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Marco M. G. Michelini | 22 Febbraio 2020

Per tutta la lirica del Cinquecento il modello poetico, costituito dal Petrarca, è esperienza decisiva: non meno, a dire il vero, di quel che era stato per il Quattrocento, ma con una coscienza teorica che il Quattrocento dei Chariteo[1], dei Boiardo, dei Serafino Aquilano[2], del Tebaldeo[3], non ebbe, inteso, come fu, piuttosto a usare l’esempio del Petrarca per una sofisticata sperimentazione di ardui e contorti casi psicologici e di ardite composizioni verbali. Chi dà, alle soglie del Cinquecento, il fondamento teorico alla rinnovata imitazione del Petrarca è il Bembo. L’imitazione, per la letteratura dell’umanesimo, aveva significato soprattutto il rapporto con i classici come supremi modelli d’arte e di vita: il Bembo offre, alla poesia volgare, un modello altrettanto autorevole, che è, al tempo stesso, di. lingua, e di modi e temi. Egli comprende che la dignità del volgare si gioca soprattutto sulla capacità di esso di raggiungere le vette dello stile sublime e di rappresentarvi i più complessi eventi e le più difficili e alte esperienze dell’uomo.

Nel Petrarca il Bembo identifica anzitutto il grado supremo di perfezione del volgare, del tutto adeguato al latino nella capacità, che il poeta aretino ha saputo conferirgli, di riferire le esperienze dell’amore, della religione, della contemplazione dell’anima, del disvelamento dei segreti di essa, della morte, del dolore (e, correlativamente, respinge la Commedia dantesca in quanto portatrice abbastanza eclettica di situazioni e momenti ed eventi, che toccano spesso il livello inferiore dello stile comico ovvero umile). D’altra parte, il Canzoniere petrarchesco è una sorta di enciclopedia di tutti i possibili casi ed eventi dell’esperienza amorosa e, più ampiamente, dell’esperienza spirituale dell’uomo: ciò che i poeti contemporanei al Bembo possono fare è lavorare sugli elementi singoli del modellò petrarchesco, variandolo attraverso operazioni raffinate che portano a disporre diversamente i materiali del Petrarca, ad accentuarne determinati aspetti, a sceglierne particolari modi e temi, insistendo sui particolari fino ad amplificarli anche smisuratamente.

Certo, il concetto di imitazione, che è fondamentale per la poetica petrarchista proposta dal Bembo, e che si congiunge con l’altro canone dell’estetica rinascimentale, costituito dal principio dell’imitazione della natura, non vuole significare una pura e semplice ripresa del modello (o una sorta di naturalismo come realistica riproduzione di ciò che avviene e si vede in natura) ma ha un valore di agonismo, per cui il poeta entra in gara con il modello per cercare di dire meglio e di svolgere più efficacemente e compiutamente gli spunti e le forme che quello gli offre.

Il Petrarchismo (che, del resto, non è soltanto un fenomeno italiano, ma investe la Spagna, la Francia, l’Inghilterra, la Germania, ha riscontri nei paesi dell’Europa orientale, come l’Ungheria e la Croazia) non può, quindi, essere ridotto a un puro fenomeno di costume ovvero a un caso di letteratura minore, di riporto. «Se l’immensa produzione di canzonieri petrarchistici scade spesso in una esercitazione ripetitoria e scarsamente ispirata, in un ossessivo ritorno di luoghi comuni e di riprese di moduli e motivi dell’imitato Petrarca, occorrerà subito dire però che nel suo insieme la lirica petrarchistica del Cinquecento costituisce comunque un importante esercizio letterario e come un’alta scuola di stile e di analisi psicologica essenziale nella generale educazione stilistica di quel secolo e che così sarà uno dei maggiori contributi che la letteratura rinascimentale offrirà alla formazione e all’affinamento delle letterature europee. E, d’altra parte, occorrerà anche ben rilevare il fatto che quella produzione non si riduce ad una massa grigia e informe di imitatori e versificatori senza ragioni e accenti personali e che nella generale impostazione e tensione si elevano pure opere poetiche che, a vario livello, portano contributi poetici originali e considerevoli, sicché l’imitazione petrarchesca non può esser considerata come una mortificazione della poesia o una semplice convenzione sociale, ma piuttosto come una scuola di stile non tutta passiva e pedantesca e anzi molto spesso feconda e ricca di variazioni personali e di accentuazioni diverse di motivi e toni anche nei diversi centri regionali e locali, non senza arricchimenti di temi non solamente amorosi, ma anche a volte civili, morali, o più precisamente religiosi»[4].

In più, l’opera del Petrarca è interpretata anche come l’enciclopedia delle situazioni psicologiche possibili: cioè, risponde perfettamente al canone rinascimentale della classificazione esaustiva del reale, interiore come esteriore, in modo che nulla rimanga di problematico e di oscuro e di non catalogato. Ciò spiega, ad esempio, il fatto che petrarchisti, nella lirica, furono anche poeti e scrittori per il resto della loro opera abbastanza lontani dal Petrarca, come Ariosto, Castiglione, Della Casa, Michelangelo, Bandello, Caro: ma spiega anche l’infinita varietà dei risultati raggiunti dai singoli petrarchisti, pur nell’identità di fondo del punto di partenza, anche se tale varietà non sarà da misurare con il criterio, tutto moderno e assurdo per la letteratura rinascimentale, della novità, bensì con quello della diversità degli sviluppi del modello petrarchesco.

Di fronte alla fedeltà bembiana al poeta aretino, portata fino a non usare nessun termine che nel Petrarca non si ritrovi, stanno le accentuazioni classiciste di Bernardo Tasso[5] (il padre di Torquato), del Molza[6], del Coppetta[7]; di fronte alla tormentata, contorta, convulsa tecnica compositiva e alla drammaticità psicologica del Della Casa, che accentua i motivi della contraddizione e della lotta interiore già presenti nel Petrarca, mettendo al loro servizio una tecnica di versificazione colta e aspra, sta la composta e nobile esperienza di Vittoria Colonna; a fianco dell’irta e dolente poesia michelangiolesca sta l’ardore e il colore della contemplazione naturale e della descrizione paesistica del Tansillo; la dolente e un poco troppo effusiva elegia amorosa di Veronica Franco, di Chiara Matraini, di Veronica Gambara, si trova accanto al gusto raddolcito e contemplativo di Bernardino Rota[8] ed alla drammaticità tesa e inquieta della descrizione naturale e dei temi d’amore di Galeazzo di Tarsia, nella cui lirica l’idillicità della natura, tipica del petrarchismo del primo Cinquecento, è messa decisamente in crisi (come, d’altra parte, avviene anche nella poesia del Della Casa, sulla suggestione dei momenti più aspri e turbati dello stesso Petrarca).

