Genere narrativo tipico della tradizione letteraria italiana, con alle origini l’esempio assoluto del Decameron e con un’ininterrotta serie di esperienze che si dispiegano per il secondo Trecento e tutto il Quattrocento, nel Cinquecento la novella conosce il periodo di maggior fioritura ma vede anche, nella seconda metà del secolo, i primi segni di decadenza e di trasformazione.
Testimonianze della fortuna incontrata dal genere narrativo sono offerte da scrittori appartenenti ad ambienti culturali eterogenei, che riflettono un medesimo profondo interesse per il novellare, diffuso nei diversi strati sociali. Alla funzione che spetta alla facezia e alla novella fra gli svaghi di una classe colta e aristocratica è dedicato il secondo libro del Cortegiano, dal quale trapela quella ricerca dell’arguzia, dell’intelligenza, dell’acutezza, della brillante conversazione che l’Italia del Rinascimento trasmise ai salotti francesi e alla società elegante di tutta Europa. Ma il racconto trova spazio anche in ambiente popolare e borghese, quale divertimento adatto a infondere allegria e spensieratezza.
Testimonianza ingente della fortuna della novellistica è data dalle “prefazioni”[1] con cui il Bandello accompagna ognuna delle sue novelle. Ogni occasione è buona, per gli ambienti aristocratici che il Bandello rappresenta, e in cui egli effettivamente visse e operò, per raccontare novelle: la visita del Machiavelli al campo di Giovanni dalle Bande Nere, una cena fra amici, la venuta di parenti, una conversazione fra gentildonne, lo scherzo a un amico, ogni situazione mondana, cioè, in cui la novella interviene come il più piacevole e opportuno degli ingredienti.
Come per la lirica il modello viene fissato, dalla codificazione del Bembo, nel Canzoniere del Petrarca, così per la novella il modello viene ovviamente individuato nel Decameron, chiamato sia a fornire temi, motivi, strutture da riprendere, da svolgere e da variare e ampliare sapientemente, sia a proporre l’esempio di una prosa volgare di alta dignità letteraria, quindi capace di gareggiare e di emulare i grandi modelli della tradizione classica, e; al tempo stesso, di mirabile duttilità narrativa.
Ma il Decameron, a ben vedere, è più un modello teorico o esteriore che un vero e proprio punto di riferimento ideologico, almeno in parte diversamente da quel che accade per il Petrarca. «In realtà l’esempio del Decameron agì da stimolo e da sostegno ad una narrativa che aveva proprie autentiche esigenze storiche e artistiche e che nei numerosi casi di personalità originali riuscì a tradurle in forme nuove e spesso di alto valore, a parte il fatto che in una storia più minuta e particolareggiata dovrebbe tenersi conto anche di particolari tradizioni e condizioni regionali e cittadine come sollecitatrici di varie maniere del narrare novellistico»[2]. In molti autori di novelle, dunque, anche se, come nel Decameron, ritroviamo la cornice – ricavata o da occasioni mondane o da eventi storici, che non sono più calamità naturali, come nel Boccaccio, ma i fatti più traumatici della storia contemporanea, quelli che sconvolsero a fondo la vita e la società e le idee del mondo rinascimentale – e la conseguente divisione in giornate in notti, va detto che entrambi questi motivi strutturali subiscono anche radicali innovazioni, onde la cornice può allargarsi fino a occupare la maggior parte dell’opera, oppure può scomparire del tutto.
La novella cinquecentesca tende a perdere sempre più il carattere di esemplificazione dell’abilità dell’uomo di superiore intelligenza ad agire e a riuscire nella società e nel mondo e a far fronte anche al caso e alla fortuna, per lasciare il posto alla rappresentazione dell’arbitrio delle vicende umane o del capriccio dell’individuo violento e crudele, che si serve della forza, dell’intelligenza o del potere per i suoi fini malvagi. Di fronte al caso e alla fortuna l’uomo viene ad essere raffigurato in una condizione insuperabile di sottomissione: cambiamenti di stato, sciagure, imprevisti ora felici ora luttuosi, finiscono per rendere il protagonista della novella cinquecentesca non molto diverso da un oggetto, perpetuamente alla mercé di forze che non riesce a dominare.
Per questo, da un lato, le vicende novellistiche diventano sempre più straordinarie, piene di spunti patetici; dall’altro, proprio per eccitare le reazioni di orrore e di compassione del lettore, sempre più larga parte vi hanno storie di efferata ferocia. Contemporaneamente, la novella viene a trasformarsi in fiaba, che è, appunto, l’esaltazione del protagonista fatto totalmente oggetto di forze soprannaturali e magiche che, senza suo intervento e senza suo merito, lo conducono attraverso le più straordinarie avventure, fino alla conclusione, positiva o negativa, ma ugualmente indipendente da ogni merito, da ogni volontà, da ogni scelta del protagonista stesso.
Nella novella cinquecentesca il potere dello stato viene rappresentato costantemente come arbitrario, spesso irrazionalmente crudele, sempre, comunque, oscuro nelle motivazioni per cui opera, sempre incombente come una minaccia oppure come un meccanismo misterioso, del cui funzionamento è impossibile conoscere le motivazioni e i modi. Al contrario del Decameron, non c’è, nella novellistica del Cinquecento, nessuna immagine di stato ordinato, di sovrano illuminato e saggio, nessuna rappresentazione di costante e sicura attività produttiva o commerciale: anche in questo ambito ciò che domina è l’arbitrio, la straordinarietà dei casi, le situazioni o le soluzioni insolite, eccezionali, assolutamente nuove tanto da colpire e commuovere fortemente (e la fiaba accentua ancora questo carattere di arbitrarietà e di capricciosità del potere).
