagliata figura di letterato.

Il Tasso può essere considerato come la vittima di quella crisi del Rinascimento che, iniziatasi dopo l’Ariosto, si svolge appunto lungo l’intero arco della sua vita. «Tra la stabilità ariostesca e l’instabilità tassiana corre, infatti, la storia intensa e spesso convulsa del tramonto rinascimentale, quando le sorti politiche italiane apparvero ormai avvolte da una triste ombra d’irreparabile sconfitta e si venne facendo sempre più avvertibile il declinare dello slancio attivo e fiducioso che aveva animato la civiltà italiana fino a quel momento, mentre uno stato d’animo inquieto e sbigottito andò subentrando alla sicurezza energica e vigorosa che per un secolo aveva alimentato, negli uomini di Stato e negli scrittori, generose speranze e magnanimi desideri»[13]. Le ombre dell’Inquisizione, della Controriforma, del conformismo legalitario, le acerbe polemiche di una cultura in declino, che, consumato sino in fondo lo slancio innovativo dell’Umanesimo, e incerta sulle nuove vie d’espressione, si volgeva indietro, verso un passato ormai privo di fiamme, per morire nel conservatorismo e spegnersi negli oziosi dibattiti delle accademie pedanti; tutto questo fu l’ambiente storico‑culturale di cui il Tasso venne a trovarsi al centro e di cui si fece dilacerato e sconvolto interprete, nello sforzo drammatico di aprirsi la strada verso quella suprema sintesi di storia e di libertà che è la creazione poetica. Di fronte a questi ardui problemi il Tasso credette di poter trovare una istintiva soluzione, culturale ed esistenziale, in quel mito della corte che in altri tempi aveva generato concordia di uomini e vitalità di artisti. Ma il Tasso «non aveva il temperamento del cortigiano: non ne aveva la vocazione, ma soprattutto non ne aveva la cattiveria, né tanto meno la capacità d’intrigo e la assoluta mancanza di scrupoli. Gli mancavano anche le doti tipiche di un cortigiano, che invece aveva avuto in larga misura suo padre: il senso della fedeltà, l’abilità diplomatica, la pazienza, la tempestività. Non era dotato di umorismo, non sapeva stare allo scherzo, non sapeva sorridere e far sorridere, tutte cose fondamentali per un cortigiano. Nonostante le apparenze contrarie, gli mancava perfino il servilismo, o almeno gli mancava in forma continuata, perché passava da manifestazioni di eccessiva e avvilente piaggeria a certe improvvise impennate d’orgoglio, che non dovevano riuscire molto gradite ai suoi padroni. E se anche si sprecava sempre, ad ogni occasione, a scriver poesie celebrative per i suoi signori, i loro parenti, i loro amici, le loro amanti, e finanche per i loro ospiti di passaggio, con questo dimostra di essere un elogiatore, non certo un uomo di corte, per il quale sono richieste un’infinità di doti che il Tasso non possedeva nemmeno in piccola parte. Era un abile, a volte altissimo poeta, e basta»[14].

Egli sicuramente volle, in certo modo, essere il cantore di quel mondo ideale, quale se lo era figurato durante «nel suo primo soggiorno urbinate, fondendo insieme gli esempi di perfezione che gli fornivano il mondo classico e le recenti suggestioni letterarie della trattatistica cortigiana; e a questo luogo si rivolse con animo confidente riponendo in esso tutte le sue speranze. Non è chi non vede la eccentricità d’una siffatta aspirazione rispetto alle obbiettive condizioni storiche degli stati italiani e particolarmente della corte ferrarese, incerta e malsicura, avviata verso un inevitabile declino che cercava di nascondere dietro le apparenze della eleganza dignitosa e delle amabili creanze. La generale decadenza era acuita in Ferrara dalla sopravvenuta crisi economica, dalla precaria situazione politica, dal tono equivoco della sua vita culturale da tempo insidiata nelle sue libere manifestazioni dalla presenza attiva del tribunale dell’Inquisizione che aveva già provocato la dissoluzione del vivacissimo circolo di Renata di Francia e aveva disperso per l’Ruropa gli “ertici” ferraresi e non ferraresi. Le feste e gli spettacoli, le sottili dispute letterarie, costituivano l’ultimo lusso d’un mondo al tramonto, mentre dietro l’aurea facciata la diffidenza e il sospetto, l’invidia e la gelosia, ma soprattutto l’abile dissimulazione e il gioco diplomatico avevano corrotto l’ambiente cortigiano creando un’atmosfera ambigua in cui serpeggiavano, contrastando tra loro, residui fuochi dell’originaria sensualità, ricca e animosa, e tortuose preoccupazioni e meschine ipocrisie»[15]. Per cui questo mondo ingannevole, falso, illusorio nelle sue manifestazioni di vita superficiali e brillanti, lungi dall’offrire un’autentica soluzione ai problemi psicologici e culturali del Tasso, li esasperava, accentuando quell’intimo senso di solitudine e di malinconia che travagliava il suo animo.

Ciò nonostante, la prima parte della vita del Tasso, quella cioè della sua fondamentale formazione biografica e spirituale, che iniziatasi all’età di dodici/tredici anni durerà circa un ventennio, comporta ancora una concezione della vita fiduciosa e serena, esuberante e ottimistica: la sua personalità ci appare psicologicamente robusta ed equilibrata, feconda di costruttive soluzioni sul piano poetico. Il vero dramma, umano e artistico, ha inizio in quel fatidico 1575. I due maggiori capolavori sono ormai compiuti e hanno dato un suggello definitivo al mondo spirituale del Tasso. Da questo momento assistiamo al disgregarsi di una personalità che ha retto sino al limite estremo del traguardo raggiunto, e che ora esplode in tutte le sue incertezze e contraddizioni, e ritorna sui suoi passi continuamente con l’animo di chi ha smarrito la strada, tentando di aggrapparsi, idealmente e materialmente, a quel mondo di corte con cui un tempo era riuscito a stabilire un rapporto, precario sì ma pur sempre in qualche modo felice. E allora lo ricerca, questo mondo, questo rapporto, di città in città, peregrinando fra le nebbie di un’immaginazione sconvolta che sempre più deforma la realtà effettuale, in un sentimento di crisi e sgretolamento, che rende più disperata e rabbiosa la reazione psicologica; in una ostinazione pervicace della volontà, che naviga ormai tempestosa fra i relitti di una idealità e di una giovinezza scomparse. Di qui l’ansia ossessiva dei viaggi, la ricerca di un’impossibile sede in cui placare i tumulti dell’anima. Lo stesso mito dell’Accademia, così connaturato alla sensibilità del Tasso (l’accademia come centro ideale di dibattiti letterari e culturali, svolti secondo un preciso cerimoniale di regole intellettuali codificate dalla lunga tradizione umanistica), si rivolta contro il poeta, diventa disperazione e tormento nella travagliata vicenda della revisione della Gerusalemme. E allora corregge e ricorregge il poema; si illude di poter trovare nuovi orizzonti creativi; si rifugia nel meschino espediente della poesia encomiastica; tenta più nobili, ma superficiali, vie di consolazione religiosa, spera nei fastigi di una Chiesa, controriformisticamente sempre più in auge: ma invano, poiché si aggira ormai in un mondo che non gli appartiene, trascinandosi dietro, fra ombre e fantasmi, la sua solitudine, mentre il trascorrer degli anni indebolisce le forze reattive ed esaspera la scissione fra realtà e mito.

Sia ben chiaro: fra i due periodi della vita non è che vi sia né assurda contraddizione, né insanabile iato; al contrario, c’è unità rigorosa di impostazione e di ricerca vitale; soltanto che col 1575 quelle ambiguità latenti che l’impeto baldanzoso della giovinezza aveva saputo vigorosamente domare, ecco che a poco a poco emergono con prepotenza tanto maggiore quanto più sottinteso ed implicito era stato lo sforzo per sgominare e vincere le inconsce tensioni dell’anima. Ma quel 1575 rimane il segno di una vittoria sia sul piano artistico che umano, suggella un trionfo, dinanzi a cui si redimono e si esaltano le lotte della vita, le tormentate vicende dello spirito. Per chi ponga mente a questo culmine raggiunto (e non voglia fare del moralismo vacuo), sarà allora evidente che i successivi venti anni della vita del Tasso acquistano un rilievo altamente significativo (e tanto più doloroso e drammatico), perché gettano un imprevedibile fascio di luce, che illumina retrospettivamente, sin nei minimi particolari, la stremata tensione della ricerca, il travaglio supremo sofferto in difesa di quei valori e di quegli ideali che dovevano essere lo strumento e la sostanza dell’ultima grande costruzione artistica della letteratura italiana prima della sconvolgente rivoluzione romantica.

 

Le Rime

Vastissima è la produzione lirica del Tasso. Il poeta vi si dedicò sin dai primi anni della giovinezza, e già nel 1567 aveva pubblicato a Padova alcune poesie nelle Rime degli Accademici Eterei (l’Accademia di Scipione Gonzaga di cui il Tasso faceva parte). Ma solo dopo il 1580 cominciò a raccogliere e rielaborare le precedenti liriche per procedere alla loro pubblicazione organica. Una Prima parte di rime uscì infatti a Mantova nel 1591 e una Seconda parte due anni dopo a Brescia; negli ultimi anni il Tasso vagheggiava nuove e più complete edizioni delle Rime, ma il progetto non fu attuato causa la morte.

Il Tasso suddivise egli stesso la sua lirica in tre grandi gruppi: amorosa, enco-miastica, sacra. Le ultime due sezioni costituiscono la parte più scadente; quella sacra, in particolare, fu scritta soprattutto negli anni estremi, quando il Tasso fu preso dal desiderio (o dalla velleità) di dedicarsi alla meditazione religiosa; anche la poesia amorosa, tuttavia, non perviene, nel suo complesso, a risultati veramente convincenti, e rimane un fatto piuttosto episodico. Tutta questa sterminata attività poetica costituisce troppo spesso nell’esercizio letterario del Tasso, una vera e propria sorta di “mestiere” a cui il poeta si sente chiamato nella sua qualità di cortigiano e di artista, che, nella corte appunto, svolge una funzione ben precisa. Morti, matrimoni, battesimi, feste, ricorrenze onomastiche o encomiastiche, o ancora altri più o meno importanti fatterèlli della vita dei principi, delle dame, dei signori delle corti cinquecentesche offrono al Tasso lo spunto occasionale per tenere continuamente desta la sua attività di rimatore espertissimo e per cercare di ottenere, al tempo stesso, simpatia e favori dai nobili destinatari di tali poesie. Rer meglio intendere questo atteggiamento encomiastico e celebrativo che pervade continuamente le Rime giova ricordare la giusta osservazione del Getto, secondo il quale l’encomio non trova, nel Tasso, la propria giustificazione come “moda” imposta dalla società contemporanea o da una suggestione letteraria, ma piuttosto come “categoria dello spirito”, come “forma artistica” necessaria alla sua sensibilità. La stessa lirica d’amore tassiana, lungi dal maturare all’interno di una spumeggiante storia amorosa, si concretizza e si compiace nell’atto tutto esteriore del corteggiamento, da cui traggono origine tutta una serie di complimenti e omaggi alla donna. Persino la poesia religiosa si configura come una forma di encomio, che nulla ha a che vedere con una dolce o sofferta vicenda interiore, ma che si esaurisce in lodi alla divinità o ai santi.

Comunque, nelle poesie amorose – di cui una parte è dedicata ai suoi due grandi amori platonico‑letterari, Lucrezia Bendidio e Laura Peperara – il Tasso riesce ad esprimere, sia pur in modo frammentario, un sentimento poetico inscritto nelle forme e nelle linee di un paesaggio di estrema nitidezza visiva, di «una dolcezza musicale e sentimentale che variamente si attua nei sonetti e nelle canzoni, mentre nella breve e armoniosa linea vibrante degli originalissimi madrigali più direttamente si espande e si contiene un sentimento amoroso più morbido, fra inebriato ed elegiaco, fra tenero e melodico, aperto a notazioni luminose e molli di paesaggio, a paragoni concettosi e pur mai aridi e freddi, svolti in flessibili linee musicali, rafforzate da abilissimi e sapienti ricorsi di rime, di assonanze, di echi e di pause suggestive»[16].

