Linea Biografica
Teofilo Folengo, al secolo Gerolamo, nacque a Cipada (Mantova) nel 1491, penultimo di nove fratelli, da Federico, notaio e figlio di notai, e da Paola Ghisi, di ricca stirpe mercantile. Alla prima educazione, ricevuta nell’ambito familiare, che vantava legami di parentela con Vittorino da Feltre, era poi seguito un soggiorno di studio a Ferrara.
Fu probabilmente a causa delle condizioni di decadenza nelle quali versava la famiglia, che Gerolamo venne destinato alla vita monastica (insieme a quattro dei fratelli e ad una sorella) nel convento benedettino di Santa Eufemia a Brescia, assumendo il nome di Teofilo e pronunziando i voti l’anno seguente. Durante il soggiorno Bresciano studiò filosofia sotto la guida del maestro dei novizi, Antonio da Travagliato. Nel 1512 lo troviamo nel capitolo del convento di S. Benedetto di Polirone, uno dei maggiori centri della cultura benedettina dell’Italia padana, ove ebbe essenziali contatti con autorevoli esponenti della cultura monastica, e nel 1513 era nel convento di Santa Giustina a Padova, altro grande centro benedettino dell’Italia padana, ove, nell’ambiente goliardico della città, erano fiorite – come s’è detto – le prime composizioni maccheroniche, pur ancora segnate di occasionalità e frammentarietà, e riducentisi a schizzi caricaturali di tipi ed episodi cittadini o campagnoli.
Le sue prime composizioni sono comunque dei versi latini che imitano lo stile di Virgilio, e soltanto nel 1517 pubblicherà (con lo pseudonimo di Merlin Cocai) a Venezia, presso lo stampatore Alessandro Paganini, il primo nucleo delle Maccheronee con il titolo Merlini Cocai poëta e Mantuani Liber Macaronices: l’opera contiene quindici canti del poema in esametri Baldus e le due Eclogae dalle quali si sarebbe poi sviluppata la Zanitonella. L’opera conquistò una vasta popolarità ed in pochi anni venne ristampata per ben due volte. Nel 1521, sempre presso la tipografia dei Paganini a Toscolano, venne pubblicata una seconda edizione delle Maccheronee, ornata da splendide xilografie, con il titolo di Opus Merlini Cocai poetae Mantuani Macaronicorum. Il volume comprende Zanitonella (poesie in vario metro, tra cui le Eclogae in forma dialogica, sugli amori rusticali di Tonello e Zanina), il Baldus, ora i venticinque libri, e la Moscheide, poemetto giovanile – anteriore al primo nucleo del Baldus – che celebra in distici elegiaci la guerra tra mosche e formiche (su modello dell’omerica Batracomiomachia).
Per ragioni non del tutto chiare, ma quasi certamente legate ai contrasti politici e dottrinali interni all’ordine benedettino, nel 1525 – in seguito all’espulsione dall’Ordine del fratello, Ludovico, priore del convento di Mantova, avvenuta forse ad opera di Ignazio Squarcialupi, favorito di Clemente VII e presidente della Congregazione – Teofilo Folengo ottenne la dispensa dai voti e uscì dall’ordine, seguito poi da un altro fratello, Giambattista (1528). L’asilo più prossimo e sicuro era Venezia, dove trovò protezione presso un nobile umanista, Francesco Grifalcone; ciò gli permise di dedicarsi più intensamente all’attività letteraria e pubblicò (1526), sotto lo pseudonimo di Limerno Pitocco, due opere in volgare: l’Orlandino, in ottave, sull’infanzia del famoso paladino, e Il Caos del Triperuno, mescolanza di versi e prose in latino, volgare e maccheronico. Intanto, sempre nel 1526, era entrato al servizio di Camillo Orsini[1] capitano della Repubblica veneta, come precettore del figlioletto Paolo.
