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Marco Michelini | 18 Novembre 2020

Come s’è già detto anche nella letteratura teatrale si manifesta – durante il Cinquecento – il gusto classicistico, con l’abbandono delle vecchie strutture popolari – tipo le farse e le sacre  rappresentazioni – e la creazione di forme nuove derivate dall’imitazione dei classici. Il genere che più risente di tale «assimilazione dell’arte e dell’ordine classico si accompagna di alcunché di pedantesco e di cerebrale, sia perché le ragioni storiche volevano che poetica aristotelica, con la sua dottrina delle unità e con la sua norma delle azioni e dei personaggi illustri, operasse più direttamente sul teatro tragico e non su quello comico, sia perché qui prevale e quasi domina esclusiva l’attività degli eruditi e dei teorici, i quali si assumono il compito di restaurare quello che essi considerano il più nobile e il più perfetto genere di poema come una seria e grave fatica, alla quale sia sufficiente un’accorta scelta del tema nonché una chiara conoscenza e una rigorosa osservanza delle regole; sicché nella tragedia assai meno che nella commedia, sono concessi i liberi scarti e gli ardimenti della fantasia e del senso, e vi dominano invece la fredda ragione e il pesante artificio»[1].

Per cui, se la commedia cinquecentesca poteva svilupparsi, con i suoi giochi eversivi e le sue inosservanze stravaganti, nel ridanciano consenso delle corti e delle folle, rimanendo al di fuori delle tessiture sceniche e recitative tracciate dal classicismo, la tragedia si muoveva entro un territorio retorico e storico quasi marmoreo, che imbastiva i suoi soggetti di terrore di lutti e di pietà sopra ad un terreno parallelo a quello della liturgia cattolica e, forse, in competizione con essa. La superiorità morale degli eroi consente altresì ai tragediografi classicisti di rappresentare i profondi contrasti del potere, schiacciato dallo scontro dualistico tra ragione di stato e ragione individuale, aggiungendovi anche un’emozionalità ed un moralismo che vengono dilatati allo spasimo dalla catarsi tragica.

La Sofonisba del Trissino (vedi cap. 7), prima tragedia regolare italiana, rappresenta lo specchio di quell’ambiente culturale, sviluppatosi attorno al Machiavelli e alle discussioni degli Orti Oricellari, che aveva maturato la convinzione che la realistica valutazione del mondo classico (o in senso più lato della storia) potesse far meglio comprendere le drammatiche vicende della contemporanea crisi italiana. Ed è proprio in tale misura che l’attualità della Sofonisba deve essere valutata, con le sue scarse movenze d’affetti, le intenzionalità moralistiche, la sua “realtà” virtuosa e la sua umanità “marmorizzata” e raggelata al parti di una pittura stilizzata e solenne, che tuttavia appartengono alla più coerente concretizzazione e rappresentazione degli ideali classicisti. Dopo il Trissino – nel solco da lui tracciato – altri scrittori, con minore fantasia e più fredda rettorica, si cimenteranno nello scrivere modeste tragedie: Giovanni Rucellai (Rosamunda – che propizia escursioni più o meno truculente e Oreste), Lodovico Martelli[2] (Tullia), Luigi Alamanni (Antigone), Alessandro Pazzi De’ Medici[3] (Didone) e Giovanni Andrea Dell’Anguillara[4] (Edipo).

Più aperto alle novità e all’inventiva è Giovan Battista Giraldi Cinzio, con il quale iniziò la “ribellione” verso la compassata austerità della tragedia di stampo greco; ribellione cui aderiscono anche il padovano Sperone Speroni con la sua Canace (1546), Ludovico Dolce con la Marianna (1565), e tutti gli autori della seconda metà del Cinquecento fino al Tasso con il suo Torrismondo.