Dopo la metà del secolo la situazione va mutando profondamente. Il Petrarca continua a essere il supremo modello lirico, ma ormai la codificazione e la teoriz-zazione del Bembo prendono ad allontanarsi e a perdere autorità. Da un lato, i canzonieri vengono ad ampliarsi enormemente nelle ripartizioni, se non sempre nelle dimensioni, moltiplicandosi quantitativamente in quanto dedicati a diverse donne, e ripartendosi esplicitamente in rime eroiche, encomiastiche, religiose, oltre che amorose (ed è il caso del Tasso); dall’altro lato, viene a prevalere il principio della gravita e del decoro, che si unisce con il gusto del «far grande», che rappresenta uno degli elementi costitutivi di quel manierismo che, in concomitanza alla storia delle arti figurative, è stato identificato anche nella letteratura del secondo Cinquecento come tipico di essa in tutte le sue manifestazioni. L’amplificazione dei modelli fino a dimensioni anche spropositate si unisce, nel manierismo, con la tendenza al grandioso e al nobile, al grave e all’eloquente. La lirica amorosa e quella descrittiva, la religiosa e la morale, tendono tutte a un’alta, balenante, commossa, grandiosa eloquenza, che è già molto lontana dal Petrarca e dal Bembo. Proprio in quell’area veneta in cui aveva operato il Bembo appaiono i primi segni della crisi della codificazione bembiana: con Antonio Brocardo[9], Domenico Venier[10], Orsatto Giustinian[11], soprattutto con la poesia nobilmente ed eloquentemente religiosa di Gabriel Fiamma[12] e con quella inquieta e turbata di Celio Magno; ma alla gravità vengono ad alternarsi il gusto per la miniatura descrittiva, la ricerca di una musicalità raffinatissima e rarefatta (che si esplica soprattutto nella forma del madrigale, cara al Tasso, ma anche nella canzonetta, preferita dal Venier).

Le due linee, della gravità e della squisitezza verbale, si divaricano sempre più nella lirica tassiana e degli altri poeti del tardo Cinquecento, là dove il Bembo ne aveva teorizzato l’armonia e la compenetrazione: un poco oltre è la dissoluzione del petrarchismo nel rifiuto di modelli codificati una volta per tutte che sarà delle poetiche barocche, intese, in questo, a riprendere tutta la linea, segreta ma attiva per tutto il Cinquecento, di un antipetrarchismo che aveva cercato di opporre alle forme della lirica quelle volgari, violente, anche oscene della satira, oppure un’assoluta indipendenza da modelli per l’invenzione e la novità della letteratura.

 

Veronica Franco

Veronica Franco nacque a Venezia nel 1546 da Francesco e Paola Fracassa, in una famiglia appartenente alla classe dei cittadini originari[13] ed ebbe dunque una buona educazione. Sin da piccola venne avviata alla professione di cortigiana dalla madre, che l’aveva esercitata a sua volta. Si sposò giovanissima con un ricco medico, Paolo Panizza, ma del marito si sbarazzò presto, e senza rimpianti, separandosi quando diede alla luce il primo figlio a 18 anni.

Dopo la separazione dal marito, per mantenersi, divenne una cortigiana d’alto rango. I suoi clienti erano prelati, artisti, nobili e letterati. Ciò le permise di entrare nei circoli culturali più vivaci della città e si fece notare non solo per la sua bellezza e la destrezza nella musica, nella danza e nel canto, ma anche come compositrice di versi. Studiò e cercò i propri mecenati tra gli uomini colti. A partire dal 1570 circa, entrò a far parte di uno dei circoli letterari più famosi della Serenissima, partecipando a discussioni e facendo donazioni. Scrisse due volumi di poesie: Terze rime nel 1575 e Lettere familiari a diversi nel 1580.

Nel 1575, durante l’epidemia di peste che sconvolse la città, Veronica Franco fu costretta a lasciare Venezia e, in seguito al saccheggio della sua casa e dei suoi possedimenti, perse gran parte delle sue ricchezze. Ritornata a Venezia nel 1580, venne accusata dal tribunale dell’inquisizione di costumi immorali, di praticare riti magici e di non osservare il digiuno del venerdì: tutte accuse che erano comuni per le cortigiane dell’epoca. Si difese da sola, dimostrando lingua affilata, un gran coraggio e potendo contare anche sull’aiuto di influenti amici, per cui alla fine fu assolta.

Morì nel 1591, a quarantacinque anni, stroncata dalle febbri, dopo aver cercato invano di convincere il doge a darle un sostegno per fondare un ospizio per ex-prostitute, pentite o anziane.

Le sue petrarcheggianti Terze rime, dedicate a Guglielmo duca di Mantova e di Monferrato, contengono capitoli o elegie amorose, fra le quali ne sono mischiate sette d’autore incerto. Per quanto si tratti di componimenti un po’ trascurati e contorti, essi rivelano qua e là un sincero accento di passione o una nota di cruda sensualità o di vivace rappresentazione della natura, che rompono l’uggiosa imitazione petrarchesca che le opprime. Non mancano poi gli accenti personali velati da una malinconia che si proietta sulla contemplazione della natura. Interessanti sono pure le Lettere familiari a diversi, dedicate al cardinale Luigi d’Este. Sebbene a tratti possano risultare un poco ampollose e artificiose, esse rispecchiano felicemente quel mondo di letterati e di nobili in cui la Franco viveva, e il loro stile singolare pare quasi l’anticipazione di un suggestivo barocco.

 

Chiara Matraini

Chiara Matraini nacque a Lucca nel 1515 da Benedetto e da Agata Serantoni. Il padre, un ricco artigiano della seta, morì l’anno successivo e Chiara venne così affidata allo zio Rodolfo insieme ai fratelli Luiso e Lodovico. La famiglia cadde però in disgrazia a causa del coinvolgimento nella cosiddetta “rivolta degli straccioni” del 1531 che chiedeva politiche meno restrittive sull’esportazione della seta e la possibilità per le classi popolari di entrare nel governo della Repubblica. La rivolta fu repressa duramente: Lodovico venne decapitato mentre Luiso fu messo in carcere, dove morì nel 1535. Solo Rodolfo riuscì a salvarsi e si ritirò a vita privata.

Sempre nel 1531 la Matraini si era sposata con Vincenzo Cantarini, da cui ebbe nel 1533 il figlio Federigo. Rimasta vedova nel 1542, lasciò la casa dei rigidi suoceri, che tennero con loro il bambino, ed iniziò a condurre una vita libera, rifiutando le convenzioni dell’epoca che volevano una donna relegata alle sole faccende casalinghe.

Nel 1547 venne coinvolta in uno scandalo a causa della sua relazione con un uomo sposato, Bartolomeo Graziani. Per mettere a tacere i pettegolezzi la coppia si trasferì fuori città, ma poco dopo il Graziani venne misteriosamente assassinato durante un periodo trascorso a Lucca.

Nel 1555 furono pubblicate a Lucca le sue Rime e prose, un canzoniere nello stile di Petrarca che racconta la vicenda amorosa con il Graziani dalle prime fasi dell’innamoramento fino alla tragica morte di lui. L’anno successivo pubblicò la traduzione in volgare dell’orazione A Demonico, dedicata a Giulio de’ Medici, mentre a Venezia furono ripubblicate le sue Rime in un’edizione miscellanea e sue singole composizioni furono ancora stampate in altre antologie.