Non si posseggono informazioni certe neppure sulle cause che portarono Teofilo e il fratello Giambattista alla richiesta di rientrare nell’Ordine Benedettino, ma certo dovette pesare il cambiamento avvenuto nell’Ordine a seguito della morte dello Squarcialupi. Trascorsero un breve periodo nell’eremo camaldolese sul monte Conero, poi passarono nel convento abbandonato di San Pietro a Crapolla, nella Penisola Sorrentina, dove compirono vari scritti religiosi, e dove Teofilo ebbe modo di frequentare dei circoli religiosi e letterari.
Riammesso nell’Ordine nel 1534, Teofilo tornò a Brescia, e poi fu inviato a Palermo (1537) dove divenne priore del convento di Santa Maria delle Ciambre. Continuò qui la produzione di argomento sacro sollecitata dall’Ordine (che si era iniziata nel 1533 con le ottave de L’umanità del figliolo di Dio): fu la volta di una sacra rappresentazione, l’Atto della Pinta (da rappresentarsi nella chiesa della Pinta, ora distrutta), e del poema in due libri La Palermitana, poema volgare in terzine di argomento scritturale. Nel 1539 o 1540 comparve la terza edizione delle Maccheronee.
Tornò al nord nel 1542, come priore del piccolo convento di Santa Croce di Campese, immerso nella campagna alle foci dei Brenta, presso Bassano, dove morì nel 1544. Otto anni dopo, nel 1552, frutto probabilmente di una revisione a cui il Folengo lavorò negli ultimi anni di vita, comparve a Venezia la quarta e definitiva edizione dei Macaronicorum poemata, con una prefazione firmata da un non bene identificato Vigasio Cocaio[2].
Il linguaggio e le opere
Il latino maccheronico folenghiaho manifesta la propria genialità inventiva soprattutto in campo morfologico‑lessicale, travestendo in latino imparzialmente termini riferentisi a zone di realtà umile e alta, peggiorativi, vezzeggiativi e accrescitivi come vocaboli dialettali, latinizzando tutto secondo impeccabili procedimenti desunti dai classici più reputati come coniatori di vocaboli (Plauto, Apuleio); inserendo l’ibrido nel fluire compatto delle autentiche parole latine, subordinando la composizione dell’esametro all’osservanza rigorosa delle norme metriche (che i prefolenghiani avevano sistematicamente ignorato), la cui validità è estesa sia alle parole latine che alle maccheroniche. Ma soprattutto la radicale novità dell’esperienza folenghiana consiste neell’aver impegnato questo linguaggio in uno sviluppo narrativo di vasto respiro, nella rappresentazione di caratteri e vicende, coerenti e complementari nella loro varietà rispettiva, andando così oltre il frammentario bozzettismo dei prefolenghiani.
Inoltre il maccheronico viene trattato da Folengo «con una diversità di toni e di sfumature e con una sapienza di stile ignote ai suoi predecessori, adattandolo di volta in volta alla spirito delle singole invenzioni e situazioni, sfruttando al massimo il sapore comico che deriva dall’accorta mescolanza delle reminescenze classiche e del gergo plebeo, abilmente giovandosi degli elementi icastici e pittoreschi che gli fornisce in gran copia il dialetto. È un linguaggio estremamente vario (di una varietà per altro regolata e misurata da un’educazione letteraria maliziosa) che va dal coretto latino umanistico, usato in quei luoghi dove il poeta giudica conveniente serbare intatta l’illusione del tono epico, a un latino corrente e pieno di richiami classici, ma già sobriamente venato di parole e di incisi volgari, fino al più grossolano travestimento del dialetto, che domina senza freni, dove la materia dell’ispirazione si fa più licenziosa e plebea e dove sono introdotti direttamente ad agire e parlare direttamente i personaggi del volgo, È tutto un gioco sapiente di alti e bassi, un alternarsi e mescolarsi continuo di parole attinte al latino classico, di vocaboli liberamente foggiati dal poeta (con un procedimento non ignoto agli umanisti, ma con uno spirito inventivo meno cauto, più estroso e più arbitrario), di locuzioni e frasi infine del volgare toscano e del dialetto appena camuffate di vesti latine. Untale gioco presuppone una lunga e attenta educazione classicistica e si rivolge necessariamente a un pubblico di dotti, che siano in grado di misurarne tutta la malizia e di gustarne tutta la squisita accortezza»[3].