Ma se pure le Rime del Tasso si presentano per lo più deboli da un punto di vista strettamente poetico, esse raggiungono livelli altissimi da un punto di vista tecnico, poiché pur inserendosi all’interno della tradizione petrarchesca presentano quella “sontuosità” dello stile che è del Della Casa, in cui «i versi spezzati, che entrano l’uno nell’altro, fanno il parlar magnifico e sublime». I virtuosismi che l’espertissimo artista profonde nelle canzoni, nei sonetti e nei madrigali fanno sì che la parola, pur gonfia di cultura, abbia «la freschezza e l’ardimento di una sensibilità nuova e insieme il peso e la ricchezza degli anni e della tradizione»[17]. La retorica preziosa, il linguaggio compiaciuto di antitesi e ripetizioni e interrogazioni, di personificazioni e metafore e allegorie, di giochi verbali e concetti e acutezze, s’arricchisce di uno splendore decorativo che si innesta intimamente e si fonde alla grazia dolce e melodica dell’idillio poetico.

D’altra parte, se l’attività lirica del Tasso costituisce il punto conclusivo e riassuntivo di tutta la precedente esperienza petrarchesca, segna al tempo stesso una nuova linea di demarcazione nella nostra storia letteraria: a partire dal Seicento il Tasso costituirà (insieme al Petrarca) il nuovo grande modello della lirica d’amore, e tale influsso si estenderà fino al Foscolo, al Leopardi, al Carducci. Si tratta di un consenso che è venuto meno solo nel Novecento, e ciò sia per le mutate direzioni del gusto letterario non più incline a un certo tipo di poesia sentimentale sia, soprattutto, per il definitivo tramonto di quella particolare retorica formale che era legata alla tradizione del petrarchismo.

 

L’Aminta

L’Aminta è una favola pastorale preceduta da un prologo e suddivisa in cinque atti, inframmezzati da cori e intermezzi. Composta nel 1573, fu rappresentata in quello stesso anno durante una festa alla corte estense. Essa trae le sue origini letterarie dalla ricca tradizione bucolico‑pastorale dei poeti latini e greci, ritornata in auge nel Quattrocento (si pensi anche solo all’Arcadia del Sannazaro). Proprio il genere della favola pastorale, secondo gli schemi ormai elaborati da questa antichissima tradizione, offriva in maniera esemplare l’occasione di fondere due tendenze in se stesse contrastanti, ma nel Tasso miranti alla conciliazione, cioè la vocazione lirica e il gusto dell’intreccio narrativo. La sensibilità lirico‑musicale del Tasso, infatti, non si disgiunge mai (nelle opere maggiori) dall’aspirazione a concretizzare in figure di personaggi in azione l’intimità sognante del proprio mondo sentimentale.

Ma l’azione, secondo la tradizione del teatro classico, vive, nell’Aminta, soprattutto attraverso la narrazione ed evocazione di scene ed eventi attuata nel dialogo dei personaggi e resa vibrante grazie, appunto, alla liricizzazione del dettato stesso. La debole trama a lieto fine narra la storia del pastore Aminta innamorato della ninfa Silvia, tanto belle quanto sdegnosa, che egli salva dal brutale assalto di un satiro che vuole abusarne. Per la sua azione il pastore non ottiene la ricompensa sperata, cioè l’amore di Silvia. Ma allorché si diffonde la falsa notizia della morte della ninfa sbranata da un lupo, Aminta per togliersi la vita si getta da una rupe; il cuore di Silvia viene in tal modo vinto dalla compassione e dall’amore, ed ella acconsente a divenire la sposa del pastore, uscito illeso dalla caduta nel dirupo. Tuttavia, «questa tenue e gracile trama è tutta pervasa dalla schietta liricità idillica e sensuale del Tasso, che crea intorno ad essa un’atmosfera incantata e sognante, sfumata e melodica, e la riempie di quadri perfetti e patetico‑sensuali (quello del bacio che Aminta riesce a carpire a Silvia con un ingenuo inganno, o quello della bella ninfa legata nuda ad un albero dal satiro che si prepara ad abusarne, o quello di Silvia che si specchia nelle acque di un lago e si sorprende attratta e affascinata dalla propria bellezza), di parlate e di cori che più musicalmente espandono, in un giuoco altissimo di ritmi e di toni ottenuti nell’intreccio di endecasillabi e settenari, il profondo anelito al piacere e all’evasione in un sogno fuori della storia e della realtà»[18].

Le reminiscenze letterarie forniscono al Tasso non soltanto spunti, immagini e colori, ma anche un linguaggio che, pur essendo frutto di una sapiente elaborazione letteraria, perviene a risultati musicali di estrema limpidezza e comunicatività. Così, persino quella che, nel complesso, potrebbe sembrare una certa fragilità contenutistica, si sostiene proprio su una capacità inesauribile di canto che non viene mai meno. Proprio per questo timbro musicale così omogeneo e compatto, l’Aminta è, sotto certi aspetti, un punto fondamentale di riferimento nella nostra raffinata storia letteraria: perché mentre da un lato porta a conclusione quell’arte letteratissima del Quattrocento che va dalle Stanze del Poliziano all’Arcadia del Sannazaro, d’altra parte, mediante questo “parlato”, già apre le nuove vie alla musicalità sentimentale e ariosa del melodramma arcadico‑settecentesco.

L’Aminta nasce da un incontro di svariati elementi compositivi: suggestioni della tradizione letteraria e motivi attinti dalla civiltà cortigiana; senso di edonismo diffuso e purezza di sentimenti originari; impulsi di quasi anarchica libertà e ricerca di rigorosissimo stile; spontaneità e artificio; nostalgia vitale per un mitico mondo perduto e gusto talora un po’ decorativo con sfumature di tono madrigalesco. Sospesa su un equilibrio raro di tecnica poetica e di gioco di società, al sogno idillico, filtrato dalla tradizione, si unisce – nell’Aminta – una trama maliziosa e sottile di allusioni a quella vita cortigiana decaduta e raffinata. «Quasi in ognuno dei personaggi della favola è possibile riconoscere un personaggio reale della corte: Tirsi, l’amico e consigliere di Aminta, già pazzo d’amore per Licori, ma ora scettico e inteso soltanto a cercare il piacere spoglio d’ogni amarezza, riflette l’esperienza, o almeno un momento particolare dell’esperienza, di Torquato stesso; ma qualcosa di Torquato è pure in Aminta, nella sua passione struggente e non ricambiata; Licori, con la sua civetteria e la sua crudeltà, è Lucrezia Bendidio; Elpino, il vecchio saggio, innamorato anche lui di Licori, è il Pigna; Batto, il “gran maestro d’amore”, è il Guarini; Mopso, il censore velenoso ed ipocrita, è forse lo speroni o qualche altro pedante della sua risma. Altre allusioni, che oggi ci sfuggono, dovevano essere chiare agli uditori e lettori contemporanei. L’atmosfera idillica, l’aura di preziosità letteraria, gli ammiccamenti e le allegorie cortigianesche non valgono tuttavia, nonché a distruggere, neppure ad incrinare la poesia della favola, sì se mai a conferirle un suo tono singolare e caratteristico di una certa civiltà e di un certo comportamento poetico. A ben guardare anche le allusioni al mondo della corte diventan qui lo strumento per la rappresentazione di un mondo interiore e si risolvono in una forma di autobiografia letteraria; e l’idillio, e la letteratura che naturalmente l’accompagna, si piegano alla lor volta agevolmente alle esigenze di un’ispirazione poetica essenzialmente riflessa e tutta intrisa di coscienza critica e di una psicologia che ama rivolgersi su se stessa e vagheggiare il suo sottile tormento. L’Aminta è, in questo senso, l’dealizzazione della vita cortigiana, con la sua civiltà, la sua cultura, la sua raffinata sensibilità, proiettate in un mondo mitico, dove vivono alleggerite e purificate d’ogni scoria terrestre e dolorosa, ridotte a una trama di sentimenti delicati e gentili, fra cui s’accampa e domina l’amore, sentito ed esaltato in tutti i suoi aspetti, dalla nota acuta della voluttà al blando e disilluso epicureismo, fino al languore sospiroso e nostalgico dell’animo nobile e raffinato, che si chiude nel suo desiderio, tutto intento a contemplare e carezzare il suo dolce travaglio. Da tutta la favola s’effonde e s’innalza questo anelito struggente al piacere, al di qua d’ogni freno o norma morale, questa schietta e convinta lode del piacere, che è come l’espressione suprema dell’ideale idillico e edonistico del Rinascimento, dove già s’avvertono per altro cerne note più trepide e dolenti, proprie di una sensibilità già tormentata e morbosa, e conformi alla segreta coscienza di una civiltà prossima a spegnersi, sebbene qui ravvolte ancora e attutite in un’aria sospesa di sogno e quindi inette a rompere il miracoloso equilibrio dell’arte»[19].

Ma nell’Aminta l’amore, più che dramma dell’immaginazione, sguardo e visione impotente, come nella Gerusalemme, diviene analisi e rappresentazione di germinali moti interiori; e quel sentimento doloroso e tragico che caratterizza il poema qui si stempera in un clima di morbido sogno e di incantevole favola. Infatti nell’Aminta il poeta percorre come una breve e felice stagione di giovinezza, in cui l’amore, colto nelle sue sfumature adolescenziali, è sì percorso da turbamenti e angosciose malinconie, ma sempre pronto a sciogliersi in un’onda di melodioso canto che riassorbe il senso del dramma e semmai lo smorza nell’elegia. È un mondo poetico‑sentimentale che, in qualche modo, già era stato del Poliziano, ma che ora è rivissuto dal Tasso con una profondità, coerenza e continuità lirico‑narrativa del tutto ignota al poeta quattrocentesco (ancora troppo avvinto al fascino del gioco mitologico‑letterario).

Agisce innanzi tutto il diffuso clima bucolico‑pastorale di una natura idillica come evasione dalla corte (ma quest’ultima è, come s’è già detto, una presenza sottintesa che si avverte di continuo). In questo fascino di una natura bella e vagamente sensuale si inserisce spontaneamente la vicenda sentimentale di Aminta e di Silvia: che non è sicuramente la rappresentazione dell’amore passionale, bensì quell’amore dolce che si configura come nuova illusione dell’anima, come una seducente e misteriosa realtà psicologica. Per Aminta, infatti, l’amore nasce col gusto investigativo di candidi istinti, di pulsioni colte nel loro primo misterioso manifestarsi, nel loro radicarsi, crescere ed invadere il cuore che li ha accolti inavvertitamente. Ma è soprattutto la figura di Silvia che si realizza come personaggio lirico e pur ricco di un suo movimento drammatico. Attraverso di essa viene esplorato il lento schiudersi dell’amore attraverso una tensione prolungata, uno svolgimento graduale, che abbraccia praticamente l’intera durata della favola. Ogni volta che Silvia si presenta al proscenio dell’attenzione drammatica si verifica un nuovo approfondimento della psicologia del personaggio ed inizia, per così dire, una nuova fase nello sviluppo e nella concretizzazione del sentimento amoroso.