Verso il 1560 conobbe a Lucca il nobile di Carpi Cesare Coccapani, con il quale intrattenne una lunga relazione affettiva e intellettuale, testimoniata da un epistolario, mentre un paio d’anni dopo la Matraini si stabilì per qualche tempo a Genova dove ebbe una lite giudiziaria con il figlio Federigo per motivi d’interesse.

Nell’ultimo periodo della vita, trascorsa a Lucca, la Matraini sembrò voler ristabilire un’immagine di sé dedita alla fede ed iniziò a scrivere su tematiche spirituali: le Meditazioni spirituali del 1581, le Considerazioni sopra i sette salmi penitenziali del 1586, il Breve discorso sulla Madonna del 1590 e i Dialoghi spirituali, pubblicati nel 1602 ma composti molti anni prima.

Morì nel 1604, a quasi novant’anni, dopo una vita assai lunga per l’epoca fatta di poesia e musica, inconsueta se non apertamente scandalosa.

Nelle sue Rime la Matraini mostra «una straordinaria misura stilistica, tale che tutta la strumentazione petrarchistica di cui si vale è promossa a una fascia più alta, dove tutto appare risentitamente partecipato, i sentimenti più strazianti, la sensibilità più acuta, le passioni vissute con speciale compostezza e dignità. Anche il paesaggismo raggiunge una sobrietà che è solennità […], senza che una sorta di gioiosa serenità sia esclusa»[14]. Anche il tema del trascorrer del tempo viene trattato con una sobrietà drammatica che favorisce la densa espressione di uno stile meditativo ed eloquente, che – persino nei momenti in cui l’imitazione del Petrarca diviene quasi manierismo – riesce a trovare vibrazioni del tutto personali. Non manca poi nelle Rime il riflesso di un generico platonismo e di coloriture moderatamente sperimentali, di cui emergono impronte attraverso le scelte metriche (varietà dei madrigali, frequenze di sestine e ottave).

 

Vittoria Colonna

Personalità di grande rilievo, sotto molteplici aspetti, ed estremamente rappresentativa del costume dell’epoca è quella di Vittoria Colonna, figlia del nobile Fabrizio e di Agnese di Montefeltro, dei Duchi di Urbino. Nata a Marino, sui colli Albani, nel 1490, andò in sposa nel 1509 a Ferrante d’Avalos, marchese di Pescara, capitano generale delle milizie di Carlo V in Italia. Il matrimonio con D’Avalos, sebbene combinato per servire le politiche familiari, riuscì anche dal punto di vista sentimentale, sebbene i due coniugi non trascorsero molto tempo insieme a Ischia dove si erano stabiliti. Nel 1525 Ferrante rimase gravemente ferito nella battaglia di Pavia.  Morto il marito nel 1525 in seguito alle ferite riportate nella battaglia di Pavia; la Colonna partì subito per raggiungerlo ma la notizia della sua morte la colse mentre era in viaggio. Cadde così in una profonda crisi spirituale e religiosa, che la indusse a entrare in relazione con importanti esponenti del pensiero riformistico pur mantenendosi sostanzialmente fedele all’ortodossia cattolica. Trascorse parecchi anni in diversi monasteri, cercando nel ritiro spirituale una soluzione a quei problemi religiosi che agitarono in quel tempo tanti nobili spiriti, legata da profonda amicizia a letterati famosi fra i quali Michelangelo e Galeazzo di Tarsia. Morì a Roma (1547), nel convento delle Benedettine di Sant’Anna, dopo aver consacrato la sua vita e il suo pensiero al ricordo del marito.

La vita di Vittoria Colonna si svolse in un momento culturalmente assai felice e infatti la nobildonna fu circondata dai migliori artisti e letterati del secolo. Lo stesso Michelangelo, che la incontrò per la prima volta nel 1536 o nel 1538, la stimò enormemente e la Colonna ebbe sull’artista una grande influenza, verosimilmente anche religiosa. «Se a Napoli aveva avuto contatti col circolo valdesiano, a Roma ne ebbe coi gruppi che miravano alla Riforma cattolica. Platonismo ficiano e petrarchismo bembistico trovano così in lei una perfetta fusione, che nei versi significa limpidezza e austerità, assenza di materialità e di concettosità, tensione spirituale fino all’astrazione»[15].

Appunto questa austerità morale e il tormento stilistico che ne deriva, danno la misura dell’alto idealismo per cui la Colonna fu unanimemente celebrata dai contemporanei. L’adesione alla poetica del Petrarca, del quale predilige i temi malinconici della seconda parte del Canzoniere, si risolve nell’ammirazione per la forma perfetta, dietro la quale tuttavia non riesce a cogliere l’impulso lirico: perciò, le sue rime, sia quelle dedicate al marito, sia le altre di argomento spirituale e religioso, non riescono mai ad affrancarsi da un’ineliminabile attitudine ragionativa e da un tono di eloquenza classicamente atteggiata.

 

Veronica Gambara

Poetessa fra le più note del Cinquecento italiano, Veronica Gàmbara, figlia del conte Gian Francesco e di Alda Pia dei principi di Carpi,  nacque a Pratalboino, vicino Brescia, nel 1485, in un’aristocratica famiglia, e ricevette una raffinata educazione umanistica, studiando il greco e il latino, la filosofia e la teologia. A ventiquattro anni andò in sposa al conte Gilberto VII, signore di Correggio, lo amò e visse con lui un felice matrimonio fino al  1518, anno in cui divenne vedova.

Rimasta sola, Veronica, che Giberto ava costituito usufruttuaria dei suoi beni e tutrice dei figli, dovette occuparsi sia della gestione degli affari di  famiglia, sia dello stato di Correggio, che resse con molta prudenza e saggezza per tutta la vita. Subentrando in maniera autorevole al marito, ella non solo riuscì ad assicurare importanti cariche ai due figli, Ippolito e Girolamo[16], ma persino a sistemare convenientemente le due figlie di primo letto del marito.

Sul piano politico si dimostrò piuttosto lungimirante: l’indipendenza della piccola contea di Correggio andava preservata attraverso trattati e atti diplomatici. Veronica pertanto abbandonò, e fu seguita in questo anche dalla famiglia paterna, il tradizionale legame filofrancese e si avvicinò al partito imperiale. Per due volte (nel 1530 e nel 1533) ospitò alla sua corte Carlo V, dal quale ottenne la promessa di salvaguardia del territorio della contea. Gli ottimi rapporti con l’Imperatore e con il Papa Paolo III, nel 1538, quando Galeotto Pico della Mirandola invase la piccola contea dei Correggio, le permisero di respingere con la forza l’aggressore.

Donna di temperamento, energica ed abile, fu talvolta anche bizzarra; dopo la morte del marito vestì sempre di nero, obbligò al nero i suoi cortigiani e sulle porta dei suoi appartamenti privati fece incidere i versi dell’Eneide in cui Didone afferma la sua eterna fedeltà al compianto marito Sicheo: Ille meos primus, qui me sibi iunxit, amores / abstulit, ille habeat secum, servetque sepulchro[17].

