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Marco M. G. Michelini | 16 Dicembre 2020

Linea Biografica

 

Annibale Caro (o Annibal Caro) Nacque nel 1507 a Civitanova Marche da Giambattista, speziale e commerciante che aveva anche ricoperto qualche carica pubblica, e da Celanzia Centofiorini, appartenente a una nobile famiglia. Seguì inizialmente nella città natale le lezioni di un modesto maestro di grammatica[1], poi, nel 1525, entrato in casa di Luigi Gaddi[2] a Firenze come precettore del nipote, intraprese un’assidua frequentazione con Benedetto Varchi che lo spinse ad intraprendere un sistematico tirocinio umanistico.

Nel 1529 monsignor Giovanni Gaddi[3], fratello di Luigi e chierico della Camera apostolica, lo assunse come segretario e lo condusse con sé a Roma, dandogli il priorato di Monte Granaro, la badia di Somma, benefici e prebende. A Roma il Caro strinse amicizie con poeti ed artisti, e fece parte delle allegre compagnie che si adunavano nella contrada dei Banchi, ma fece parte anche della  più seria accademia della Nuova poesia, che mirava a introdurre nella poesia italiana i metri classici.

Nel 1538 il Caro fu con il Gaddi a Napoli, dove conobbe pensatori e letterati quali Luigi Tansillo e Bernardo Tasso; e nel 1539 ottenne momentaneamente l’ufficio di segretario presso Giovanni Guidiccioni[4], avendo così modo di seguire le truppe che assediavano Savignano e di recarsi durante la primavera del 1540 a Venezia, ove incontrò l’Aretino e Sperone Speroni.

Dopo la morte di monsignor Gaddi, il Caro entrò al servizio di Pier Luigi Farnese (1543) come primo segretario, con il quale (o per il quale) viaggiò in legazioni e commissioni varie; e allorché il Farnese divenne duca di Parma e Piacenza venne messo a capo dell’amministrazione della giustizia. Rimase al servizio del duca fino all’uccisione di questi, avvenuta durante una congiura di palazzo, dalla quale anche il Caro riuscì a salvarsi a stento. Successivamente tornò a Roma e si mise al servizio del cardinale Alessandro Farnese[5], con il quale rimase dal 1548 al 1563, raggiungendo una grande fama, che gli permise di stringere rapporti letterari e d’amicizia con i più importanti personaggi del suo tempo.

Nel 1553, il Caro, per incarico del cardinale Alessandro, scrisse una canzone in lode della casa reale di Francia: Venite all’ombra dei gran gigli d’oro, componimento encomiastico e come tale assai freddo ed artificioso. La canzone venne attaccata aspramente in un Parere dal letterato modenese Ludovico Castelvetro[6], cui il Caro rispose con una elefantiaca Apologia della propria opera: si apriva così uno dei molti – e sicuramente uno dei più famosi – casi letterari del Cinquecento, che si inserì nella lotta tra anti-francesi ed anti-imperiali ed alla quale parteciparono molti scrittori ed intellettuali dell’epoca. Triste episodio di questa disputa fu la morte di Alberico Longo, giovane ed oscuro letterato partigiano del Caro, ucciso a tradimento nel 1555, non si sa bene da chi.

Nel 1563, sentendosi stanco e precocemente vecchio, il Caro si ritirò a vita privata nella sua villa presso Frascati, ove si dedicò alla traduzione in endecasillabi sciolti dell’Eneide di Virgilio (pubblicata postuma nel 1581). Morì a Roma nel 1566 e fu sepolto in S. Lorenzo in Damaso.