Del resto anche un tema tradizionale della novellistica, quale è la beffa, assume, nel Cinquecento, forme e aspetti insoliti: più che il gusto dell’intelligenza che trionfa sull’insipienza o sulle difficoltà, abbiamo il gusto abbastanza crudele del “fare male”, onde la beffa si risolve per lo più nel grave danneggiamento fisico e degli averi del beffato e perfino con la sua morte, e, mentre il comico finisce spesso per dissolversi o per scomparire del tutto, prevale l’accanimento un poco livido e maligno da parte del beffatore, che si diverte con perversa malvagità dei danni che riesce a procurare nel beffato, tanto che spesso la beffa sfocia nella vendetta.
Al tempo stesso, la novella tende sempre più all’enciclppedicità, cioè a proporre un’esemplificazione quanto più è possibile esauriente dei casi e delle situazioni possibili o immaginabili. Le novelle del Bandello e gli Ecatommiti del Giraldi Cintio sono esempio di tale tendenza a classificare e a esporre i più strani e diversi eventi della vita e della storia. Insieme con i temi della tradizione boccacciana, si incontrano il patetico, l’orrido, il mostruoso, l’avventuroso, il fiabesco, gli esempi di crudeltà e di efferatezza, il leggendario. Nell’opera del Giraldi Cintio, poi, il carattere enciclopedico della narrazione è accentuato dal gusto, che si palesa nella cornice, per il commento, il giudizio, la classificazione morale dei vari casi narrati: i personaggi della cornice dialogano e contrastano fra di loro sul giudizio etico da dare ai vari eventi, fino a toccare la vera e propria casistica, che è, del resto, uno dei motivi fondamentali della religiosità e dell’etica post‑tridentina. Ma, insieme con la diffusione e la fortuna in tutti gli strati sociali, la novellistica incomincia a mostrare i segni di una crisi che andrà accentuandosi dopo la metà del secolo, fino a ridurla, nel Seicento, a una specie di relitto.
Già all’inizio del secolo il Firenzuola, che pure scrive novelle secondo la tradizione boccacciana, ne La prima veste del discorso degli animali, crea una straordinaria struttura aperta di narrazione, che si esplica nel rampollare a catena di ciascun segmento di racconto dal precedente, con una continuità che si prolunga indefinitamente, senza che si addivenga a una vera e propria conclusione. Analogamente, nella seconda metà del secolo, Cristoforo Armeno[3], nel Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo, anche qui su modelli orientali, costruisce un autentico romanzo, nel quale la narrazione di novelle è appena un momento ovvero un episodio.
Ma le novità strutturali nelle opere novellistiche hanno anche più imprevedibili direzioni: il Giraldi Cintio, ad esempio, introduce negli Ecatommiti un Dialogo della vita civile, che raccoglie in unità il sistema di idee politiche e morali che sono espresse nelle novelle e nella cornice; Scipione Bargagli[4] riduce al massimo lo spazio delle novelle, rappresentando piuttosto la vita dell’aristocrazia senese tra giochi di società e piacevoli intrattenimenti; il Selva[5] propone una specie di romanzo allegorico sul modello di Apuleio, con metamorfosi bestiali del protagonista fino alla conclusiva salvezza a opera della donna amata; il Fortini[6] inserisce nella sua enorme opera novellistica anche la descrizione dei divertimenti dei personaggi della cornice e, in più, una commedia, che si finge recitata da tali personaggi; l’Aretino (le Sei giornate), il Franco, il Doni congelano la narrazione nella struttura del dialogo, dove i vari casi e le diverse vicende appaiono raccontate dagli interlocutori a mo’ d’esempio delle idee e dell’insegnamento che si intende proporre; il Doni, ne I mondi, costruisce il primo esempio, in Italia, di romanzo utopistico, sia pure in una forma ancora abbastanza rapsodica e dispersiva che deriva dalla tradizione novellistica; le novelle del Lando sono immerse in contesti di carattere moralistico, concettuale, paradossalmente cronachistico o di costume. Infine, verso la metà del secolo, si hanno i primi esempi di veri e propri romanzi: la lunghissima e abbastanza noiosa Filenia del Franco, che non è se non una Vita nova enormemente dilatata secondo un gusto tipicamente manierista, e le Lettere amorose del veneziano Alvise Pasqualigo[7], il primo romanzo epistolare di tutte le letterature moderne.
La fortuna della novellistica è, ormai, in rapida decadenza: il barocco conoscerà, come struttura narrativa, presso che soltanto il romanzo, più adeguato al gusto di vasti intrighi, di complesse e varie avventure, di casi intrecciati e strani, di tempi e luoghi diversi, tipico di una società nella quale il momento dell’emergere e dell’agire dell’individuo, caratteristico, invece, della novellistica, ha perso ogni rilievo e ogni significato.