Allorché il feudo, a partire dagli anni Quaranta, passò saldamente nelle mani del figlio Ippolito, la Gambara poté concentrarsi maggiormente sugli ozi letterari, ai quali, comunque, aveva sempre dedicato ogni possibile momento libero. La sua vita prese un ritmo più intimo e privato e cominciò a soggiornare nel casino suburbano fatto edificare da Niccolò II da Correggio. Nel 1549 compì un ultimo viaggio a Mantova, su invito di Margherita Gonzaga, in occasione delle nozze del duca Francesco III con Caterina d’Asburgo. Tornata in patria si spense il 13 giugno 1550 e fu sepolta accanto al marito nella chiesa S. Domenico.

Veronica Gambara compose le sue Rime – comprendenti prevalentemente sonetti,  ma anche madrigali, stanze, ottave e una frottola – dentro ad un petrarchismo elegante e corretto, che ella acquisì essenzialmente attraverso il magistero del Bembo, con il quale ebbe uno stretto rapporto epistolare e personale e i cui canoni di equilibrio e compostezza  influenzarono il suo stile compositivo. «Il bembismo della Gambara nasce probabilmente già sotto l’influsso degli Asolani e ha qualcosa di mondano e insieme di leggerezza psicologica. Un suo respiro, ingenuo, ma franco raggiunge talvolta il suo gusto per la natura»[18] e la contemplazione della stessa e dei riflessi che essa suscita nella vita interiore. I temi trattati vanno dall’amore per il marito alle scene pastorali, dai poemi devozionali agli argomenti politici, con riflessioni sul tempo, sulla brevità della vita e sulle vanità umane.

Impeccabili stilisticamente, sostenute da una solida base culturale, le Rime della Gambara, che tanto piacquero a Giacomo Leopardi, soprattutto nei versi descrittivi di paesaggi idilliaci, risultano spesso formali ed artificiose perché troppo sorvegliate e composte, prive, insomma, di quel calore autentico e più intimo che, invece, traspare nelle Lettere, in cui  la Gambara, oltre all’alto grado stilistico, ci  rivela anche una personalità arguta e vivace.

 

Gaspara Stampa

Gaspara nacque a Padova verso il 1523 da una famiglia di origine milanese e di condizione borghese. Alla morte del padre Bartolomeo, commerciante di gioielli, avvenuta nel 1529, la madre, con Gaspara e i fratelli Baldassare e Cassandra, si trasferì a Venezia. A Venezia tutti e tre i giovani ebbero una buona educazione letteraria ed artistica, ma nel 1544 il fratello, anch’esso poeta[19], morì per malattia a soli diciannove anni. Questo lutto, che pure colpì le donne dolorosamente, non le spinse tuttavia ad isolarsi e a chiudersi, anzi, ben presto la loro casa divenne centro di vita mondana, aperta ai nobili e ai letterati veneziani, che la frequentavano attratti dalle due sorelle, di bell’aspetto e brave suonatrici e cantatrici; in particolare Gaspara si meritò grande ammirazione per la sua vivacità intellettuale, per l’arte dimostrata nel canto e nella poesia, e per la straordinaria bellezza.

Grazie proprio all’attività di cantatrice e virtuosa della musica, la Stampa condusse un’esistenza elegante e raffinata, ed una vita amorosa intensa varia e spregiudicata, in una società libera e letteratissima in cui certi usi culturali avevano pronta e larga diffusione e potevano venire facilmente recepiti.

Nel 1548 la Stampa incontra il conte Collaltino di Collalto, uomo di guerra e mediocre rimatore, mecenate molto lodato dall’Aretino, che apparteneva ad una valorosa famiglia di discendenza longobardica, proprietaria di tre feudi nella marca trevigiana, dal quale rimase restò affascinata. Il loro legame durò fino al 1551, ma a causa di lunghi periodi di lontananza Collaltino non ricambiò il sentimento intenso che Gaspara provò per lui, e la relazione si concluse con l’abbandono della poetessa.

Gaspara Stampa morì a Venezia nel 1554, per febbri intestinali, e fu sepolta nella chiesa dei Ss. Rocco e Margherita. Pochi mesi dopo la sua morte vennero pubblicate le sue rime, a cura della sorella Cassandra, che le dedicò al Della Casa.

Nonostante risenta, come è stato scritto, dello sforzo di oltrepassare l’insanabile contrasto tra il raffinato linguaggio petrarchesco del Bembo e il contenuto gonfio di attualità, il canzoniere di Gaspara Stampa è considerato il più ricco d’interesse psicologico della lirica cinquecentesca, tutto affidato come appare a una volontà di confessione, a un’intenzione quasi diaristica, nel cantare le proprie pene, le proprie sofferte esperienze d’amore. «Per avvertirlo appieno è probabilmente necessario liberarsi di alcuni preconcetti antichi e anche di alcuni nuovi: l’antico, più grave, è che essa aveva troppa poca cultura per produrre alta e profonda poesia e perfino per ascoltare se stessa, sicché la sua poesia rimarrebbe al livello della superficialità e della convenzionalità linguistica bembesca (Binni); il meno grave, ma anche il più banale, consisterebbe nel suo essere donna, confinata a una stato intellettuale e sociale inferiore, per di più accettato passivamente; proprio quest’ultimo aspetto nei tempi recenti è apparsa una condizione insuperabilmente imitatrice (Ferroni). In realtà, quando si sia iscritto il romanzo della donna innamorata – romanzo, tra l’altro che parrebbe caduto in soli tre anni (1548-1551) della sua breve esistenza – nei suoi termini letterari, che sono gli unici legittimi, e si sia riconosciuto l’elementare fatto che senza petrarchismo non si sarebbe avuta la voce poetica della Stampa, un po’ si sarà meglio storicizzata la sua figura, ma certamente ci si sarà posti in condizione di partecipare l’emozione che da questa voce emana, emozione né semplice, né univoca come anche solo un rapido percorso attraverso la sua poesia ci consentirà di mostrare»[20].

Si potrebbe parlare, a proposito di questa scrittrice, di un petrarchismo in cui l’ideale classicismo del modello, alleggerito in un’intonazione melodica e orecchiabile, viene ridotto a modulo corrente. La poesia della Stampa si fonda su una base letteraria, sia pure limitata, ma comunque presente e non trascurabile (la stessa struttura del canzoniere rivela l’intenzione di adeguarsi al grande esempio trecentesco) nella quale Anaxilla, come volle farsi chiamare con nome arcadico nell’Accademia dei Dubbiosi, introduce una carica di tensione melodrammatica, in cui l’immediatezza dei sentimenti tende a placarsi in un’aggraziata linea di canto.

Anche dal platonismo amoroso la Stampa si allontana, in direzione di quell’atteggiamento sensuale e realistico presente anche in alcuni trattati contemporanei, ma la sensualità e il calore della passione si attenuano in un tono discorsivo articolato in modulazioni lente e prive di tensione drammatica, e in una medietà di stile che inclina all’immediatezza del dialogo.

 

Luigi Tansillo

Nato nel 1510 a Venosa, Luigi Tansillo, figlio di Vincenzo e di Laura Del Cappellano, fin da ragazzo fu al servizio di diverse nobili famiglie napoletane finché nel 1536 entrò come continuo[21] al servizio del viceré don Pedro di Toledo, marchese di Villafranca[22].

