La letteratura utopistica, che ha nella Repubblica di Platone la sua più lontana origine, assume forme e convenzioni specifiche nel corso del Cinquecento a partire dal 1516 anno in cui viene pubblicata a Lovanio, auspice Erasmo da Rotterdam, l’Utopia di Thomas More, che di tale letteratura costituirà il modello e il punto di partenza. Il radicale dissenso e la protesta nei confronti del sistema politico-sociale vigente e la potenza rivoluzionaria del progetto alternativo di società contenuti nell’opera di More trovarono un fertile terreno nel dibattito culturale europeo e, in particolare, in Italia, dove l’Utopia fu tradotta nel 1548 da Ortensio Lando ed edita a Venezia a cura di A. F. Doni, che di lì a qualche anno descriverà ne i mondi un’immaginaria società ideale.
L’esigenza fondamentale da cui trae origine l’utopia risiede essenzialmente nella drammatica consapevolezza con cui pensatori politici e scrittori verificano l’impossibilità, nelle condizioni storiche del momento, di tradurre in azione le loro istanze di rinnovamento politico, sociale, morale e di operare nell’immediato per l’instaurazione di una vita civile più giusta e umana.
Obbedendo ad antiche e a più recenti suggestioni culturali, dal mito dell’età dell’oro, al modello platonico di repubblica, al naturalismo e razionalismo umanistico, ai progetti di «città ideale» degli urbanisti del Quattrocento, alle relazioni di viaggio che consentivano la conoscenza della vita e degli ordinamenti di popoli lontani, gli utopisti del Cinquecento affidano (e anche celano) la loro tensione ideale, la protesta e il progetto di riforma della società vigente alla descrizione di mondi o terre immaginarie in cui sono realizzati la società e lo stato ideali. L’utopia italiana cinquecentesca prende forma nel quadro della profonda crisi del sistema degli Stati italiani e costituisce uno dei riflessi più significativi (soprattutto nel caso del Doni) del disagio e dell’inquietudine in cui si dibattono gli intellettuali coinvolti nella disgregazione del sistema e nella trasformazione delle forme culturali.
Il sacco di Roma nel 1527 e il successivo predominio spagnolo nella penisola segnano la fine dell’indipendenza e dell’autonomia degli Stati italiani e del sistema civile e politico ad essi connesso, la grave depressione economica che accompagna la crisi politica esaspera le debolezze e le contraddizioni del quadro politico‑sociale inasprendo le sperequazioni economiche e favorendo il consolidarsi di una nobiltà e di una classe dirigente avide e parassitarie, che gestiscono il potere con l’arbitrio e mirano a conquistare ogni risorsa, mentre la Chiesa cattolica procede alla progressiva realizzazione del suo disegno di egemonia ideologica e culturale.
A questa situazione di profondo disagio politico, sociale, economico, di vita civile disgregata, di generale incertezza e precarietà, di progressivo conformismo intellettuale corrispondono una crisi delle forme culturali, che tendono a risolversi in astratto regolismo e in precettistica, e una perdita d’identità da parte di quegli intellettuali che sono maggiormente consapevoli di non poter più svolgere il ruolo politico e civile svolto in passato e registrano con lucido pessimismo la propria impotenza, sia sul piano dell’elaborazione teorica, sia sul piano pratico, a operare per la trasformazione della società. Le aspirazioni, le istanze, gli ideali di rinnovamento sociale ed etico si radicalizzano pertanto nell’astrattezza dell’utopia nella quale si compie l’ultimo tentativo di recuperare ruolo e funzioni perdute e si consuma l’illusione di far rivivere la città‑stato, la piccola ed equilibrata comunità cittadina.
