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Marco Michelini | 11 Novembre 2020

Primo in ordine di tempo, nella storia della drammaturgia moderna, il teatro italiano del Cinquecento influì sulle sorti di tutti gli altri, ai quali trasmise lo spirito del suo Rinascimento e la tradizione classica, la scenografia, l’architettura del teatro, l’arte dell’attore. Commedia, tragedia, favola pastorale, melodramma sono i generi elaborati nel corso del secolo dagli scrittori e successivamente codificati dai teorici, che vengono consegnati al teatro europeo fino all’Ottocento.

Nell’Italia del Rinascimento il teatro entra a far parte della cultura e del costume, dei quali diviene espressione rilevante; la produzione drammatica vede impegnati i massimi scrittori e poeti, i cui lavori vengono rappresentati prevalentemente in teatri di corte o presso grandi signori laici ed ecclesiastici, affidati dapprima alla recitazione di colti dilettanti (accademici, cortigiani, studenti), in seguito di attori di mestiere, quei comici «dell’arte» che cominciavano proprio in quel tempo a specializzarsi e costituirsi in compagnie.

Alla rinascita del teatro contribuì la riscoperta della Poetica di Aristotele, che stimolò l’approfondimento e la revisione delle cognizioni intorno alla poesia, alle sue origini e forme, e conseguentemente l’interesse verso generi letterari dimenticati da secoli e la loro successiva codificazione suffragata dall’autorità delle dottrine aristoteliche.

Sarebbe questione oziosa riproporre il problema dei prestiti e delle derivazioni del teatro del Cinquecento da quello classico. Come nelle altre forme artistiche e letterarie, l’imitazione era principio indiscusso e unanimemente accettato, connatu­rato allo spirito e alla cultura dell’epoca. L’osservanza dei modelli classici permetteva infatti di appagare l’esigenza, tutta umanistica e laica, di assimilare quella perfezione che gli antichi erano riusciti a raggiungere in ogni campo dell’arte, e soddisfaceva nello stesso tempo l’aspirazione all’equilibrio e all’ordine formale, tipica del classicismo rinascimentale.

Ma è il continuo, concreto confronto fra società e cultura, fra cultura e potere, a spiegare i vari caratteri e fenomeni del teatro cinquecentesco. In città come Venezia, o Firenze e Siena prima dell’instaurazione del granducato di Cosimo I, la presenza di una classe intellettuale e borghese relativamente libera determina l’apertura a una più vasta gamma di esperienze spettacolari, mentre diversa è la situazione laddove l’attività drammatica si svolge sotto il patrocinio principesco, come a Ferrara, Mantova, Napoli, Firenze dopo la restaurazione medicea. Affidata a scrittori cortigiani, essa appare vincolata agli interessi del potere e attentamente sorvegliata nelle sue più rischiose espressioni.

All’azione repressiva del potere politico si aggiunge, in epoca postridentina, quella non meno energica della censura ecclesiastica. Sempre più ristretto il margine della satira e della provocazione ideologica, l’attività drammatica si indirizza progressiva­mente verso forme di rappresentazione evasive e fastose: tragedie quindi, tragicom­medie, drammi pastorali, intermezzi mitologici e buffoneschi, con accentuazione e prevalenza di elementi prettamente spettacolari, musica, episodi, danze. Se le prime rappresentazioni vennero eseguite in sedi provvisorie — sale di corte e di dimore signorili, e in seguito case borghesi o piazze — già nel 1549 il cardinale Ercole d’Este, degno erede di una splendida tradizione familiare che aveva dato un impulso decisivo alla rinascita dello spettacolo teatrale, dava incarico all’architetto Bertani di costruire il primo teatro stabile, ponendo le basi di una più estesa e complessa orga­nizzazione teatrale. L’evoluzione si lega anche al crescente influsso del Trattato delle scene di Sebastiano Serlio[1] e alla continua ascesa dei valori di scenografia e spettacolo nelle poetiche del periodo fra 1565 e 1575, che preparano l’avvento del grande spettacolo cortigiano del Seicento.

L’apparato scenico, oltre a tendere a una sontuosità sempre maggiore nei costumi e nelle invenzioni, si arricchisce nel Cinquecento di un nuovo elemento: la sceno­grafia pittorica. Alla scena plastica del teatro classico e medievale si sostituisce la grande scenografia del teatro moderno, alla quale l’invenzione quattrocentesca della «dolce» prospettiva permette di creare l’illusione della tridimensionalità.

Sulle orme dei classici, fin dalle origini i tipi di scena sono tre, corrispondenti ai più importanti generi drammatici rappresentati nel teatro cinquecentesco: scena tra­gica, comica e boschereccia per il dramma pastorale. Anche in questo campo si accesero verso la metà del secolo le discussioni dei teorici, che ne fissarono definiti­vamente i caratteri, mentre fra gli scenografi troviamo artisti insigni quali Raffaello e Vasari.

 

*** NOTE AL TESTO ***

 

[1] Sebastiano Serlio (Bologna 1475 ­– Fontainebleau 1554), architetto e teorico dell’architettura italiano, ebbe dapprima un’intensa attività di pittore e prospettico, chiudendo poi la sua forazione alla scuola del Peruzzi, che si trovava a Bologna per progetti della facciata di S. Petronio (1522-23). Nel 1528, dopo alcuni soggiorni a Roma, si trasferì a Venezia, ove frequentò intellettuali, letterati e artisti (quali Jacopo Sansovino e Lorenzo Lotto), nonché i circoli vitruviani. Pur non riuscendo ad imporsi professionalmente, nella città lagunare diede alle stampe le prime nove canoniche incisioni sugli ordini architettonici, posti in confronto morfologico e proporzionale (1528), e i primi due libri (Libro IV nel 1537 e Libro III nel 1540) del trattato sull’architettura, l’opera che gli dette maggior fama e che fu conosciuta in tutta Europa. Chiamato alla corte francese da Francesco I, diresse i lavori del castello di Fontainebleau (1541) e costruì il castello di Ancy‑le‑Franc.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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