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Marco Michelini | 25 Novembre 2020

Nella letteratura del Cinquecento la commedia non solo riscuote maggiore fortuna rispetto alla tragedia, ma – in via dei suoi argomenti più ricchi e diversi – rappresenta il genere letterario in cui possiamo scorgere quel processo di maturazione ed affinamento che la portò a diffondersi ovunque in Europa, dando così inizio a quello che diventerà poi il teatro comico moderno.

Per le nozze del duca Alfonso nel 1502 vengono rappresentate alla corte estense, tra i tanti sfarzosi spettacoli, ben cinque commedie di Plauto, tradotte in terzine e accompagnate da fastosi intermezzi. Come s’è già avuto modo di dire, il primo a liberarsi dal peso di ogni formula mitologica e dal “praticantato” delle traduzioni fu l’Ariosto con la sua Cassaria (vedi cap. 2), che costituisce il tentativo di rapportarsi all’imitazione dei testi di Plauto e di Terenzio in modo del tutto innovativo, quasi in competitivo adeguamento alle percezioni intellettive dello spettatore del tempo e andando così a pescare le situazioni sceniche, gli inganni, le finzioni ed ogni pretesto comico non nel mondo antico, ma in quello contemporaneo. Ed è proprio con questo tentativo di filtrare la comicità della realtà contemporanea attraverso le situazioni topiche del teatro classico (perché, pur mutando i costumi, non muta la natura umana), che viene dall’Ariosto rifondato il genere commedia ed istituzionalizzate definitivamente le convenzioni di rappresentabilità della mimesi teatrale.

Nessuna importanza, o solo esclusivamente storica, hanno invece i Simillimi del Trissino (vedi cap. 7), ed altre commedie cinquecentesce non hanno neppure questa rilevanza storica, ma – ed è il caso della Mandragola del Machiavelli (vedi cap. 3) – traggono la loro forza espressiva ed il rilievo scenico dalla straordinaria personalità dei loro autori.

Anche le commedie di Lorenzino de’ Medici[1] (Aridosia, 1536) o di Francesco d’Ambra[2] (Il furto, I bernardi, La cofanaria) non vanno oltre i limiti di una letteratura decorosa e spigliata, con intrecci complicati ma pur sempre vivaci. E se il Grazzini (vedi cap. 20) negli altri scrittori criticava la monotonia delle imitazioni, la scontatezza delle trame e l’inverosimiglianza degli intrecci, non riusciva poi – neppure lui – a brillare per novità di atteggiamenti e di ispirazione.

Le numerose e più meccaniche commedie di Gianmaria Cecchi[3] o quelle tanto più esuberanti e fantasiose del napoletano Giambattista della Porta[4] (per non dir poi degli Straccioni del Caro), che si collocano tutte nella scia del teatro ariostesco, emergono per una loro variamente viva capacità di vitalità comica, affettuosa, realistica. Ma mentre nelle opere del Cecchi prevale lo stile fiorentino, con la simulazione letteraria di un linguaggio parlato e dialettale, pieno di proverbi e di motti, nelle commedie del Della Porta primeggia la chiassosa esuberanza dello stile meridionale, cui si affianca il temperamento stravagante e l’umore assurdo e grottesco delle fantasie.

Altamente interessante è La Veniexiana, rimasta inedita fino alla riscoperta del Lovarini[5], nel 1928. Si tratta di una commedia anonima, ma anche a prescindere dalle attribuzioni proposte, essa è fuor di dubbio opera di un letterato finissimo. Lo prova l’originalità di un’invenzione che nella sua staticità apparente è tesa alla rappresentazione delle passioni umane nel loro libero manifestarsi, e l’elegante linearità di una trama che rifiuta ogni compia­cimento spettacolare o diversione buffonesca, affidandosi esclusivamente all’intensità drammatica ed espressiva dei personaggi, ritratti con un’evidenza realistica e psico­logica che trova riscontro solo in quelli della Mandragola.

Priva di un epilogo, la commedia mira esclusivamente alla rappresentazione dell’irrefrenabile impulso sensuale di due donne, Angela e Valeria, una vedova e una sposata, che si contendono l’amore di Iulio, giovane e disponibilissimo lombardo di passaggio per Venezia. Pensando di incontrare Valeria, Iulio si trova invece in casa di Angela e ne accetta l’amore; ma poi si reca anche dall’altra donna, che, scoperto il tradimento, lo scaccia. Pentita, Valeria lo richiama poco dopo a sé mentre invano Angela attende il ritorno dell’amante. «La situazione è francamente sensuale, e potrebbe a un osservatore distratto parer boccaccevole (nel senso che si dà volgarmente a questa parola); e invece è piena di passione, ora tenera ora ardente, ma sempre seria e tormentosa, con una potenza di tensione nella rivalità e nei contrasti delle due protagoniste, per cui l’opera sembra rompere i limiti convenzionali del genere comico e sboccare nel dramma»[6].