 

Le Opere

 

«Dare un senso alla molteplice attività culturale di Annibal Caro presenta indubbiamente delle difficoltà. Cortigiano, non ottenne dalla familiarità con i potenti il prestigio dell’Aretino, non espresse i risentimenti dell’Ariosto e non ne avverti lo scacco drammaticamente manifestato dal Berni. Poligrafo, denunciò insoddisfazione per quasi tutte le esperienze letterarie tentate nell’arco di un quarantennio: prove giudicate imperfette, occasionali, insuffi­cienti nel rapporto tra lo scarso impegno dell’autore talvolta la sua confessa­ta inadeguatezza culturale e le aspettative dell’epoca. Scrittore fra i più prodighi del Cinquecento, non esitava a rivelare in una celebre lettera indirizzata a Marcantonio Piccolomini “la miseria de lo scrivere”, nonché la pratica au­toritaria connessa alla mentalità degli intellettuali (“Perché io non veggo che questo sapere a l’ultimo ci serva ad altro, che a sopraffar quelli, che sanno meno”) e la vacuità nel perseguire “dottrine, de la maggior parte de le quali non si dà certezza, che n’acqueti l’animo”. Si ha tuttavia l’impressione che queste contraddizioni possano risultare più fertili per un moderno ricono­scimento del Caro di quanto non sia stata disposta a cogliere la critica volta a segmenti anche significativi dell’opera. Bisognerà quindi ripercorrere per intero l’esperienza culturale del Caro soffermandoci su costanti e variazioni della sua scrittura, zone di stallo e slanci progressivi, scarti e recuperi segna­lati da una topografia letteraria che sembra comunque orientata nel senso del­la traduzione. L’ipotesi di fondo che informa queste pagine si basa sulla co­statazione che l’opera del Caro si inaugura e si conclude traducendo. Il la­voro di traduzione, in altri termini, potrebbe costituire emblematicamente l’incipit e l’explicit di un fitto volume mai pumice expolitum»[7].

Quello della traduzione era un antico impegno per Caro, che ventenne aveva compiuto il suo esordio come tradut­tore cimentandosi con la prima delle lettere di Cicerone al fratello Quinto, e in se­guito, nel 1538, aveva tradotto e parafrasato il romanzo Gli amori pastorali di Dafni e Cloe, di Longo Sofista[8]; sarebbe poi stata la volta di Seneca e Teocrito e, molti anni più tardi, accennò anche ad una versione della Retorica di Aristotele, eseguita per uso personale. Ai primi anni romani presso monsignor Gaddi appartengono componimenti burleschi d’ispirazione burchiellesca e bernesca: la Statua della Foia, ovvero di Santa Nafissa, la Nasea ovvero diceria de’ Nasi, il Commento di Ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima ficaia del padre Siceo, con le quali si prendeva gioco del tono solenne e dell’enfasi delle orazioni latine degli ultimi umanisti.

Ben più strutturata e letterariamente più valida è la commedia Gli Straccioni, scritta su richiesta di Pier Luigi Farnese e ideata sulla falsariga de Le avventure di Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio[9]. A differenza della tradizione, che prevedeva (secondo la già citata teoria derivata dalla Poetica di Aristotele) un argomento semplice o doppio, Gli Straccioni ne presenta uno triplice. Ma la vera novità della commedia, rispetto alla consuetudine, è il modello di riferimento, che non è una novella boccaccesca o un classico latino, bensì un romanzo greco. Inoltre, la commedia, per lo stile e per l’intreccio, appare –come è stato scritto – il prodotto esemplare di un Rinascimento ormai entrato in una fase di declino, una specie di nobile consuntivo della grande stagione comica cinquecentesca.

Come s’è già detto, le critiche del Castelvetro, “uomo scortese e di mala natura”, mosse al peraltro modesto omaggio letterario ai sovrani di Francia, scatenarono da parte del Caro una reazione pesantissima. Alle censure, invero, pedantesche, mosse dal Castelvetro in nome di un rigido petrarchismo, Caro rispondeva con un’opera elefantiaca e composita, per molti aspetti bizzarra e insolita, che vide la luce a Parma nel 1558: l’Apologia degli accademici di Banchi di Roma contro M. Ludovico Castelvetro da Modena, terminante con dieci sonetti caudati alla burchiellesca, folti di ironie e di invettive (detti Mattaccini), e con una Corona di nove sonetti ingiuriosi. Questo vero e proprio sfogo collerico, che si finge creato ed architettato da Pasquino[10], quale maestro di maldicenze, conta di tre scritti composti da sedicenti amici romani del Caro: il Risentimento del Predella, la Rimenata del Buratto, il Sognodi Ser Fedocco a Messer Lodovico Castelvetro. Celeberrima è la parte conclusiva, il Sogno di Ser Fedocco, vivace di attraenti invenzioni (quali la dissa­crazione onirica della civetta, emblema del Castelvetro, declassata a barbagianni e gufo) e di efficaci trovate polemiche (Petrarca e Burchiello che si trovano d’ac­cordo nel censurare la pedanteria del Castelvetro), che serve anche ad introdurre gli altrettanto noti, e forse più fortunati, Mattaccini.