A questa organicità della struttura contribuiscono altresì i personaggi minori, i quali svolgono una loro precisa funzione nell’impianto psicologico e drammatico della favola, perché, come è stato giustamente osservato, dalla carnalità cinica di Tirsi e da quella rozza e violenta del Satiro si stacca l’impeto amoroso di Aminta; e tra Tirsi e Dafne da una parte, e il Satiro dall’altra, la figura di Silvia, per distacco e nella contrapposizione, si tratteggia con una linea e si ravviva di una grazia che diversamente non avrebbe. Da questo esatto equilibrio delle parti e dei rapporti nasce quel senso di circolarità perfetta che caratterizza l’Aminta. E tuttavia, nell’ambito dell’esperienza tassesca, se è vero che lo sviluppo lirico‑narrativo è di un equilibrio davvero eccezionale, l’Aminta non riesce ad offrire quella complessità e ricchezza di motivi poetici, quella sintesi ardua di toni sentimentali e lirici, quello svariare sapiente in un ritmo di chiaroscuri impetuosi e smorzati che è proprio della Gerusalemme, pur mantenendo sempre un senso di abilissimo gioco dell’immaginazione e di miracolosa favola letteraria.

 

Il Rinaldo, il Gierusalemme, la Conquistata

Il Tasso mostrò tutta la vita una sincera vocazione al poema eroico (come egli, appunto, lo chiamava, anziché epico). A soli diciotto anni, infatti, il poeta pubblicava il Rinaldo, poema in dodici canti sul celebre paladino della corte di Carlo Magno, il quale compie mirabili imprese per conquistare l’amore della principessa Clarice, sorella del re di Guascogna. L’autore si ispira ancora alla tradizionale letteratura cavalleresca e all’Orlando Furioso, ma risente al tempo stesso dell’influsso, soprattutto linguistico, del poema di suo padre l’Amadigi, oltre che di alcuni poemi scritti qualche decennio prima (il Girone cortese dell’Alamanni e l’Ercole del Giraldi Cinzio). Suggestionato dall’ambiente in cui vive e dall’autorevole esempio paterno, il giovane Tasso vuol fare il suo primo ingresso nella società letteraria, mediante una vasta opera che si imponga decisamente all’attenzione sia dei letterati sia dei signori delle corti. La materia che dà vita al poema è, più che altro, il riflesso delle giovanili baldanze del poeta, delle sue aspirazioni, dei suoi entusiasmi. «Nel Rinaldo c’è già una bravura tecnica nella verseggiatura e nel linguaggio, non molto lontana da quella che sarà nella Gerusalemme; e c’è d’altra parte una povertà e monotonia d’invenzione, che denunzia il principiante. Ma, ciò che più importa, già in questa fascia giovanile s’affaccia, con le esigenze della sua poetica e con le qualità del suo temperamento, il poeta futuro. Nel Rinaldo la materia leggendaria “sfuma (come osserva il Carducci) nelle ombre vaporose dell’idillio”: è la storia di un amore cortigiano, fatto di civetterie e di ritegni, di bizze e di puntigli, di galanterie e di rispetti; nel protagonista vive il desiderio prepotente e sfrenato della gloria, appena contenuto da una moralità e religiosità ancora convenzionali, vive un’accesa brama sensuale non senza qualcosa di languido e di torbido; in Clarice ci sta innanzi la gentildonna di corte, con la sua alterigia sdegnosa e le sue astute lusinghe, con i suoi modi e i suoi vezzi, che paiono austeri e sanno di malizia; nell’episodio degli amori fra Rinaldo e Floriana, regina della Media, c’è già il presentimento degli amori fra l’altro Rinaldo e Armida della Liberata, così come nella disperata e morbida passione del pastore Florindo si preannunzia il tema, sempre poi caro al nostro, dell’amore segreto e non corrisposto, che soffre e gode di soffrire, l’amore di Tancredi per Clorinda, di Olindo per Sofronia, di Erminia per Tancredi. Ma nel Rinaldo c’è anche il letterato, che si esercita nello svolgimento dei temi descrittivi tipici della poesia eroica; che inventa, con una immaginativa che sa ancora di scolastico, situazioni ed episodi; che si compiace nella rappresentazione di duelli, trattati con la perizia tecnica del conoscitore; che imita, piuttosto da virtuoso che da poeta, i modelli classici e romanzi, e ricalca ad esempio la vicenda di Floriana e Rinaldo su quella virgiliana di Enea e Didone. I momenti migliori del poema son quelli dove affiora, attraverso la trama del racconto, un lirismo languido e appassionato, autobiografico; e tutto il Rinaldo è in sostanza il primo tentativo del Tasso per trasportare una materia strettamente lirica e personale su un piano e secondo un ritmo narrativo, concretandola in personaggi e vicende. Movendo da una tradizione di letteratura romanzesca e cavalleresca, risentita piuttosto nel suo contenuto di umanità che non nell’aerea grazia delle fantasie, più nell’intensità dei sentimenti che non nell’armonia del ritmo, il Rinaldo, mentre sembra rifarsi al Furioso e all’Amadigi, è già sulla strada della Gerusalemme»[20].

L’idea di scrivere un poema sulla prima crociata risale, pare, intorno al 1562 e si attua, negli anni successivi, nel Gierusalemme. Siamo, d’altra parte, nell’epoca in cui si conclude il Concilio di Trento e si impone sempre più la Controriforma (favorevole alle imprese in Terra Santa), mentre fervono le violente lotte fra turchi e cristiani, destinate a culminare nel 1571 con la celebre battaglia di Lepanto. Nel Gierusalemme troviamo già ben impostata la materia epico‑religiosa che concerne la prima crociata e che costituirà appunto l’intelaiatura del poema definitivo. Vi opera essenzialmente un vivo senso corale, che disciplina la materia epica e quella religiosa in scorci suggestivi, in scene spettacolari piene di movimento, animate di linee, di voci, di emozioni; ma la struttura linguistica è ancora incerta e, soprattutto, mancano le grandi figure isolate, i personaggi eroici che daranno vita al capolavoro.

Il Tasso proseguì, comunque, per oltre un decennio la sua instancabile attività di rifacimento e di elaborazione, cosicché nel 1575 il poema fu finalmente portato a termine e intitolato Goffredo (tuttavia, come s’è già detto, uscirà solo sei anni più tardi col titolo di Gerusalemme Liberata, datogli dagli editori, che pubblicheranno l’opera all’insaputa del Tasso durante il periodo di S. Anna). Ben presto ebbero inizio però le veementi polemiche sulla composizione della Gerusalemme, provocate da critici vari e dagli scrupoli stessi del Tasso; tali polemiche, di carattere letterario e moralistico, concernevano essenzialmente il problema della famosa unità aristotelica d’azione nel poema, la presenza eccessiva delle scene d’amore e di magia, e l’inevitabile confronto con l’Orlando Furioso. Vi furono difensori e detrattori. Il Tasso reagì, in parte, alle accuse con varie lettere e alcuni opuscoli (tra cui il più importante è l’Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata). Accintosi, allora, ad una totale revisione dell’opera, la pubblicò nel 1593, dopo sei anni di intenso lavoro, con il nuovo titolo di Gerusalemme Conquistata, convinto ormai che questa fosse la più valida edizione del poema.

Nella nuova opera vengono soppressi alcuni famosi episodi (Olindo e Sofronia, Erminia fra i pastori, il viaggio alle Isole Fortunate), molti versi importanti sono eliminati o modificati, cambiano i nomi di parecchi personaggi principali, vengono inseriti nuovi episodi. Il poema si arricchisce di similitudini e di artifici retorici; il linguaggio si fa più solenne e più ornato; il tono, in genere, più teatrale e fastoso. Così la Conquistata, se presenta a tratti sapienza e finezza letteraria, perde, nel complesso, quella spontaneità e vastità di motivi lirici che era propria della Liberata. Semmai vi è da notare in tutto il poema un certo compiacimento per le scene di sangue, in cui si riflette una nuova sensibilità, che – come è stato scritto – oscilla tra un barocco scientifico e un barocco emotivo, compiaciuto di sensazioni eccezionali, brutali ed estreme. Infatti, come è stato notato dal Guglielminetti, «il patetico e lo speranzoso», che nella Liberata si avvicendavano, nella Conquistata vengono a mancare. In alternativa ad essi campeggia il tragico, del quale si ricerca e viene data una rappresentazione collettiva, specialmente quando entrano in scena le atrocità della guerra. I risultati più significativi della Conquistata vengono dunque raggiunti in tale ambito, poiché, collegato ad esso, ricompare quell’antica disposizione del Gierusalemme verso una poesia di masse in movimento, e non di solo eroismo individuale.

 

La Gerusalemme Liberata

Introduzione

Tanto è distesa la trama dell’Orlando Furioso in una miriade di avventure e vorticose vicende, altrettanto è raccolta la pur vasta materia poetica della Gerusalemme in uno spazio e in un tempo ben preciso e limitato (la guerra dei crociati contro i saraceni per liberare il Santo Sepolcro). Era nella concezione stessa del Tasso l’idea che da una ricchezza e varietà multiforme sia di episodi e di avvenimenti, sia, soprattutto, di toni, di atmosfere, di situazioni e di immagini dovesse nascere un poema estremamente unitario e organico nella sua struttura rappresentativa; tanto che egli dichiarava «viziosi» «quei poemi che sono simili ai corpi che non possono essere rimirati in un’occhiata». Ed è rimasta famosa la definizione del Foscolo della Gerusalemme Liberata come di «un tempio in Grecia contemplato nel suo complesso da un solo sguardo».

A questo ambito narrativo più ristretto sembra conferire omogeneità fantastica lo stesso motivo ideale della corte, su cui la critica dal Donadoni al Getto ha tanto insistito, luogo chiuso di aristocratica vita e di raffinatezza esteriore, con il connesso culto della regola e della tecnica, perché questi elementi, storicamente derivati dalla civiltà tardo‑cinquecentesca e al Tasso psicologicamente congeniali, collaborano a creare un particolare ritmo immaginativo, un gusto formale, un ordine di misure precise e calcolate, decorose e solenni, un’architettura varia ma pur rigorosa, in cui si inseriscono le avventure, i sentimenti, i gesti e i discorsi dei personaggi del poema; anzi da tale atmosfera cortigiana e accademica nasce quel tipico linguaggio tassesco così aulicizzato ed essenzializzato (meno libero e immediato, ad esempio, che quello dell’Ariosto).

Lo stesso motivo epico‑religioso (del tutto assente nel poema dell’Ariosto), se è in realtà un tema sostanzialmente estraneo alla più intima poesia del Tasso, non rimane un semplice meccanismo della narrazione, ma incide continuamente nel determinare quel clima unitario di malinconia e di alta elegia, di dolore e tragedia che incombe sulle vicende e sulle passioni degli uomini, e che insidia anche i momenti di breve e voluttuoso edonismo sensuale. Così il tema della guerra assurge a una sua ben precisa funzione nella struttura del poema, perché, mentre caratterizza sin dall’inizio in maniera decisiva le speranze d’amore, i sogni di gloria, le velleità di potenza dei personaggi, costituisce poi, nell’ambito dell’avventura dei sentimenti, un termine imprescindibile in quell’aggrovigliarsi di amore e morte che deve costantemente riproporre il tema dell’amore come ostacolo, assenza, angoscia, esclusione, catastrofe.

Anche i protagonisti sono ridotti a un numero più limitato rispetto al poema ariostesco (secondo una concezione tipica della tragedia piuttosto che del romanzo epico‑cavalleresco). Ma si tratta, tuttavia, di personaggi che costituiscono dei forti centri nodali di attrazione lirica e narrativa, dei grumi fantastici potentemente vissuti dal sentimento dell’autore, quasi come un immediato ed esplosivo riflesso della sua autobiografia interiore, per cui acquistano in profondità e concentrazione ciò che perdono in varietà ed estensione. Essi sono come racchiusi in una loro passione unica, esclusiva, assorbente, che li domina in maniera quasi ossessiva, bloccandoli in una solitudine dolente e drammatica, da cui cercano vanamente di uscire per istituire un possibile rapporto d’amore, come Olindo, Tancredi, Erminia, Armida, oppure per realizzarsi in un gesto eroico di sacrificio come Sofronia e Sveno, o, ancora, in un ideale di azione e di lotta come Solimano, Argante, Clorinda; destinate, comunque, tali aspirazioni, a concludersi, sia sul piano dell’amore che della guerra, nella morte o nel fallimento, per una sorta di destino implacabile che grava sulla loro vicenda esistenziale e che li trascinerà, appunto, nella definitiva sconfitta.