Più che dalla partizione in cinque atti (unica concessione alle norme della dram­maturgia regolare), il ritmo della commedia è scandito da pause e riprese, nonché da un sapiente gioco di corrispondenze fra le vicende delle due donne, sviluppate con rigorosa consequenzialità. L’assoluta padronanza dei mezzi tecnici permette la libera reinvenzione di un apparato multiplo che si sostituisce alla scena unica e consente di inquadrare contemporaneamente gli “interni” delle case delle due donne e gli “esterni” delle calli e dei canali. Ma la misura dell’artista esperto si avverte anche nella capacità di ingentilire la libertà della rappresentazione, fra le più audaci del nostro teatro, con un linguaggio ardito, ma sempre mantenuto su toni di musicale morbidezza, e nella franchezza, che è insieme aristocratico distacco, con cui viene rappresentato l’ardore delle passioni.

 

Bernardo Dovizi da Bibbiena

 

Bernardo nacque a Bibbiena, nel Casentino, il 4 agosto 1470 da Francesco Dovizi e da Francesca Nutarrini. Secondo alcune fonti la sua famiglia sarebbe stata tra le principali del paese natale, ma in realtà il padre esercitava la professione di notaio. Quando nel 1479 il fratello maggiore, Piero, entrò (per volontà paterna) al servizio dei Medici, Bernardo lo seguì poco dopo e da quel momento il suo destino fu legato a quello della famiglia ducale fiorentina.

Nel 1488 fu inviato a Roma dal Magnifico per la sua prima importante missione diplomatica: rafforzare i legami, alquanto precari, tra il papa Innocenzo VIII e i signori fiorentini e ottenere anche la concessione di una parte delle miniere di allume del Lazio, necessarie all’economia fiorentina. La missione fu portata a termine con successo e ciò permise a Bernardo di accelerare la propria carriera nella cancelleria medicea. Nel 1492, dopo la morte del Magnifico e di Innocenzo VIII, accompagnò Piero de’ Medici a Roma per instaurare con Alessandro VI rapporti di amicizia, nella prospettiva di un’alleanza contro Carlo VIII. E sempre per tale motivo nel 1494 si recò a Napoli, presso Alfonso II d’Aragona.

Tuttavia, le truppe di Alfonso II non riuscirono ad arrestare la discesa in Italia di Carlo VIII e mentre Piero de’ Medici tentava di salvare la propria situazione, i fiorentini, spinti dal Savonarola, si ribellarono e costituirono la repubblica. Il Dovizi, esiliato assieme a tutta la fazione medicea, riparò a Bologna dove, senza successo, cercò di stabilire nuove alleanze per favorire il ritorno al potere dei Medici. Dopo varie missioni a Venezia e a Milano, nel Gennaio del 1504, dopo la morte di Piero de’ Medici, seguì il cardinale Giovanni de’ Medici a Roma, in qualità di suo segretario, consolidando la sua autorità politica e la sua fama di uomo dedito alla cultura ed alla mondanità. Nella città eterna strinse anche amicizia con Pietro Bembo, colà giunto nel 1504. Attraverso il Bembo, che cercava una collocazione di prestigio presso la corte romana, il Dovizi riuscì ad intessere numerosi rapporti diplomatici e mondani con la corte di Urbino, dove soggiornò a più riprese tra il 1504 e il 1508, divenendo amico di Baldassarre Castiglione.

Fu legato alla marchesa di Mantova Isabella d’Este, e ne protesse il figlio Federico che, fatto prigioniero dai Veneziani, fu liberato e trovò riparo a Roma per intercessione del papa Giulio II, la cui politica aggressiva era vista con favore dal Dovizi che continuava a progettare di sfruttarne l’ostilità contro la Repubblica di Soderini per ristabilire i Medici a Firenze. Nel 1511, sancita l’alleanza antifrancese con la Spagna e Venezia, il pontefice inviò il cardinale Giovanni de’ Medici a Bologna come legato pontificio per seguire i preparativi militari. Il Dovizi rimase a Roma per reggere i rapporti diplomatici e i delicati equilibri tra gli alleati, che il carattere irruento di Giulio II rischiava di turbare. Ma l’impresa militare contro i Francesi fallì e durante la rotta di Ravenna il cardinale Giovanni fu fatto prigioniero e condotto in Francia, ma riuscì comunque a mettersi in salvo. Giulio II, nel gioco dei cambiamenti delle alleanze, convocò a Mantova un concilio, per decidere l’assetto dell’Italia, nel quale venne decisa la restaurazione dei Medici a Firenze. Così, Giuliano de’ Medici e il cardinale Giovanni poterono rientrare nella città, dove la fazione filomedicea aveva costretto il Soderini a lasciare la carica di gonfaloniere.

Alla morte di Giulio II (1513) accorse, con il cardinale Giovanni, a Roma ove – da dietro le quinte – partecipò ai lavori del Conclave, favorendo con la sua opera l’ascesa al soglio pontificio del suo signore col nome di Leone X. Questi lo ricompensò investendolo della porpora cardinalizia (concistoro del 23 settembre 1513) con il titolo di Santa Maria in Portico, ed ebbe altresì il permesso di raccogliere nello stemma cardinalizio, insieme con quella del proprio casato, l’arma dei Medici e infine il privilegio di godere delle entrate della S. Casa di Loreto. Nonostante la sua delicata salute andasse peggiorando, con febbre e vertigini, come amico e collaboratore di Leone X, al Dovizi furono affidate la corrispondenza papale e delicate missioni diplomatiche: fu Legato in Francia nel 1515, nel 1518 e nel 1520, nonché legato dell’Umbria nel 1517.