Nell’estate del 1537 fu al seguito del viceré nella spedizione per il recupero di Ugento e Castro occupate dai turchi e nel 1538 fu impegnato con don García de Toledo, figlio del viceré, nella campagna navale che si concluse con la battaglia di Prevesa. Sempre a seguito del viceré, che doveva incontrare Carlo V in procinto di partire per la disastrosa spedizione di Algeri, nel 1541 Tansillo fu a Lucca e quindi a La Spezia; e nel 1544 fu ascritto all’Accademia Fiorentina, stringendo duratura amicizia con Benedetto Varchi.

Nel 1550 si sposò con una delle damigelle di corte: Luisa Puccio di Teano; e dal 1561 ricoprì la carica di capitano di giustizia a Gaeta, conferitagli dal viceré nel 1545 con l’ufficio di guardiano della dogana Maggiore, e che mantenne, salvo brevi interruzioni, fino alla morte avvenuta a Teano nel 1568.

Il Tansillo è una delle figure più importanti e varie di quella lirica napoletana cinquecentesca che continua l’elegante tradizione letteraria inaugurata dall’umanesimo del Pontano e del Sannazaro. Scrittore precoce, nel 1527 compose l’egloga drammatica I due pellegrini e nel 1532 il poemetto licenzioso in ottave Il vendemmiatore, nel quale risaltano già pregi e difetti della poesia più matura, e soprattutto quella singolare capacità descrittiva che discende dall’Arcadia, svolta anche nelle opere successive: le Stanze a Bernardino Martirano, composte nel 1540, il poemetto Clorida del 1547, il poemetto didascalico Il podere del 1560, e quindi il Canzoniere, che è senz’altro la sua opera più riuscita, per quanto il Tansillo non sia «neppure rasentato dall’idea del “canzoniere”, insomma dall’organismo poetico come storia interiore o esteriore»[23].

Nel 1552 compose il poema didascalico in terzine La balia per esortare le madri ad allattare i propri figli, ispirato in parte a un’analoga composizione di Aulo Gellio[24]. In esso tuttavia il tono volutamente dimesso e l’evidente moralismo denunciano la preoccupazione di adeguarsi al nuovo spirito controriformistico che lo spinge anche a riprendere la composizione di un poema sacro, Le lagrime di san Pietro, da contrapporre a Il vendemmiatore posto all’Indice nel 1559.

Scrittore sbrigliato e vario, influenzato solo superficialmente dal petrarchismo bembiano e immune da suggestioni neoplatoniche, il Tansillo si muove in una direzione affatto personale nei confronti della grande tradizione lirica cinquecentesca, mentre risente largamente delle influenze dell’umanesimo meridionale e della lunga consuetudine coi poeti latini, e con Ovidio soprattutto. Le sue manifestazioni poetiche si caratterizzano per una straordinaria versatilità che gli permette di abbracciare una corona di temi – amorosi, religiosi, familiari – quanto mai ampia e di passare con disinvoltura dal tono idillico elegiaco al gusto tutto particolare del paesaggio orrido, dei motivi “ossianici” e cupi.

La sua attività di facile verseggiatore obbedisce anzitutto ad esigenze di “cantabilità”: i vari motivi trattati si dispongono infatti sempre entro moduli musicali e la melodiosità è la caratteristica stilistica di queste rime, nelle quali più che meditata ispirazione, si avverte il gioco di un’estrosa fantasia, il gusto impressionistico del colore e del suono, la fluida discorsività notata dal Croce. La disparità dei gusti e della materia trattata conduce la poesia del Tansillo ad esiti diversi: dove prevale il gusto del paesaggio orrido, come nel sonetto ispirato all’eruzione vesuviana del 1538, il linguaggio assume toni aspri, i contorni si appesantiscono di cupe sfumature, le forme si fanno turgide, prevalgono le immagini ardite e concettose. Altrove, invece, la vena idillica induce Tansillo a farsi descrittore di una natura dolce e delicata, in cui il senso pittorico e musicale dà vita a visioni di paesaggi incantati e sereni, e scene di morbida levità, che costituiscono gli esiti più felici di questa poesia e la sua novità.

Elogiato dal Tasso, che lo definì uno dei migliori poeti italiani del Cinquecento, stimato dal Caro che lo ritenne un «rarissimo ingegno», citato dal Cervantes[25], che nel capitolo 33 della prima parte del Don Chisciotte riporta (tradotta in spagnolo) un’intera ottava del poema Le lagrime di san Pietro, il Tansillo fu oggetto di ammirazione ed imitazione da parte dei poeti napoletani del Seicento, che lo esaltarono considerandolo quasi l’iniziatore del trapasso dalla lirica petrarchesca alla lirica marinista. Ma è necessario qui affermare che è del tutto esagerato «vedere in lui l’iniziatore o il precorritore di una nuova civiltà letteraria, quella del Tasso o magari quella del Marino»[26].

 

Galeazzo di Tarsia

I dati biografici riguardanti Galeazzo di Tarsia sono alquanto lacunosi: nacque a Napoli nel 1520 da Vincenzo, quinto barone di Belmonte Calabro, e Caterina Persico, dei conti di Sabbioneta. Nel 1530, alla morte del padre, per diritto di maggiorascato, divenne il sesto barone di Belmonte, dimostrando subito di possedere un carattere ribelle e violento. Verso il 1538 partì per Napoli ove conobbe Vittoria Colonna, che primeggiava negli ambienti letterari di quegli anni. Galeazzo s’innamorò di Vittoria, più vecchia di lui di trent’anni, e non fu un amore passeggero visto che più tardi egli compose per lei molte delle sue rime. Ritornato a Belmonte, nel 1543 sposò Camilla Carafa, figlia di Giovanni Francesco Carafa sorella del conte di Mondragone, la quale morì prematuramente dopo avergli dato una figlia. Per il malgoverno e i soprusi sui sudditi esercitati nel suo feudo calabrese, nel 1547 fu processato alla Gran Corte della Vicaria e condannato alla perdita delle prerogative feudali. Dopo un periodo di detenzione a Castel Capuano, fu confinato a Lipari dove rimase per lo meno fino al 1551. Nel 1553 fu graziato dal Viceré Don Pedro de Toledo e partecipò ad una spedizione contro Siena, arrivando in Toscana per mare; ma subito, sempre per ordine del viceré, fece ritorno a Napoli dove morì assassinato, sempre nello stesso anno, in circostanze misteriose.

Galeazzo di Tarsia è la personalità di maggior rilievo e originalità nell’ambito della lirica petrarchistica meridionale del Cinquecento che, negli esiti in cui è più consapevole la revisione del modello petrarchesco e bembiano, anticipa il gusto e la sensibilità del Barocco. Della sua produzione poetica ci sono pervenuti cinquanta componimenti nei quali il tema predominante dell’amore, cui si affianca quello politico, è affrontato da con tale immediatezza aggressiva che, nell’intenzionale negligenza per la misurata e aggraziata compostezza della lirica tradizionale, pare voler decisamente realizzare un’espressione poetica antiletteraria.

