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Marco Michelini | 9 Dicembre 2020

Preoccupato com’è di rintracciare e offrire “modelli” (nella lirica come nel comportamento, nell’organizzazione delle forme e dei generi letterari come nella trattatistica civile e politica), il Cinquecento non poteva certo esimersi da quel tipo di esercizio letterario e di confessione psicologica che è l’autobiografia. “Letteratura” e “psicologia” che non vanno mai separate nel giudizio, ad evitare un’interpretazione tutta romantica – in chiave di esaltazione titanica o di grido anarchico – del ritratto che lo scrittore lascia di sé.

In un secolo così “letterato” come fu appunto il Cinquecento lo scrittore opera sempre in vista di un risultato anche artistico e nell’autobiografia, in specie, non è tanto teso ad affidare l’immagine “veritiera” di sé (anche se questa è la sua costante ferma protesta), una confessione tutta spiegata e il più possibile “spon­tanea” dei propri vizi e delle proprie virtù, quanto piuttosto a costruire ancora una volta un “modello”, un esemplare, che del proprio tempo interpreta le tensioni più sublimi e le richieste di eccezione. Il che non esclude, ovviamente, la fedeltà di fondo ai dati biografici. Una delle più celebri autobiografie (e non solo del suo tempo ma anche della nostra storia letteraria), è sicuramente quella dell’orafo e scultore Benvenuto Cellini.

Accanto all’autobiografia si colloca un genere anch’esso di gloriosa tradizione, che ha avuto nel Cinquecento alcuni tra i suoi più grandi maestri (basti pensare all’Aretino): quello dell’epistolografia. Le lettere, infatti, dei vari scrittori, al di là della loro immediata destinazione, raccolgono spesso una molteplicità di interessi e di modi, che ne fanno uno dei generi più inaspettatamente compositi e vari. Nel tono colloquiale sono spesso assunti veri e propri movimenti teatrali o intenzioni novellistiche, o veri e propri tratti saggistici, o immediate impressioni e moralità, ora con arguzia e spontaneità, ora con suprema accortezza di stile e di struttura.

 

Benvenuto Cellini

 

Benvenuto Cellini nacque a Firenze nel 1500 da Elisabetta Granacci e da Giovanni Cellini, un suonatore di strumenti musicali e intagliatore d’avorio che si cimentava nella costruzione di viole, arpe e liuti, nonché di organi e clavicembali. Già in tenerissima età il padre tentò di avviare il piccolo Benvenuto alla professione di musico, ma con scarso successo, tanto che – come scrive il Cellini stesso – «stette a sonare insino all’età de’ quindici anni», ma «malcontento», finché non riuscì a mettersi «a bottega all’orefice»[1].

Ben presto dovette però lasciare Firenze poiché in seguito ad una rissa fu esiliato (1516) insieme al fratello Cecchino a Siena dove soggiornò per diversi mesi, studiando oreficeria. Successivamente fu a Bologna, Pisa e Roma. Dietro alle insistenze del padre, nel 1521 fece ritorno a Firenze, ove lavorò nelle botteghe di vari orafi. Ma le 1523, a seguito di una nuova zuffa armata, il Cellini venne condannato a morte e fu costretto a fuggire e a riparare a Roma. Qui sarebbe rimasto fino al 1540, passando dal favore di Clemente VII all’avversione di Pier Luigi Farnese[2], figlio di Paolo III; difendendo Castel Sant’Angelo come cannoniere nel 1527 e divenendo maestro delle stampe nella zecca pontificia nel 1529 (e rima­nendolo fino alla morte di Clemente VII, nel 1534); creando numerosi oggetti di oreficeria per i cardinali e per lo stesso pontefice, e finendo imprigionato a Castel Sant’Angelo sotto l’accusa di aver, sottratto le gioie affidategli da Clemente VII durante il sacco di Roma; conducendo sempre vita irrequieta e violenta (commise anche alcuni omicidi) al riparo di un discontinuo, e comunque da lui sopravvalutato, favore papale.