Quando da Parigi ritornò in Italia, nell’estate del 1520, incontrò a Roma il Castiglione, che lo aveva celebrato nel suo Cortegiano, e godette gli ultimi attimi di un prestigio enorme acquistato con la sua opera in Francia. Mori a Roma nel novembre del 1520, causa l’aggravarsi delle sue malattie, ma non mancarono voci che attribuirono la sua morte a veneficio voluto dallo stesso Leone X. Fu sepolto nella Basilica di Santa Maria in Aracoeli, con cerimonie funebri imponenti.

Al di là di tutta la sua opera politica e diplomatica, il nome di Bernardo Dovizi rimane legato alla sua unica commedia, giudicata tra le più belle del secolo: la Calandria, che presenta maggiore affinità col modello boccacciano, assimilato con felice spontaneità e con uno spirito arguto e malizioso che conferisce un’aggraziata levità anche alla materia più spinta.

Non si hanno dati precisi per datarne la composizione; ciò che sappiamo è che fu rappresentata per la prima volta ad Urbino in occasione del carnevale, il 6 febbraio 1513. Il titolo deriva dal personaggio dello sciocco Calandro, attorno al quale si coagula l’azione che si immagina avvenuta a Roma. È quasi impossibile riassumere la trama, costituita da un continuo intrecciarsi di burle, facezie, travestimenti, equivoci, pro­vocati dalla somiglianza dei gemelli Lidio e Santilla. Separati ancora bambini da un’incursione dei Turchi, i due fratelli finiscono, dopo varie vicende, a Roma, all’insaputa l’uno dell’altra, perché la fanciulla, per non farsi riconoscere, veste abiti maschili, facendosi chiamare Lidio. Il vero Lidio, invece, si traveste da donna, facendosi a sua volta chiamare Santilla, per potersi incontrare liberamente con Fulvia, finendo in tal modo per suscitare un’intensa passione nel vecchio Calandro, marito di lei.

Fra i vari personaggi si muove il servo Fessenio, inventore inesauribile di intrighi per favorire gli innamorati e di beffe ai danni del povero Calandro, che illudendosi di incontrarsi con la sua amata Santilla deve subire anche le rampogne della moglie Fulvia. La figura del ridicolo precettore Polinico, saccente e compassato osservatore delle vicende, costituisce il primo esempio di un tipo comico che avrà larga fortuna nella commedia cinquecentesca.

Nella Calandria circola un’atmosfera stregata, quasi surrealistica, che riscatta la licenziosità delle situazioni, mentre sui personaggi, allucinate vittime del sortilegio dei sensi, celebra il suo trionfo il rinascimentale culto della bellezza. Il meccanismo dell’opera è talmente ben congegnato e funzionante da far superare anche le non poche incongruenze della trama ed amalgamare i prestiti, le citazioni, le allusioni presenti nel testo tratte da altri autori: prima di tutti Plauto (i Menaechmi e la Casina), poi l’Ariosto (i Suppositi e la Cassaria), e ed infine Boccaccio (il Decameron), che si offre anche come modello di volgare illustre, pur con inserti di fiorentino parlato. Dal Boccaccio, oltre a riprese stilistiche, il Dovizi trasse anche i tipici temi della Fortuna, dell’Amore e della celebrazione dell’ intelletto, sommando poi, nella figura di Calandro, tutte le prerogative degli sciocchi boccacciani. Il connubio tra passioni sfrenate, eroticamente esplicite, l’esaltazione dell’intelligenza e il gusto vitalistico del riso, riassume – in certo qual modo – gli aspetti salienti dell’intera biografia del Dovizi, con le strettoie dei suoi opportunismi politici e delle ingannevoli trame, ma anche e soprattutto con il gusto tutto mondano del gioco e dell’allegria.

«Dopo il successo d’Urbino, Leone X fa allestire la Calandria in Vaticano nel gennaio del 1514 e di nuovo nel gennaio dell’anno successivo con la scenografia di Baldassarre Peruzzi, architetto della fabbrica di San Pietro. Allo spettacolo, che ha anche il merito di assecondare le aspirazioni medicee di egemonia culturale con una lingua teatrale tosco‑fiorentina, assiste come ospite d’onore l’esperta Isabella d’Este, che ripropone la commedia a Mantova nel Febbraio del 1520. La commedia percorre l’Italia e la si ristampa per tutto il Cinquecento in una ventina d’edizioni: la civiltà teatrale cortigiana ha trovato un modello esemplare, libero d’ogni impaccio classicistico e così fruibile nei suoi “giochi”, nella sua organizzazione spettacolare, nel suo dinamismo scenico, da riproporsi come archetipo formativo nei canovacci dell’arte»[7].

 

Angelo Beolco, detto il Ruzante

 

Fra Quattro e Cinquecento la particolare natura dell’ambiente padovano, fertile agli innesti della cultura umanistica e tuttavia ricco degli umori contadini provenienti dal vasto circondario delle comunità rurali, favorì da un lato un’attività teatrale in latino di gusto umanistico, ravvivata dagli apporti della letteratura goliardica europea, dall’altro forme drammatiche popolari incentrate sul rapporto città-campagna.

