Linea Biografica
Nato a Benevento nel 1515 da una modesta famiglia, Franco ricevette la sua prima educazione dal fratello maggiore Vincenzo, maestro di scuola a Benevento, segnalandosi come precoce autore di poesie latine e di satire. Si trasferì a Napoli nel 1535, e qui, pur vedendo frustrate le sue speranze di trovare un potente protettore che favorisse i suoi esordi nella carriera letteraria, scrisse una centuria di epigrammi latini, raccolti sotto il titolo di Hisabella, in onore di Isabella di Capua, moglie di Ferrante I Gonzaga[1]. Nel 1536 si stabilì a Venezia, ove, nell’agosto dello stesso anno, dopo aver tentato invano di ripubblicare l’Hisabella e delle stanze composte in occasione della sua partenza da Napoli, pubblicò il poemetto in ottave Il tempio di Amore[2]. In breve tempo, comunque, il Franco riuscì ad ottenere l’amicizia e la protezione dell’Aretino, che nel 1537 lo accolse nella sua dimora sul Canal Grande, divenendone stretto collaboratore. I rapporti con l’Aretino tuttavia andarono progressivamente deteriorandosi sino a raggiungere verso la fine del 1539 la definitiva rottura. La causa fu probabilmente dovuta al volume di Pistole vulgari che il Franco, emulo e concorrente del maestro, aveva approntato nello stesso tempo in cui collaborava all’epistolario dell’Aretino. Le Pistole vulgari furono pubblicate nell’aprile del 1539.
Nonostante questo triplice successo letterario, la situazione del Franco nella città lagunare andava deteriorandosi rapidamente, a causa del vero e proprio clima di guerra che s’era scatenato con l’aretino. Così, dopo violenti scontri verbali o scritti, culminati da un colpo di pugnale, da parte di Ambrogio Eusebi amico dell’Aretino, che lo sfregiò in volto, il Franco decise di trasferirsi e, alla fine di giugno del 1539, partì alla volta di Padova, con il progetto di riparare in Francia presso la corte di Francesco I, cui aveva indirizzato molto opportunamente alcune lettere adulatorie.
Sulla via della Francia rimase bloccato dalla guerra in corso a Casale Monferrato dove, accolto favorevolmente dalla nobiltà locale, restò per circa sei anni, proseguendo la sua attività letteraria e inasprendo la polemica contro l’Aretino (che tentava d’impedire la pubblicazione delle sue opere a Venezia) con il dare alle stampe una serie di violenti sonetti contro l’ex amico e protettore (Rime contro Pietro Aretino), cui fece seguire la Priapea, raccolta di sonetti satirici e lussuriosi, e alcuni epigrammi fortemente ingiuriosi contro papa Paolo III, che gli costarono l’immediata comminazione dell’interdetto da parte della Curia romana. Nello stesso periodo, con uno spirito del tutto diverso, scrisse anche il Dialogo dove si ragiona delle bellezze, nel quale celebra le donne di Casale e attribuisce loro ogni pregio.
Dopo il 1546 si trasferì a Mantova al servizio di Giovanni Cantelmo[3] conte di Popoli, presso il quale restò per cinque anni, e qui pubblicò il romanzo la Philena (1547). Nel 1552 ritornò a Napoli ed entrò al servizio Pietro Antonio Sanseverino principe di Bisignano[4], che tuttavia dovette abbandonare l’anno successivo, perché il principe aveva lasciato Napoli per partecipare alla guerra di Siena. Senza mezzi visse a Napoli aiutato dagli amici fino a quando nel 1555, eletto papa Paolo IV, di cui il conte di Popoli era nipote, vide aprirsi la possibilità di un intervento a suo favore affinché l’interdetto venisse annullato e gli fosse concesso di trasferirsi a Roma. Ma nella città eterna regnava nei suoi confronti un clima di diffidenza e di sospetto per le lubriche invettive anticlericali della Priapea, sulle quali l’inflessibile Paolo IV non intendeva transigere. Nell’attesa di poter recarsi a Roma con la speranza di trovarvi una sistemazione vive fra la nativa Benevento (compose i capitoli satirici Del sei, Del sette, Dell’otto contro alcune magistrature cittadine e il capitolo Sull’uso della berretta contro gli adulatori) e Napoli fino a quando, viste frustrate le sue attese, decise nel 1558 di correre il rischio di recarsi a Roma per perorare la propria causa, ma venne quasi subito scoperto e imprigionato per otto mesi, cinque dei quali trascorsi nel carcere dell’Inquisizione a Ripetta. Scontata la pena entrò al servizio del cardinale Giovanni Morone (con il quale visse fino al gennaio 1568, senza tuttavia entrare nelle simpatie del prelato), frequentò i circoli degli avversari del cardinale Carlo Carafa[5] contro il quale scrisse ingiuriose pasquinate e partecipò attivamente alla lotta politica che si svolgeva fra i vari gruppi all’interno della corte pontificia. Tutto ciò avvenne, però, dopo la morte di Paolo IV e l’lezione al soglio pontificio di Pio IV[6], che provocò anche la caduta in disgarzia del cardinale Carlo Carafa, poiché – al di là delle congetture dei biografi – non esiste prova alcuna che il Franco abbia volto fin da subito la sua attività di scrittore satirico e maldicente contro la famiglia Carafa, facendosi condizionare dalle rivalità velenose tra i vari partiti curiali.