Anton Francesco Grazzini
Anton Francesco Grazzini nacque a Firenze nel marzo 1503 ed ivi morì nel febbraio 1584. Il padre era notaio, ma la famiglia possedeva anche la più antica farmacia di Firenze, e a quella Anton Francesco, non volendo seguire le orme paterne, rimane associato, iniziando a lavorarvi nel 1521. Insofferente alle regole e alle pedanterie, non volle compiere studi regolari, ma da autodidatta si costruì una solida cultura; volutamente non imparò né il greco né il latino, preferendo e lodando la lingua italiana. Anzi, criticò fermamente l’uso aristocratico di queste lingue, e combatté la sua battaglia soprattutto con l’ironia, l’umorismo e la satira.
Nel 1540 Grazzini fece il suo esordio letterario con la farsa Il frate, rappresentata nel salotto di una colta cortigiana. Sempre nello stesso anno fu tra i fondatori dell’Accademia degli Umidi, che si proponeva di dibattere problemi linguistici, e assunse in essa il nome di Lasca (è un pesce d’acqua dolce, dalle carni poco pregiate) in ossequio all’obbligo degli accademici di scegliere un soprannome che avesse attinenza con l’acqua. quando però il granduca Cosimo I, per smorzarne lo spirito d’indipendenza, la trasformò in Accademia Grande o Fiorentina (1541), egli si pose in aperto contrasto con altri accademici e nel 1547 fu espulso, per poi esservi riammesso nel 1566.
La lunga vita del Lasca sembrerebbe, quindi, totalmente priva di avvenimenti importanti, se non che ad essa è legato il prodursi di un evento memorabile nella storia letteraria e culturale del Cinquecento: il sorgere dell’Accademia della Crusca, fondata appunto dal Grazzini, da Leonardo Salviati e da altri letterati nel 1582 per mantenere la purezza della lingua italiana e per preservarla da ogni contaminazione.
Oltre che come scrittore fornì numerose prove di concreto impegno filologico: nel 1548 diede alle stampe a Firenze Il primo libro dell’opere burlesche di M. Francesco Berni, di M. Gio. della Casa, del Varchi, del Mauro, di M. Bino, del Molza, del Dolce et del Firenzuola, ricorretto et con diligenzia ristampato; nel 1552 curò un’edizione de I sonetti del Burchiello, et di messer Antonio Alamanni, alla burchiellesca, e, infine, nel 1559, una raccolta di Tutti i trionfi, carri, mascherate o canti carnascialeschi andati per Firenze, dal tempo del Magni[fi]co Lorenzo Vecchio de Medici, quando egli hebbero prima cominciamento, per insino a questo anno presente 1559. Nel contempo avevano visto la luce, per lo più in miscellanee, i suoi componimenti burleschi; e finalmente, nel 1582, vennero stampate, presso Bernardo Giunti, le Comedie d’Antonfrancesco Grazzini, accademico fiorentino, detto il Lasca: cioè La Gelosia, La Spiritata, La Strega, La Sibilla, La Pinzochera, I Parentadi, parte non più stampate né recitate. Sostanzialmente le commedie del Grazzini presentano un intreccio piuttosto elaborato, ma lo sviluppo dell’azione si regge soprattutto sull’efficacia con cui vengono costruiti i dialoghi, spesso costruiti sugli strati più popolari del linguaggio al fine di ottenere spunti di comicità. La carenza drammatica, l’incapacità di approfondire la psicologia dei personaggi, nonché l’insofferenza per le regole derivate dal teatro classico, fanno sì che i testi finiscano per cedere a costruzioni del tutto convenzionali.
La fama di Anton Francesco Grazzini resta comunque legata alla sua raccolta di novelle Le cene, «che, sulla base di un preambolo e di una cornice di tipo boccaccesco (alcuni giovani e ragazze si raccolgono in una giornata invernale e, dopo aver combattuto con palle di neve, a cena si raccontano, per reciproco diletto, ventun novelle: dovevano essere trenta in tre cene), offrono alcune delle novelle più efficaci e a volte persino allucinanti del Cinquecento: sia che narrino beffe in cui la crudeltà conduce ai limiti della tragedia, sia che mettano in azione casi curiosi e fantastici, risolti in maniera inattesa e bizzarra, sia che più apertamente puntino – come avviene nella eccellente novella di Fazio orefice – su avvenimenti tragici, impostati e svolti con mano ferma e lucido sguardo realistico e con un linguaggio popolareggiante e fresco increspato di modi più alti e retorici in un impasto assai originale e robusto»[8].
Agnolo Firenzuola
Michelangelo Gerolamo Giovannini da Firenzuola, poi detto Angelo o Agnolo, nacque nel 1493 da Lucrezia Braccesi, figlia dell’umanista Alessandro Braccesi[9] e da Bastiano – rappresentante della terza generazione fiorentina della famiglia Giovannini, stabilitasi in Firenze nel 1450 assumendo il nome del proprio luogo d’origine, Firenzuola, il borgo sugli Appennini nella Romagna toscana. Trascorse l’infanzia a Firenze in un ambiente intriso di spirito umanistico per l’influenza del nonno materno, e a sedici anni venne avviato agli studi di legge, che compì a Siena e a Perugia, dove conobbe Pietro Aretino. Divenuto monaco vallombrosano, nel 1518 era a Roma, procuratore dell’Ordine vallombrosano presso la Curia e abate di Santa Prassede. Vi sarebbe rimasto fino al 1534, componendo le prime opere – a cominciare dal Discacciamento de le nuove lettere inutilmente aggiunte ne la lingua toscana, contro le innovazioni grafiche proposte dal Trissino, opera che gli valse, tramite Aretino, la presentazione a Clemente VII e a Pietro Bembo, fino all’Epistola in lode delle donne[10] indirizzata ad Angelo Claudio Tolomei, alla prima giornata degli incompiuti Ragionamenti d’amore e alla traduzione dell’Asino d’oro di Apuleio (opere, le ultime due, dedicate alla memoria della donna amata, Costanza Amaretta, morta nel 1525).