L’opera di Galeazzo di Tarsia tuttavia si pone come il risultato di una sapiente rielaborazione dell’esperienza petrarchistica, diretta a formulare un tipo di poesia originale caratterizzata da una forte intensità espressiva e da una concretezza d’immagini nella corposità delle quali si converte la tensione dei sentimenti. Come ha scritto il Ponchiroli, egli non è assolutamente un poeta di sentimenti, ma di figure e di condizioni; pertanto, nella sua poesia d’amore, nella sua poetica, non esiste lo stato amoroso come sentimento, ma solo il paesaggio amoroso in cui esso viene solitamente inscritto. Sul piano stilistico, poi, sono rimarchevoli le sue qualità di sperimentatore che imprimono alle sue liriche un ritmo per lo più spezzato e aspro, in netto contrasto con la melodicità petrarchistica, sconvolgendo l’equilibrata simmetria del modello petrarchesco con l’arditezza delle metafore e con un insistito procedimento concettistico che precorre la preziosità della poesia barocca.

 

Michelangelo Buonarroti

Nato nel 1475 a Caprese, nel Casentino, Michelangelo nella sua lunga esistenza visse davvero due età profondamente diverse, se poté frequentare la corte medicea a Firenze (nel 1488 era entrato nella bottega del pittore Domenico Ghirlandaio e poi in quella di Bertoldo, allievo di Donatello), ascoltare le prediche del Savonarola e insieme percorrere l’esperienza dell’età controriformistica, alla corte dei papi del Rinascimento, quali Giulio II e Paolo III.

Dopo la cacciata dei Medici da Firenze, fu prima a Venezia, a Bologna e poi a Roma, dove scolpì la prima delle sue Pietà. Non è questa la sede ove discutere della personalità di questo grande artista e neppure è il caso di soffermarsi sui suoi ben noti dati biografici. Basti solo ricordare che egli dispiegò la sua opera di pittore scultore e architetto fra Firenze e Roma, dalla quale sono usciti i grandi capolavori: nel 1503 a Firenze (dove lavorò tra il 1501 e il 1505, e poi ancora tra il 1521 e il 1531) scolpì prima il David, poi lavorò alle cappelle Medicee; nel 1505 a Roma cominciò gli affreschi della Cappella Sistina, nel 1534 iniziò ad eseguire il Giudizio Universale, e nel 1547 divenne architetto della fabbrica di San Pietro, progettandone la cupola. Morì a Roma nel 1564 e il suo corpo fu portato a Firenze e sepolto in Santa Croce.

Le Rime, che circolavano manoscritte, ebbero subito lodi dai contemporanei. Il Berni ne rinfacciava la schiettezza ai rimatori petrarchisti affermando che «ei dice cose, e voi dite parole»; e l’Aretino voleva che la lirica di Michelangelo fosse «conservata in un’urna di smeraldo». Il Foscolo esprimeva invece la sua esitazione, sentendo un che di incondito, di non concluso, come di chi non lavora nell’«arte sua» e non possiede con la necessaria sicurezza i mezzi di espressione. In effetti, la poesia michelangiolesca può indurre a due opposti giudizi: uno che, volto a cogliere la forza impetuosa di un carattere e di una natura eccezionali, vede nei versi e apprezza ed esalta questa stessa forza, questo stesso impeto anche nella sua mancanza di rifinitura; l’altro che, più attento al dispiegarsi del linguaggio poetico, ne nota la mancanza di fluidità, di sicurezza, lo stadio ancora di abbozzo, come di uno sforzo che resta tale, che si tradisce nella natura ancora tutta sperimentale della forma. Si tratta di giudizi opposti, ma entrambi giustificati. Michelangelo riesce indubbiamente un poeta difficile, e non perché maldestro, ma per impulso di natura, preoccupato più della sostanza del suo pensiero e del suo tormento, che del tranquillo possesso delle sue ragioni di canto.

«Questo canzoniere, così spesso restio alle consolazioni dell’arte, resta pur tuttavia il documento di una fortissima personalità. Nelle rime per Vittoria Colonna e in quelle per Tommaso Cavaliere il platonismo del Cinquecento è non solo accettato, come un elemento della cultura diffusa, ma sentito con una forza di adesione intima che non è cosa comune. Nelle poesie religiose c’è un che di austero e di tragico, che non si ritrova negli altri canzonieri del secolo. Perfino nelle rime giocose, dettate da un umore violento e bizzarro, irrompe a tratti una voce più profonda e più seria, che è il segno di un’anima tormentata e solitaria»[27].

 

Celio Magno

Celio Magno nacque forse a Napoli nel 1536. Il padre Marco Antonio era un cittadino originario, che era stato esiliato dalla Serenissima nel 1502 per crimini contro la religione. Dopo aver viaggiato in Francia, Germania e Spagna, si stabilì a Napoli dove fu al servizio dei Carafa come oratore. Nel 1526, grazie alla mediazione di Carlo V e di Andrea Carafa[28], ottenne dal doge di Venezia un salvacondotto perpetuo. Tornò in laguna con la famiglia attorno al 1543, ove morì nel 1549.

Rimasto orfano a tredici anni, Celio Magno ricevette sicuramente un formazione giuridica, ma ben presto i suoi interessi si orientarono verso la poesia e nel 1555 apparve il suo primo sonetto a stampa. Iniziò anche a circolo letterario di Domenico Venier e fu in contatto coi principali poeti e letterati veneti dell’epoca. Compose in quegli anni La bella et dotta canzone sopra la vittoria dell’Armata della Santissima Lega, nuovamente seguita contra la Turchesca, scritta per l’esito vittorioso della battaglia di Lepanto, che tra il 1571 e il 1572 venne anche stampata autonomamente. Sullo stesso tema scrisse anche il Trionfo di Christo per la vittoria contra’ Turchi, che fu rappresentato nel 1571 davanti al Doge.

In riconoscimento delle sue capacità letterarie, nel 1572 fu assunto come notaio ordinario nella Cancelleria ducale e nel 1575 venne eletto segretario del Senato. Nel 1595 divenne segretario del Consiglio dei dieci: questo incarico di massima responsabilità, che gli offrì grandi onori e gli diede stabilità economica. Il suo ultimo sforzo poetico fu la canzone spirituale Deus, pubblicata nel 1597 con discorsi introduttivi, lezioni accademiche ed interpretazioni di altri letterati dell’epoca. Morì a Venezia nel 1602.

Con Celio Magno si raggiunge «il limite estremo dell’arco di svolgimento del petrarchismo e molti elementi lo portano addirittura fuori di esso. Compie questo, in primo luogo, l’affannosa religiosità, autentica tensione interiore e non più confidente colloquio in cui inserire la propria esperienza del mondo, divenuta frattanto schema strutturale di molti canzonieri cinquecenteschi. a questo s’accompagna l’elaborazione di un linguaggio denso, altamente metaforico, incline a cogliere le inflessioni più cupe dell’interiorità sovrastata dall’incombere della morte e della resa»[29].