L’utopia italiana del Cinquecento offre i suoi esiti più significativi nelle opere di Anton Francesco Doni (del quale abbiamo già parlato), Francesco Patrizi, Ludovico Agostini e Giovan Battista Gelli. In uno dei dialoghi dei Mondi celesti, terrestri et infernali (Venezia 1552) intitolato Il mondo savio e pazzo, Doni descrive il suo modello di società perfetta, pacifica e felice. Come Sforzinda, la città ideale progettata da Filarete[1], la città immaginata da Doni ha struttura stellare (e analoga sarà la struttura della Città del Sole di Campanella), perfettamente regolare e simmetrica, nel cui centro sorge un grande tempio con cento porte dalle quali s’irradiano cento strade che conducono alle cento porte aperte nelle mura cittadine. La vita civile è organizzata secondo principi rigorosamente egualitari, comunistici e di uniformità: non esistono classi sociali, la proprietà privata e il denaro sono aboliti, così come le attività commerciali, in quanto tutti i beni prodotti appartengono alla comunità e la produzione è commisurata ai bisogni; l’istituto della famiglia è sconosciuto, l’amore è libero e i figli sono allevati dalla comunità stessa; ogni attività, razionalmente organizzata, si armonizza con le altre ed è finalizzata al bene collettivo; gli interessi e le passioni individuali sono rigidamente temperati o repressi al fine di mantenere una vita civile equilibrata, operosa, semplice e serena.
I temi della semplicità primitiva, della bontà della natura e della pazzia ricollegano l’utopia doniana alla riflessione etica umanistica più spregiudicata e soprattutto a Erasmo da Rotterdam (1467-1536). La satira sociale inaugurata da Erasmo con l’Elogio della Follia (1508) informa non solo l’utopia, ma tutta l’opera di Doni: la pazzia come fermento vitale del mondo, come affermazione di verità ed espressione delle genuine ragioni della natura nell’uomo corrotto dalla civiltà, il labile e ambiguo confine che separa «saviezza» e «pazzia» sono tutti motivi erasmiani recepiti in maggiore o minor misura da Doni.
La tensione utopica di Doni tuttavia non è tale da consentirgli la formulazione di un modello compiuto di radicale alternativa, l’utopia doniana si pone piuttosto come testimonianza paradossale e satirica, secondo il modulo «giornalistico», «scapigliato» proprio dell’autore, del suo intimo disagio e del risentimento morale che lo anima, come denuncia e rifiuto delle strutture socio‑politiche, economiche, culturali, religiose e soprattutto del malessere e dell’ingiustizia sociale del suo tempo. Nell’utopia di Doni, infine, si realizza il tentativo illusorio di ricondurre la realtà e l’esperienza, percepite drammaticamente come movimento e mutamento continuo e disordinato, come frammentarietà, instabilità e confusione, all’equilibrio e all’ordine razionale e naturale, secondo un ideale umanistico che era ormai sulla via del dissolvimento.
Francesco Patrizi
Il dalmata Francesco Patrizi nacque nel 1529 a Cherso, allora territorio della Repubblica di Venezia, da Stefano, appartenente alla piccola nobiltà, e da Maria Radocca. Dopo aver studiato a Cherso, nel 1544 si recò a Venezia, dove studiò grammatica, passando poi a Ingolstadt, sotto la protezione del cugino, il luterano Mattia Flacio Illirico[2]. Nel 1547, per studiare filosofia, si recò a Padova, ove pubblicò i suoi primi scritti.
Alla morte del padre, nel 1551, fece ritorno a Cherso, per poi riprendere gli studi a Padova. Nel 1553 pubblicò a Venezia, in un unico volume, la Città felice, il Dialogo dell’Honore, il Discorso sulla diversità dei furori poetici e le Lettere sopra un sonetto di Petrarca. Successivamente, nel 1554, dovette fare ritorno a Cherso per occuparsi degli affari familiari e vi rimase per quattro anni, contrassegnati dalla malattia dalla solitudine e dal contrasto con lo zio Giovanni.
Causa l’opposizione del Consiglio cittadino di Cherso, Patrizi non poté ottenere un beneficio ecclesiastico cui aspirava, e per tale ragione si recò dapprima a Roma, poi a Venezia ed infine a Ferrara, presso la corte del duca Ercole II, al quale – per ottenerne la protezione – presentò il poemetto in versi tredecasillabi Eridano. L’omaggio, tuttavia, non ebbe l’esito sperato e nel 1558 Patrizi fece nuovamente ritorno a Venezia, dove fondò con il poeta Bernardo Tasso l’Accademia della Fama, scrisse i dieci Dialoghi della Historia (1560) e i dieci Dialoghi della Retorica (1562). Nel 1568 si stabilì ancora una volta Padova, ove scrisse le Discussiones peripateticae, il cui primo volume fu pubblicato nel 1571.