Tuttavia i personaggi del Tasso non rinunciano mai alle loro speranze e alle loro illusioni, e per esse si gettano allo sbaraglio, nello sforzo, continuamente frustrato, di uscire come da una sorta di chiuso cerchio dell’impotenza; perché c’è nel Tasso una sostanziale fede nella lotta, nell’azione, nella caparbietà, si direbbe, a tentare di tradurre nell’ambito del reale il momento del sogno, ancorché il fallimento e la morte ne siano la fatale e tragica conclusione. Nasce da questa situazione di contrasto quella mescolanza così tipica della poesia del Tasso fra morbidezza sentimentale, intimità sognante da una parte, e ritmo avventuroso, impeto vitale, titanistico impulso dall’altra: il mito attivo ed eroico, bilanciando continuamente il momento del sogno, dello sguardo, della contemplazione crea quell’inconfondibile ritmo sentimentale tassiano, sospeso in un equilibrio precario che sembra doversi continuamente spezzare e sempre si ricompone in una linea poetica nitidissima e affascinante di luci e di ombre, di contrasti e di sintesi rinnovate.

 Sguardo, innamoramento e amore

È soprattutto nell’ambito del grande tema dell’amore che vivono i protagonisti del poema; perché non soltanto Olindo, Tancredi, Erminia, Armida, ma anche Sofronia, Clorinda, Rinaldo acquistano un loro significato poetico dall’essere messi in rapporto a una simile problematica, come termini di desiderio, come oggetto, magari passivo, delle brame e dell’interesse altrui; come punti di convergenza di un aggrovigliato e tormentoso destino. E se l’esperienza d’amore, come ovvio, è il modo fondamentale per tentare di uscire dal proprio io solitario e realizzarsi in un clima di umanità, ecco che quando gli individui sono completamente al di fuori di questa dimensione originaria, che nel Tasso si configura sempre come impossibilità ma pur necessario azzardo, allora abbiamo gli eroi disumanizzati della solitudine abnorme e della violenza.

Si tratta, comunque, di una sorta di impossibilità radicale a immergersi nel flusso della vita per uscire dall’isolamento interiore e stabilire un contatto col mondo, causata non già da una mancanza di volontà dei personaggi o da una debolezza dell’animo deliberante, bensì da una serie di oggettive circostanze impedienti: pre-senza del rogo nel rapporto Olindo‑Sofronia; inconsapevole duello fra Tancredi e Clorinda; fragilità fisica e separazione bellica nel caso di Erminia; pretesto moralistico e necessità epiche nel binomio Rinaldo‑Armida. Al tempo stesso questo essere respinti e sconfitti dalla realtà vitale si realizza come costante assenza sentimentale di uno dei due termini del rapporto d’amore: Sofronia nei confronti di Olindo; Clorinda dinanzi a Tancredi; quest’ultimo in relazione ad Erminia; mentre nel caso Rinaldo‑Armida l’ambivalenza odio-amore, la tragedia dei destini non mai convergenti, gioca arditamente tutta la sua potenza significante nello spazio dell’antitesi: una estraneità fisica e morale, quella di Rinaldo, che diverrà attrazione sensuale per risolversi nel ripudio; una ingannevole seduzione e finzione, quella di Armida, che deve sboccare in un’ardente passione amorosa, per concludersi nell’assenza e catastrofe del rapporto stesso. Né, d’altra parte, gli innamorati del Tasso riescono mai a servirsi della parola per concretizzare il loro sentimento. La parola dell’amore, il dialogo fra gli ipotetici amanti sarà sempre un discorso impossibile, un eterno bersaglio fallito; e non potrà risolversi in altro che soliloquio dolente dell’immaginazione, oppure, come espressione primordiale del sentimento, sarà soltanto lamento, grido, imprecazione, lacrima, pianto: parola degradata a puro livello fisiologico, esplosione della carne repressa, macerazione nel chiuso della sconfitta, viscerale protesta contro l’ordine cosmico della repressione e dell’impotenza. Nascerà da questa situazione il “tema delle lacrime, del pianto”, così caratteristico e inconfondibile lungo tutta la Gerusalemme.

 Il fatto è che nel poema tassiano l’unica possibile forma d’amore è quella che si sazia nello sguardo e nella contemplazione del volto, degli occhi; uno sguardo, peraltro, ambiguo e non autentico, che vede e non vede, che avvicina fisicamente e allontana spiritualmente. Tutti gli amori, nella Gerusalemme, infatti, nascono, vivono e muoiono esclusivamente nello spazio, ideale e materiale, di uno sguardo che si è presentato, all’origine, come rivelazione fulminea di una luminosità dram­matica e inebriante, forza numinosa e assorbente emersa dalla notte del nulla e che si prolunga spesso sul filo di un’immaginazione tormentosa. L’amore di Tancredi è nato di «breve vista», cresce su se stesso nutrendosi di dolore, ed è esploso come un irresistibile scatto dell’anima folgorata da uno scoprimento del volto. La raffigurazione dell’essere amato ha di per sé un valore di realtà vivente: l’immagine recepita dallo sguardo si accoglie e nasconde nella fantasia dell’innamorato, e lì vive una sorta di autonoma e autentica vita. Per cui l’amore nei personaggi del Tasso non è mai comuni­cazione, non è rapporto bilaterale, non nasce da una libertà d’incontro: è costrizione della visione, e perciò atteggiamento univoco, mai autentica dialettica dello sguardo. A differenza, ad esempio, di quanto accade nello Stilnovo, dove lo sguardo costituisce il presupposto ineludibile dell’amore, è un a priori che si impone come necessità fatale, come garanzia assoluta di rapporto bilaterale, come costrizione di una legge di natura che rappresenta il massimo della libertà (perché lo sguardo non è altro che il dato primo, l’occasionalità fortuita e necessitante di quella legge ch’a nullo amato amar perdona).

Sennonché gli innamorati, nella Gerusalemme, quando sono finalmente riusciti a superare la distanza che li separa dall’essere amato, in un’approssimazione di contatto che ne attenua la lontananza spirituale, ecco che allora aprono, per così dire, gli occhi: e vedono la morte, la catastrofe, la sconfitta. Lo sguardo, quando svela veramente l’autenticità del reale, quando diviene atto cognitivo e potenzialità d’azione, scoprirà sempre qualche cosa d’altro e di diverso dalla felicità incommensurabile vagheggiata nella lontananza, ideale e materiale, della contemplazione. L’amore perciò nella Gerusalemme sarà possibile solo all’interno di questa linea di demarcazione della realtà effettuale, come sogno, attesa, illusione, fantasticheria, solitudine dell’immaginazione, contemplazione, visione. E sarà solo e sempre l’appagamento dell’occhio a stabilire fra gli ipotetici amanti l’unica possibile e ingannevole forma di approssimativo rapporto. La stessa intensa e breve felicità erotica istituitasi fra Armida e Rinaldo si consumerà essenzialmente in un esasperante gioco di narcisistiche e speculari compiacenze visive. Si tratta perciò di uno sguardo conoscitivo che assurge a valore simbolico di contraddizione, a celebrare l’inautenticità del reale, il suo carattere di ambiguità, di finzione, di inganno, di vanità impotente. Rinaldo vedrà in Armida la maga seduttrice proprio quando questa avrà cessato di esser tale: non sarà più maga bensì donna innamorata. Erminia vedrà finalmente Tancredi (e potrà, anzi, abbracciarlo e furtivamente baciarlo) solo in una presunta situazione di morte, in una vicinanza fisica che è separazione e assenza della possibilità d’incontro. Perché è sempre un incontrarsi che è perdita ed esclusione; è un ritrovarsi soltanto per potersi perdere eternamente. Ecco perché è meglio che l’oggetto dell’amore rimanga inafferrato e nascosto.

Nascondimento e rivelazione

Questa oscillazione tra cecità e visione porta infatti a quell’altra continua antitesi tra nascondimento e rivelazione, che sta a simboleggiare il tipico sentimento tassiano dell’ambiguità e dell’antiteticità del reale che si esalta nella tematica dello sguardo. Così il senso della chiusura e dell’occultamento è radicale nel destino di Sofronia, che «mirata da ciascun passa e non mira». Situazione che può essere idealmente esemplificata nella celebre immagine della rosa, «che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa / quanto si mostra men, tanto è più bella»[21] (XVI 14); la bellezza è tanto maggiore quanto più vive occulta nel suo nascondiglio segreto; rivelarsi, aprirsi è già sinonimo di sfiorimento e di morte. E il successivo canto che celebra la brevità della vita e che esorta a cogliere la rosa d’amore della giovinezza e ad amare fin tanto che si può essere riamati, si pone come rattenuta elegia di una condizione umana che non è possibile mutare, e finisce coll’esaltare liricamente un’impossibilità, e perciò tanto più drammatica e vera per la fantasia del nostro poeta: «Così trapassa al trapassar d’un giorno / de la vita mortale il fiore e ‘1 verde,’/ né, perché faccia in dietro aprii ritorno, / si rinfiora ella mai, né si rinverde». In Sofronia, comunque, lo sguardo è chiusura e concentrazione in un ideale di vergine castità, di raccoglimento interiore, tensione spirituale e promessa di eroici sacrifici.

La presenza dell’occhio che indaga e osserva, comporta altresì il senso fortissimo dello spiare, della penetrazione in un ambito proibito e custodito, a rapirne, visivamente, quasi il segreto intimo e intrinseco; come appunto avviene nel caso di Olindo, che perverrà con lo sguardo nell’altissima recinzione muliebre, gelosamente difesa, di Sofronia, vincendone le «mille custodie», tramite l’irresistibile spinta del dio Amore, e troverà così la forza di uscire dal suo nascondiglio di contemplatore sognante per tentare, di fronte al rogo, l’azzardo vitale. È frequente, nella Gerusalemme, questo senso di sforzo penetrativo, che è sempre di per sé atto glorioso ed eroico, e che come tale comporta felicità (a differenza, si direbbe, di quella penetrazione nell’animo umano che è, invece, impossibilità e tragedia): dalla penetrazione nella selva incantata alla conquista della città santa, c’è sempre un luogo segreto e funesto che bisogna violare e distruggere, o con la forza o con l’astuzia o magari con l’aiuto del magismo cristiano. Ed è un nascondiglio in cui c’è sempre qualcosa di decisivo da osservare e spiare: nella selva incantata le due inquietanti immagini di Clorinda e di Armida; nel giardino di Armida una natura idillica, magica e seducente, e al tempo stesso un’erotica scena d’amore fra Armida e Rinaldo; nel sotterraneo di Gerusalemme un congresso di principi musulmani ostile al gran Solimano; nel campo egiziano in cui entra Vafrino una minaccia di congiura contro Goffredo, che solo l’apparizione di Erminia varrà a stornare.

Erminia è l’unica donna costantemente innamorata lungo l’intero poema; ma, curiosamente, la sua vera preoccupazione sembra essere quella di nascondere a tutti tale amore; così quando si trova in cima alla torre di Gerusalemme in compagnia di Aladino, tutto il suo discorso si svolge nell’ambito di una finzione, di un inganno necessariamente imposto dalla pericolosità della situazione, dalla impossibilità a rivelare la propria passione per Tancredi, in una prospettiva ambigua di verità autentica e di verità apparente, sul duplice piano di una realtà conoscitiva che soggettivamente si svela e oggettivamente si cela. Persino alla fedelissima amica Clorinda non comunicherà mai tale amore. Ma poiché dal nascondiglio, materiale o spirituale che sia, bisogna, per la fantasia del Tasso, pur sempre evadere, per tentare di collocare nell’ambito del reale il momento del sogno, Erminia fuggirà da Gerusalemme, sotto le mentite spoglie di Clorinda, alla ricerca di Tancredi. E la celebre ottava in cui la natura diviene rivelazione di paesaggio luminoso e notturno e nascondiglio segreto di sentimenti, varrà soprattutto a preparare il clima interiore della felicità visiva: la felicità è appunto nella contemplazione degli occhi, supporto sensitivo e sensuale dell’immaginazione, passaggio obbligato della continua avventura del sogno.