Liberato dalla prigionia nel 1539 il Cellini prese la via della Francia e , dopo una sosta a Siena (dove uccise un maestro di posta) e a Ferrara, giunse a Fontainebleau nel settembre 1540. Dal re di Francia Francesco I, che già lo aveva ospitato a Lione nel 1537, ottenne protezione e favori (ebbe a disposizione un castello, il Petit-Nesle, a Parigi, e gli fu corri­sposta una pensione) dal 1540 al 1545: appartengono a questo periodo della sua attività artistica la Saliera d’oro e la bronzea Ninfa di Fontainebleau. Ma anche qui riuscì a creare attorno a sé inimicizie e avversioni, a causa di dissapori con vari cortigiani. Per tali motivi, nel 1545, Cellini decise di lasciare Parigi e dopo una breve sosta a Lione, Cellini valicò le Alpi e ritornò a Firenze, alla corte di Cosimo I de’ Medici, che gli commissionò il Perseo.

La collocazione della statua in Piazza della Signoria, nella Loggia dei Lanzi, segnò il culmine, nel 1554, delle fortune fiorentine e cortigiane di Celimi, ben presto insidiate e soppiantate nella scena artistica fiorentina dai suoi concorrenti[3], ma soprattutto dalla condanna (1557)  a cinquanta scudi di multa e a quattro anni di carcere (commutati poi da Cosimo I in quattro anni di arresti domiciliari) perché durante «cinque anni […] ha tenuto […] Fernando di Giovanni di Montepulciano […] in letto come sua moglie». Rimase tuttavia a Firenze fino al 1571, anno della morte, in compagnia della moglie (che aveva sposato in tarda età, nel 1565) e dei tre figli, dedicandosi all’oreficeria, alla scultura[4], nonché alla stesura di trattati tecnici (Dell’oreficeria, Della scultura), dei Discorsi sopra l’arte, di alcuni sonetti, e, soprattutto, della Vita.

Nel 1558, nell’ormai avanzata maturità e durante un periodo di scarsa fortuna personale, quale egli già più volte aveva sperimentato, ma che stavolta si sarebbe confermato come definitivo, il Cellini iniziò a scrivere La Vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze, dapprima di proprio pugno, poi – come egli stesso ci dice –  dettandola a «un figliuolo di Michele di Coro […] fanciullino di età di XIII anni circa et […] ammalatuccio»[5].

Solo che, mentre la produzione artistica celliniana contemporanea alla stesura della Vita non faceva che ribadire i caratteri del complesso delle opere precedenti, la prima, e fondamentale, opera letteraria manifestava vistosamente una fisionomia in apparenza incongruente. Come riconoscere di una stessa mano – se si vuole, di una stessa maniera – la levigatezza e sinuosità formale, la continuità, che davvero non conosce soluzione, di una linea che spesso paga all’eleganza il tributo del vigore, da una parte, e, dall’altra, il capriccio, la frammentazione, l’irregolarità, insomma, di un testo che è passato a testimoniare un Cinquecento antiaccademico e bizzarro?

Tanto per ribadire l’infondatezza di un mito tenace, quello di una scrittura istintiva e immediata, quale fu istituito dal primo critico della Vita celliniana, il Baretti[6] – il quale aveva parlato di «uomo ignorantissimo» e «senza alcuna tinta di letteratura» che «ha prima scritto che pensato» una prosa «non […] fatta a studio, ma […] dettata da una fantasia infuocata e rapida» – e per evitare, di conseguenza, di espungere proprio a viva forza questa prosa dal canone del decoro classicistico cinquecentesco, se ne veda istituita, dichiarata, una caratteristica fonda­mentale nel dettato non certo sospetto di quel  maestro di eleganza letteraria e personale, pubblica e privata, qale fu il Castiglione: «Trovo una regula universalissima, la qual mi par valer […] in tutte le cose umane […] per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi»[7].

La naturalezza della prosa celliniana ha certo la sua buona parte di arte, di artificio più o meno occulto (l’autore è, fondamentalmente, dal punto di vista letterario, uno di quei «pratici» verso i quali, nel campo delle arti plastiche, egli provava tanto fastidio) e subordinato al fine di una «viva e natural pittura di sé medesimo», perché l’universo della Vita conosce un centro che è l’uomo ed artista Benvenuto Cellini, alla cui esperienza si riconduce tutto quanto è altro. Ma questo soggetto‑centro che si manifesta nel proprio vitalismo prorompente, è ripetutamente insidiato dal repentaglio al quale tutto il suo essere è sottoposto da svariati pericoli, ciascuno «maggiore che immaginar si possa al mondo»[8]; da questa continua alternanza di vita e morte scaturisce una figurazione singolarmente bidimensionale, veramente «pittoresca», come avrebbe poi detto il Baretti.