Il canzoniere del Magno, stampato nel 1600 congiuntamente a quello dell’amico Orsatto Giustinian, non s’avvicina al petrarchismo neppure nella sua architettura, eppure esso si presenta al lettore con una meditata organizzazione che ruota attorno a gruppi tematici ben riconoscibili: la riflessione sull’immagine della morte, intesa come finitezza e incertezza della vita umana, le glorie civili della Repubblica di Venezia, le rime spirituali. A questi tre gruppi tematici si aggiunge quello amoroso, che è anche il più corposo, che alleggerisce l’opera, aprendosi a momenti di rasserenamento e ad immagini più lievi e di ambientazione bucolica. Muovendosi tra il petrarchismo maturo ed austero del Della Casa e la produzione autobiografica e moralistica di Domenico Venier, il Magno si mantiene tuttavia distante da estremizzazioni stilistiche, per cui i suoi componimenti, anche nei toni più gravi, si mostrano sempre distesi e ben controllati, a riprova di una matura e profonda esperienza tecnica.

*** NOTE ***

[1] Benedetto Gareth, detto il Chariteo (Barcellona, 1450 circa – Napoli, 1514), si trasferì a Napoli al seguito di Alfonso I tra il 1467 e il 1468. Nella città italiana venne a contatto con raffinati poeti come il Sannazaro e il Pontano e dagli accademici pontaniani ebbe il soprannome di Chariteo che vuol dire “figlio delle Grazie” per le sue numerose doti come quelle di oratore, di letterato colto e di musicista. Ricoprì anche vari uffici pubblici sotto la monarchia aragonese, alla quale restò fedele anche nelle avversità. Famoso è il suo canzoniere Endimione, che contiene non soltanto rme amorose ma anvhe versi di carattere storico e politico.

[2] Serafino de’ Ciminelli, detto Serafino Aquilano (L’Aquila, 1466 – Roma, 1500), figlio di Francesco e di Lippa de’ Legistis, nel 1478 insieme ad uno zio materno si recò a Napoli e fu assunto come paggio presso il conte di Potenza Antonio de Guevara. Nel 1481 Tornò nella città natale ove rimase fino al 1454, quando si trasferì a Roma presso il cardinale Ascanio Sforza. Nel 1490 seguì lo Sforza a Milano dove si fece apprezzare per le sue doti di poeta. Tornato a Roma l’anno seguente, strinse particolare amicizia con Vincenzo Colli (detto il Calmeta) e frequentò il gruppo letterario che si raccoglieva intorno al segretario apostolico Paolo Cortese. Passato al servizio di Ferdinando I d’Aragona nel 1493, ebbe modo di conoscere e frequentare il Giovanni Pontano e Jacopo Sannazzaro. In seguito venne chiamato a Urbino presso Elisabetta Gonzaga, poi a Mantova presso Isabella d’Este e in seguito a Milano. Serafino Aquilano può essere considerato come il maggior rappresentante della poesia cortigiana del secondo Quattrocento, caratterizzata da un petrarchismo fondato su immagini spettacolose e arguzie presecentistiche e insieme dall’assunzione di forme popolari, sentita come esercizio di estrema raffinatezza.

[3] Antonio Tebaldi, detto il Tebaldeo (Ferrara, 1462 – Roma, 1537), fu molto legato alla famiglia degli Estensi, operando sia a Ferrara che a Mantova, dove fu precettore di Isabella d’Este. Poeta sia in lingua latina che in lingua volgare, compose ecloghe pastorali, epistole in terza rima, stanze e una quantità di sonetti. Appartiene a quella schiera di poeti, che nella seconda metà del Quattrocento, pur essendo partiti dall’esemplare petrarchesco, assumendo del modello soprattutto la virtuosità e forzandone le eleganze e gli artifici, riuscirono a una forma di lirica lambiccata, manierata e contorta, che fu battezzata secentismo anticipato.

[4] Walter Binni, Letteratura italiana – Profilo storico – I. Dalle origini al Settecento, in OPERE COMPLETE DI WALTER BINNI, Il Ponte Editore, 2017, pag. 179.

[5] Bernardo Tasso (Venezia, 1493 – Ostiglia, 1569) nacque da Gabriele di Giovanni e Caterina de’ Tassi del Cornello. A sei anni perse il padre e fu accolto dallo zio Luigi, vescovo di Recanati, che provvide alla sua educazione. Fra il 1524 e il 1525 Bernardo entrò al servizio del conte Guido Rangone, come segretario, poi negli ultimi mesi del 1528 passò al servizio di Renata di Francia duchessa di Ferrara, e dal 1532 del principe di Salerno Ferrante Sanseverino, entrando così in contatto con le più illustri famiglie napoletane. Nel 1538 Sposò Porzia de’ Rossi, che gli diede due figli: Cornelia e Torquato. A seguito di un contrasto  con il viceré don Pedro de Toledo, il principe di Salerno venne dichiarato ribelle e fu esiliato. Anche il Tasso quindi subì l’esilo e la confisca dei beni e fu costretto ad emigrare a Venezia, a Ferrara e poi Roma. Negli anni successivi alla morte della moglie (1556) fu alla corte del duca di Urbino Guidubaldo II e alla corte del duca di Mantova, Guglielmo Gonzaga. Oltre alle Rime (1560), che comprendono canzoni, odi, sonetti, egloghe, va ricordato il poema  Amadigi (1560), in 100 canti, che è sicuramente la sua opera maggiore. Scrisse anche, su modello del poeta greco Museo e del latino Ovidio, due poemetti basati sui miti di Ero e Leandro e di Piramo e Tisbe.

[6] Francesco Maria Molza (Modena, 1489 – Modena, 1544) studiò nelle Università di Modena, Bologna e Roma. Dopo una giovinezza gaudente e scapestrata, si sposò e dal 1516 visse a Roma presso il cardinale Ippolito de’ Medici e, dopo la sua morte, presso Alessandro Farnese, terzo duca di Parma e Piacenza. Fu uno dei principali animatori dell’Accademia della Virtù, fondata da Claudio Tolomei, di cui fece parte fra gli altri Annibal Caro. Autore di componimenti in lingua latina e in volgare nonché poligrafo versatile, la sua fama resta legata al poemetto in ottave La ninfa tiberina (1537). In volgare scrisse anche poesie d’amore in stile petrarchesco, canzoni e capitoli.

[7] Francesco Beccuti, detto il Coppetta (Perugia, 1509 – Perugia, 1553), era nato da nobile famiglia e prese parte alla vita politica cittadina. Ebbe sicuramente una buona cultura classica, come testimoniano le traduzioni da Ovidio, Virgilio, Orazio e Apuleio, e la sua vita fu fondamentalmente quella del letterato di provincia, vissuta in gran parte fra le mura della città natale. Scrisse rime di argomento vario, bernesche, politiche, religiose e soprattutto amorose. A tale proposito va notato che il Beccuti approfittò dell’enorme tolleranza esistente in Italia poco prima dell’inizio della Controriforma, per discutere dei propri amori omosessuali con una schiettezza che pochi decenni dopo sarebbe divenuta impensabile.