Dopo un primo periodo di grande prosperità economica (ottenne numerosi e ricchi benefici ecclesiastici) e di intense relazioni mondane (conobbe e frequentò, tra gli altri, Bembo, Castiglione e Caro), nel 1526 fu dispensato, per motivi non ben chiari, dai voti monastici, perse parte dei benefici ecclesiastici dei quali godeva, e si ammalò di lue. Tuttavia fu solo all’avvento di Paolo III (nel 1535, appunto) che abbandonò Roma per Prato, dove, sia pur in ambiente provinciale, cercò di rinverdire le proprie fortune. Entrò in contatto con gli intellettuali locali e animò, non senza contrasti, la società letteraria locale – fondando fra l’altro l’accademia pastorale dell’Addiaccio, che sembra per certi versi anticipare l’Arcadia – e riprese la produzione letteraria. Compose il Celso, o Dialogo della bellezza delle donne, la Prima veste de’ discorsi degli animali, le due commedie Trinuzia e Lucidi, e una traduzione, perduta, dell’Arte poetica oraziana. In non buone condizioni economiche (era, tra l’altro, in lite con la sorella Alessandra per l’eredità paterna) e dimenticato dai contemporanei, morì a Prato nel 1543.
Il Firenzuola, fu essenzialmente «uno stilista dall’orecchio esercitato e finissimo; uno stilista di genio tuttavia, che, nel proposito di conferire al volgare decoro e sostenutezza classici, supera, senza trascurarli, i più abusati modelli, e riesce a una forma sua ricca e modulata, senza esser boccaccevole, fresca e chiara, senza cader nel tono parlato e plebeo, una forma che ha la sua gioia e il suo sapore in se stessa, nella studiata collocazione delle parole, nella struttura musicale del periodo, nella sapiente distribuzione delle clausole, nella scelta preziosa e sensuosa degli aggettivi»[11].
Le opere, dunque, del Firenzuola hanno non solo stili difformi ma persino difforme valore. Scarsa importanza hanno il Discacciamento de le nuove lettere e le due commedie, che risultano parecchio scolorite: i Lucidi non sono altro che un rifacimento dei Menaechmi di Plauto, mentre la Trinuzia (il termine significa donna sposata tre volte) è assai povera di spirito comico e drammatico. Nei Ragionamenti d’amore il Firenzuola si proponeva di rappresentare le piacevoli conversazioni di tre donne e di tre uomini, mescolando alle disquisizioni sull’amore novelle e poesie: l’impianto è ancora ispirato al Boccaccio, l’argomento è, come di consueto, comico e licenzioso, ma il linguaggio è assai libero e spigliato. Maggiore interesse ha l’Asino d’oro, traduzione – o per meglio dire rifacimento – delle Metamorfosi di Apuleio, nel quale il Firenzuola, adattando la narrazione alle condizioni ed alle usanze cinquecentesche, trasforma il testo latino nella narrazione simbolica della propria vita: reso bestia dagli errori commessi in gioventù, lo scrittore si redime e si purifica grazie all’amore di Costanza. Lo stile artificioso e la prosa musicale e fiorita finiscono per affossare il debole proposito morale, così che dell’opera resta viva soltanto l’ambizione di uguagliare il modello, insieme ad un linguaggio raffinato e ricercato che si pone nel solco della prosa retorica e illustre. Sicuramente meno sorvegliato, ma più sagace e colloquiale, è il linguaggio del Dialogo della bellezza delle donne, ove viene abbandonata definitivamente la circolarità decameroniana caratteristica dell’opera giovanile. La bellezza femminile era un soggetto in voga nella pubblicistica di matrice platonica e il Firenzuola lo fa proprio con quel senso della grazia, della misura, dell’armonia, che, pur scaturendo dall’osservazione sensuale, si trasforma in superiore contemplazione spirituale.
Ma l’opera migliore del Firenzuola è la Prima veste de’ discorsi degli animali, libero e disinvolto rifacimento di una traduzione spagnola del Quattrocento del Pañciatantra indiano, antica raccolta di favole e novelle, imperniata su animali che riflettono condizioni e ragionamenti umani. «Anche qui il testo originale, con il suo contenuto morale e didattico, diventa il pretesto di una pura rielaborazione stilistica; ma qui più che mai lo spirito estetizzante dello scrittore aderisce alla semplice grazia delle favolette, come ad un oggetto di divertimento e di piacevole e riposata riflessione, e nel contatto e contrasto tra la materia umile e popolaresca e la raffinata sapienza del letterato colto, che in quel mondo di cose e di affetti elementari e puerili si aggira divertito e curioso, si aguzza la tempra dello stile, acquistando in leggiadria, in sobrietà, in evidenza pittorica»[12].