Dal 1577 al 1592 insegnò filosofia nell’università di Ferrara e nel 1587 fu membro dell’Accademia della Crusca, continuando a pubblicare scritti filosofici, letterari e di vario genere: nel 1585 il Parere in difesa di Ludovico Ariosto, nel 1586 il Della Poetica, ove sostenne la superiorità della lingua volgare sul latino, nel 1587 la Nuova geometria e la Philosophia de rerum natura, infine nel 1591 la Nova de universis philosophia.
Nominato da Clemente VIII[3] professore presso lo Studium Urbis[4], si stabilì a Roma, ove nel 1594 pubblicò la sua ultima opera, i Paralleli militari, e ove morì nel 1597.
Figura di grande rilievo del platonismo cinquecentesco e protagonista autorevole del dibattito antiaristotelico nella sua operetta La città felice, composta nel 1551, traccia il quadro compiuto e organico di una città ideale, descritta con precisione nelle sue strutture urbanistiche, politiche, economiche, militari e sociali. Il progetto utopico di Patrizi, informato a un ideale rigorosamente aristocratico, configura un’organizzazione politico‑sociale operante in funzione di una élite, di una classe dirigente cui è riservato l’esclusivo privilegio di attingere «le acque sopracelesti», di pervenire, cioè, alla condizione di felicità e di perfezione che costituisce il fine supremo e la ragion d’essere della città felice. Il corpo sociale della città è rigidamente ordinato in caste secondo un sistema che garantisce alla classe dirigente, composta da guerrieri, magistrati e sacerdoti, di poter conseguire il fine della felicità cui è destinata, in quanto la classe subordinata, composta da contadini, artigiani e mercanti, ha il compito di provvedere a tutti i suoi bisogni materiali consentendole in tal modo di «donare tutto l’animo alle virtù civili e contemplative». Patrizi non trasferisce nell’utopia, come avviene per Doni, istanze di rinnovamento sociale ed etico, ideali di egualitarismo e di ricupero dell’originaria semplicità naturale, egli caratterizza invece il suo progetto come idealizzazione e mitizzazione di uno Stato, di una forza politica, di un potere vigenti, ponendo a fondamento della sua città ideale la repubblica di Venezia e la sua costituzione.
Ludovico Agostini
Ludovico Agostini, appartenente a una ricca famiglia aristocratica di origine umbra, nacque a Pesaro nel 1536 da Gian Giacomo e da Pantesilea degli Alessandri e fin da piccolo fu educato con cura dai genitori. Ricevuta una buona formazione umanistica, si iscrisse all’Università di Padova, per intraprendervi gli studi giuridici sulle orme dello zio Girolamo. Tuttavia, nel 1554, avendo ucciso in duello un compagno di studi, fu bandito dalla città e, costretto a fuggire, dovette arruolarsi nelle truppe imperiali. Al rientro in Italia, si iscrisse all’Università di Bologna, dove, il 29 settembre del 1557 si laureò in utroque iure.
Rientrò a Pesaro nel 1559 e si iscrisse all’ordine dei legisti della sua città, senza tuttavia esercitare la professione. Ludovico frequentò, invece, la raffinata corte del duca Guidobaldo II della Rovere (che preferiva Pesaro alla capitale Urbino), al culmine del suo splendore, e in quel periodo compose il primo nucleo del suo Canzoniere, che lo qualifica come uno dei tanti petrarchisti del tempo. Tuttavia, accanto a queste composizioni amorose già se ne trovano altre di contenuto religioso o politico‑religioso, derivate forse dalla decadenza economica della famiglia. Ciò fu dovuto non solo agli inasprimenti fiscali imposti dal duca Guidobaldo per rimpinguare le esauste casse del ducato, ma anche al fatto che il duca riuscì, attraverso un’abile manovra, a strappare agli Agostini la loro industria molitoria.