Ma è nel Risentimento del Predella, con il quale si apre l’Apologia, che viene giustificata la scelta linguistica della Canzone e ne è illustrato il principio della scelta metaforica, in una prospettiva che va ben al di là dell’oggetto contingente del dibattere. Occorre infatti eludere la dissimulazione “artificiosamente” operata da una scrittura discorsiva e cattivante, per coglierne la posizione cruciale rispetto ai due grandi problemi che si divisero, anche cronologicamente, l’area cinquecentesca. Se infatti la prima parte del secolo fu occupata dai dibattiti sui sistemi significanti (e proprio l’Apologia testimonia una revisione del canone bembesco, quale si andava delineando intorno alla metà del secolo) ben presto, col pro­cedere del secolo, si sarebbe fatto avanti un problema di significato. D’ora in poi la crisi che investirà il significato avrà però carattere ben preciso, e sarà l’impossibilità, per il significato, di darsi altrimenti che come “figurato” (i gigli di Francia «figura di sì gran figurato»). Inoltre la polemica Caro-Castelvetro è in larga misura anche polemica (la prima di una ricca letteratura) sulla metafora, chiamata a supplire, nell’opera di significazione del reale, alle carenze dei significanti propri.

Quando, sul finire della vita, il Caro mise mano alla traduzione dell’Eneide, circolavano altre due traduzioni dell’opera virgiliana, la prima stampata nel 1476 e la seconda nel 1528. In una lettera al Varchi del settembre 1565 il Caro scrive: «è vero che ho fatto una tradozione de’ libri di Virgilio, non in ottava rima, come dite, ma in versi sciolti, co­sa cominciata per ischerzo, e solo per una pruova d’un poema che mi cadde ne l’animo di fare dopo che m’allargai de la servitù, ma ricordandomi poi che sono tanto oltre con gli anni, che non sono più a tempo a condur poemi, fra l’essortazioni de gli altri ed un certo diletto che ho trovato in far prova di questa lingua con la latina, mi son lasciato trasportare a continuare, tanto che mi nuovo ora nel decimo libro». In queste parole vengono espresse con estrema chiarezza le motivazioni che spinsero il Caro alla traduzione del testo virgiliano: la prima è l’allargarsi «de la servitù» e il tentare di intraprendere la scrittura di un poema eroico, la seconda è data dall’insignificanza di questa «co­sa cominciata per ischerzo» (come se lo scrittore volesse giocare al ribasso), la terza nell’uso di un nuovo metro che consenta una maggiore disinvoltura nell’uso della lingua. Il risultato è una traduzione “bella e infedele”, per usare un famoso luogo comune, ma che consente – attraverso una struttura linguistica levigata, intrigante e mai scontata il “riutilizzo”, se ci è concesso dirlo, del modello in ambito “moderno”. Il verseggiare del caro, insomma, fa scuola, come è stato notato, e si imporrà come esempio di scrittura, i cui echi si ritroveranno nel Seicento, nel Settecento e, ancora, nell’Ottocento; in esso si rintracciano contaminazioni essenziali dell’impianto epico latino con gli elementi tipici della cultura e dell’etica cavalleresca e l’amor cortese. Nella versione dell’Eneide, Enea, quanto Didone e Turno hanno appreso, sotto la lente cariana, quei valori e quelle virtù proprie della morale cavalleresca, e si comportano secondo queste regole. In tal modo, la bellezza, la gloria, l’amor di patria divengono i sentimenti cardine dei personaggi, descritti attraverso questo nuovo verso eroico che il Caro ha saputo plasmare. Certo non è difficile per i critici moderni, come non lo fu per il Foscolo, rintracciare in questa traduzione difformità e sbavature, ma non è su queste libertà interpretative che va giudicata l’opera del Caro, bensì per quella dignità letteraria che – dal Caro in poi – assumerà la figura del traduttore: pur nella sua amplificata libertà interpretativa, che a volte si stempera in una eccessiva volontà di chiarezza che finisce per banalizzare il dettato, l’Eneide cariana non solo vince qualsiasi confronto con le traduzioni consimili, ma, con la sua pienezza d’arminia e freschezza di linguaggio, come opera indipendente che vive di vita propria.