«Nonostante la frammentarietà dei dati biografici del Ruzante, le ultime ricerche storico‑filologiche […] hanno definitivamente smontato il romantico cliché dell’artista istintivo povero e sregolato […] e hanno portato all’adeguata valutazione critica di uno dei maggiori rappresentanti del teatro rinascimentale. Così anche certe tendenziose interpretazioni sociologiche di un Ruzante che nei Dialoghi denuncerebbe la drammatica coscienza del proletariato contadino “al contatto dell’esperienza con le forme del mondo storico”, sono rientrate nella più accettabile prospettiva d’una “commedia” insieme “eventuale” e “impossibile” provocata nel villano “come l’urgente bisogno di un compenso alla propria vitalità offesa” (Baratto)»[8].

Nato nei dintorni di Padova (forse Pernumia) attorno al 1496, figlio naturale di messer Giovanni Francesco, dottore in arti e medicina dello Studio di Padova, Angelo Beolco crebbe nella famiglia paterna[9], la cui ragguardevole posizione gli permise di formarsi nello stesso ambiente colto e signorile dei suoi fratelli, con i quali ebbe costanti e intimi rapporti anche dopo la morte del padre. Nulla sappiamo della sua formazione culturale, che – verosimilmente – si svolse in ambito familiare con lo studio dei testi di Dante e Petrarca, non ché su quelli del Poliziano o del Sannazzaro. Nel 1521 il padre lo nominò suo procuratore, affidandogli – anche per conto dei fatelli – l’amministrazione dei beni fondiari. Nel 1525 entrò in rapporti con il nobile Alvise Cornaro[10] – che divenne suo grande amico e protettore – il quale gli affidò ripetutamente incarichi d’affari, come l’acquisto di terreni.

Il contatto con l’ambiente universitario frequentato dal padre e gli affari collegati ai beni fondiari, della famiglia prima e del Cornaro poi, sono alla base della personalissima esperienza d’artista del Beolco. Come attore esordì probabilmente a Venezia nel 1520, recitando in una commedia in onore di Federico Gonzaga, mentre di poco anteriore è la composizione della sua prima opera, la Pastoral. La Betìa – che insieme alla Pastoral sono le sole opere in versi del Beolco – andrebbe invece collocata alla fine del 1521. L’unica data certa nella cronologia delle opere ruzantiane è il 1528, anno in cui viene rappresentato davanti ad una brigata di cacciatori ospiti del Cornaro il Ménego (o anche Dialogo facetissimo), l’opera che insieme con gli altri due dialoghi (Parlamento e Bìlora) inaugura una seconda fase dell’arte ruzantiana. Immediatamente prima del Ménego venne scritta la Moscheta, e successivamente la Fiorina e la Seconda orazione. Anconitana, Piovana e Vaccària, commedie “classicheggianti”, sono da collocarsi tra il 1529 e il 1533.

Contemporaneamente alla sua opera di scrittore, il Ruzante continuò ad esercitare il suo mestiere di attore a Venezia (come s’è già detto), Padova e Ferrara. ma tra il 1531/32 egli lavorò pressoché stabilmente nella casa padovana dei Cornaro, ove, secondo quanto ci dice il Vasari, si spense prematuramente nel 1542, quando avrebbe dovuto recitare nella Canace dello Speroni.

Angelo Beolco, «tutt’altro che ignorante e sprovveduto di solida cultura umanistica (ché la stessa affettuosa protezione del patrizio veneto Alvise Cornaro gli permise un’assidua frequentazione degli uomini più colti di Padova e Venezia), ben rappresenta una cosciente reazione al classicismo più imitativo e accademico e una chiara volontà di trarre poesia dalla energica rappresentazione della realtà presente sia nelle sue condizioni storico-sociali sia nella naturale concretezza dell’uomo con i suoi bisogni, le sue passioni, i suoi sdegni, le sue miserie: rappresentazione che, solidamente munita di preparazione e ispirazione scenica, si volge soprattutto al mondo dei contadini sfruttati, dominati dai sentimenti elementari e potenti del bisogno amoroso, della reazione alla miseria e alla fame, alla prepotenza dei ricchi, alle infinite sventure provocate dalle guerre, dalle devastazioni, dagli avvenimenti torici particolarmente gravanti sulla indifesa debolezza delle classi subalterne.

Da questo nuovo e storico scandaglio in una realtà, che sfuggiva allo sguardo della letteratura più aulica e idealizzante, e dalla possente interpretazione artistica che il Ruzzante ne dà nel suo teatro, nascono alcuni dei suoi capolavori in cui comicità e dramma si fondono, coerentemente traducendo quel sentimento profondo della realtà contadina in un linguaggio (il «pavano»: il dialetto padovano della campagna) che è esso stesso un misto di invenzione e di riproduzione realistica di singolare efficacia»[11].

Con la Pastoral, egloga rusticana in 21 scene, forse rappresentata quasi privatamente nella loggia di palazzo Cornaro, davanti ad un pubblico di letterati, piomba sulla scena, inciampando, il contadino Ruzante, avvolto in un gabbano e con alla cintura una zucca di vino e reti da uccellatore. Tra una sorsata di vino ed un morso ad un pezzo di pane, egli diffonde la parodia veemente d’ogni immaginabile mondo idillico e campestre: l’apparente accettazione del modello offerto dalla favola pastorale viene smentita dalla contaminazione con la tematica del mondo contadino. «L’evasione bucolica celebra grotteschi funerali nel furore di stercorarie cure mediche, dal clistere all’assaggio dell’orina divenuta “merdesìna”; dopo l’imbonitura del medico, che a Iazzo recita l’epitaffio della propria ciarlataneria, la parodia si esalta gloriosa con il suono dello “zugularo” nel ballo finale attorno all’altare di Pan»[12].