Trasferitosi ad Urbino, Ludovico si innamorò di una cantante, Virginia Vagnoli, alla quale offrì, nel 1569, ben duecento composizioni poetiche, accompagnate da una lettera dedicatoria e da un Discorso sulla qualità de amor. Tuttavia, la sua richiesta di matrimonio con Virginia venne rifiuta tata dal padre di lei, che nel 1571 si trasferì con tutta la famiglia si trasferì presso la corte imperiale. Questo fatto, unitamente alle disgrazie familiari (nel 1570 era morta la madre) fece maturare in lui l’inclinazione alla malinconia e alla meditazione religiosa, ma riuscì comunque a completare la stesura de Le giornate soriane, l’ultima sua opera legata ancora all’atmosfera spensierata e piena di svaghi degli anni precedenti.
Alla morte del padre, nel 1582, Ludovico lasciò Pesaro e andò a vivere nella sua villa di Soria sul monte San Bartolo, dove condusse una vita semplice e dedita agli studi. Nel 1584 si imbarcò a Venezia per la Terra Santa, ma i Turchi, credendolo una spia, lo costrinsero a tornare in patria. Dopo una avventurosa traversata sbarcò a Messina e da lì si diresse a Roma (1585), dove presentò dove presentò un memoriale del suo viaggio al papa. Ma i ricordi di questa avventura li riportò anche in un resoconto dal titolo Viaggio di Terra Santa e di Gerusalemme.
Rientrato a Soria riprese, con ancora maggiore tranquillità di spirito, la propria vita di scrittore solitario, continuando a lavorare ai dialoghi su L’Infinito. Nell’ottobre del 1604 il duca gli affidò il governo dell’antica Rocca di Gradara. Ludovico ne restaurò le fortificazioni e si occupò dell’amministrazione della cittadina. Morì a Gradara, nel 1612 all’età di 76 anni.
I dialoghi de L’Infinito di Ludovico Agostini (1583-1590) si collocano in un clima decisamente controriformistico. L’opera, composta da due libri divisi in quattro parti, ruota principalmente su argomenti e riflessioni che sono tratti soprattutto dai libri della Genesi e dell’Esodo, mentre nella quarta parte viene tracciata la descrizione di uno Stato ideale. Tale parte fu pubblicata per la prima volta soltanto nel 1941 ed è nota con il titolo di Repubblica immaginaria. Gli interlocutori del dialogo sono l’Infinito, che rappresenta la sapienza divina rivelata, e il Finito, che rappresenta la ragione umana, la voce estenuata del razionalismo umanistico ormai soccombente sotto il peso della restaurazione post‑tridentina, che impone la sua ideologia e i suoi valori etici e religiosi. La Repubblica immaginaria delinea uno Stato fortemente accentratore in cui l’elemento di coesione della comunità è rappresentato da un profondo spirito religioso e in cui il principio d’autorità regola inflessibilmente la vita civile e domina le coscienze. ispirandosi sia nella forma che nello spirito all’Utopia di Thomas More, Agostini tratteggia insomma un «compiuto progetto di Stato ideale, che [gli] assicura a buon diritto un suo luogo non trascurabile nella storia dell’utopia politica e sociale»[5].
Giovan Battista Gelli
Giovan Battista Gelli nacque a Firenze nel 1498 da Carlo, un agiato mercante di vini. Ammiratore di Dante e appassionato lettore della Commedia sulla quale maturò la sua formazione spirituale e intellettuale, esercitò per tutta la vita, con impegno e orgoglio, il mestiere di calzolaio che gli assicurava una vita tranquilla e un modesto benessere.
Spinto dalla volontà di approfondire lo studio e la conoscenza del poema dantesco e stimolato dal vivace dibattito culturale e politico degli Orti Oricellari, cui assistette con umile riverenza negli anni giovanili, ormai venticinquenne iniziò a studiare letteratura e filosofia da autodidatta, frequentando poi le lezioni di latino di Antonio Francini[6], quelle di filosofia di Francesco Verino[7] e del Filosofo aristotelico Simone Porzio[8], con il quale strinse cordiali rapporti di amicizia.