Matteo Bandello
Matteo Bandello nacque nel 1485 a Castelnuovo Scrivia, (oggi in provincia di Alessandria, ma a quei tempi appartenente allo Stato di Milano), da una famiglia di antica nobiltà locale. Il padre, Giovanfrancesco, doveva essere un cortigiano degli Sforza, che, dopo la caduta di Lodovico il Moro, era riparato a Roma e aveva trovato riparo presso i Colonna. All’età di dodici anni Matteo si trasferì a Milano nel convento domenicano di Santa Maria delle Grazie, presso lo zio Vincenzo, priore del convento e in seguito (1501) Generale dell’Ordine dei domenicani. All’edificio si erano appena aggiunte le absidi bramantesche, e nel refettorio Leonardo, stava terminando di affrontare il Cenacolo. Nel 1500 pronunciò i voti e successivamente, per proseguire gli studi, venne trasferito a Pavia, poi a Ferrara e quindi a Genova, dove li completò nel convento di Santa Maria del Castello.
Nel 1505 il Bandello accompagnò lo zio, in qualità di guardasigilli, in un lungo viaggio di ispezione ai conventi domenicani dell’Italia centrale e meridionale. A Firenze ebbe il suo primo amore platonico e poetico per una giovinetta che egli celebra sotto il nome di Viola; a Roma frequentò i salotti di alcune famose cortigiane e il ricchissimo banchiere Agostino Chigi; Napoli si procurò la simpatia e la protezione dell’ex regina d’Ungheria, Beatrice d’Aragona; in Calabria, nel convento di Altomonte, lo zio Vincenzo morì improvvisamente (1506) e il Bandello ne accompagnò la salma per la sepoltura in San Domenico Maggiore a Napoli. A seguito di questo evento luttuoso cadde in uno stato di profonda depressione e si ammalò gravemente. Ristabilitosi, nei primi mesi del 1507 Matteo Bandello fece ritorno al convento di Santa Maria delle Grazie di Milano, dove probabilmente divenne sacerdote, soggiornandovi, salvo qualche interruzione, fino al 1526.
A Milano Bandello continuò lo studio delle lettere e dell’esercizio del latino, proponendosi in un’intensa attività mondana e cortigiana nei circoli umanistici collegati ai salotti delle famiglie aristocratiche, bene accolto per le sue doti di vivace e amabile conversatore. Frequentò poeti e letterati, fra i quali Leandro Alberti, e si legò in modo particolare alla famiglia dei Bentivoglio, trasferitisi a Milano in seguito alla perdita della signoria bolognese, compromettendosi politicamente con gli Sforza. Nel 1515, a seguito della battaglia di Marignano, quando i francesi riprendono possesso del ducato abbandonato nel 1512, lasciò Milano per Mantova, chiedendo ed ottenendo la protezione dei marchesi Gonzaga. In quell’ambiente di elegante mondanità, di fervida vita intellettuale ed artistica, di illuminato mecenatismo, il Bandello allargò la cerchia delle sue conoscenze aristocratiche e letterarie, consolidò la sua fama di scrittore e si procurò nuove amicizie e protezioni, in particolare quella della marchesa Isabella d’Este, della quale fu familiare e segretario. A Milano, dopo che il francesi l’ebbero abbandonata, Bandello fece ritorno nel 1522, ma nel 1526 fu costretto ad abbandonarla definitivamente per ragioni alquanto oscure e in circostanze drammatiche (la sua casa veniva saccheggiata dagli Spagnoli e le sue carte disperse). Fu successivamente al servizio di Federigo Gonzaga di Bozzolo[13], al seguito del quale condusse vita di accampamento, e conobbe Machiavelli e Giovanni dalle Bande Nere; poi fu con Ranuccio Farnese[14], e infine, con Cesare Fregoso[15].
Quando il Fregoso venne assassinato dai sicari di Carlo V, Bandello ne seguì la vedova prima a Venezia e poi in Francia, dove il re Enrico II le offrì magnifica ospitalità. In quell’ambiente colto ed aristocratico egli poté attendere alla revisione e dei suoi scritti e provvedere a pubblicarli. Nel 1550, sfruttando i rapporti con Enrico II, venne nominato vescovo di Agen (un incarico ad interim dal quale si dimise nel 1555), in attesa che gli subentrasse, non appena raggiunta la maggior età, Ettore Fregoso, figlio della sua protettrice. E ad Agen morì nel 1561 e il suo corpo venne sepolto nel convento dei domenicani.
Per ciò che riguarda le opere del Bandello, possiamo dire che della sua frequentazione con i classici e con la lingua greca abbiamo una prova lampante nella traduzione in versi italiani dell’Ecuba di Euripidide. Assai più consistente, però, è la parte latina della sua produzione letteraria. Latino, infatti, fu l’esordio, un’operetta di tono agiografico, Joannis Baptistae Cattanei Genuensis vita, sulla contrastata ed eroica vocazione di un confratello conosciuto nel convento di Genova, morto in odore di santità durante la peste del 1504, nella quale – pur attraverso un latino stentoreo ed artificioso, o l’affettazione della vita claustrale – si riescono ad intravedere i primissimi sintomi di una disposizione al narrare. Sempre in latino è anche un’opera della maturità, la Parentalis Oratio pro clarissimo imperatore Francisco Gonzaga, scritta per ordine di Isabella d’Este per celebrare l’anniversario della morte del marito, nel 1520, che non va oltre i limiti del puro e semplice esercizio retorico e – per giunta – alquanto mediocre. Del tutto contingenti, occasionali e secondarie sono le sue esercitazioni poetiche: i capitoli in terza rima le Tre Parche, i Canti XI e i Fragmenti de le rime. Ma alquanto più significativa, nell’economia della produzione narrativa del Bandello, è la traduzione latina della novella di Tito e Gisippo[16] del Boccaccio, comparsa a stampa nel 1509, la quale per quanto conservi le caratteristiche tipiche di una esercitazione dotta, porta in primo piano con singolare evidenza alcuni dei caratteri fondamentali della produzione novellistica, che costituì l’impegno di scrittura fondamentale di Bandello.