Il Franco, comunque, ottenne le carte del processo fatto celebrare da Pio IV contro i Carafa e scrisse un ferocissimo libello dal titolo Commento sopra la vita et costumi di Giovan Pietro Carafa che fu Paolo IV chiamato, et sopra le qualità de tutti i suoi et di coloro che con lui governaro il pontificato. L’opera si componeva di una parte in prosa composta interamente dal Franco – che per scriverla si valse interamente degli atti del processo – e di una parte in versi contenente le rime di un gran numero di autori che avevano scritto contro Paolo IV e la sua famiglia anche prima del processo, compresi una ventina di sonetti scritti sempre dal Franco.
Tutto sembrava andare per il meglio, ma nel 1565 con l’improvvisa morte di Pio IV l’elezione di papa Pio V[7], grande amico dei Carafa, la fortuna di Franco mutò bruscamente: tratto in arresto nel 1568 a causa della sua opera contro i Carafa, Franco subì un lungo processo da parte dell’Inquisizione, e sebbene riuscisse a tenere testa alle accuse di testimoni dubbi e interessati nel 1570 venne condannato alla pena capitale. La mattina dell’undici marzo, quattro giorni dopo la sentenza, lo scrittore fu impiccato sul ponte di Castel Sant’Angelo.
Le opere
Figura tra le più interessanti, insieme col Doni e col Lando, del gruppo dei poligrafi del Cinquecento, che soprattutto fra il 1530 e il 1560 contribuirono a scuotere la società letteraria italiana e a introdurre stimoli, fermenti, aperture nuove alla letteratura del tempo, così come a trasformare la figura e il ruolo tradizionale stesso del letterato, Niccolò Franco condivide con alcuni di questi scrittori, che hanno nell’Aretino, promotore e protagonista principale del gruppo, il loro maestro, l’irrequietudine della vita e l’insoddisfazione per la propria esistenza, nelle quali si riflette la precarietà di uno status sociale oscillante fra la tradizionale funzione di cortigiano e la libera professione di scrittore al servizio dell’editoria.
Scrittore meno felice del Doni, con interessi più limitati e con una personalità meno inquieta e complessa, Niccolò Franco esprime tuttavia nella sua esperienza letteraria quel gusto per la stravaganza, per il paradosso e per la trasgressione della norma petrarchista e classicista che costituisce l’aspetto più nuovo e provocatorio di cui sono portatori i cosiddetti poligrafi. Non mancano inoltre nelle opere del Franco quei motivi di critica e di contestazione della cultura ufficiale, accademica e pedante, e delle istituzioni politiche e religiose del suo tempo, spesso risolti in feroce maldicenza o in satira grossolana, che costituiscono uno degli apporti più significativi e fecondi della letteratura degli “irregolari” del Cinquecento.
Fra le sue numerose opere scritte dal Franco si vogliono qui ricordare le più emblematiche. Le Pistule vulgari (1539) rappresentano, dopo quelle dell’Aretino, la seconda raccolta di lettere della nostra letteratura e, seguendo il modello dell’epistolografia aretiniana, esse raccolgono encomi ed omaggi ai potenti, ma anche riflessioni su argomenti artistici. Diversa è la natura dei Dialoghi piacevoli (1539), che raccolgono dieci lunghe discussioni attorno ai temi più disparati, con una critica feroce dei diversi aspetti della società contemporanea ed una irridente presa in giro del classicismo.