Con la composizione della Betìa il Beolco attua il superamento del bilin­guismo della Pastoral, per la lingua rustica – cioè per il dialetto pavano (come s’è detto) – contrapposta consapevolmente alla lingua cittadina, “moscheta”. Ma il Beolco appare ancora, in questo periodo, in una fase di sperimentazione e di ricerca di una propria dimensione originale, poetica e umana. Il suo è l’atteggiamento ambiguo del letterato che osserva con curiosità i sentimenti dei villani, si diverte a contraffare il loro linguaggio rustico e la loro istintività primitiva, ma è attento nello stesso tempo a cogliere ogni spunto per irridere, con spirito beffardo, le forme dell’altra cultura, letteraria e cittadina.

Interamente ambientata nel mondo contadino, la trama della commedia (divisa in cinque atti e scritta in versi) si sviluppa intorno alle vicende di Betìa, contesa da due uomini: Zilio, goffo e impacciato, e il più audace e furbo Nale. Mentre incoraggia l’amico ad affrontare la ra­gazza e a dichiararle le sue intenzioni, questi convince Betìa alle nozze promettendole che comunque potrà sempre contare anche sulla sua amicizia e sul suo amore. Le cose sem­brano complicarsi quando Zilio, scoperta l’intesa, si scaglia contro Nale, che si finge morto e alla moglie Tamia, accorsa disperata, parla come se fosse l’anima, descrivendole le pene dell’inferno. Alla fine tutto si accomoda, e la commedia si risolve non con le nozze di una singola coppia, ma con un accordo a quattro fra Betìa, Zilio, Nale e Tamia.

La tensione alla sperimentazione di ogni possibilità drammatica offerta dalla tradizione induce il Beolco a dilatare la semplice struttura del mariazo per accogliere i contenuti più eterogenei. Gli elementi tipici della parodia letteraria si mescolano così ai motivi della tradizione popolare e contadinesca, e alla disputa antiplatonica e antibembesca sulla natura d’amore e alle parafrasi in pavano di intere frasi degli Asolani vengono accostati lo sboccato litigio fra Betìa e la madre, il lamento di Tamia, tradizionale nella lirica popolare pavana, l’invettiva misogina cara alla giulleria, la paurosa e oscena descrizione dell’inferno, le grossolane salacità contadine.

Non mancano nella Betìa motivi già tipicamente ruzantiani e soluzioni sceniche originali, non ancora sufficienti però a contrapporre una struttura autonoma agli schemi della dram­maturgia colta. L’itinerario dell’esperienza ruzantiana conduce dalla letteratura alla poesia, a modi cioè più personali e più aderenti a quella poetica del “naturale” che viene formulata per la prima volta proprio nel prologo della Betìa, e sarà successivamente ribadita nella Moscheta, nella Fiorina e nella Vaccaria.

Tale poetica comporta la contrapposizione della civiltà contadina, primitiva e vitale, a quella raffinata e artefatta della città, e quindi il capovolgimento di tutta la tradizione satirica anticontadinesca ai danni dell’ideale classicistico della letteratura rinascimentale. La naturalità contadina è ricercata non solo nei costumi, nelle azioni, nei sentimenti, ma anche, e anzitutto, nel linguaggio, nel rustico, corposo dialetto pavano che il Beolco adotta contro la lingua letteraria, in aperta polemica coi paladini della toscanità imposta in quegli anni dall’esempio del Bembo.

Il Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo, rappresenta – insieme con Moscheta e Bìlora – la realizzazione più originale dell’arte ruzantiana, in cui sono definiti, con straordi­naria efficacia e rigore, i caratteri essenziali della sua poetica e della sua visione del mondo, segnando il passaggio definitivo dagli schemi della satira anti­contadinesca alla scoperta del mondo dei villani nella sua umanità e autenticità; un momento di “riflessività partecipe” sulle sue tragedie e le sue miserie, sostenuta da una profonda capacità di interpretazione storica.

Nelle due brevi commedie, Parlamento e Bìlora, è descritta la situazione drammatica dei contadini inurbati, respinti dal loro ambiente da condizioni precarie e oppressi in città dal peso di umiliazioni fisiche e morali. Nella rappresentazione commossa di questa realtà la fantasia “ilaro-tragica” del Beolco assume toni cupi di latente drammaticità, che nel Bìlora giunge alle conseguenze estreme del delitto[13], compiuto in un estremo, vano tenta­tivo di rivalsa su una greve e tragica condizione esistenziale.

Alla violenza di Bìlora si contrappone nel Parlamento la pavidità di Ruzante, miles gloriosus alla rovescia, tornato dal campo di battaglia disertore, lacero, stanco, terrorizzato. Attraverso questo personaggio la realtà della guerra si presenta demistificata e riportata alla misura del “naturale”, vista cioè con gli occhi del contadino disgustato dalla sua esperienza bellica, deluso dal fatto che neanche questa è servita a sollevarlo dalla sua ancestrale miseria. Vi era andato con la speranza di far bottino, ma è tornato deluso e più affamato di prima, con la speranza, almeno, di riunirsi alla sua donna. Ma Gnua, che si è prostituita durante la sua assenza e vive ora a Venezia con un bravaccio, deride il suo aspetto “sbrendoloso” e rifiuta le profferte d’amore del marito che non può garantirle neanche il pane.