Il testo più ambizioso delle Maccheronee è sicuramente rappresentato dal poema Baldus, nel quale vengono narrate le avventure di Baldo, figlio di Guidone, discendente di Rinaldo, e della principessa di Francia Baldovina. Poiché la madre muore nel darlo alla luce nel paesino di Cipada, ed il padre è partito per un pellegrinaggio, Baldo viene allevato da un contadino, Berto Panada. Nella sua giovinezza, questo eroe teppista, beone, prepotente e manesco, fa lega con la peggiore marmaglia del paese e con la sua banda di violenti imperversa nelle campagne ove, tra zuffe e bastonate, commette ogni sorta di soprusi e di illegalità. Infatti, dopo la morte del tutore, non solo si appropria di tutti i suoi beni ma si mette a vivere alle spalle dello scimunito Zambello (figlio di Berto), che viene ricompensato a bastonate per il proprio lavoro. Tra i compagni di Baldo vi sono Cingar (ladro, truffatore e inventore di beffe), il gigante Fracasso e il mostro Falchetto, mezzo uomo e mezzo cane.
Per le sue cattive azioni Baldo viene catturato dai mantovani grazie ad uno stratagemma e imprigionato in fondo ad una torre, ma Cingar riesce a liberarlo e i due riescono insieme a fuggire e a raggiungere Chioggia, dove si imbarcano su una nave diretta in Oriente. Dopo aver combattuto con i pirati, distrutto il regno delle streghe, visitato paesi favolosi, Baldo e i suoi compagni giungono infine all’inferno. Qui, nell’antro della Fantasia, si trova un’enorme zucca cava, al cui interno vengono rinchiusi gli astrologi, i poeti, i cantori e lo stesso Merlin Cocai. Costoro sono torturati da barbieri che cavano loro di bocca i denti, che seguitano a ricrescere: un’allegoria delle menzogne che essi inventano. Il poema, a questo punto, viene però interrotto bruscamente dall’autore, che in tal modo lascia volutamente spazio all’immaginario del lettore.
Mentre la letteratura più aulica del Cinquecento cercava vanamente di creare un modello di poema epico più vicino ai modelli di Omero e di Virgilio, (come l’Italia liberata dai Goti del Trissino) o un poema cavalleresco che avesse maggiore unità di quello ariostesco, il Folengo, con spirito geniale, rivolse il proprio estro su una deformazione parodistica e grottesca del mondo cavalleresco, accentuandone, in maniera caricaturale, gli elementi di violenza, di prepotenza e di brutalità. Il tutto poi, altra mossa geniale, viene inserito nel mondo contadino, vigorosamente rappresentato nelle sue usanze, nel suo realismo spregiudicato, nei suoi stessi affetti più autentici e cordiali. E se questa rappresentazione del mondo rurale, comica, grottesca, parodistica, ma anche piena di schietta simpatia per una vita autentica e piena di genuine passioni, può considerarsi la parte più emotiva, seducente e felicemente ambigua del poema, va altresì notato che laddove prende il sopravvento lo schema più tradizionale del viaggio immaginario di tipo picaresco, in cui prevale l’estro inventivo di avventure paradossali e favolose, ma anche l’amore per il meraviglioso, per il magico, per lo stravagante, il Folengo riesce a conservare inalterati tutti i tratti umoristici della propria ispirazione, del proprio estro vagabondo e bizzarro (come lo definì il Sapegno), trovando sempre nuovi spunti comici, misti di distacco e di simpatia. Perché comicità è quella del folengo, «impregnata del sorriso e del riso onde il poeta contempla il mondo e i personaggi che viene creando con animo distaccato e divertito, ma non esclude uno spirito di osservazione affettuosa e pietosa e un tono di bonaria umanità»[4].