Nel dialogo Il petrarchista Niccolò Franco si allinea alla polemica antipetrarchista, contribuendo con quest’opera – nella quale sono satireggiati il culto fanatico del Petrarca nonché gli imitatori e i commentatori del grande poeta –al dibattito culturale che animava il panorama letterario del Cinquecento. La satira, diretta alla demitizzazione del Petrarca, è svolta con ferocia, senza troppa finezza e in termini spesso grossolani, secondo i moduli propri di una letteratura corrente e di consumo rivolta ad un pubblico nuovo e non troppo esigente.
Le Rime contro Aretino e la Priapea non ci sono pervenute nell’edizione primigenia, bensì nella terza (1548), allorché il Franco s’era dedicato ad accrescere di molto la propria opera. Le Rime, ovviamente, sono il frutto dell’acredine e del malanimo contro l’ex amico e maestro, mentre la Priapea, raccolta di sonetti osceni, era probabilmente ispirata ai Priapea pseudovirgiliani. «Al commento di questi ultimi il Franco si applicò sin dagli anni veneziani, proseguendolo nel ventennio successivo fin quando l’opera non gli venne sequestrata e distrutta durante la prima carcerazione subita a Roma nel 1558-59. Rispetto alle Rime, nella Priapea maggiore intensità registrano gli accenti anticlericali e sono riprese e accentuate le invettive già diffuse nelle Rime contro principi e potenti (la raccolta si conclude con una lettera “A gli infami prencipi del infame suo secolo”), colpiti nelle loro laidezze private. È per questo che la Priapea, più delle Rime, ebbe un impatto cospicuo sull’opinione pubblica e sui potenti, connotando in maniera decisiva l’immagine pubblica del F. come un letterato maledico e immorale anche per il futuro, quando si sarebbe orientato verso generi seri»[8].
Il Dialogo dove si ragiona delle bellezze, dialogo pseudofilosofico dedicato alle gentildonne di Casale Monferrato, alle quali il poeta attribuisce loro ogni pregio, è un’opera alquanto convenzionale (1542), mentre più impegnativa opera narrativa è La Philena, romanzo in prosa ispirato alla Elegia di madonna Fiammetta del Boccaccio: l’infatuazione del giovane Sannio per la bella Filena, apparsagli in sogno, diviene il pretesto per narrare « la rigenerazione morale dell’uomo che si emancipa dalla servitù delle passioni per dedicarsi alla contemplazione esclusiva di Dio. La vicenda offre pochi appigli documentari, presentandosi come una miscela nel complesso sconnessa e farraginosa di stati d’animo ed effusioni sentimentali priva di una vera e propria trama e cementata più che altro dal tono artatamente oratorio della prosa, farcita di memorie dantesche»[9].
*** NOTE AL TESTO ***
[1] Ferrante I Gonzaga, detto anche Ferdinando o Fernando, principe di Molfetta (Mantova, 28 gennaio 1507 – Bruxelles, 15 novembre 1557), era il quinto figlio del marchese di Mantova Francesco II e di Isabella d’Este, che per avviarlo alla carriera delle armi nel 1523 lo mandarono a Madrid, alla corte di Carlo V. Nel 1526 era uno dei capitani imperiali, impegnato nella guerra contro la Francia e, nel 1527, fu tra i protagonisti del sacco di Roma. Nel 1529 sposò Isabella di Capua, figlia di Ferrante – principe di Molfetta e Duca di Termoli – e di Antonicca del Bazo. Nel 1531 ricevette l’onorificenza del Toson d’Oro da Carlo V, che successivamente lo nominò prima viceré di Sicilia (dal 1535 al 1546), poi governatore di Milano (dal 1546 al 1554). Morì a Bruxelles a seguito di una caduta da cavallo durante la battaglia di San Quintino.
[2] Carlo Simiani nel suo articolo Un plagio di Niccolò Franco – in Rassegna critica della letteratura italiana, V, 1900, pp. 19-26 – dimostrò che Il tempio di Amore era in realtà un plagio di Franco ai danni dello scrittore napoletano Iacopo Campanile, detto Capanio.