Al crollo totale di ogni speranza Ruzante oppone una realtà illusoria alla quale egli stesso, per primo, è disposto a credere. Così con la sua falsa spavalderia e con l’unica ragione d’orgoglio che gli sia rimasta (essersi abituato a resistere alle bastonate), potrà continuare a subire passivamente il sarcasmo della moglie, le bastonate del bravo, l’ironia di Menato.

La Moscheta, commedia in cinque atti, in cui le angustie erotico‑economiche e le reciproche sopraffazioni dei contadini sono riproposte in un più complesse e calcolato intreccio. L’opera prende il nome dal “parlar moscheto”, che – come s’è detto – è il termine dialettale con cui si designa il linguaggio più raffinato (cittadino) che si contrappone al dialetto contadino padovano in genere usato dal Ruzzante. A “parlar moscheto” ci prova il personaggio Ruzante quando si traveste per mettere alla prova la fedeltà della moglie Betìa; la moglie però capisce l’inganno e lo punisce dandosi prima ad un soldato bergamasco e riannodando poi una relazione adulterina con un compare di Ruzante, Menato.

La fresca invenzione poetica del Beolco ritorna, con la Fiorina, Alla tradizionale struttura del mariazo, ossia la rappresentazione rituale di un matrimonio rusticano (genere propriamente veneto, in voga tra Quattrocento e Seicento).  Fiore, figlia di Pasquale, è contesa dal pastore Ruzante e dal contadino Marchiodoro. All’appassionato corteggiamento del primo, che già in precedenza l’aveva voluta e poi lasciata, e che nell’enumerare le sue pene d’amore arriva a progettare il suicidio in caso di rifiuto, la ragazza preferisce il rude approccio del secondo, col quale medita addirittura la fuga d’amore. Inevitabile lo scontro tra i due giovani pretendenti: pur carico di ardimento, Ruzante soccombe al rivale, che lo carica di botte; e solo l’arrivo del padre di Fiore evita il peggio. Ma il pastore non disarma, e si determina a voler rapire l’amata, con l’aiuto di un paio di compagni. Alla scena del ratto assiste una vicina di casa, Teodosia, che mette al corrente Marchiodoro del triste destino della giovane, e presto corre ad avvertire Pasquale. I propositi di vendetta del giovane sono però inaspettatamente placati dal padre di Fiore e da Sivelo, padre di Ruzante, i quali – accettando il fatto compiuto del rapimento, e in ragione dell’antica amicizia – quasi per rafforzare il legame familiare, convincono Marchiodoro a prendere in moglie la sorella di Ruzante, al quale Sivelo – decantandone le qualità – accorderà pure una ricca dote.

Dopo l’allestimento della Moscheta alla corte di Ferrara, cui collaborerà anche l’Ariosto, il Beolco mise alla prova la sua creatività teatrale confrontandosi con i modelli della commedia classica. Così, nella Piovana, commedia in cinque atti, attua una rielaborazione del Rudens (Il canapo) di Plauto, trasponendone i personaggi e la vicenda marinara sulle spiagge di Chioggia; nella Vaccària attua una rielaborazione dell’ Asinaria (La commedia degli asini), nella quale sottolinea la differenza sociale dei personaggi, che si riflette nell’uso contrapposto della lingua e del dialetto: solo i servi parlano in padovano, gli altri sono di più elevata condizione e quindi si esprimono in italiano letterario; infine, nell’Anconitana – che pur risente dell’influenza delle commedie ariostesche e della Calandria del Bibbiena – il Beolco conduce una sintesi formale delle sue esperienze compositive, inserendo nello schema della commedia soluzioni sperimentali innovative, che sembrano quasi un preludio della commedia dell’arte. L’opera del Ruzante sviluppa due vicende parallele: quella seria, in toscano, introdotta da un prologo allegorico declamato dal Tempo, e che ruota attorno alle peripezie amorose a lieto fine delle coppie di giovani Tancredi-Isotta e Teodoro-Ginevra (quest’ultima è una vedova anconitana, dalla quale viene il titolo); quella comica, in dialetto, introdotta da un più ampio prologo recitato da Ruzante, in cui s’intrecciano le grottesche smanie erotiche del vecchio sier Tomao per la cortigiana Doralice e quelle del suo servo Ruzante per la fantesca Bessa.

Com’è stato notato, l’opera del Ruzante sembra ripetere in miniatura lo svolgimento complessivo del teatro veneto del Rinascimento nell’inte­grale tessuto di relazioni con le forme della drammaturgia preesistente e ulteriore che esso manifesta. Il Beolco, infatti, immette la sua ispirazione nelle forme già predisposte dalla tradizione: è il suo tributo di letterato ai canoni della poetica e del gusto del tempo, che egli accetta senza sentirsene però troppo vincolato. Non rifiuta i modelli offerti dalle esperienze teatrali precedenti: idillio pastorale, mariazo popolare, commedia regolare; rispetta la divisione dei generi e osserva in tutte le sue commedie le tre unità, di tempo, di luogo, d’azione, la suddivisione in cinque atti, la consuetudine del prologo. Ma quelle “scalette” e quelle convenzioni egli le rielabora attraverso il suo amaro realismo, la schiettezza del mondo dei villani elementare e ferino, la fedeltà assoluta alla rusticità del dialetto.