Sempre poema, ma scritto in ottave volgari, è l’Orlandino, una sorta di narrazione delle origini e dell’infanzia del paladino Orlando. Come nel Baldus, anche la nascita di Orlando viene allontanata dall’ufficialità, in quanto conseguenza dell’amore “irregolare” tra Berta, sorella di Carlo Magno, e Milone. I due si sposano segretamente, fuggono, sono costretti a separarsi, la nascita del grande paladino avviene in una povera dimora e la sua infanzia si svolge in un ambiente rurale. Ma tutto questo è soltanto il pretesto per divagazioni e polemiche contro la corruzione ecclesiastica, dettate non solo dai tempi ma anche dall’indignazione e dall’amarezza che avevano portato il Folengo ad abbandonare l’Ordine. «Sotto le spoglie di un romanzo vestito di stracci, bizzarramente deformato, dove emergono a ogni piè sospinto quegli orizzonti stregoneschi, alimentari, culinari, scatologici tanto cari a Merlin Cocai, l’Orlandino costituisce anche un intervento, difficile da decifrare fino in fondo, segnato da quell’ambivalenza che reggeva anche al scrittura macaronica, su brucianti temi d’attualità»[5]. I personaggi professano opinioni religiose venate di protestantesimo, rifiutano l’autorità papale, tuonano contro la vendita delle indulgenze: ma tutto questo avviene con una prudente ambiguità.
Altra opera in volgare è il Caos del Triperuno, ove con grande audacia formale viene mescolata prosa e poesia e vi si affacciano, variamente dialogando, le tre diverse maschere del Folengo: Merlin Cocai, il poeta maccheronico ormai grasso e vecchio, Limerno Pitocco, il poeta volgare di scuola petrarchesca, e un certo Fulica (nome ricavato dalle fùliche, cioè folaghe, che proprio in numero di tre erano sullo stemma familiare dei Folengo). Seguendo la lunga tradizione della letteratura allegorica e didattica, che viene qui portata all’eccesso, il Folengo dà vita ad un testo quasi allucinato, nel quale allusioni oscure ed enigmatiche, simboli ed allegorie, si mescolano a dati biografici chiari e meno chiari, a glosse erudite o burlesche, a polemiche religiose e letterarie.
Nella Zanitonella, Tonello che brucia d’amore per Giannina, fa tutto il possibile per entrare nelle sue grazie porgendole mille attenzioni. Spreca il suo tempo dolendosi e pensando alla sua amata con il solo risultato di trascurare il lavoro e impoverirsi. Per la disperazione arriva al punto di suicidarsi, ma l’amico Salvigno lo dissuade: da questo momento in poi Tonello vive un processo di catarsi che lo porterà al disinnamoramento e alla disillusione totale. Il testo definitivo dell’opera si collega solo parzialmente alle due ecloghe che apparvero nella prima edizione dei Macaronicorum poemata, giacché gli elementi della satira, della parodia contadinesca si intrecciano alle innumerevoli risonanze classiche e letterarie. Lontano dalla scontata “altisonanza” dei canzonieri petrarcheschi, la vicenda di Tonello e delle sue pene amorose si configura come simbolo della vita attiva e spontanea della campagna, illuminata alla luce di una saggezza catartica.