Sincero fautore dei Medici ottenne nel 1524 e nel 1539 modeste cariche politiche; più rilevante, invece, fu la sua attività pubblica nell’ambito culturale sotto la spinta data all’organizzazione della cultura da Cosimo I. Nel 1540 entrò a far parte della libera Accademia degli Umidi, che l’anno successivo venne istituzionalizzata e riformata da Cosimo I nell’Accademia Fiorentina. Fra il 1541 e il 1548 compose le sue opere più note i Ragionamenti di Giusto Bottaio (Firenze 1548), più conosciuta col titolo Capricci del Bottaio, e la Circe (Firenze 1549), mentre fra il 1542 e il 1545 scrisse un Trattatello sull’origine di Firenze. Nel 1543 pubblicò La sporta, la prima delle sue due commedie, giudicata dal Grazzini un plagio dal Machiavelli, in cui emergono la sua vocazione di moralista e l’acume di attento osservatore della realtà. Nel 1548 fu nominato console dell’Accademia Fiorentina, e in questo periodo si dedicò anche all’attività di traduttore volgarizzando alcune opere filosofiche dell’amico Simone Porzio, l’Ecuba di Euripide nella versione latina di Erasmo, la Vita di Alfonso d’Este di Paolo Giovio. Del 1551 è il Ragionamento sopra le difficoltà d’ordinare la lingua in cui Gelli sostiene la piena validità e dignità del volgare come lingua letteraria e, seguendo le teorie di Sperone Speroni, considera il volgare fiorentino come lingua viva, che subisce una continua evoluzione spontanea, e non è pertanto riconducibile a un sistema di regole; Gelli propone invece come modello linguistico il fiorentino parlato dai nobili e dagli uomini colti, al quale affida una funzione di diffusione della cultura aperta anche ai ceti popolari. Nel 1553 ottenne l’incarico ufficiale di leggere e commentare nell’Accademia Fiorentina la Commedia di Dante, cui si dedicherà fino alla morte, e nel 1556 pubblicò la sua seconda commedia L’errore, ispirata alla Clizia di Machiavelli.
Gelli morì a Firenze il 24 luglio 1563, e venne sepolto nella tomba acquistata dal padre in S. Maria Novella.
L’esperienza letteraria di Gelli si connette strettamente con una genuina vocazione e un’attività intensa di divulgatore e organizzatore della cultura nella convinzione che, soltanto attraverso la funzione educativa che essa riveste, sia possibile all’uomo pervenire alla conoscenza razionale di se stesso e riconoscere l’imperfezione e la limitatezza della natura umana, per poter infine salire alla contemplazione della verità in Dio, che costituisce l’autentico fine della vita terrena. Gelli attribuisce inoltre alla cultura una funzione eminentemente consolatoria che dispone l’uomo all’accettazione paziente sia della sua condizione esistenziale sia della sua condizione sociale. Tale concezione della cultura viene a inserirsi perfettamente nel quadro degli interessi del potere politico mediceo che in quel periodo, sotto Cosimo I, andava consolidando l’assetto dello Stato assoluto, con il quale veniva a risolversi la grave crisi della repubblica protrattasi per tutto il primo trentennio del secolo.
All’opera di restaurazione politica, Cosimo I affianca un poderoso programma di organizzazione culturale, diretto ad egemonizzare gli intellettuali fiorentini e ad assicurare il consenso al nuovo regime. L’Accademia Fiorentina, fondata nel 1541, rappresenta l’istituzione culturale più prestigiosa del nuovo Stato fiorentino, che assicura agli intellettuali il crisma dell’ufficialità e notevoli vantaggi economici. A tale ufficialità Gelli, modesto popolano senza grandi ambizioni, è orgoglioso di appartenere, così come di prestare, senza inquietudini o disagi, la propria collaborazione al potere politico di cui riconosce e afferma l’origine divina. La riflessione filosofica ed etica di Gelli si svolge su una linea di decisa opposizione al naturalismo rinascimentale e alla sua esaltazione della natura umana considerata perfetta; animato da un profondo pessimismo, la vita umana appare a Gelli irrimediabilmente condannata al dolore e all’infelicità, nei quali tuttavia l’uomo può trovare le ragioni della sua dignità e del suo destino trascendente. Confluiscono nel pensiero del Gelli istanze e suggestioni dell’aristotelismo cristiano elaborato negli ambienti dell’università di Padova e introdotto a Firenze dal Varchi, insieme con apporti del platonismo fiorentino ficiniano, che vengono a innestarsi su un cattolicesimo vivo e genuino, in un eclettismo conciliante che tende a essere divulgato in funzione moralistica.