Senza mai cedere al rischio di ripetizioni, il Beolco passa dalla prova iniziale della Pastoral alla struttura elementare del mariazo padovano ripresa nella Betìa e nella Fiorina, ai Dialoghi, che costituiscono con la Moscheta l’esito più originale dell’arte ruzantiana, alla Piovana e alla Vaccaria, in cui l’imitazione del modello classico si contamina di elementi rustici. Col sorprendente estro spettacolare dell’Anconitana, che virtual­mente imposta i modi di un tipico intreccio dell’Arte, il cerchio si chiude con bruciante varietà e rapidità di sperimentazione e al tempo stesso con sorprendente armonia.

*** NOTE AL TESTO ***

[1] Lorenzo de’ Medici (Firenze, 1514 – Venezia, 1548), detto Lorenzino per il suo fisico smilzo (o anche Lorenzaccio), era figlio di Pierfrancesco il Giovane, del ramo cadetto dei Medici, e di Maria Soderini. Appena undicenne perse il padre e fu allevato dalla madre, con il fratello e le sorelle. Nel 1526 fu portato a Venezia con il fratello Giuliano e con il cugino Cosimo, futuro duca di Firenze, per sfuggire all’arrivo dei Lanzichenecchi. Nel 1530 Lorenzino si trasferì a Roma, dove, alcuni anni dopo (1534), mutilò alcune teste delle statue antiche dell’arco di Costantino. L’intervento del cugino cardinale Ippolito salvò il ragazzo dall’ira del Papa, che aveva promesso di mandare a morte il responsabile dei vandalismi. Lasciata Roma, il giovane Medici riparò a Firenze, dove divenne ben presto il compagno degli eccessi del duca Alessandro, detto il Moro. I due instaurarono un legame molto stretto, ma quando il duca, in una questione di eredità venutasi a creare tra i discendenti di Pierfrancesco il Vecchio, favorì l’altro cugino Cosimo, Lorenzino – a causa forse del forte danno economico subito – ne organizzò l’assassinio. Dopo l’omicidio riparò a Bologna, dove cercò inutilmente di nuocere al nuovo duca, sollecitando i fuoriusciti a muovere contro Firenze. Nel settembre del 1537 Lorenzino si spostò in Francia, alla corte di Francesco I, dove poteva contare sul sostegno politico del sovrano e sull’ospitalità di molti fiorentini. Nel 1544 Lorenzino tornò definitivamente a Venezia, dove venne poi assassinato per mano di due sicari di Cosimo I. Uomo di lettere nonché drammaturgo e scrittore raffinato, come ebbe a sottolineare lo stesso Leopardi nello Zibaldone, la sua opera migliore è sicuramente l’Apologia (1539), vero capolavoro dell’eloquenza italiana, nella quale, in maniera limpida, precisa, sottile ed efficacissima, traccia la propria personale difesa contro tutte le accuse che gli vengono mosse per l’assassinio del duca Alessandro.

[2] Francesco d’Ambra (Firenze, 1499 – Roma, 1558) era figlio Giovanni e Costanza da Filicaia. La famiglia era di nobili origini e molti dei suoi membri ricoprirono cariche pubbliche. Poco si sa della giovinezza di Francesco: nel 1527 venne proclamato abile al Consiglio grande e, poiché apparteneva all’arte del cambio, potè partecipare alla vita politica del tempo. Sposò Ginevra di Niccolò Biffoli, dalla quale ebbe il figlio Vincenzo (1538). Il d’Ambra fu amico di Cattani da Diacceto, filosofo platonico seguace di Marsilio Ficino. Fu, se non tra i fondatori, tra i primi a far parte dell’Accademia degli Umidi, i cui membri tenevano conferenze e lezioni sui maggiori poeti toscani. Nel 1544 venne messa in scena la sua prima commedia, Il furto, il cui insolito titolo suscitò un certo scandalo, e che fu poi pubblicata postuma nel 1560. Nel 1547/48 compose in versi sdruccioli I bernardi, basata sugli equivoci generati dallo scambio di nome tra due persone, che fu dedicata al duca Cosimo I. Mentre tra il 1550 e il 1555 si colloca la composizione de La cofanaria, anch’essa in versi sdruccioli. Il d’Ambra, come molti commediografi del 1500, ha insistito molto sulla “novità” delle sue commedie. In realtà i tipi delle sue commedie sono quelli della commedia latina, sebbene in esse l’intreccio sia molto più complicato.