Tra gli stampatori che, incoraggiati dal successo che immediatamente aveva arriso all’epistolario di Pietro Aretino, cercavano raccolte di lettere da destinare a una vantaggiosa fortuna editoriale, lo stesso Paolo Manuzio, buon ultimo di una nutrita schiera, si rivolse più volte e con grande insistenza al Caro perché gli affidasse la folta corrispondenza che andava intrattenendo con alcuni dei suoi contemporanei più in vista in campo politico e culturale. Caro rifiutò sempre, dicendosi convinto della scarsa validità letteraria delle sue lettere, e soltanto nel 1572-1575 ne uscì, postuma presso il Manuzio, una prima raccolta.

Erano quattrocento lettere, meno della metà di quel migliaio che le assidue ricerche degli eruditi settecenteschi e ottocenteschi permisero di attribuirgli. Fu così ricostituito uno degli epistolari più quantitativamente cospicui di tutto il Cin­quecento, e, a suo modo, alquanto significativo di come un’elegante patina letteraria riesca a dare coesione e coerenza immediatamente avvertibile alla grande varietà di casi che si presentano alla curiosità vivace ma superficiale, alla comunicazione, alla divagazione, alla riflessione. In esse il Caro tratta con impareggiabile agilità i modi epistolari e gli argomenti più vari, talora in brevi biglietti e talora in ampi discorsi, talora con elegante spensieratezza e talora con sontuosa erudizione, senza mai divenire pedante, e sempre con una fresca raffinatezza e con una leggiadra vivacità d’immagini. E tutto ciò fa sì che oltre all’Eneide, la fama del Caro rimanga legata pure alla raccolta delle sue Lettere.

 

*** NOTE AL TESTO ***

 

[1] Il teramano Rodolfo Iracinto, esule per ragioni politiche.

[2] La famiglia Gaddi si dedicava con successo all’attività bancaria, con imprese operanti a Firenze e a Roma; soprattutto in quest’ultima città i Gaddi riuscirono, durante il pontificato di Leone X, ad aggiudicarsi affari cospicui, come l’appalto della Tesoreria delle Marche. Nel maggio del 1527, quando ormai si profilava il pericolo dell’invasione di Roma da parte dei lanzichenecchi, il banco Gaddi di Roma sovvenzionò il papa con circa 40.000 scudi, cosa che valse, come ricompensa, la promozione al cardinalato del fratello Niccolò.

[3] Monsignor Giovanni Gaddi (Firenze, 1493 – Roma 1542), nacque da Taddeo e Antonia di Bindo Altoviti. Nella prima giovinezza fu legato da consuetudine con Giuliano de’ Medici, duca di Nemours. Conseguiti gli ordini ecclesiastici, il Gaddi ebbe in commenda l’abbazia di S. Salvatore a Salvamondo o Cornaro, nella diocesi aretina, e sotto il pontificato di Clemente VII ottenne la dignità di chierico della Camera apostolica, divenendone ben presto decano. La sua casa a Roma era luogo di incontro e di riunione di una vasta cerchia di poeti e di letterati, gli stessi che formavano il circolo letterario noto come Società della Virtù. Ad alcuni di essi il Gaddi passava addirittura un sussidio, in cambio di piccoli servizi, affinché potessero dedicarsi con più tranquillità ai loro studi e al loro estro.