L’incontro con Tancredi non avverrà, e siccome la sortita comporta sempre, dopo il fallimento, un atteggiamento di fuga, Erminia si ritirerà in un nuovo isolamento: la casa del pastore. Seguirà il nascondimento nel campo egiziano; di qui l’opportunità ad evadere e a tentare la nuova avventura sarà offerta da Vafrino, lo spione per eccellenza del poema (il solo a cui, curiosamente, confiderà il suo amore per Tancredi); e finalmente ci sarà la grande occasione del ritrovamento dell’uomo che ama: ma la possibilità deve fallire, perché quel sentimento di fatalità, di esclusione, di trepidante angoscia che grava implacabile sull’animo dei personaggi possa, alla resa dei conti, acquistare diritto di verità nel suo esser gettato al vaglio dell’esperienza, per realizzarsi come destino tragico di fallimento e impotenza, quasi a dimostrare che l’unica condizione dell’uomo non può essere che quella del sogno, dell’illusione, della contemplazione.

È appunto da questa situazione ideale che nasce quel continuo senso di esclusione e di fuga così frequente lungo tutto il poema. È una continua dialettica di evasione e di lotta, di nascondimento e riapparizione, di chiusura e apertura, che sembra trovare la sua origine, a livello biografico, in quella ossessiva oscillazione psicologica che fu della vita del Tasso fra corte e bisogno di fuga. Solimano ha dovuto fuggire dalla sua patria; Erminia è parimenti un’esiliata; la stessa situazione si ripresenta per Armida nel falso racconto della sua infanzia. Anche il giovinetto Rinaldo «fuggì soletto e corse strade ignote» (e, anzi, secondo il Tasso, si trattò addirittura di una «nobilissima fuga, e che l’imiti / ben degna alcun magnanimo nipote»[22]). Tutta la storia dell’infanzia di Clorinda non è che una storia di fuga, di esilio, di abbandono della terra natia. Proprio questa cifra fantastica della chiusura, dell’esclusione, dell’assenza coinvolge in maniera radicale la figura di Clorinda e ne determina l’intero movimento drammatico, dall’inizio sino alla fatale catastrofe.

Le premesse sono già tutte negli antecedenti immediati del celebre duello con Tancredi, che costituiscono un’anticipazione non solo di esigenza narrativa, bensì di collocazione ideale del personaggio, di elaborazione fantasmatica del simbolismo. Una dialettica di apertura e chiusura insita già in quel beffardo e tragico gioco della porta di Gerusalemme che il re Aladino apre per raccogliere i due guerrieri che hanno incendiato la torre cristiana, e che fatalmente si chiuderà dinanzi a Clorinda, a segnalare un limite di esclusione e di isolamento, a connotare un simbolo di impossibilità esistenziale, di sconfitta e di morte. Quasi un destino di lontananza e di assenza che aveva contraddistinto, come un’ossessione fantastica, l’intera vicenda dell’isolata e solitaria guerriera: dalle riflessioni soliloquiali pervase di sarcastica rabbia, a tutta quella storia di nascondimento e di fuga in cui si era svolta non solo la sua infanzia ma addirittura la sua nascita. Così nell’episodio mortale, la situazione stessa della notte dal cui profondo oblio deve essere strappato il ricordo del duello; l’immagine, magari, dell’ombra e del furore che impediscono l’«uso dell’arte»; la «pugna» che si fa sempre più «ristretta», fino al contatto materiale dei corpi; l’invito incalzante di Tancredi alla donna perché sveli la sua identità, portano a quella dialettica di chiusura e strappo, di recinzione e fuga, di oscuramento e luce che è fondamentale nella dinamica del nostro poema, e che comporta altresì una continua affiorante significazione di sforzo, svelamento, rottura, penetrazione. Per culminare, esemplarmente, in quell’antitesi fra le «robuste braccia» che stringono e quei «nodi tenaci» da cui la donna si svincola: «Tre volte il cavalier la donna stringe / con le robuste braccia ed altrettante / da que’ nodi tenaci ella si scinge, / nodi di fer nemico e non d’amante»[23]. E ancora una volta, il compiacimento fantastico dell’autore sarà per questo continuo ostacolo, la non consapevolezza di Tancredi, che si frappone fra i due ipotetici e non possibili amanti; sarà per quel costellarsi di accidentali contingenze oggettive che precludono e rifiutano, nel personaggio, la visione dell’autenticità del reale.

Ed è altresì il tema strutturale della guerra che pone la giustificazione pretestuosa di quell’antitesi nemico‑amante che è intrinsecamente connaturata alla concezione amorosa del Tasso. Perché si potrebbe dire che, in definitiva, la tragedia è, inconsciamente, quella insita appunto nella dialettica nemico‑amante, nella difficoltà, nell’impossibilità di saper riconoscere la realtà vera nei due termini dell’antitesi. La tragedia è nello sguardo, che non sa e non riesce a vedere, che non arriva a farsi atto conoscitivo (salvo che nel momento della catastrofe). Così anche, ad esempio, nel rapporto Armida‑Rinaldo, dove, dopo la momentanea felicità realizzata, la vicenda amorosa tornerà ad estenuarsi nel suo motivo originario: la contrapposizione nemico‑amante, l’ambiguità originaria del celarsi e mostrarsi, l’eterno gioco fantastico di nascondimento e rivelazione.

Ma qui è necessario soffermarsi e rilevare, a proposito di quel verso già citato «nodi di fer nemico e non d’amante», una caratteristica formale dell’arte tassiana. È impos­sibile, infatti, cancellare dall’essenza stessa della poesia del Tasso certe formule reto­riche, certe esclamazioni o ipotesi, certe domande pur intrise di enfasi sentimentale; è impossibile non avvertire che queste antitesi gettate e gridate direttamente dall’autore nel mezzo della tragedia sono tutt’altro che una «glossa inopportuna», perché qui è il nocciolo e il segreto della poesia del Tasso: celebrano il senso radicale dell’impotenza, la bipolarità del reale, la contraddizione realtà‑sogno, verità‑appa­renza, e, magari a un livello ancora più inconscio, il sadismo fantastico, l’ambivalenza nel rapporto odio‑amore. Così è, a titolo di esemplificazione, nell’episodio di Sofronia legata al palo: «stringon le molli braccia aspre ritorte», dove la contrapposizione dei due termini esalta la drammaticità di un’assenza, l’esasperarsi di un’impossibilità, la scissione radicale tra l’essere e il dover essere (braccia maschili che avvinghino braccia femminili); e magari con il senso consueto dello stringimento, della chiu­sura, del blocco fatale e tragico assaporato fantasticamente dall’immaginazione del poeta con una vaga sfumatura di compiacimento sadico. Oppure ancora, in un diverso esempio che riguarda gli occhi di Clorinda: «dolci ne l’ira, or che sarian nel riso?», dove ciò che conta è proprio la forzatura antitetica di quell’ipotesi che pone una possibilità come non mai realizzata e, soprattutto, non mai realizzabile.

Armida

Tutte le donne del Tasso sono sempre collocate in un clima di altezza e sublimità vertiginosa; Armida, non potendolo essere a livello spirituale, data la sua natura sensuale, lo sarà per lo meno in un ambito di spazialità geografica remota, irraggiungibile e arcana; e sarà al tempo stesso «maga» e perciò inaccessibile sotto il profilo umano. Ma la sua caratteristica precipua, potremmo dire magica, è proprio quella di “vedere senza essere vista”, esplicitamente enunciata dall’autore, in un eccezio­nale ambito di superiorità e nascondimento: «ed in eccelsa parte Armida siede, / onde senz’esser vista, ed ode e vede»[24]. Il personaggio di Armida è continuamente giocato dal Tasso in questa esasperante dialettica del celarsi e del mostrarsi, del rivelarsi e dell’occultarsi; ma si tratta di un comportamento che è inganno e ambiguità volontariamente assunto dalla donna‑maga; è, per così dire, una tecnica di dominio e di controllo, perciò è strumento di successo e causa di felicità; a diffe­renza di Erminia, nel cui caso si tratta di un modo d’essere ingenuo e spontaneo, imposto, o per lo meno, parzialmente giustificato, dalla necessità della situazione, di cui essa sarà sempre la vittima; è insomma atteggiamento passivo, che provoca dolore e tormento.

Armida, anche quando inganna con la sua tragicommedia i cavalieri della corte di Goffredo, è sempre nella posizione attiva di colei che conosce senza essere conosciuta, di colei che, in realtà, è essa a vedere senz’essere vista. Anzi, in questa occasione, la dialettica nascondimento‑rivelazione diventa, nelle mani di Armida, una vera e propria arma consapevolmente manovrata ai fini di una fedifraga vittoria amorosa; suprema tecnica di seduzione e di arte amatoria. Ma questo è, tuttavia, un tipo di comportamento che, per definizione, non può contraddistinguere la persona innamorata, la quale deve, invece, proprio rivelarsi, scoprirsi, esporsi al rischio e alla visione (esteriore e interiore), abbandonare l’atteggiamento passivo dello sguardo, come nevrotica coazione a ripetere, rinunciare a quella tecnica comportamentale, che, fallacemente, era stata scambiata per una certezza vitale, e tentare il disperato salto qualitativo verso l’istinto primario; il che vuol dire, nel caso del nostro autore, lanciarsi nello spazio di un vuoto e di un’assenza e ritrovarvi, perciò, l’opposto della forza d’eros: il fallimento, la morte, la catastrofe. Ecco perché abbiamo detto più volte che l’innamorato, nella Gerusalemme, quando vede veramente, quando abban-dona la posizione del “vedere senza essere visto” (da intendersi soprattutto nel senso ideale di colui che è chiuso nella posizione del contemplatore sognante), esponendosi al rischio, nel momento, cioè, del passaggio dal sogno alla realtà effettuale, nella ricerca del potenziale aggancio all’istinto, non può ritrovare davanti a sé altro che il fallimento dell’azione e il vuoto dell’impotenza. Quando Armida non sarà più maga, ma solo donna innamorata, avrà abbandonato la sua posizione di privilegio, e perciò sarà perduta.

Spettacolo e magia

A questo ambito di sensibilità visiva, su cui abbiamo insistito a proposito del tema dell’amore, converrà altresì riportare la cosiddetta teatralità del Tasso: il suo gusto scenografico, spettacolare, magniloquente, il suo senso aulico della parola e dell’immagine, certa preferenza del raro e del peregrino, il culto del gesto eroico solennemente evidenziato, quel qualche cosa di continuamente cerimoniale, aulico, cortigiano, liturgico, e, parimenti, l’antitesi luce e buio, la dialettica spazio aperto e spazio chiuso (e magari la differenziazione dei piani visivi, alto e basso), la metafora dell’occhio che quasi nascostamente osserva, contempla e spia, la sua concentrazione tragica del personaggio, l’antitesi tra una realtà come rappresentazione e recitazione e un intimo regno che assume talvolta i caratteri di una visione allucinatoria; la sua concezione della guerra contemplata come eterno spettacolo di dolore e di morte.