Fuori da tutti gli schemi è invece l’Orazia (1546) dell’Aretino (vedi cap. 16), che attivò i suoi registri di istrione tragico, fornendo maschere e voci ad una ideologia della virtus romana che mirava ad armonizzare le ambizioni di Paolo III con i progetti di Carlo V. Anche qui l’artista ricorre a tutti i funambolismi del suo vivacissimo ingegno, ma non per mimare, con un ludico gioco, l’universo degli ipocriti dominato dall’avidità e dal sesso, ma per “santificare” il conformismo utopico che pone le passioni umane al di sotto della legge e della ragion di stato. I luoghi topici si accumulano in un proliferare di immagini, la frequenza di similitudini e metafore – presentate con il malcelato proposito di imitare la dignità classica – precorre gli sbocchi del barocco e rischia di naufragare in una goffaggine grottesca, mentre sotto il peso faticoso dei ricami moraleggianti e sentenziosi il raccordo tra parola e azione si disgrega in mera prodezza elocutoria, si esaurisce in una prolissità assillante , che diviene occasione per alimentare la rettorica dei personaggi. Il “flagello de’ Principi”, insomma, ne diviene il “tagliaborse”, che, agognando un cappello da cardinale, subisce tuttavia il suo ultimo smacco.

 

Giovan Battista Giraldi Cinzio

 

Giovan Battista Giraldi Cinzio nacque a Ferrara nel 1504 da Cristoforo, la cui famiglia aveva origini fiorentine. La madre, della quale non si conosce il nome, apparteneva ai Mombelli, famiglia nobile del Ducato di Savoia. Frequentò lo Studio di Ferrara e seguì lezioni di logica, fisica, medicina, filosofia morale e retorica. A quegli anni risalgono i primi interessi per le lettere ed i suoi esordi poetici. Nel 1531 conseguì la laurea ed iniziò l’insegnamento nello Studio in qualità di lettore, ottenendo nel 1534 la cattedra di filosofia. Accanto all’insegnamento, Giraldi Cinzio professò l’attività di medico e fu tra coloro che assistettero l’Ariosto durante la malattia che lo condusse alla morte. In quegli anni compose anche alcuni componimenti encomiastici in latino in occasione della morte di Alfonso I e dell’incoronazione di Ercole II.

Nel 1541 fu chiamato dall’Università di Ferrara a ricoprire la cattedra di retorica, incarico che mantenne fino al 1563. Sempre nel 1541 scrisse in due mesi la sua prima e più importante tragedia, l’Orbecche, che per ben tre volte venne rappresentata davanti alla corte estense. Nuove tragedie vennero scritte tra il 1541 e il 1543: Didone, Cleopatra e Altile. Nel 1543 scrive l’opuscolo[5] De obitu Flaminii Ariosti ad Gabrielem patrem e il Discorso intorno al comporre delle commedie e delle tragedie. Tra la fine del 1543 e gli inizi del 1545 compose l’Egle, che doveva, nelle sue intenzioni, rinnovare la fortuna del dramma satiresco greco. Nel 1547 venne nominato da Ercole II segretario ducale[6] e pubblicò una raccolta di poesie in volgare (Le fiamme), contenente poesie d’amore e d’occasione. Divenne la massima autorità letteraria del suo tempo nel Ducato estense, ovvero uno dei maggiori esponenti della cultura ferrarese del Rinascimento.

Con la morte di Ercole II finirono anche i favori ed il prestigio di cui Griraldi Cinzio aveva fino a quel momento goduto, e ciò lo spinse a lasciare Ferrara e a recarsi dapprima a Mondovì (1563), dove il duca Emanuele Filiberto aveva aperto un’università, poi a Torino e infine a Pavia. In quegli anni diede anche alle stampe fece stampare i due volumi degli Ecatommiti, una raccolta di novelle alla quale aveva lavorato sin dagli anni giovanili. Nel 1573, stanco e malato, decise di fare ritorno a Ferrara, dove morì poco dopo.