[3] Giovanni Maria Cecchi (Firenze, 1518 – San Martino a Gangalandi, 1587), notaio, commediografo e scrittore devoto alla famiglia medici, occupò importanti uffici pubblici. Visse una vita tranquilla che neppure l’assassinio del padre, ad opera di un certo Fabrino del Grillo da Castagno, riuscì a turbare. Oltre alle commedie (che sono ventuno), nel 1557 compose una Dichiarazione di motti, proverbi, detti e parole della nostra lingua utile alla comprensione del linguaggio fiorentino di quei tempi, e nel 1575 scrisse Delle cose della Magna, Fiandra, Spagna, e regno di Napoli, un libro ch’era frutto dei suoi studi, non di osservazioni originali effettuate durante viaggi. L’Assiuolo è sicuramente la più importante delle sue commedie, quantunque non brilli per originalità inventiva, giacché ricorda varie novelle del Boccaccio e, nel finale, la Mandragola del Machiavelli. Il Cecchi, comunque, anche laddove imita Plauto e terenzio, tiene costantemente d’occhio il mondo presente, tendendo verso un’arte più libera, che potesse permettergli, senza l’impaccio dei modelli classici, di assecondare in maniera più compiuta il proprio genio.

[4] Giovanni Battista Della Porta, indicato anche come Giambattista o Giovambattista, (Napoli o Vico Equestre, 1535 – Napoli, 1615)era il terzo figlio del nobile Leonardo (o Nardo) e di una nobildonna della famiglia Spadaforra, sorella dello studioso di antichità Adriano Guglielmo. Ricevette un’educazione mondana, letteraria e musicale nell’ambito familiare, ove si era soliti discutere di questioni scientifiche. Nel 1558 pubblicò la prima edizionie del Magiae Naturalis, nel 1563 un’opera di crittografia, il De Furtivis Literarum Notis, nel quale descrive il primo esempio di sostituzione poligrafica cifrata con accenni al concetto di sostituzione polialfabetica. Per quest’opera è ritenuto il maggiore crittografo del Rinascimento. Del 1566 è una pubblicazione sull’Arte del ricordare e del 1584 è il De humana physiognomonia in 4 libri sulla fisiognomica. Nel 1592 il Santo Uffizio gli vietò di pubblicare a meno di sua autorizzazione, e gli fu interdetto di stampare la versione italiana di De humana physiognomonia. Così il Della Porta, che sin da giovane s’era dedicato per divertimento alla composizione di opere teatrali, si decise a dare una forma più completa al proprio teatro. Maliziosamente e con sicuro estro teatrale egli diviene l’iniziatore di un processo di riconversione della commedia colta, sostituendone gli eccessi di letterarietà o di manierismo, con l’efficacia della drammaturgia, la spontanea aggressività, i giochi pirotecnici ed i valori spettacolari della commedia dell’arte. Le sue 28/29 commedie e tragedie sono una brillane testimonianza di abilità linguistica, di maestria inventiva e di ambizione teorica. Sullo sfondo gioioso o grottesco della travolgente azione comica, i personaggi riescono a coniugare con i moduli del parlato sia le armonie della lirica petrarchesca che il patetico del romanzesco.

[5] Emilio Lovarini (Vicenza, 1866 – Lovadina, 1955) fu docente di letteratura italiana in vari licei della penisola e poi all’Università di Bologna. Studiò soprattutto, con grande acutezza filologica, il Ruzzante e il teatro veneto del Cinquecento. Caro al Carducci e al Pascoli, fu amico di illustri letterati come Renato Serra, Riccardo Bacchelli, Giuseppe Raimondi e Goffredo Bellonci.

[6] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 155.

[7] Luciano Bottoni, Il teatro del rinascimento, La commedia, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. V, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 36-37.

[8] Luciano Bottoni, ibidem, pag. 49.

[9] La famiglia del padre apparteneva a quel ramo della nobile famiglia milanese dei Beolco che si era trasferita nel Veneto almeno fin dal 1459 e possedeva terreni nella campagna padovana ed estense.

[10] Alvise Cornaro, o Cornèr (Venezia, 1484 – Padova, 1566), scrittore, letterato e mecenate, nacque da Antonio di Giacomo e Angeliera Angelieri. Nel 1489 il piccolo Alvise fu inviato a Padova presso lo zio materno, il sacerdote Alvise Angelieri, che godeva di un vasto patrimonio; e fu probabilmente lo zio, che era certamente un uomo di cultura, ad introdurre il giovane Alvise allo studio delle lettere e della giurisprudenza. Morto lo zio nel 1511, il Cornaro si ritrovò unico erede delle sue cospicue proprietà, che seppe gestire con grande intelligenza e che si accrebbero con la dote derivata dal matrimonio con Veronica di Giovanni Agugia (151). Ebbe così la possibilità di dedicarsi a studi di agricoltura, idraulica[2] ed architettura. Costruì ville e altri edifici, si dedicò a molte opere di bonifica nei territori della Serenissima, in special modo dighe per controllare le acque al fine di estendere le zone coltivabili. Come  mecenate protesse svariati artisti, tra cui Angelo Beolco, il pittore e architetto Giovanni Maria Falconetto e il giovane architetto Andrea Palladio. Scrisse un trattato di architettura e uno sulle acque (1566), nonché l’opera che gli dette maggior fama, il il trattato sulla Vita sobria (1558).

[11] Walter Binni, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in OPERE COMPLETE DI WALTER BINNI, Il Ponte Editore, 2017, pag. 212‑213.

[12] Luciano Bottoni, ibidem, pag. 51.

[13] Il villano Bìlora, per quanto astuto come una faina, è vittima dell’usura rurale di Andronico, che gli ha rubato la moglie Lina. Dopo aspri diverbi con la moglie, che non vuole più saperne del marito, Bìlora, mezzo ubriaco, si scontra con il suo avaro antagonista e lo accoltella.


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