E a questa sorta di complesso spettacolare si lega altresì la magia del Tasso, che non è l’aerea e gioiosa esaltazione del Furioso in un regno di avventurose conquiste; non è vittoria e liberazione, gioco e trionfo fantastico; ma è tormento dei sensi e dell’immaginazione, incubo che nasce sempre da una inquietante e allucinata appercezione visiva. Magismo vuol dire, nel Tasso, un affiorare di larve e fantasmi funesti, celati in uno spazio chiuso, in cui bisogna penetrare con la forza, nascondiglio torbido e arcano di un potere occulto di mostruose procreazioni visive che bisogna squarciare e sconfiggere, quasi per riportare alla luce della coscienza, e in tal modo dissolvere, una realtà ossessiva di incubi tormentosi. Ma la selva incantata, vertice lirico del magismo tassiano, sarà in ultima analisi, il regno dove si cela l’inquietante e angoscioso volto della donna amata; è il luogo dove il fantasma della morta Clorinda si nasconderà e rivelerà per l’ultima volta e dove l’immagine di Armida ricomparirà, del tutto imprevista, a tentare l’estremo e disperato gioco magico delle sue arti di seduttrice. La magia diviene, comunque, sentimento d’impotenza di fronte a una realtà arcana e funesta, a cui si può contrapporre solo la forza del benefico magismo cristiano che si attua attraverso l’azione meditativa ed eroica di Rinaldo e di Goffredo.

Goffredo

Né, d’altra parte, a questa cifra fantastica giocata nella dialettica di nascondimento e rivelazione sfugge la stessa figura di Goffredo, che si colloca in un clima intermedio, meno esasperato, più realistico: nella figura del principe, del condottiero, che, in intimo contatto di preghiera e meditazione con Dio, ne è quasi il rivelatore dei segreti disegni provvidenziali (funzione non adempiuta, sul piano poetico, dalla inconsistente figura di Pier l’Eremita). Lo vedremo perciò sempre come uomo che osserva e medita, attento, cauto ed equilibrato, ricco di esperienza e saggezza, guida ed esortatore che compare dinanzi ai suoi soldati nei momenti più difficili, in una solenne atmosfera umana e quasi sacrale. Ma, in definitiva, tutto il dramma che lo caratterizza in quanto personaggio poetico, nasce appunto dalla necessità di dover celare agli altri quel turbamento interiore, quel senso di dubbio e incertezza, quella altissima concentrazione intima di un capo che è chiamato all’arduo compito di guidare i suoi uomini alla vittoria, mentre, per contro, deve rivelarsi continuamente come colui che, solo, sa affrontare e risolvere le incertezze drammatiche della guerra.

Solimano e Argante

Se l’amore non è altro che immaginazione irrealizzata e frustrante, l’unica alternativa che si offre ai personaggi del Tasso per tentare di aderire al ritmo vitale, è l’ardore bellicoso ed eroico, che istituisce col mondo un rapporto di antagonismo vitale, e consente in certo modo all’anima di evadere da quel chiuso cerchio di solitudine e d’impotenza che l’avvolge e l’avvince. Tancredi non riesce a raggiungere, nelle armi, una compensazione adeguata, sul piano poetico, al suo dramma interiore; l’eroe, positivo in tal senso, più ricco e sfumato per varietà d’atteggiamenti, è Rinaldo, che dopo la breve parentesi di perdizione sensuale nel giardino d’Armida, riacquisterà, in un clima di mistico raccoglimento sul monte Oliveto, la purezza dei suoi ideali eroici e potrà così vincere gli incanti della selva funesta e farsi artefice della vittoria finale. Sennonché tale individuazione eroica è essenzialmente un portato della intenzionalità strutturale della vicenda narrativa e delle imposizioni ideologiche della Controriforma. Gli eroi più significativi sono, in realtà, Solimano e Argante: non toccati mai dall’amore, anche solo indirettamente, o, comunque, da una qualche possibile forma di rapporto umano e sentimentale, vivono come simboli tempestosi e tragici di una solitudine interiore che non può trovare altro sbocco che l’aggressività forsennata. Il mito eroico diviene in essi furore selvaggio, ansia di distruzione, titanismo di forze inesauste non placate e non placabili neppure dopo la morte.

Tuttavia, anch’essi, come vuole la legge della poesia del Tasso, concluderanno il loro sogno d’azione e potenza nella catastrofe; e sarà proprio questo il momento in cui prenderanno coscienza del loro destino. Così per Solimano, perseguitato sin dall’inizio da una vicenda di esilio e sconfitta, in un alternarsi continuo di fuga e di lotta, di battaglie furibonde e di vane speranze di rivincita, l’autentica visione conoscitiva della tragicità del reale scatterà in presenza dell’imminente rovina di Gerusalemme: «è mirò, ben che lunge, il fer Soldano: / mirò quasi in teatro od in agone, / l’aspra tragedia dello stato umano, / i vari assalti, e il fero orror di morte, / e i gran giochi del caso e de la sorte»[25]; lo sguardo, come sempre, quando vede effettivamente scopre la morte, anzi lo spettacolo della morte, e la debolezza dell’uomo di fronte ai giochi di un destino cosmico fatale e funesto. L’ultimo atto che caratterizzerà la vita di Solimano sarà una sorta di ipnotica e smarrita impossibilità materiale a reagire ai colpi dell’avversario. Così il più dinamico e avventuroso dei guerrieri pagani, colui il cui più vero compito era stato sempre quello di trascinare come un vortice i compagni nella battaglia, morirà, per legge di contrappasso, degradato a un livello di immobilità fisica e psichica, in un fallimento delle forze, che vuol essere, nella fantasia del Tasso, celebrazione della sconfitta e dell’impotenza umana.

Ad un livello forse ancora più significativo Argante, l’uomo più orgogliosamente chiuso in se stesso, colui che ignora gli ostacoli dinnanzi alla forza e alla velleità abnorme del proprio io, l’eroe dell’arroganza sarcastica e della disumanità impietosa, sarà condannato, nell’ora dell’imminente morte, non solo a scoprire la tragica verità del proprio io impotente, bensì addirittura a confessare all’immortale nemico Tancredi tale fallimento e tale impotenza: «Penso, risponde, a la città del regno / di Giudea antichissima regina, / che vinta ora cade; e indarno esser sostegno / io procurai de la fatal ruina»[26]. E in quest’unica possibile e inattesa forma di consapevolezza, che è nemesi nei confronti di una cecità spirituale arrogante e sarcastica, si redime dalla sua essenza bestiale, ricongiungendosi per un attimo di balenata coscienza al destino doloroso e tragico di tutti gli uomini e all’universo lirico della poesia del Tasso.

 

Il Torrismondo, il Mondo creato e le opere minori

II Tasso iniziò a scrivere nel 1573, col titolo di Galealto re di Norvegia, una tragedia che rimase interrotta; la portò a termine negli anni 1586-87 rielaborandola ampiamente e intitolandola Re Torrismondo. L’intenzione del Tasso era innanzitutto di comporre una tragedia secondo i principi di Aristotele, ispirandosi all’Edipo re di Sofocle. Ma risentì fortemente anche l’influsso del teatro di Seneca, venuto di moda nel secondo Cinquecento, con il suo gusto di scene di orrore, di voluttà e di sangue. La tragedia narra del re di Svezia Germondo che si innamora di Alvida, cresciuta come una figlia dal re di Norvegia. Quest’ultimo non acconsente alle nozze e allora Germondo si rivolge all’amico Torrismondo, re dei Goti, perché chieda in sposa la fanciulla col patto di passarla a lui. Ottenuta la mano di Alvida, Torrismondo, s’imbarca con lei per la Gotia, deciso a rispettare la parola data all’amico. Ma i due giovani, gettati da una tempesta su un’isola deserta, s’innamorano e cedono alla passione. Torrismondo viene a sapere che Alvida è sua sorella e che, pertanto, egli ha commesso un incesto. Alvida non regge la rivelazione della verità e si uccide, seguita dall’amato. La vicenda si svolge in ambiente nordico; e il clima di una natura selvaggia e malinconica, tra nevi e brume, tra orridi monti e immense paludi, accentua nella tragedia l’atmosfera tenebrosa, secondo quel tipico gusto del paesaggio che un giorno diventerà caro ai romantici. L’Edipo re di Sofocle proponeva il tipo classico dell’amore incestuoso involontario e inconsapevole, ma tale motivo, deliberatamente assunto dal Tasso a base della sua tragedia, rimane puramente esteriore e meccanico, perché la sensibilità dell’autore si spingeva, in modo forse inconsapevole, verso le suggestioni offerte da un’altra situazione tipica, quella della Fedra, cioè dell’incesto peccaminoso.

«Il tragico conflitto tra gli istinti prepotenti e la legge morale si svolge in un’atmosfera di oppressione e di incubo, su cui acquista risalto l’infinita fragilità dell’umana natura, guidata da ciechi impulsi e da maligne influenze e invano anelante a sollevarsi, oltre la propria miseria, verso un ideale di virtù e di saggezza. Dire che dallo svolgimento di tutta la tragedia si rivela evidente l’insanabile amoralismo del Tasso, e che la lotta fra passione e la legge morale è solo apparente, e priva di sostanza, sarebbe forse troppo semplicistico, se pur non del tutto erroneo. L’aspirazione alla virtù e alla sapienza era viva nel poeta, e si esprime nei cori che chiudono il primo e il quarto atto; e il conflitto, nella coscienza di Torrismondo, è reale e sincero, se pure si agita piuttosto nel campo delle idee se non in quello dei sentimenti, perché la volontà del re goto è fin dal principio tutta dominata dalla furia della passione e impotente a redimersi e consapevole di siffatta impotenza. Sarà più giusto dire che la tragedia appare statica, in quanto il conflitto, che la dovrebbe reggere, è già risolto in anticipo: gli ideali morali sussistono ancora in un cielo lontano, brillano come una luce sempre invocata, ma irraggiungibile, mentre sulla terra il male trionfa senza contrasto. L’assenza di un reale contenuto drammatico spiega la debolezza delle parti strutturali del Torrismondo e il rifugiarsi della poesia nelle parti liriche, che cantano l’infinita miseria della vita, la desolata solitudine di un mondo da cui Dio sembra essersi fatto sempre più lontano»[27]. A questa sostanziale debolezza dell’opera fa eccezione il bellissimo coro del quinto atto, per quel senso tragico dello spegnersi di ogni illusione, per quel sentimento dominante di angosciosa malinconia che lo pervade.

Tra le varie opere minori del Tasso ricordiamo il Rogo amoroso, composto sul finire del 1588, tentativo di poesia pastorale che si ispira alla quinta egloga di Virgilio. In una musica facile ed esteriore rimane vivo unicamente un certo senso idillico del paesaggio. Anche le quattro egloghe pastorali sono di scarso valore; la più riuscita rimane la seconda, che si segnala per un certo gusto figurativo nel rappresentare la donna e l’amore in termini di natura, secondo lo stile del Petrarca più concettoso.

Gli ultimi anni della vita del poeta furono dedicati soprattutto ad esperimenti di poesia religiosa. Nell’estate del 1588 scrisse infatti il poemetto, per altro incompiuto, Monte Oliveto, al fine di compiacere ai monaci del monastero presso cui si trovava ospite. Nelle 102 ottave del I canto il Tasso vorrebbe narrare la vita del fondatore dell’ordine dei monaci olivetani. L’opera è nel complesso mediocre e pervasa da toni ora disadorni ora magniloquenti. Il sentimento religioso è assente e vi emerge invece il classico tema della fuga dal mondo e della solitudine, visto non come esperienza ascetica di rinunzia e di penitenza, bensì secondo il tipico gusto del Petrarca (De vita solitaria, De ozio religioso), per cui la natura si riveste di colori idillici e diviene l’ideale luogo di riposo per un’anima stanca e affannata. Nel 1593 compose ancora le Lagrime di Maria Vergine e le Lagrime di Gesù Cristo, due poemetti rispettivamente di 25 e 20 ottave, il cui unico interesse sta nell’aver fissato quel motivo religioso‑letterario che apparteneva a un’antichissima tradizione, e che, divenuto allora di moda, proseguirà la sua fortuna anche nel Seicento.