Figura di spicco nel teatro rinascimentale, Giraldi Cinzio nelle sue opere – come si evince dal suo Discorso intorno al comporre delle commedie e delle tragedie – «si mostra soprattutto preoccupato della necessità di ottenere un più intenso effetto tragico, una più forte commozione degli spettatori; la tragedia dev’essere intessuta di azioni “grandi e terribili”, deve sommuovere le passioni e suscitare la pietà (al fine della catarsi aristotelica), mantenendosi sempre in un tono di alta tensione drammatica. Sebbene lodi i greci, sembra a lui che si trovi maggiore maestà e grandezza in Seneca, un’intonazione tragica più costante, una maggior potenza di effetti immediati e violenti. e di Seneca appunto propugna l’imitazione, promuovendo quella tragedia dell’orribile e dell’atroce, che doveva piacere al pubblico per la materialità e grossolanità del suo contenuto affettivo, e che godette infatti di grande fortuna, ripercuotendosi poi su tutto lo svolgimento del teatro europeo moderno e in special modo di quello inglese del periodo elisabettiano»[7].

La sua tragedia più fortunata fu l’Orbecche, che compose ispirandosi al Tieste di Seneca, e che rappresenta l’atroce conflitto che insorge tra l’amore coniugale d’una figlia e la vendicativa gelosia del padre. L’azione inizia con l’uccisione della regina Selina e del suo figliastro da parte del re Sulmone, rispettivo marito e padre, al quale la figlioletta Orbecche ha inconsciamente rivelato il rapporto incestuoso esistente tra i due. Un sinistro destino incombe sui superstiti e sfocia in una serie di atroci delitti allorché Sulmone, che vuole dare in matrimonio Orbecche al re dei Parti, scopre il matrimonio segreto che la unisce al giovane Oronte. Sulmone dissimula la sua rabbia, ma uccide Oronte e i di lui figli, presentandone poi teste e mani recise alla madre, la disperata Orbecche, la quale, dopo aver ucciso il padre, si suicida.

Nell’Orbecche l’azione del fato‑provvidenza viene chiarita all’inizio del primo atto in un lungo discorso della dea Nemesi: sul personaggio negativo ricade l’inevitabile punizione proprio nel momento in cui si ritiene più felice, ma neppure gli altri, le sue vittime, i cosiddetti “buoni”, si sottraggono all’inesorabilità della giustizia divina. A ciascuno è dispensata la sua parte di pena, perché nessun uomo è completamente innocente. Orbecche e Oronte sono responsabili di essersi uniti in matrimonio all’insaputa del padre. La loro posizione ha lo scopo di coinvolgere lo spettatore, che prova così quei sentimenti di dolore e compassione in cui consiste la catarsi.

A seguito dell’Orbecche, Giraldi Cinzio compose – come s’è detto – una Didone e una Cleopatra, nelle quali, attraverso l’estremizzazione orrifica dello spettacolo tragico, si riesce a scorgere tutto il disincanto verso i valori del Rinascimento, la sofferenza etica e sociale che si accompagnava alla Controriforma. Giraldi Cinzio iniziò così ad indirizzare le proprie tematiche verso costruzioni novellistiche e romanzesche che dovevano dissolversi in un lieto fine. È questo il caso dell’Altide, una tragicommedia che in chiave patetica sostituisce al conflitto tra padre e figlia dell’Orbecche quello tra fratelli. Lamano di Siria si sente tradito dalla sorella Altide perché essa ha sposato in segreto Norrino di Babilonia, uomo di bassa estrazione sociale. Norrino fugge per sottrarsi all’ira di lamano, ma quando verrà catturato per essere messo a morte, il re di Tunisi lo salverà rivelando i suoi nobili natali.

Ma è soprattutto con il Discorso intorno al comporre delle commedie e delle tragedie, che l’intelligenza tecnica del drammaturgo ferrarese s’affermò definitivamente. Giraldi Cinzio accetta l’autorità espressa da Aristotele nella sua Poetica, ma lo fa per legittimare, in nome dei tempi nuovi, le eccezioni e le mutazioni ch’egli mette in atto nelle sue tragedie: non si fa scrupolo «a volte di introdurre una doppia azione, limita la funzione del coro agli intermezzi fra un atto e l’atro, non rifugge in certi casi dalla risoluzione a lieto fine, si sforza di adattare l’eloquio alla condizione sociale dei singoli personaggi e di sottolineare l’individualità di ciascuno di essi»[8].