[3] Giovanni Cantelmo conte di popoli era nato probabilmente a Popoli fra il 1513 e il 1514, da Restaino e Giovannella Carafa. Dopo l’assassinio del padre, trascorse l’infanzia sotto la tutela della madre e dello zio, il cardinale Carafa (futuro Paolo IV). Nel 1529 iniziò la carriera delle armi al servizio dell’imperatore Carlo V, mettendosi in luce durante la spedizione in Provenza (1536). Nel 1541 fu capitano generale nella provincia di Abruzzo, dove rimase per dodici anni, e nel 1555, eletto Papa Paolo IV, ottenne il comando dell’esercito della Chiesa. Tuttavia, durante la crisi tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli, si mostrò nettamente favorevole agli spagnoli e ciò indusse il Papa a privarlo della sua carica. Ritornato a Napoli, il viceré lo nominò luogotenente generale e comandante della cavalleria del Regno. Siglata la pace (1555) Filippo II lo ricompensò con il titolo di duca, l’investitura della contea di Ortona e la carica di membro del Supremo Consiglio Collaterale, la più elevata magistratura del Regno. Amante delle lettere e generoso mecenate, fu anch’egli autore di numerose rime, andate per lo più perdute. Morì nel 1560 proprio quando Filippo II stava per chiamarlo a ricoprire la carica di viceré di Sicilia.
[4] Pietro Antonio Sanseverino principe di Bisignano (1500 – Parigi, 8 aprile 1559), nato da Bernardino e da Eleonora Todeschini Piccolomini, figlia del duca d’Amalfi, fu uno uno dei principi più importanti nel Regno di Napoli e della Calabria Citeriore. La sua applicazione attenta degli editti regi gli fece guadagnare la stima di Carlo V, che lo insignì personalmente del titolo di Cavaliere del Toson d’Oro. Contrasse due matrimoni: il primo con Giulia Orsini (1532), figlia di Giangiordano signore di Bracciano, il secondo con Irene Castriota Scanderberg (1539), figlia ed erede di Ferdinando, duca di San Pietro in Galatina, che trasmise il titolo e il feudo alla casa dei Sanseverino. Nel 1540 venne accusato di aver avvelenato la sorella e di aver ucciso la moglie Giulia, ma Carlo V lo assolse personalmente dalle accuse sul presunto avvelenamento e lo perdonò per l’uccisione della moglie Giulia Orsini, poiché nota «donna di condotta indegna», per cui la sua uccisione era una lecita vendetta. Sanseverino si schierò a fianco di Pietro di Toledo, viceré di Napoli, nel periodo delle proteste contro l’Inquisizione spagnola, confermando la sua dedizione al re, nonostante il principe di Salerno, Ferrante Sanseverino si fosse schierato contro. Nel 1552 fece parte del consiglio che votò a favore della sanzione a Ferrante Sanseverino, e della confisca regia.
[5] Carlo Carafa (Napoli, 1517 – Roma, 1561) era terzo figlio di Giovanni Alfonso, conte di Montorio, e di Caterina Cantelmo, nonché nipote di papa Paolo IV. Ebbe una vita molto sregolata, prima con una dubbia carriera di soldato mercenario in Italia e Germania e poi per l’esilio da Napoli a causa di omicidio e brigantaggio. Nel 1555 venne nominato cardinale nipote da Paolo IV e anche segretario di Stato, ma il suo governo fu molto impopolare a Roma soprattutto per la sua avarizia, crudeltà e licenziosità; fu spesso accusato dai suoi contemporanei di omosessualità, tanto che nel gennaio 1559 Paolo IV lo sollevò dalla carica di cardinale nipote e lo sostituì con il cardinale Alfonso Carafa. Nel giugno del 1560 il nuovo pontefice Pio IV lo fece arrestare, assieme ad altri tre noti esponenti della famiglia, per gli abusi di potere esercitati durante il precedente pontificato. Carlo fu accusato di aver indotto lo zio pontefice a scatenare un’insensata guerra contro la potente Spagna, nonché di eresia per aver trattato con il sultano turco. Il fratello Giovanni fu accusato di aver fatto strangolare la moglie per adulterio e per avere personalmente ucciso il suo amante. Il cardinale Alfonso Carafa fu accusato di avere estorto denaro e gioielli allo zio morente e di essere in possesso di libri proibiti. Vennero arrestati anche Ferrante Carafa e Leonardo de Cardenas. Subito il processo furono tutti condannati a morte, tranne il cardinale Alfonso: Giovanni Carafa, Ferrante Carafa e Leonardo de Cardenas vennero decapitati; il cardinale Carlo Carafa venne giustiziato con la garrota.