L’impegno di moralista di Gelli assume particolare rilievo nelle sue opere più note; i Ragionamenti di Giusto Bottaio e la Circe. Nei Ragionamenti sono immaginati una serie di dialoghi fra il vecchio artigiano bottaio Giusto e la sua anima, in cui sono discussi vari argomenti e questioni, fra i quali il fine autentico dell’uomo che «non è in queste cose corporee e terrestri, come è quel de gli altri animali», ma risiede nel pervenire alla verità che è in Dio; la filosofia cui anche coloro che sono dediti alle «arti meccaniche» devono applicarsi al fine di trame un arricchimento spirituale e di conoscere se stessi; la religione e gli ecclesiastici in particolare, di cui sono criticati alcuni costumi di vita. Alcune affermazioni contenute nei Dialoghi, quali l’eguaglianza di tutti i fedeli davanti a Dio, le critiche aspre contro il malcostume del clero, l’esigenza di tradurre i libri sacri in volgare per renderli accessibili a tutti, fecero cadere l’opera sotto la censura del Sant’Uffizio e costarono a Gelli una ritrattazione.
Nei dieci dialoghi della Circe (ispirata al Grillo di Plutarco) Gelli immagina che la maga conceda a Ulisse d’interrogare i compagni trasformati in animali per sapere se vogliano ritornare uomini. Tutti gli uomini-animali rifiutano il ritorno alla condizione umana con solide e argomentate ragioni, che si oppongono validamente ai tentativi di Ulisse di persuaderli, sostenendo la superiorità della natura animale nei confronti della vita umana fragile, incerta e travagliata. Soltanto l’elefante da ultimo cede alla persuasione di Ulisse che gli dimostra come proprio da questa condizione d’infelicità, di fragilità e d’imperfezione e dalla consapevolezza di essa l’uomo può scoprire la sua vocazione al divino e tendere alla perfezione in Dio.
L’esperienza culturale più profonda e formativa per Gelli, come testimoniano le Letture sopra la Commedia, è rappresentata da Dante e dalla Commedia, nella cui difesa si schiera fra i protagonisti sia contro l’aristotelismo ortodosso cui il poema appariva formalmente «irregolare», sia contro Bembo e i bembiani che opponevano alla poesia di Dante il modello della poesia petrarchesca.
Scrittore spigliato, nutrito di autentici fermenti popolari, che si esprimono in significativi esempi di idiomaticità fiorentina (soprattutto nelle commedie), Gelli mantiene la sua prosa, sempre sorvegliatissima, a un livello di eleganza, di misura e di chiarezza esemplari, animandola di una saporosa e garbata ironia e di una genuina e fervida partecipazione.
*** NOTE AL TESTO ***
[1] Antonio Averlino detto il Filarete (Firenze, 1400 ca – Roma, dopo il 1469), scultore, architetto e teorico dell’architettura, si formò nella bottega di Lorenzo Ghiberti. Verso il 1433 si trasferì a Roma, dove papa Eugenio IV lo incaricò di realizzare i battenti bronzei per la porta centrale della Basilica di San Pietro. Tra il 1447 ed il 1448 lasciò Roma e nel 1449 fu probabilmente a Bassano del Grappa, dove il Comune gli aveva commissionato una preziosa croce processionale. Successivamente viaggiò e lavorò in diverse città, quali Firenze, Arezzo e Venezia. A partire dal 1451 Filarete fu a Milano, presso gli Sforza, Tra il 1460 e il 1464 compose i primi 24 dei 25 libri del Trattato di Architettura dedicato a Francesco Sforza, il quale contiene, tra l’altro, il piano della prima città ideale compiutamente teorizzata: Sforzinda, appunto, inserita in una cinta muraria a forma di stella a otto punte. L’opera, scritta programmaticamente in volgare, seppure rimasta sotto forma di manoscritto, ebbe comunque una larga diffusione nella cultura della seconda metà del XV secolo, soprattutto in Lombardia, giungendo, tradotta appositamente in latino su richiesta di Mattia Corvino, fino a Budapest.