[8] Berardino Rota, noto anche come Bernardino (Napoli, 1509 – Napoli, 1574), figlio di Antonio e di Lucrezia Brancia, proveniva da una nobile famiglia napoletana, ma di origine piemontese. Fu allievo del poeta Marcantonio Epicuro, e già nel 1530 aveva una certa fama come poeta latino. In questo periodo compose le Egloghe pescatorie, che vennero pubblicate molto più tardi. Nel 1543 sposò Porzia Capece, dalla quale ebbe cinque figli maschi e due femmine. Porzia morì di parto nel 1559 ed il Rota le dedicò alcuni sonetti. Fu tra i fondatori dell’Accademia dei Sireni ed ebbe rapporti epistolari con Annibal Caro. Dalla prima metà del 1550 scrisse poesie in latino e in italiano, in particolare sonetti, che furono pubblicate in diverse raccolte.

[9] Antonio Brocardo nacque a Venezia agli inizi del Cinquecento da Marino, medico abbastanza noto in città. Per volontà paterna, fu iniziato allo studio del diritto e della giurisprudenza, ma ben presto Antonio cominciò ad avvicinarsi alle lettere, sotto la guida di Trifon Gabriele. Entrò in polemica dapprima con Pietro Bembo, poi con Pietro Aretino, che si vantò di avere ucciso con una sua poesia. Morì giovanissimo, nel 1531, e una raccolta antologica delle sue rime usci postuma nel 1538.

[10] Domenico Venier (Venezia, 1517 – Venezia, 1582), patrizio veneto e membro del Senato, poco più che trentenne cadde nell’immobilità a causa della podagra. Abbandonò allora la carriera politica e si dedicò all’attività intellettuale, facendo della sua casa di S. Maria Formosa un centro di letterarie conversazioni. Dopo la morte del Bembo, raccolse attorno a sé gli umanisti bembiani e insieme a Federico Badoer fu fondatore e protettore dell’Accademia veneziana (1558). Raffinato poeta e traduttore di classici latini (Ovidio e Orazio), fu in relazione con i più importanti letterati del suo tempo.

[11] Orsatto Giustinian (Venezia, 1538 – Montebello Vicentino, 1603) nacque dal nobile Michiel di Giacomo di Polo, del ramo detto da Negroponte, e dalla cittadina Elena Mazza di Gaspare. Partecipò attivamente alla vita politica della Serenissima e ricoprì numerosi uffici. I suoi esordi poetici risalgono al 1561 quando due suoi sonetti vengono stampati in una raccolta antologica. Si dedicò anche alla traduzione e volgarizzò in endecasillabi sciolti e settenari l’Edipo tiranno di Sofocle. Nel 1600 pubblicò a Venezia le proprie Rime in un unico volume insieme a quelle dell’amico e collega letterato Celio Magno.

[12] Gabriele Fiamma (Venezia, 1533 – Chioggia, 1585) Nacque da Giovanfrancesco, avvocato originario di Bergamo, e da Vincenza Diedo, di famiglia patrizia. Ebbe come insegnante di latino e greco il noto Giovanni Battista Cipelli detto “Egnazio”. Nonostante il padre lo volesse militare, a tredici anni decise di entrare nel monastero di Santa Maria della Carità retto dai canonici lateranensi. Passò quindi a Padova presso la comunità di San Giovanni di Verdara, dove proseguì gli studi, in particolare quelli teologici. Dopo l’ordinazione sacerdotale, nel 1556, si dedicò subito alla predicazione divenendo presto uno dei più noti oratori dell’epoca. Nel 1566 pubblicò la sua prima opera scritta: Prediche fatte in vari tempi in vari luoghi, et intorno a vari soggetti che raccoglie dodici orazioni scritte con uno stile ornato e ricercato. Nel 1570 uscì Rime spirituali, che ebbe un discreto successo specie presso i madrigalisti di fine Cinquecento. Scrisse anche altre opere e orazioni, e nel 1581 cominciò a pubblicare Le vite de’ santi divise in XII libri, opera che rimase però incompiuta. Nel 1584 Papa Gregorio XIII lo nominò vescovo di Chioggia.

[13] La condizione economica e sociale dei cittadini originari si trovava a metà strada tra il popolo e la nobiltà.

[14] Riccardo Scrivano, La poesia del Cinquecento, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Vol. III, Federico Motta Editore, Milano, 2004, pag. 523.

[15] Riccardo Scrivano, op. cit., pag. 524.

[16] Per evitare divisioni dell’esiguo patrimonio, Ippolito fu destinato alla successione e, dopo avere ricevuto la necessaria istruzione, avviato al mestiere delle armi; Girolamo abbracciò lo stato ecclesiastico.

[17] Colui che primo mi legò possiede il mio amore, / per sempre lo mantenga nella tomba.

[18] Riccardo Scrivano, op. cit., pag. 520.

[19] Di lui restano i sonetti stampati con quelli della ben più nota sorella.

[20] Riccardo Scrivano, op. cit., pag. 517.

[21] La guardia d’onore del viceré.

[22] Don Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga (Salamanca, 1484 – Firenze, 1553), marchese consorte di Villafranca del Bierzo, nel 1532 divenne viceré di Napoli per conto di Carlo V d’Asburgo. Durante i vent’anni della sua amministrazione egli  trasformò Napoli rendendola una delle roccaforti dell’Impero spagnolo: simbolo della ricostruzione e del nuovo ruolo assunto fu il Castel Sant’Elmo, i cui cannoni dominavano la città. Nel 1534 avviò la pavimentazione delle strade e diede il via all’espansione di Napoli oltre i confini della città vecchia, tramite la costruzione di nuove ed eleganti zone residenziali come Santa Chiara.

[23] Riccardo Scrivano, op. cit., pag. 528.

[24] Aulo Gellio (Roma, 125 ca. – 180 ca.), dopo i primi studi di retorica e grammatica, si recò ad Atene, per perfezionarsi nelle arti liberali. Tornato poi a Roma, iniziò a lavorare come giudice extra ordinem, cioè come giudice del processo imperiale. Fu allievo di Marco Cornelio Frontone, esponente dell’arcaismo latino dell’epoca, dove sembra ci si preoccupasse soprattutto della purezza della forma e dell’elocuzione. La sua opera principale è Noctes Atticae (Le Notti Attiche).

[25] Miguel de Cervantes Saavedra (Alcalá de Henares, 1547 – Madrid, 1616) è universalmente noto per essere l’autore del romanzo Don Chisciotte della Mancia, uno dei capolavori della letteratura mondiale di ogni tempo. In quest’opera, pubblicata in due volumi nel 1605 e nel 1615, l’autore prende di mira con l’arma della satira e dell’ironia i romanzi cavallereschi e la società del suo tempo.

[26] Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pag. 135.

[27] Natalino Sapegno, op. cit., pag. 134.

[28] Andrea Carafa della Spina, conte di Santa Severina (Napoli, ?? – Napoli, 1526), fra l’ottobre 1523 e il giugno 1526 divenne luogotenente generale del Regno di Napoli. Invidiato dai parenti dovette spesso guardarsi le spalle e combattere su più fronti come nel caso dell’invasione dei veneziani in Puglia e lo sbarco dei Turchi a Otranto.

[29] Riccardo Scrivano, op. cit., pag. 518.


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