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Marco Michelini | 27 Febbraio 2020

Se la presenza copiosa e tenace nella letteratura italiana della lirica petrarchesca, tutta presa da un’idea solenne di se stessa e orientata su “toni” esclusivamente “alti”, va detto che ad essa fa riscontro (o si oppone), con altrettanta combattiva perseveranza, un’altra forma di poesia, che spesso risponde all’insistenza della prima con modi che sono del pari irritanti e stucchevoli: la poesia satirica e burlesca. «E come Sancio Panza presuppone Don Chisciotte, all’ombra del quale solo può vivere, non stupisce che nel secolo squisitamente nobile e classicheggiante fiorisca per reazione e complicità una produzione che metta in burla la letteratura illustre nei suoi vari aspetti. Che oppone all’amor platonico il puro sesso; che volge lo sguardo dalla raffinatezza delle corti alla nequizia delle cortigianerie o alla lutulenza del mondo plebeo; che alla lingua inamidata e classicheggiante preferisce la scorrevolezza del parlato o le rudi asprezze del dialetto»[1].

È noto che le origini della poesia giocosa si devono individuare nei poeti comico‑realistici del Due e Trecento (Cecco Angilieri, Rustico di Filippi); e che il quattrocentesco eroe eponimo del genere è il Burchiello. Ma va anche detto che la bizzarria burchiellesca, fantastica e talora geniale, ma tanto estrema e arbitraria da essere comunque per noi irrelata, e quindi scarsamente significante, riuscirà solo col Berni a trovare un ridimensionamento, una razionalizzazione, un termine di paragone ben riconoscibile e costante nelle sue caratteristiche.

Alla dispersiva e criptica disposizione giocosa e burlesca del Burchiello occorreva, insomma, che si ponesse non solo un ambito sociale – non solo di origine, ma anche di risonanza – minutamente e storicamente documentato, e quindi riconoscibile, tale, da, non vanificare la comunicatività allusiva insita nell’adozione di un linguaggio ristretto e referenziale, inteso come rinominazione autonoma ma razionalmente fondata di persone e di cose; ma anche, e ben più, un ben determinato obbiettivo specificatamente letterario, il quale doveva essere riconosciuto come alternativo e complementare ad un tempo, come oggetto di una ironia che significasse riconoscimento e accettazione delle proprie origini, celebrazione del proprio essere il doppio deformante di un’altra realtà. E che questi siano gli ineludibili presupposti della poesia satirica e burlesca – che dal Cinquecento in poi verrà definita con l’aggettivo “bernesca” – lo dimostra, in negativo, la lunga presenza imbalsamata del genere, la deprimente e protratta commemorazione inflitta alla maniera dagli epigoni e imitatori, paghi della parodia verbale facile e immediata che era stato il più vistoso pregio formale della toscanità letteraria del Berni, nonché dell’encomio fine a se stesso della realtà minuta e abietta, che aveva perso di vista la necessaria dissacrazione dell’aulico.

Ma lo dimostra soprattutto, e questa volta con connotazione positiva, l’autentica, vigorosa, polemica ispirazione bernesca, spesso superficialmente indicata, mai attentamente documentata, di un fondamentale eversore letterario del primo Novecento: Aldo Palazzeschi. Si riproduce infatti la condizione necessaria e sufficiente per l’autentica parodia letteraria, quando ne diventa oggetto l’estrema propaggine (quella dannunziana) del petrarchismo letterario, che nella sua aulicità suscita ancora una volta il saltimbanco.

*** NOTE ***

[1] Pietro Gibellini, Gianni Oliva, Giovanni Tesio, Lo spazio letterario – storia e geografia della letteratura italiana, La Scuola, Brescia, 1989, pag. 259.


La versione stampabile dell’articolo è scaricabile da qui: «APPUNTI DI LETTERATURA ITALIANA: IL CINQUECENTO»

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