Ultima opera, di notevole impegno invece, è le Sette giornate del mondo creato, iniziato a Napoli nel 1592 e terminato a Roma nel 1594. Questo poema, che vuole descrivere la creazione del mondo in sette giornate, è ricco di cultura e di erudizione attinta alle più svariate fonti letterarie, e pretende in certo modo gareggiare con illustri modelli precedenti (quali, ad esempio, il De rerum natura di Lucrezio). Il metro non è più l’ottava, bensì l’endecasillabo sciolto, frutto di grande cura e sapienza letteraria: il Tasso ci mostra la sua inesausta capacità di facitore di versi, che «con orecchio superbo ne regola l’armonia, con la sapiente varietà degli accenti, delle pause, delle cesure, degli enjambements»[28]. Tuttavia la sostanza poetica del poema rimane piuttosto scarsa, e il sentimento religioso, che dovrebbe animare l’opera, è, come sempre avviene nel Tasso, quanto mai esteriore, traducendosi unicamente in scene di gusto spettacolare e liturgico. Vi predomina invece, piuttosto, un sentimento dell’umana debolezza e della caducità di tutte le cose, in un vago clima di malinconia e di morte. Quel sentimento, cioè, di stanchezza e di malinconia che fu proprio dell’ultimo Tasso. Ma in realtà il vero interesse dell’opera consiste in una certa virtù della fantasia tassesca di spaziare attraverso una miriade di cose e di fenomeni, di aspetti e di forme del mondo. L’artista, il letterato ha raggiunto l’apice della propria bravura, riuscendo a riscoprire, entro un’architettura grandiosa, superfici e profondità d’impressione cariche di un’estrema vitalità, poiché inaugurano una rinnovata capacità percettiva dei fenomeni. Si tratta anche qui di una sensibilità letteraria che prelude a un gusto nuovo, quello che avrà vasta diffusione nelle opere della civiltà barocca.

 

I Discorsi

Secondo il Tasso la poesia, quale si realizza nel poema eroico, deve consistere nel verisimile (è l’antica teoria aristotelica), ispirarsi cioè alla realtà (una realtà, naturalmente, selezionata, da cui è escluso tutto ciò che è plebeo e banale, umile e oscuro); perciò deve fondarsi sulla “autorità della storia” (si tratta, anche qui, una storia “illustre” concepita essenzialmente come aulicità e decoro), ma al tempo stesso non esclude il “meraviglioso”, purché questo coincida con quel senso del mistero, con quel magismo che è presente nella religione cattolica (quindi anche ciò che è connesso al diabolico, in quanto permesso da Dio); questa sola, infatti, contiene “la verità de la religione”, corrisponde cioè a un sentimento comune e verisimile nell’animo dei lettori (la mitologia pagana, di conseguenza, è rifiutata, perché non è né storia reale né religione vera).

Appunto per illustrare queste sue concezioni (ovviamente ben più complesse del nostro semplice schema) il Tasso scrisse, intorno al 1564, i Discorsi dell’arte poetica (in tre libri) e, durante la vecchiaia, i Discorsi del poema eroico (in sei libri). Entrambe le opere sono di scarso rilievo dal punto di vista speculativo (sono riprese e riassunte le precedenti esperienze e discussioni dei letterati della prima metà del secolo: Trissino, Alamanni, G. B. Cinzio, Bernardo Tasso), ma sono utilissime per comprendere la poetica del Tasso. Fra le due opere «la differenza è soltanto di ampiezza e di documentazione. La teoria rimane la stessa, salvo in un punto, quello relativo alla funzione della poesia, che nell’opera giovanile è riposta nel diletto e nella meraviglia, mentre nelle pagine della maturità è ricondotta ad un fine didascalico e morale, che pur si afferma attraverso il diletto […]. Questo passaggio da un’estetica di tipo edonistico ad una di tipo edonistico‑pedagogico si determinava, del resto, non tanto per un mutamento di indirizzo quanto piuttosto per il semplice approfondirsi di un’esigenza che è alla base di tutta la sua concezione, quella cioè di una letteratura di classe, di un’arte in cui tutto fosse grandezza e decoro, nobiltà e splendore»[29]. È superfluo ricordare che queste teorie sono quelle che il Tasso cercò di realizzare e mostrare valide nella Gerusalemme Liberata.

 

I Dialoghi

I Dialoghi (in numero di 28) furono scritti, rielaborati e pubblicati nel periodo fra il 1578 e il 1595 (tranne l’ultimo, il Manso, che è postumo). Esposti in forma dialogica trattano svariatissimi temi di tipo filosofico, estetico, culturale, ma sempre con un tono di raffinata conversazione mondana e d’intrattenimento, sia pure alta­mente nobilitata da uno stile armonioso, nitido, controllatissimo. Questa tematica, frutto senza dubbio di una cultura vastissima, ma di impostazione genericamente letteraria e cortigiana, moralistica e pseudofilosofica, talora un po’ retorica e dilet­tantesca, già si rivela negli argomenti proposti dai titoli stessi: Il Messaggero (intorno al perfetto ambasciatore), Il padre di famiglia, Il Malpiglio secondo overo del fuggir la moltitudine, Il Cataneo overo de gli idoli (sui rapporti tra mitologia e letteratura cortigiana), La Molza overo de l’amore, Il Gonzaga overo del piacere onesto, Il Gonzaga secondo overo del giuoco, Il Minturno overo della bellezza, Il Malpiglio overo de la corte, Il Forno overo de la nobiltà, La Cavalletta overo de la poesia toscana, Il Gianluca overo de le maschere, Il Manso overo de l’amicizia ecc. ecc.

L’atteggiamento filosofico che vi predomina è quello dell’eclettico che, talora ingenuo e insicuro, tende a una sorta di conciliazione fra il platonismo umanistico e l’aristotelismo della Controriforma. Ma in realtà non c’è nel Tasso un’autentica voca­zione speculativa: i temi sono, in certo senso, intercambiabili, l’amore per il ragio­namento è un po’ fine a se stesso; e ciò accade perché questi Dialoghi sono prima di tutto un’esperienza di stile e un esercizio di rigore mentale, più che il frutto di un appassionamento ideologico sui temi trattati; salvo, naturalmente, quell’ideale della corte (e dell’accademia) che è alla base della vicenda umana e culturale del Tasso, e che in queste prose è sempre presente come salda e intoccabile realtà di vita, rifugio sicuro da tutti i possibili tentennamenti del pensiero e dell’esistenza. Anzi, se si considera che questi Dialoghi sono stati scritti quasi tutti nel periodo tormentoso in cui l’autore era rinchiuso in S. Anna, si comprenderà ancor meglio la loro esigenza di quotidiana elaborazione intellettuale, la loro funzione di interiore sfida stilistica, quasi per reagire ai possibili disordini della mente, alle angosce di un’anima turbata da sconvolgenti fantasmi e ossessioni.

Per quanto questa prosa non abbia alcuna rilevanza sul piano speculativo, acquista tuttavia il suo valore in un ambito di più vaste esperienze culturali, umane e stilistiche, poiché si impone «anche oggi all’interesse del lettore soprattutto per le introduzioni e digressioni narrative e descrittive e per gli spunti di carattere autobiografico»[30]. Una prosa, insomma che – come giustamente scriveva il Raimondi – fonde, con varia ma sempre forte efficacia, i due punti fondamentali, e perennemente in equilibrio tra loro, dell’esperienza artistica tassiana: la tensione “ornamentale‑poetica” e la vocazione “logico‑meditativa”. Il vertice di tale accordo si manifesta in “una sensualità lieve”, che si sublima in una precisione sensoriale, preannunciante un gusto nuovo.

 

Le lettere

Le numerosissime e spesso bellissime lettere che il Tasso ci ha lasciato (circa mille e settecento), sebbene nascano da una vigile coscienza di letterato, esperto e sapiente nel dettato della parola (filtrata talora alla luce di una vasta cultura classica secondo lo schema che ormai vigeva da almeno due secoli nella stilizzata cadenza dell’epistola umanistica), ci mostrano non solo «la sostanziosa base intellettuale e morale della sua poesia, male assimilabile a quella che sarà dominante nel Seicento italiano priva di una forte spinta morale e di una trama intellettuale adeguata»[31], ma anche l’impronta di una umanità viva e intimamente drammatica (ed era certo questo il motivo per cui il Leopardi, così affine alla sensibilità del Tasso, giudicava tale epistolario una delle opere più interessanti della nostra letteratura). Il poeta ci parla di se stesso, mettendo più direttamente a nudo la propria figura di uomo, in un alternarsi di miseria e grandezza, di ambiziose speranze e di frustrazioni avvilenti. I problemi della vita pratica e di quella artistica e culturale, le sue preoccupazioni materiali in un incalzare continuo, talora esasperante e penoso, di suppliche, lamentele, richieste ai vari signori e principi della corte, i turbamenti e le angosce di un’anima in certi momenti sconvolta, ci disegnano, nel complesso, il ritratto di un uomo eternamente bisognoso di appoggio e di aiuto, e al tempo stesso bramoso di un’egoistica raffinatezza di vita, sempre pronto a dolersi e a querelarsi di non essere sufficientemente apprezzato e ricompensato come poeta che dà lustro e splendore al suo secolo.

Tormentato e inquieto, apprensivo di fronte alla malinconia, alla solitudine, alla paura della morte, si direbbe che il poeta abbia quasi un bisogno continuo di evadere da questo suo senso di egocentrico isolamento e ristabilire idealmente una cerchia di amici con cui poter comunicare, discutere, vivere almeno attraverso il rapporto della parola scritta (soprattutto nel doloroso periodo della reclusione di S. Anna). Una solitudine, d’altra parte, che nasceva dall’esteriorità stessa di quella civiltà cortigiana a cui il Tasso si sentiva intimamente legato e di fronte alla quale, tuttavia, la sua sensibilità, proprio perché di ben altra levatura morale e spirituale, reagiva inconsciamente attraverso un perenne stato di insoddisfazione e di crisi. Così fra i ritmi compassati e fastosi della corte, che ritornano in queste lettere come una sorta di inevitabile liturgia, si insinuano a tratti le dolenti confessioni autobiografiche oppure certi affascinanti squarci lirici di allucinazione e magia, e, soprattutto, le sollecitazioni dell’artista continuamente alle prese con i problemi concreti della propria elaborazione poetica. E sarebbe ingiusto, in ultima analisi, non tenere presente l’estrema tensione di un uomo che lotta, al di là delle sue debolezze e delle contingenti miserie, per difendere l’ideale di una vita consacrata all’esercizio della parola, al culto dell’arte; questa, sì, fu veramente la fiamma che il Tasso tenne ostinatamente viva anche in mezzo a tempeste e disperazioni, ottenebramenti e furori, miserie umane e vicende di gloria.

***Note al testo***

[1] Francesco Maria II Della Rovere (Pesaro, 1549 – Urbania, 1631) era figlio di Guidobaldo II, Duca sovrano di Urbino e Conte di Montefeltro, e di Vittoria Farnese. Fu educato rigorosamente e trascorse gli anni tra il 1565 e 1568 alla corte di Spagna. Partecipò nel 1571 alla battaglia di Lepanto, alla testa di oltre 2.000 soldati provenienti dal ducato di Urbino, combattendo valorosamente a fianco di don Giovanni d’Austria. Divenuto duca di Urbino, nel 1580 vendette per 100.000 scudi a Giacomo Boncompagni il Ducato di Sora e Arce, dominio storico della sua famiglia, per far fronte alle difficoltà economiche in cui versava il Ducato ereditato dal padre. Ottenne il titolo di “Serenissimo” da Sua Maestà Cattolica il 15 settembre 1585 e lo stesso giorno fu nominato Cavaliere del Tosone d’Oro. Nel 1598 la moglie, Lucrezia d’Este, morì senza avergli dato un figlio. Passò quindi a nuove nozze nel 1599 con la cugina  Livia Della Rovere, più giovane di trentasei anni, per poter dare al ducato un erede. Nel 1605 venne alla luce Federico Ubaldo che, giovanissimo, assunse le redini del ducato e sposò Claudia de’ Medici nel 1621, dando a Francesco Maria II una nipotina. Federico Ubaldo morì improvvisamente nel 1623. Francesco Maria II, rassegnato all’estinzione della casata, sottoscrisse la devoluzione di tutti i feudi rovereschi al papa Urbano VIII.