Mescolando verità e menzogna, tralasciando gli episodi più disonorevoli, Il Cellini nella Vita attinse a piene mani dal potere espressivo della lingua fiorentina, e consegnò ai posteri con quest’opera un valente documento biografico dove narra della genesi delle sue opere e dei vari episodi che hanno caratterizzato la sua irregolare esistenza, con passi destinati a divenire celebri. «La parola usuale della vita era sufficiente alla narrazione di essa; e il Cellini lo capì perché egli sentì di aderire così in tutto e per tutto e sempre alla propria realtà storica, la quale nei particolari era stata tutta quotidianità fiorentina, e fiorentinità del Rinascimento, una cosa, cioè, così grande, che di per sé stessa lo soddisfaceva al massimo grado. […] Quanto alla sintassi, che le parole ordinava, il Cellini non si scostò mai dalle proprie ordinarie capacità o incapacità, dandole così tratti caratteristici spiccatissimi. In un seguito di proposizioni subordinate, appena allo scrittore si presenta un’idea che s’imponga, la subordinazione si trasforma in coordinazione; in un seguito di frasi organate in discorso indiretto, non appena spunta il pensiero o il fatto che più importa allo scrittore, il discorso indiretto si trasforma subito in discorso diretto. E così si crea, a forza di irregolarità d’ogni genere, di anacoluti e di iperbati violenti, quel particolare stile che è sfuggito ad ogni proposito di sistemazione»[9].

Altrettanto prezioso è anche il valore storiografico dell’opera, che – come è stato notato – si propone quale un affresco della società del Cinquecento. «Così Benvenuto finì per diventare un modello, anzi un eroe e forse anche un mito: era un po’, per intendersi, il rappresentante di un’Italia dei pugnali, dei veleni e degli intrighi quale poté vagheggiarla uno spirito lucidissimo eppur romanticamente inquieto come Stendhal. Non senza ragione il suo Fabrizio del Dongo evade – nella Chartreuse de Parme – dalla Torre Farnese come il Cellini aveva fatto da Castel Sant’Angelo!

L’uomo ha così messo, nel Cellini, lo scrittore in seconda linea: e, se i Trattati sono stati relegati dalla critica letteraria nel mondo della tecnica e le Rime vengono ancora considerate come un ameno passatempo dell’artista, la Vita è soprattutto sentita come sfogo di un’individualità che non avrebbe avuto degno coronamento nel suo secolo, anzi essa è perfino stata considerata come documento sic et simpliciter di un’esistenza d’artista e d’uomo del tutto fallita»[10].

La Vita, rimasta inedita fino a 1728, anni in cui fu pubblicata a Napoli, ebbe singolare fortuna, ed è opportuno fare riferimento a già citato Baretti per comprendere, nel modo più completo, come il ritratto dell’uomo Cellini abbia potuto radicarsi e sopravvivere, risultando – ai giorni nostri – ancora efficace. «Noi non abbiamo alcun libro della nostra lingua» scrive il Baretti nell’ottavo fascicolo della sua rivista «tanto dilettevole a leggersi quanto la Vita di quel Benvenuto Cellini scritta da lui medesimo nel puro e pretto parlare della plebe fiorentina. Quel Cellini dipinse quivi se stesso con sommissima ingenuità, e tal quale si sentiva di essere: vale a dire bravissimo nell’arte del disegno e adoratore di essa non meno che de’ letterati, e spezialmente de’ poeti, abbenché senza alcuna tinta di letteratura egli stesso, e senza saper più di poesia, che quel poco saputo per natura generalmente da tutti i vivaci nativi di terra toscana. Si dipinse, dico, come sentiva d’essere, cioè animoso come un granatiere francese, vendicativo come una vipera, superstizioso in sommo grado, e pieno di bizzarria e di capricci; galante in un crocchio di amici, ma poco suscettibile di tenera amicizia; lascivo anzi che casto; un poco traditore senza credersi tale; un poco invidioso e maligno; millantatore e vano, senza sospettarsi tale; senza cirimonie e senza affettazione; con una dose di matto non mediocre, accompagnata da ferma fiducia d’essere molto savio, circospetto e prudente. Di questo bel carattere l’impetuoso Benvenuto si dipinse nella sua Vita senza pensarvi su più che tanto, persuasissimo sempre di dipingere un eroe. Eppure quella strana pittura di se stesso riesce piacevolissima a’ leggitori, perché si vede chiaro che non è fatta a studio, ma che è dettata da una fantasia infuocata e rapida, e ch’egli ha prima scritto che pensato».