[2] Mattia Flacio Illirico (Albona, 1520 – Francoforte sul Meno, 1575) fu un teologo luterano tedesco originario dell’Istria, docente di lingua ebraica e greca a Wittenberg e, in seguito, del Nuovo Testamento all’Università di Jena. Elaborò una teologia che venne indicata con il suo nome, flacianismo.
[3] Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini (Fano, 1536 – Roma, 1605), studiò nelle università di Padova, Bologna e Perugia. Dopo la laurea iniziò la carriera professionale in ambito giuridico. Nel 1568 fu nominato uditore del camerlengo e nell’ottobre del 1569 uditore della Sacra Rota romana. Nel 1571 accompagnò, come esperto di diritto, il cardinale Michele Bonelli, nipote del pontefice, nominato legato a latere in Spagna, Portogallo e Francia. Rimase un anno nel Paese transalpino. Ordinato sacerdote nel 1580, la sua carriera fu rapida: Papa Sisto V lo nominò datario nel 1585, e nello stesso anno, cardinale presbitero con il titolo di San Pancrazio. Nel 1588 fu inviato come legato in Polonia per regolare la disputa tra il re Sigismondo III Vasa e la casa d’Asburgo. Eletto Pontefice nel conclave del 1592, si dedicò alla lotta contro il protestantesimo in Olanda, Inghilterra e Scozia. In campo liturgico, portò avanti l’opera di Sisto V che aveva avviato la redazione di una nuova traduzione ufficiale della Bibbia in latino; fece introdurre in tutte le diocesi la pratica delle Quarantore; nel 1604 approvò una nuova versione del Breviario e del Messale Romano e nello stesso anno pubblicò una nuova edizione dell’Indice dei libri proibiti. In campo politico riconobbe Enrico IV come re di Francia e ampliò lo Stato della Chiesa avocando alla Santa Sede il ducato di Ferrara.
[4] L’odierna Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, fondata nel 1303 da Bonifacio VIII con la bolla pontificia In Supremae praeminentia Dignitatis.
[5] Luigi Firpo, Lo stato ideale della Controriforma. Ludovico Agostini, Casa editrice Giuseppe Laterza & figli, Bari, 1957, pag. 5.
[6] Antonio Francini (Montevarchi, dopo il 1480 – dopo il 1537), latinista e grecista insigne, esercitò l’attività di insegnante come precettore presso illustri famiglie fiorentine. Collaboratore dei fratelli Filippo e Bernardo Giunti dal 1515, curò l’edizione di numerose opere di autori della letteratura greca.
[7] Francesco de’ Vieri, detto Verino secondo (Firenze, 1524 – 1591), di nobile famiglia, era nipote di Francesco de’ Vieri, detto Verino primo. Fu professore di logica a Pisa e successivamente (dal 1559 al 1590) di filosofia. Come l’avo fu molto attivo nell’Accademia fiorentina.
[8] Simone Porzio (Napoli, 1496 – Napoli, 1554), attorno ai vent’anni si trasferì a Pisa per studiarvi filosofia e nello Studio pisano acquisì un’ottima conoscenza del greco. Nel 1520 ottenne il dottorato in arti e medicina e nel 1522 quello in teologia. Successivamente iniziò l’insegnamento nello Studio toscano: dal 1520 al 1524 tenne la cattedra di logica, mentre dal 1525 al 1526 tenne quella di filosofia. Dopo essere entrato alla corte di Ferrante Sanseverino, nel 1529 fece ritorno a Napoli, ove insegnò metafisica, fisica e filosofia. Nel 1544 fu richiamato all’Università di Pisa dal duca Cosimo I de’ Medici, che gli garantì un alto stipendio e il ruolo di sopraordinario. Tra le opere del Prozio vanno ricordate De mente humana (1551), il trattato di etica An homo bonus, vel malus volens fiat (1551), De immortalitate animae (1516), De rerum naturalium principiis (1553).
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