[6] Pio IV, al secolo Giovanni Angelo Medici di Marignano (Milano, 1499 – Roma, 1565), era figlio di Bernardino Medici di Nosigia e di Cecilia Serbelloni, il cui padre, Giovanni Gabriele, era membro del Senato di Milano. studiò filosofia e medicina all’Università di Pavia, poi frequentò i corsi di diritto all’Università di Bologna, dove si laureò in utroque iure (1525), divenendo un quotato ed esperto giurista. A 28 anni decise di entrare al servizio della Chiesa recandosi a Roma dove giunse il 26 dicembre 1527. Clemente VII lo nominò protonataio apostolico e Paolo III, che lo stimava profondamente per le sue qualità di instancabile lavoratore e l’abilità nel gestire gli affari, lo creò cardinale nel 1549. Divenuto prefetto della Segnatura di Grazia, legato di Romagna (1551) e governatore di Campagna e Marittima (1552), sotto il pontificato di Giulio III, la sua posizione si incrinò con l’ascesa al soglio pontificio di Paolo IV, per cui preferì lasciare Roma (1558) e trascorse un periodo in Lombardia, poi in Toscana, dove cercò di curare la gotta che lo affliggeva. Nel conclave che si tenne dopo la morte di Paolo IV venne eletto Papa il 26 dicembre 1559. Superate non poche opposizioni, riuscì a riaprire il concilio di Trento, che si era interrotto nel 1552, a portarlo a termine (1563) e a dare avvio all’attuazione pretica dei decreti conciliari. Suo stretto collaboratore fu il nipote, l’Arcivescovo di Milano San Carlo Borromeo. Nella battaglia contro le eresie, sostenne la lotta del re di Francia contro gli ugonotti, fornendo truppe e denaro. Fu generoso patrono delle arti e agevolò anche l’arte della stampa: istituì nel 1561 la Stamperia del popolo romano, chiamando a dirigerla Paolo Manuzio, figlio terzogenito di Aldo.
[7] Pio V, a secolo Antonio Ghislieri (Bosco Marengo 1504 – Roma 1572), era figlio Paolo e Dominina Augeri. La famiglia, a dispetto delle modeste condizioni economiche, non aveva origini umili: rappresentava infatti il ramo primogenito della nobile e potente famiglia bolognese dei Ghislieri, esiliata da Bologna nel contesto delle discordie civili sorte all’atto della nascente signoria dei Bentivoglio. A quattordici anni Antonio entrò nel convento domenicano di Voghera, assumendo il nome di Michele e continuò il suo noviziato nel convento di Vigevano, dove prese i voti (1519). Successivamente, fu mandato allo studium teologico dell’Università di Bologna, dove ricevette una solida preparazione di stampo rigidamente tomista, e nel 1528 fu ordinato sacerdote a Genova. Insegnate filosofia a Pavia e di teologia a Bologna, commissario e vicario inquisitoriale per la diocesi di Pavia (1542), inquisitore a Como (1550) e poi a Bergamo, commissario generale dell’Inquisizione romana (1551), Paolo IV lo nominò nel 1556 vescovo di Sutri e Nepi e l’anno successivo lo creò cardinale e Grande Inquisitore della Santa Romana e Universale Inquisizione. Con l’elezione di Pio IV venne confermato nel suo ruolo di inquisitore ma le divergenze con il pontefice, distante dalla linea intransigente del predecessore, lo portarono a essere nominato vescovo di Mondovì (1560). Alla morte di Pio IV, entrato in conclave con il sostegno del cardinale Carlo Borromeo, fu eletto Papa il 7 gennaio 1566. Rigido verso sé stesso e gli altri, mirò all’applicazione integrale dei decreti tridentini e alla riforma generale della Chiesa: bandì il nepotismo, riformò la sua corte e il clero romano, migliorò il collegio cardinalizio, esigendo da tutti grande severità di costumi. Pubblicò il Catechismo romano, il Breviario e il Messale romano. La sua lotta volta ad estirpare l’eresia in Europa e i suoi massicci interventi in tal senso crearono preoccupazione e malumore nei sovrani. Sostenitore della crociata contro i turchi, riuscì a varare la Lega sacra, che sconfisse gli ottomani nella battaglia di Lepanto.
[8] Franco Pignatti, FRANCO, Niccolò, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 50, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1998 – http://www.treccani.it/enciclopedia/nicolo-franco_res-72dcbca6-87ed-11dc-8e9d-0016357eee51_(Dizionario-Biografico)/
[9] Franco Pignatti, ibidem.
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