Per quanto raccolta di novelle (alla quale aveva lavorato sin dagli anni giovanili e che portò poi a compimento nel 1565 con la pubblicazione), anche gli Ecatommiti (centotredici novelle disposte in dieci giornate) hanno la loro importanza nella storia del teatro. Alcune di queste novelle, infatti, presentano la stessa storia di sette tragedie di Giraldi Cinzio, anche se non si può stabilire con precisione se sia stato composto prima il testo narrativo o quello teatrale. Inoltre, da novelle degli Ecatommiti provengono anche le trame di due tragedie shakespeariane: Otello e Misura per misura.

 

*** NOTE AL TESTO ***

 

[1] Natalino Sapegno, Compendi di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 147-148.

[2] Lodovico Martelli (Firenze 1500 – Napoli? 1527/28) nacque da Niccolò, attivo nel governo repubblicano del 1527-30, dimostrando una precoce vocazione per la letteratura. Allievo forse di Eufrosino Bonini, insegnante di poetica e oratoria, conobbe e frequentò i principali animatori degli Orti Oricellari, da Palla e Giovanni Rucellai, a Machiavelli, Trissino, Alessandro Pazzi de’ Medici e Luigi Alamanni. A ventiquattro anni pubblicò la Risposta alla Epistola del Trissino delle lettere nuovamente aggionte alla lingua volgar fiorentina, che contiene un’appassionata difesa della lingua fiorentina. Scrisse numerose composizioni in versi, fra cui sonetti, canzoni, sestine, ballate, madrigali, ma anche egloghe in versi sciolti e poemetti in ottave, ovvero le stanze In lode delle donne e quelle A Vittoria marchesa di Pescara.

[3] Alessandro Pazzi De’ Medici (Firenze 1483 – ivi 1530/31) nacque da Guglielmo de’ Pazzi e da Bianca de’ Medici, sorella di Lorenzo il Magnifico. Frequentò la scuola filosofica di Francesco Cattani da Diacceto e quella di Marcello Adriani, lettore di poetica e di oratoria presso lo Studio fiorentino. Dedicò il Discorso sulla riforma dello stato di Firenze (1522) al cugino, il cardinale Giulio de’ Medici (futuro papa Clemente VII); successivamente compose la principale tra le sue tragedie, Dido in Cartagine. Tra Il 1524 e 1525 tradusse in volgare l’Ifigenia in Tauride di Euripide e l’Edipo principe di Sofocle, alle quali si affianca il Ciclope, dramma satiresco di Euripide. In latino tradusse invece la Poetica di Aristotele e due tragedie di Sofocle: l’Elettra e l’Edipo re. Nelle sue tragedie in volgare egli adotta una nuova forma metrica, il dodecasillabo sciolto, verso ritenuto più simile a quello dei greci e dei latini.

[4] Giovanni Andrea dell’Anguillara (Sutri 1517 – Sutri? 1572) frequentò a Roma l’Accademia dello Sdegno, dove completò la sua formazione poetica. Dopo l’insuccesso della sua commedia Anfitrione (1548) si allontanò dalla Città Eterna, vagando per l’Italia in cerca di protettori e fu dapprima a Parma e poi a Venezia. Nel 1553 giunse alla corte francese, dove riscosse una certa fortuna, ma nel 1560 fece nuovamente ritorno in Italia (a Firenze, a Venezia e a Roma), dove concluse i suoi giorni povero e malato. Fra le sue varie opere, oltre alla tragedia Edipo (1556), vanno ricordate le sue canzoni politiche, i capitoli berneschi, un commento all’Orlando furioso e la sua traduzione in ottave (non senza illeciti ampliamenti) delle Metamorfosi di Ovidio (1561), che ebbe numerose ristampe fino alla metà del XIX secolo.

[5] L’opuscolo conteneva un discorso e alcuni componimenti poetici dedicati al giovane Flaminio Ariosto, attore nelle tragedie giraldiane, ucciso con una pugnalata a Ferrara, durante le feste in onore di Paolo III in visita nella città, poco prima di partecipare alla rappresentazione dell’Altile.

[6] Incarico che mantenne fino al 1559.

[7] Natalino Sapegno, ibidem, pag. 149.

[8] Natalino Sapegno, ibidem, pag. 149.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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