La raccolta delle Novelle non è solamente l’opera alla quale il Bandello deve il suo nome e la sua fama, né è soltanto quella più ampia o più a lungo elaborata, ma è quella in cui meglio si riflettono gli aspetti variegati della sua personalità: l’uomo di mondo che frequentava i salotti dell’aristocrazia e i circoli dei letterati, il cortigiano pratico degli intrighi e dei maneggi diplomatici, il religioso poco accline alla vita monastica e sensibile alle piccole e grandi vicende della cronaca, un poco moralista ma per nulla rigido, il letterato avido di sapere ed ecletticamente onnivoro negli interessi e nelle letture, che non lo spingono ad un impegno teorico, ma che alimentano solamente la sua inesausta curiosità di aneddoti, esempi e facezie, da cui attingere il repertorio per una elegante conversazione.
Le novelle, in tutto duecentoquattordici, sono distribuite in quattro libri: i primi tre, pubblicati dal Bandello nel 1554, hanno un’estensione pressoché uguale, mentre il quarto, pubblicato postumo, raccoglie meno materiale. Ad ogni novella il Bandello antepone una lettera dedicatoria ad un personaggio (amico o protettore), nella quale vengono dichiarate le circostanze in cui la novella prese corpo e venne narrata. Ciò costituisce una clamorosa rottura con la tradizione boccacciana della cornice, giacché in tal modo viene rifiutato lo schema unitario di un inquadramento narrativo. Il Bandello, inoltre, insiste sul fatto che ha riunito le sue novelle «non servando altrimenti ordine alcuno di tempo», senza fare caso – cioè – all’ordine in cui furono composte, ma anche senza un ordine dettato dalla distinzione degli argomenti. Non solo: egli asserisce anche di non avere stile, di non scrivere per accrescere la purezza o dignità della lingua volgare: viene meno, insomma, qualsiasi ambizione linguistica di architettura e decoro formale che avevano caratterizzato la novellistica di tradizione boccacciana. Del resto le lingue utilizzate dal Bandello nelle sue opere, il latino ed il volgare toscano, sono per lui – in quanto lombardo – due lingue “straniere”, e forse più la toscana della latina. Di qui la necessità di costruire di volta in volta il proprio mezzo espressivo in modo meditato, talora faticoso, diviene una sorta di diaframma che egli frappone tra il proprio narrare e l’oggetto della narrazione. E non è il solo, né il più evidente che egli mette in opera: la dichiarazione, costantemente presente in ogni lettera dedicatoria, di essere un semplice relatore, di limitarsi a mettere per scritto la narrazione verbale di altri, il rifiutarsi – insomma – dal porsi come prima persona narrante, che è il fine di questi “artifici” compositivi e linguistici, permette a Bandello l’omissione di una qualunque scelta programmatica, che appunto sta all’origine, per dirla con Getto, dell’«accumulo di realtà» che caratterizza le novelle. Tutto ciò consente anche una contemplazione della grande varietà di vicende che si susseguono e alternano nei toni aulici, drammatici, osceni, cruenti e burleschi nelle quattro parti dell’opera al riparo di qualunque coinvolgimento emotivo che non sia la meravigliata attenzione di chi contempla il farsi e il disfarsi delle vicende umane e talora riesce a testimoniare emblematicamente il divenire attraverso la mutazione degli organismi letterari.
«Col Bandello entra dunque in scena il tipo del narratore puro, che scrive per un pubblico di dilettanti e non di letterati e non si cura di giustificare e di nobilitare l’umiltà della tradizione narrativa, come s’era fatto dal Boccaccio in poi, con l’ambizione umanistica di un alto stile prosastico. Si tratta senza dubbio d’un genere d’arte minore, che reca con sé qualcosa di giornalistico e di caduco; ma in questi limiti il Bandello è sritsta vero e serio, capace di sentire fortemente le situazioni e di rappresentarle con un’efficacia, che deriva da intima commozione. Il tema erotico e sensuale domina anche nella raccolta bandelliana, ma non è vero che i racconti migliori siano quelli comici e bozzettistici, ché anzi a volte lo spunto erotico si complica e si arricchisce diventando il nucleo di una vicenda drammatica o tragica: son del Bandello, e si leggon volentieri, le storie della contessa di Challant, di Ugo e Parisina, di Giulietta e Romeo, ed è suo l’affettuosa e patetica novella di Giulia da Gazuolo, una contadinella che, non potendo reggere alla vergogna dell’oltraggio subito da un bruto, si uccide gettandosi nel fiume. Se mai la parte più nuova del Bandello è nelle invenzioni di intreccio più vasto e complesso, nelle novelle dove domina l’avventura e il gioco delle mobili peripezie e dove è più evidente insomma la tendenza al romanzesco. È vero che a volte c’è più la materialità del caso narrato, che non la sua sostanza poetica; pur la cronaca nuda e incoerente, se pure non fredda, dei fatti, che non la loro idealizzazione e celebrazione fantastica. Ma era pur necessario forse, in vista dei futuri svolgimenti della letteratura narrativa, che questa si svincolasse anzitutto dalla splendida, ma alquanto chiusa e ormai greve, atmosfera poetica della tradizione boccaccesca, e si avviasse verso le mete di un nuovo e più ardito realismo, sia pure attraverso l’accettazione provvisoria di un tono cronachistico senza rilievo e leggerezza di fantasia»[17].