La Moscheide (come s’è detto) si riallaccia dichiaratamente alla Batracomiomachia, narrando in toni magniloquenti e nel rispetto dell’ortodossia retorica della tradizione epica una battaglia chiaramente comica tra mosche e formiche. Il contrasto tra questi due insetti è l’oggetto di una favola di Fedro in cui la mosca prova a vantarsi della sua vita e dei suoi privilegi con la formica, la quale ribatte che non ci sono realmente dei motivi di vanto nell’esistenza della mosca, scacciata da tutti e incapace di sopravvivere all’inverno, mettendo in luce, invece, i propri successi quotidiani e discreti. Il risultato non è altro che un artificioso ed astratto gioco poetico, un esercizio retorico concentrato sulla parodia gratuita degli schemi dell’epica classica, ancora incerto e maldestro, ma soprattutto senza spunti originali di una reale comicità.
Minore, per non dire inesistente, è la tensione poetica delle altre opere del Folengo, la cui attività letteraria, dopo la richiesta di riammissione nell’Ordine, si legò a quella del fratello Giambattista; così che nel 1533 vennero pubblicate in un unico volume i Pomiliones (dodici dialoghi scritti da Giambattista, opera tra le più importanti della letteratura benedettina) e due opere latine scritte da Teofilo: il Janus e il Varium Poema. «Il primo è un poema in esametri sul buon uso del tempo, in cui si sovrappongono motivi simbolici pagani e cristiani, e in cui attraverso una professione di pentimento per la falsa letteratura s’introducono ardui motivi teologici, in una prospettiva che è parsa venata di spirito riformatore ed eterodosso. Il secondo è un insieme di componimenti di varia natura […], dedicati a personaggi diversi, con motivi lirici, polemici, satirici»[6].
Migliori risultati, ma sempre lontani dall’arte, il Folengo li raggiunse con L’umanità del figliolo di Dio, poema in ottave in dieci libri, con la sacra rappresentazione detta Atto della Pinta e con la Palermitana, poema didattico in terzine, rimasto incompiuto, che narra le vicende della storia universale dalla creazione degli angeli fino all’infanzia di Gesù Cristo: tutte opere che «van pure ricordate a rendere almeno un’idea generale della vastissima operosità del Folengo e dello spirito complesso della sua originalissima e inquieta personalità»[7].
*** NOTE ***
[1] Camillo Orsini (Roma, 1492 – Roma, 1559), era figlio di Paolo, Marchese di Atripalda e di Montefredane, principe di Amatrice, e di Giulia Santacroce. Dopo la morte del padre (fatto assassinare da Cesare Borgia nel 1503), si trasferì a Napoli. Fin da giovanissimo fu iniziato al mestiere delle armi e nel 1510 passò al servizio dello Stato della Chiesa, rimanendovi finché Leone X non depose e giustiziò il suocero Giampaolo Baglioni signore di Perugia. Nel 1522 passò al servizio della Serenissima, restandovi fino al 1543. Nel 1547 ritornò al servizio dello Stato della Chiesa: dopo l’assassinio di Pierluigi Farnese Paolo III lo nominò governatore di Parma e rimase in carica fino all’avvento del nuovo duca Ottavio Farnese nel 1550. Nel 1551‑52 condusse l’esercito pontificio nella guerra di Parma condotta da Giulio III contro i Farnese. Il Papa Paolo IV lo tenne in gran conto, affidandogli la difesa di Roma durante la guerra contro il Regno di Napoli del 1556‑57. In seguito alla cacciata dei nipoti, lo nominò capitano generale della Chiesa e membro del Sacro Consiglio.
[2] Non v’è certezza di chi si nasconda sotto questo pseudonimo, se il Folengo stesso o un curatore di testi cinquecentesco.
[3] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 174‑175.
[4] Natalino Sapegno, op. cit., pag. 173.
[5] Giulio Ferroni, Teofilo Folengo e la letteratura macaronica, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. IV, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 428.
[6] Giulio Ferroni, Op. cit., pag. 433.
[7] Walter Binni, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in OPERE COMPLETE DI WALTER BINNI, Il Ponte Editore, 2017, pag. 223.
La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»
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