Il Baretti, insomma, vide nel Cellini lo scrittore che non correva appresso alle poetiche cinquecentesche, che si muovevano tra le raffinatezze del petrarchismo e le affettazioni del boccaccismo. Il Romanticismo fece poi il resto, giacché – proclamando l’individualità d’ogni artista e il culto della grandezza e della sincerità – giunse a lodare il Cellini anche per le sue qualità più deteriori e ad apprezzarlo per la sua lotta – più che strenua, anzi forsennata di proposito – contro tempi più o meno retrivi.

*** NOTE AL TESTO ***

[1] Vita, I, 7.

[2] Pier Luigi Farnese (Roma, 1503 – Piacenza, 1547, primo duca di Castro e di Parma, nacque dal cardinale Alessandro Farnese, e da Silvia Ruffini, gentildonna romana che diede al futuro papa altri tre figli. Umo d’arme selvaggio, primordiale e amorale, fu al soldo della Repubblica di Venezia e dell’Imperatore Carlo V, partecipando, assieme ai lanzichenecchi, al sacco di Roma. Al ritiro dei lanzichenecchi, per lo scoppiare della peste, anziché seguirli, iniziò a battere la campagna romana taglieggiando senza pietà e segnalando la sua presenza con furti, profanazioni e omicidi, finché Clemente VII, stanco di sopportare i suoi comportamenti, gli lanciò contro la scomunica maggiore e l’anatema. Per i buoni uffici del padre, la scomunica fu ritirata nel 1529, e nelle stesso anno il Farnese passò al soldo del principe d’Orange e combatté strenuamente contro Firenze, guerra patrocinata anche dal papa, che la vedeva come un mezzo per riportare la città sotto il controllo dei Medici. Con l’ascesa al soglio pontifico del padre (1534), venne infeudato del ducato di castro (che il papa aveva creato appositamente per lui) e successivamente del ducato di Parma e Piacenza (1545). Mori in una congiura di palazzo ordita dal governatore di milano Ferrante I Gonzaga.

[3] Baccio Bandinelli e Bartolomeo Ammannati.

[4] Durante i quattro anni di arresti domiciliari Cellini scolpì il Crocifisso di marmo ora all’Escorial di Madrid.

[5] Incipit della Vita.

[6] Giuseppe Marco Antonio Baretti, noto anche con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue (Torino, 1719 – Londra, 1789), critico letterario, traduttore, poeta, scrittore, drammaturgo e linguista italiano, con la sua rivista Frusta letteraria polemizzò in maniera efficace ed estrosa contro la stucchevole poesia bucolica, l’erudizione accademica, il bigottismo religioso. Tuttavia, nonostante questa sua veemente vena polemica anticonformista, non riuscì ad entrare in sintonia con lo spirito dei nuovi tempi, che sono i tempi dell’Illuminismo. È stato quindi non a caso definito un “ribelle conservatore”.

[7] Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, I, 26.

[8] Vita, II, 75.

[9] Igino Benvenuto Supino – Mario Chini, CELLINI, Benvenuto, Enciclopedia Italiana, 1931 – https://www.treccani.it/enciclopedia/benvenuto-cellini_%28Enciclopedia-Italiana%29/

[10] Carlo Cordié, Benvenuto Cellini: La Vita – Introduzione, in I Classici Ricciardi: Introduzioni, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1996.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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