[2] Carlo Sigonio (Modena, 1520 ca – Modena, 1584) insegno a Modena (1546), Venezia (1552), Padova (1560) e Bologna (1563). Fu tra i primi studiosi a dedicarsi alla storia medievale, ed è considerato (come scrive il de Carli) «il vero scopritore del Medioevo, quello che lo aperse agli studi e ne accennò la strada».

[3] Scipione Gonzaga (Mantova, 1542 – San Martino dall’Argine, 1593), figlio secondogenito di Emilia Cauzzi e del condottiero Carlo Gonzaga, fu destinato alla carriera ecclesiastica e nel 1559 vestì l’abito ecclesiastico. Principe di Bozzolo dal 1568, nel 1585 divenne principe dell’Impero e patriarca di Gerusalemme. Nel 1587 fu nominato cardinale e governò il Monferrato dal 1590. Uomo di profondissima fede, fu anche un dotto letterato ed ebbe una fornitissima biblioteca. Nel 1563 fondò l’Accademia degli Eterei e fece parte dell’Accademia degli Oziosi.

[4] Luigi d’Este (Ferrara, 1538 – Roma, 1586) era l’ultimogenito del duca di Ferrara Ercole II e di sua moglie la principessa Renata di Francia, figlia di Luigi XII. Nonostante le sue resistenze, fu avviato alla carriera ecclesiastica e il 26 febbraio 1561 papa Pio IV lo creò Cardinale di Santa Romana Chiesa. Ebbe una vita fastosa e dissipata, con numerose amanti. Tuttavia, oltre alle spese mondane si prodigò anche in opere di sincera carità per i poveri. Nel conclave del 1585 si batté per un’elezione che rafforzasse l’unità tra i principi cristiani nella comune battaglia contro gli «infedeli». Grazie a lui in quell’occasione si raggiunse un’unanimità di consensi che portò Sisto V sul soglio pontificio.

[5] Ippolito II d’Este (Ferrara, 1509 – Roma, 1572) era il secondogenito del duca Alfonso I d’Este e di Lucrezia Borgia. Nel 1519, a soli dieci anni, ricevette la cresima e gli ordini minori; lo zio, il cardinale Ippolito d’Este, gli cedette l’arcivescovato di Milano ed il 20 maggio ottenne da Leone X l’investitura episcopale e Paolo III lo creò cardinale nel concistoro del 5 marzo 1539. Consigliere dei sovrani di Francia Francesco I ed Enrico II, morte di Paolo III, l’ascesa al soglio pontificio divenne la sua sola ragione di vita, senza tuttavia mai riuscire a conseguire l’obbiettivo. Durante la sua vita ebbe relazioni amorose con donne dalla non brillante reputazione, dandosi a feste di ogni tipo, senza badare allo sfarzo e alle spese, e incapace di mantenere un rapporto duraturo. Amante delle arti, si impegnò anche indefessamente nella costruzione, nel rinnovo e nel restauro di molte bellezze di Ferrara e di Roma. È noto soprattutto per aver voluto la meravigliosa Villa d’Este di Tivoli, affidandone i lavori a Pirro Ligorio.

[6] Celio Malespini (Verona, 1531 – 1609) fu un personaggio poliedrico: scrittore, falsario, avventuriero e, probabilmente, una delle prime spie di professione di cui iniziarono a servirsi i governi di tutta Europa. È noto anche per essere l’autore delle Ducento novelle, opera di un certo rilievo, sia pure priva di sintesi e chiarezza espositiva, in stile boccaccesco. È necessario comunque notare che ben circa metà delle novelle sono plagiate da altri autori. Tradusse, inoltre, il Trésor di Brunetto Latini, e il Jardín de flores curiosas dell’erudito spagnolo Antonio de Torquemada.

[7] Vincenzo I Gonzaga (Mantova, 21 settembre 1562 – Mantova, 18 febbraio 1612) era il figlio di Guglielmo duca di Mantova e del Monferrato e di Eleonora d’Austria. Si distinse per la sua prodigalità, per le sue intemperanze, nonché per il suo amore per il lusso più sfrenato. Memorabili furono i suoi festini con belle dame e le escursioni notturne in compagnia degli amici, le quali spesso si concludevano in rissa. Nel 1587 Vincenzo venne incoronato quarto duca di Mantova con una cerimonia in cui furono presenti le massime autorità del ducato: egli poi mosse con una cavalcata per le vie cittadine. Desideroso di rinverdire le gesta degli avi, organizzò diverse costose spedizioni in Ungheria per combattere i turchi. In nessuna di queste però ebbe modo di dar prova di valore, in quanto non si andò mai al di là di brevi scaramucce e le spedizioni fecero notizia più per le numerose feste e ricevimenti organizzate dove passava l’esercito gonzaghesco, che per motivi militari. Volle la costruzione della poderosa cittadella di Casale Monferrato, opera che avrebbe dovuto agevolare la difesa della città, ma che in realtà si rivelò invece in seguito un polo di attrazione per le mire dei vari rivali (Savoia su tutti). Durante un viaggio nelle Fiandre il giovane Pieter Paul Rubens e lo condusse con sé a Mantova. Qui Rubens divenne pittore di corte e ricevette i suoi primi incarichi importanti e condusse la sua prima missione diplomatica alla corte spagnola. Fu ritrattista di corte anche il pittore fiammingo Frans Pourbus il Giovane.

[8] Giovanni Battista Manso marchese di Villalago (Napoli, 1567[1] – Napoli, 1645), scrittore, poeta e mecenate, fu promotore dell’Accademia degli Oziosi, fondò a Napoli il Seminario dei Nobili[6], detto anche “Monte Manso”, un’istituzione caritatevole alla quale l’intera aristocrazia napoletana riteneva un dovere contribuire. Oltre al Tasso, ospitò il celebre poeta e scrittore inglese John Milton, autore del Paradiso perduto, che gli dedicò un carme latino; fu  anche amico e protettore del poeta napoletano Giambattista Marino. Scrisse la Vita del Tasso, prima biografia in assoluto sul poeta, e una Vita del Marino, oggi perduta. Cominciò a lavorare anche ad un progetto di Enceclopedia, mai ultimato. Come poeta compose una raccolta di Poesie nomiche, d’intonazione soprattutto riflessiva e morale.

[9] Matteo Di Capua (Napoli, 1568 ca – Napoli, 1607) Apparteneva ad una delle più nobili e illustri famiglie del Regno: il padre Giulio Cesare aggiunse al titolo ducale (concesso al suo bisavolo Matteo) quello di principe di Conca, concesso dal re Filippo nel 1566. Trascorse gli anni giovanili alternando studio, ozio e divertimento come tutti i giovani della nobiltà napoletana; per le ricchezze possedute e per l’abilità paterna nel 1589 poté permettersi un matrimonio che lo nobilitava e arricchiva ulteriormente: la sua consorte donna Giovanna di Zuñiga Pacheco, era legata al viceré di Napoli don Giovanni Zuñiga, conte di Miranda, essendone nello stesso tempo nipote e cognata. Nel 1591, alla morte del padre, divenne titolare di un’entrata annua di 60.000 ducati che lo rendevano – se non il più ricco – tra i più ricchi uomini di Napoli. La sua casa era riferimento obbligato per gli intellettuali e per i nobili napoletani. Oltre al Tasso, anche il Marino frequentò il salotto di casa Di Capua, cosa che gli permise di affinare la sua preparazione intellettuale, grazie alla fornitissima biblioteca e ai prestigiosi personaggi con i quali poté entrare in contatto.

[10] Pietro Aldobrandini (Roma, 1571 – Roma, 1621) era figlio di Pietro Aldobrandini e Flaminia Ferracci. Clemente VIII, suo zio, lo elevò al rango di cardinale nel concistoro del 17 settembre 1593. Agli inizi del Seicento fu arcivescovo di Ravenna e cardinale abate commendatario di Sant’Ellero a Galeata. Importante fu il suo ruolo nelle vicende che portarono alla firma del Trattato di Lione del 17 gennaio 1601: fu lui a convincere Enrico IV di Francia e Carlo Emanuele I di Savoia a terminare la guerra per il possesso del Marchesato di Saluzzo. Fu il primo Cardinale Legato di Ferrara, allorché la città, dopo la morte di Alfonso II, ritornò sotto lo Stato della Chiesa.

[11] Cinzio Passeri Aldobrandini Personeni (Senigallia, 1551 – Roma, 1610) era figlio del mercante Aurelio Passeri (già Personeni) e di Giulia Aldobrandini, sorella di papa Clemente VIII. Nel 1565 Cinzio iniziò gli studi a Roma in lettere e dogana; frequentò il Collegio Germanico di Roma e le università di Perugia e Padova dove conseguì il dottorato in legge. Nel concistoro del 17 settembre 1593 papa Clemente VIII lo nominò cardinale con dispensa dovuta alla presenza del cugino Pietro Aldobrandini nel Sacro collegio cardinalizio; fu diacono di San Giorgio in Velabro. Governatore di Spoleto dal 4 febbraio 1595 al 21 febbraio 1607. Prefetto del Tribunale della Segnatura Apostolica di giustizia fino al 23 dicembre 1599. Dal 1601 al 1607 fu legato pontificio ad Avignone (dove però non andò mai). Partecipò al conclave del marzo-aprile 1605. Nel 1605 fu nominato penitenziere maggiore da papa Leone XI ma rinunciò subito in quanto non era stato ordinato sacerdote. Partecipò al conclave del maggio 1605. Ordinato sacerdote nel 1605 riottenne la nomina a penitenziere maggiore, il 1º giugno 1605 gli fu concesso il titolo di San Pietro in Vincoli. Si distinse per la sua generosità con i poveri e come protettore e sostenitore delle arti e lettere.

[12] Eleonora d’Este (Ferrara, 1537 – Ferrara, 1581) era la figlia quartogenita del duca di Ferrara Ercole II e di sua moglie la principessa Renata di Francia. Il Tasso dedicò a lei e alla sorella Lucrezia, andata sposa al duca Francesco Maria II Della Rovere, la lirica O figlie di Renata.

[13] Lanfranco Caretti, Il Tasso e l’epoca sua, in Ariosto e Tasso, Torino, Einaudi, 1981, pag. 89.

[14] Fabio Pittorru, Torquato Tasso, Bompiani, Milano, 1982.

[15] Lanfranco Caretti, op. cit., pag. 93.

[16] Walter Binni, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in OPERE COMPLETE DI WALTER BINNI, Il Ponte Editore, 2017, pag. 233.

[17] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 195.

[18] Walter Binni, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in OPERE COMPLETE DI WALTER BINNI, Il Ponte Editore, 2017, pag. 234-235.

[19] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 192-193.

[20] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 190-191.

[21] Gerusalemme liberata, XVI, 14.

[22] Gerusalemme liberata, I, 60.

[23] Gerusalemme liberata, XII, 57.

[24] Gerusalemme liberata, VII, 36.

[25] Gerusalemme liberata, XX, 73.

[26] Gerusalemme liberata, XIX, 10.

[27] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 211-212.

[28] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 213.

[29] Giovanni Getto, Tra pensiero e poesia: I Discorsi, in Interpretazione del Tasso, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1951.

[30] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 208.

[31] Walter Binni, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in OPERE COMPLETE DI WALTER BINNI, Il Ponte Editore, 2017, pag. 243.


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