[4] Giovanni Guidiccioni (Lucca, 1500 – Macerata, 1541), poeta e vescovo, studiò a Bologna, a Pisa, a Padova e a Ferrara, ove si laureò nel 1525. Nel 1527 lo zio, Bartolomeo Guidiccioni, lasciò in suo favore il proprio impiego tenuto a Parma alla corte del cardinale Alessandro Farnese, e quando questi diventò papa (1534), col nome di Paolo III, lo nominò prima vescovo di Fossombrone e, l’anno successivo, nunzio apostolico alla corte di Carlo V. Nel 1537 venne nominato presidente della Provincia Romagnola ed istituì la magistratura dei Novanta Pacifici nella città di Forlì, che era allora dilaniata da conflitti tra le principali famiglie: lo scopo della nuova magistratura era, come dice il nome, di pacificare la città, cosa che sostanzialmente venne realizzata.

[5] Alessandro Farnese (Valentano, 1520 – Roma, 1589), passato alla storia con l’appellativo di “Gran Cardinale”, era figlio primogenito di Pier Luigi, primo duca di Parma e Piacenza, e di Gerolama Orsini di Pitigliano. Vescovo di Parma, Avignone e Tours, fu elevato alla dignità cardinalizia a quattordici anni. Fu un gran mecenate e protesse numerosi artisti e letterati; fece costruire la chiesa del Gesù in Roma e la villa in Caprarola. Ebbe parte importante nella preparazione del Concilio di Trento.

[6] Ludovico Castelvetro (Modena 1505 circa – Chiavenna 1571), lettore di diritto a Modena dal 1532, nel 1560 fu processato e condannato in contumacia dall’Inquisizione, forse anche per effetto delle accuse di eresia lanciategli contro da Annibal Caro nella sopracitata polemica. Dal 1560 vagò in Francia, Svizzera, Austria, accolto da Massimiliano II, cui dedicò la traduzione e il commento della Poetica di Aristotele (1570), la sua opera più importante. Ricordiamo inoltre il commento alle Rime del Petrarca, la Sposizione a XXIX canti dell’Inferno dantesco e la Giunta fatta al Ragionamento degli articoli e de’ verbi di Messer Pietro Bembo (1563), dove si esamina lo svolgimento grammaticale della lingua italiana da quella latina.

[7] Claudio Mutini, Annibal Caro o l’arte della traduzione, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. IV, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 343.

[8] Longo Sofista nacque quasi sicuramente a Lesbo e visse tra la fine del II secolo e l’inizio del III secolo d.c. Se non fosse giunto fino a noi il suo romanzo, questo artista sarebbe rimasto completamente sconoscito. Da un’attenta analisi della sua opera, emerge che Longo Sofista aveva una conoscenza piuttosto approfondita di Omero, Esiodo, Saffo, Teocrito e altri autori bucolici, dei quali egli ha ripreso gli elementi e le caratteristiche principali.

[9] Achille Tazio, retore e romanziere greco, vissuto, come si ritiene ormai generalmente, tra la metà del secondo secolo d.C. e l’inizio del successivo, era probabilmente di origine alessandrina.

[10] Pasquino è la più celebre statua “parlante” di Roma, divenuta figura caratteristica della città fra il XVI ed il XIX secolo. Fu rinvenuta nel 1501 durante gli scavi per la pavimentazione stradale e la ristrutturazione del Palazzo Orsini (oggi Palazzo Braschi), proprio nella piazza dove oggi ancora si trova. L’influente cardinale Oliviero Carafa, che si sarebbe stabilito poi nel prestigioso palazzo, insistette per salvare l’opera, da molti ritenuta invece di scarso valore. Ben presto si diffuse il costume di appendere nottetempo al collo della statua fogli contenenti delle satire in versi (le cosiddette “pasquinate”,  dirette a farsi beffe anonimamente di personaggi pubblici più importanti), dalle quali emergeva, non senza un certo spirito di sfida, il malumore popolare nei confronti del potere e l’avversione alla corruzione ed all’arroganza dei suoi rappresentanti.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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