L’opera del Bandello, attraverso le traduzioni, si diffuse in Francia e in Inghilterra, presso la cui corte la letteratura italiana godeva di grandissimo prestigio, tanto che gli scrittori inglesi attingevano abbondantemente dalla letteratura virgiliana, ma anche dalle opere di Petrarca e di Boccaccio. Shakespeare[18], che molto probabilmente conobbe la traduzione francese del novelliere bandelliano, trasse da alcune novelle del Bandello il soggetto di tre delle sue opere (La dodicesima notte, Molto rumore per nulla e Romeo e Giulietta) e la stessa cosa fece John Webster[19] per la sua tragedia La duchessa di Amalfi. Anche Lope de Vega[20], basandosi però sul testo italiano, si ispirò al Bandello per almeno sedici delle sue commedie, tra le quali si conta anche una versione a lieto fine della storia di Giulietta e Romeo. Miguel de Cervantes, per alcuni degli elementi della storia di una sua novella, si valse della novella quarta del secondo libro; e molti altri autori spagnoli del Cinquecento e del Seicento attinsero al novelliere bandelliano come materiale diegetico per le loro opere.
*** NOTE AL TESTO ***
[1] Si tratta, in pratica, di lettere dedicatorie in cui l’autore racconta l’occasione nella quale ha udito la novella.
[2] Walter Binni, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in OPERE COMPLETE DI WALTER BINNI, Il Ponte Editore, 2017, pag. 215.
[3] Cristoforo Armeno, originario di Tabriz, capitale dell’Azerbaigiàn, giunse a Venezia ne 1554 e nel 1557, presso l’editore Michele Tramezzino pubblicò il Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo, per opera di M. Christoforo Armeno della persiana nell’italiana lingua trapportato, che dovette conoscere una vasta diffusione. In realtà Cristoforo Armeno non si limitò ad una semplice traduzione, ma rielaborò e riadattò l’opera originale alla cultura occidentale e cristiana.
[4] Scipione Bargagli (Siena 1540 – ivi 1612), di nobile famiglia senese, fu avviato fin da giovane alla cultura umanistica. Si ricordano di lui le Rime e le Lettere e il Turamino, ovvero del parlare e dello scrivere sanese, un dialogo sulla questione della lingua. Più noto è il suo Trattato Delle Imprese, che gli valse di essere chiamato l’Aristotele di tale dotta materia; ma la sua fama vive ancora per i Trattenimenti, dove da vaghe donne e giovani uomini sono rappresentati onesti e dilettevoli giuochi, narrate novelle e cantate alcune amorose canzoni.
[5] Fra Vangelista Gerbi, al secolo Lorenzo, (San Marcello Pistoiese 1530 – Roma nel 1593) entrò a tredici anni nell’Ordine Francescano, rivelando così spiccate doti intellettuali e morali che a suo tempo il Comune di Pistoia si accollò la spesa di mandarlo a studiare alla Sorbona. Dopo la laurea insegnò successivamente nelle più importanti scuole francescane dell’Italia centro-settentrionale, dando prova di un sapere vario e molto vasto. Fu anche un famoso predicatore, che per trent’anni fece udire la sua voce dai più prestigiosi pulpiti. Con lo pseudonimo di Lorenzo Selva scrisse Le metamorfosi del savio.
[6] Pietro Fortini (Siena, inizi 1500 – Siena, 1562) nacque da Lorenzo di Fortino e Eufrasia Ballati. Poco si sa della sua vita: tra il 1552 e il 1559 lavorò come artigiano in una cartiera e nel 1552 vinne nominato vicario di Batignano per un anno, incarico che gli consentì di avere poteri giudiziari e militari. Durante la sua vita scrisse (dal 1555 in poi) 81 novelle (Novelle de’ Novizi), sei commedie, molte liriche e versi sciolti, che sono specchio fedele della storia del costume senese e della parlata del tempo.
[7] Alvise Pasqualigo (Venezia, 1536 – Venezia, 1576) nacque da Vincenzo, di Francesco di Angelo, e da Elisabetta Sanuto. Pare che non avesse studi né frequentazioni accademiche, ma nonostante tutto traspare dalle sue opere una vasta cutura letteraria e giuridica. Ricoprì la carica di senatore ed ebbe incarichi militari che lo portarono lontano da Venezia. Come letterato, Pasqualigo fu molto apprezzato in vita e fino almeno al primo decennio del XVII secolo. Oltre alla raccolta Delle lettere amorose scrisse anche la commedia Il Fedele, il dramma pastorale Gl’intricati e le Rime.
[8] Walter Binni, ibidem, pag. 216.
[9] Alessandro Braccesi o Bracci (Firenze, 1445 – Roma, 1503), primogenito di Sandra e Rinaldo, dovette ben presto lavorare per contribuire alle scarse condizioni economiche della famiglia. Iniziò la professione di notaio nel 1467 e fu impiegato nella cancelleria della Repubblica e della Signoria fiorentina. Parallelamente coltivò studi umanistici e interessi poetici. Tra le sue opere sono da ricordarsi un canzoniere amoroso d’imitazione petrarchesca, duecento sonetti caudati nello stile del Burchiello, umoristici e beffardi, quattro canti carnascialeschi e tre raccolte di poesie latine.
[10] L’Epistola venne utilizzata poi come premessa ai Ragionamenti.
[11] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 162.
[12] Natalino Sapegno, ibidem, pag. 164.
[13] Federico Gonzaga di Bozzolo (Bozzolo, 1480 ca – Todi, 1527) venne inviato giovanissimo a Napoli presso il re Carlo VIII e lo seguì in Francia. Nel 1515 fu al servizio di papa Leone X. Nel 1520 per i suoi meriti militari venne insignito a Milano dell’Ordine di San Michele. Carlo V, nel 1522, gli confiscò tutti i beni nominandone beneficiario il marchese di Mantova Federico II. Nel 1525 partecipò, a fianco del re di Francia Francesco I, alla battaglia di Pavia, dove fu fatto prigioniero e rinchiuso nel castello di Pizzighettone, da cui riuscì a fuggire pagando una somma in danaro ai carcerieri. Nel 1527 mentre si trovava a Orvieto venne informato del Sacco di Roma e partì in soccorso di papa Clemente VII.
[14] Ranuccio Farnese (Valentano, 1530 – Parma, 1565) figlio di Pier Luigi Farnese e Gerolama Orsini, nonché nipote di Paolo III, venne avviato giovanissimo alla carriera ecclesiastica. Dopo un breve soggiorno al collegio “Ancarano” di Bologna, nel 1540, fu creato priore titolare del Priorato di Venezia dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme (cavalieri di Malta) e mandato a terminare gli studi a Padova. Il 13 agosto 1544 gli anferì la sede arciescovile di Napoli e nel concistoro del 16 dicembre 1545 venne creato cardinale. Grande mecenate e uomo di grande rettitudine, San Carlo Borromeo lo celebrò per la sua sapienza e la sua carità.
[15] Cesare Fregoso (Roma, 1500 ca – Pavia, 1541) era figlio primogenito di Giano Fregoso, doge di Genova, e di Aldobella Leca di Corsica. Fu uomo d’armi, esperto di architettura militare, che combatté per Genova, per la Serenissima e dal 1536 per il re Francesco I di Francia come suo luogotenentein Italia. Venne assassinato, assieme al diplomatico Antonio Rincon, nei pressi di Pavia da agenti spagnoli di Carlo V e fu sepolto a Castelgoffredo.
[16] Decameron, X 8.
[17] Natalino Sapegno, ibidem, pag. 166-167.
[18] William Shakespeare (Stratford-upon-Avon, 1564 – Stratford-upon-Avon, 1616), attore, drammaturgo e poeta inglese, è considerato come il più importante scrittore in inglese e generalmente ritenuto il più eminente drammaturgo della cultura occidentale. Le notizie sulla sua vita sono alquanto scarse: visse a Stratford fin verso il 1590 e sposò Anne Hathaway, dalla quale ebbe tre figli. Fu poi a Londra, dove svolse l’attivita di attore, drammaturgo e impresario teatrale. Ebbe pochi amici e alcuni illustri protettori. Trascorse l’ultima parte della sua vita a Stratford, dove si conserva la sua tomba. Le sue opere teatrali, uscite postume, hanno una straordinaria ricchezza e complessità di temi e di accenti. Accanto ai drammi storici, in cul lo Shakespeare cerca di tratteggiare potenti personalità e analizza l’erompere di violente passioni, vi sono le commedie, che esprimono le più varie gradazioni della comicità e dell’ironia sino al grottesco, e le tragedie, in cui lo sconforto ed il pessimismo si annullano in una serena contemplazione della realtà. Grande Valore poetico Hanno anche i suoi Sonetti, ai quali si affiancano due poemetti: Venere e Adone e Lucrezia violata.
[19] John Webster (1580 ca – 1634 ca) fu un drammaturgo inglese, tra i più noti del teatro elisabettiano. Lesue opere maggiori sono Il diavolo bianci (1612) e La duchessa di Amalfi (1614).
[20] Lope Felix de Vega Carpio (1562-1635) drammaturgo spagnolo d’ingegno precocissimo, ebbe una vita avventurosa: al servizio di ari nobili, partecipò a battaglie, subì più volte l’esilio, ebbe innumerevoli amori e – infine – prese gli ordini religiosi.della sua sterminata produzione sono giunte fino a noi 431 opere, tra drammi profani e autos sacramentali, nelle quali l’autore vi porta la sua esperienza di uomini e di ambienti, il gusto dell’avventura e della vitalità trionfante.
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»
Lascia un commento. Se vuoi che appaia il tuo avatar, devi registrarti su Gravatar
Devi essere collegato per lasciare un commento.